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Sintesi testo Gordon, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Sintesi testo di Robert Gordon

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 20/01/2022

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marika-cardinale-1 🇮🇹

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3 documenti

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Scarica Sintesi testo Gordon e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! RIASSUNTO TESTO SAGGIO ROBERT S.C. GORDON: SCOLPITELO NEI CUORI: L’OLOCAUSTO NELLA CULTURA ITALIANA (1944-2010). ●È un testo di Robert Gordon, tradotto da Giuliana Maria Olivero, pubblicato nel 2013 dall’editore Bollati Boringhieri (Si tratta della prima edizione, gennaio 2013). Robert S. C. Gordon, che NON è uno storico, insegna al Dipartimento di italianistica dell'Università di Cambridge. Ha pubblicato vari lavori sulla letteratura e sul cinema del Novecento fra i quali, tradotto in italiano, Primo Levi: le virtù dell'uomo normale (Carocci 2003). Con Einaudi ha pubblicato "Sfacciata fortuna". La Shoah e il caso (2010). La casa editrice nasce nel 1957 ad opera di Paolo Boringhieri da una costola dell’Einaudi, e approfondisce, in particolare, i temi delle scienze, della mitologia e del folclore. Con l’arrivo di Giulio Bollati alla guida della casa editrice, nel 1987, viene dato nuovo impulso all’idea di una cultura integrata, non irrigidita da blocchi disciplinari. Nascono nuove collane aperte alla storia contemporanea, alla narrativa, alla memorialistica e alla saggistica letteraria. ●Questo libro intende affrontare l’esteso ambito delle risposte culturali a ciò che definiamo Olocausto o Shoah, manifestatesi in Italia nel lungo arco temporale che va dal dopoguerra a oggi. La questione di dare un nome al genocidio degli ebrei europei e ad altri genocidi nazisti è molto complessa. A seguito della liberazione dei campi di concentramento, nella primavera del 1945, e alla rapida circolazione tramite giornali e la stampa di agghiaccianti immagini dei sopravvissuti e dei morti, si assiste a una diffusa reazione di ripugnanza verso i crimini nazisti, ulteriormente elaborata con i processi di Norimberga del 1945-461. Appaiono le prime testimonianze, ma pochissime di esse ottengono un largo riscontro fra i lettori. Un’eccezione, durante gli anni ’50, è la sempre più vasta eco internazionale del diario di Anna Frank2, sotto forma di libro, di spettacolo teatrale allestito a Broadway e di pellicola hollywoodiana. Siamo negli anni ’60 e la “Soluzione finale” inizia a emergere come fenomeno storico fondamentale e come soggetto autonomo nel processo della memoria collettiva e della comprensione della storia. La maggior parte dei resoconti vedono nel processo di Eichmann a Gerusalemme, nel 1961, un punto di svolta cruciale. Invece, negli anni ’70-80, si manifesta su larga scala la consapevolezza dell’Olocausto quale elemento nodale nelle storie e nelle memorie nazionali. Fra il 1978 e il 1979, Ameria, Germania e gran parte d’Europea apprendono il termine “Olocausto” grazie alla miniserie televisiva statunitense di grandissimo successo che porta quel titolo (la miniserie “Holocaust” fu trasmessa in Italia da Rai 1 nel 1979 con il titolo “Olocausto”). La consapevolezza di massa raggiunge il suo picco negli anni ’90 anche attraverso il successo internazionale del film di Steven Spielberg “Schindler’s List” del 1993 e l’apertura, insieme a molti altri analoghi, dell’Holocaust Memorial Museum a Washington, nel 1993. La relativa noncuranza dell’Italia in questo campo è sorprendente. L’Italia fascista costituì il modello e l’origine dello stato totalitario su basi razziali di 1 Processo di Norimberga è il nome usato per indicare due distinti gruppi di processi ai nazisti coinvolti nella Seconda guerra mondiale e nella Shoah. Il primo e più famoso processo si tenne nel Palazzo di Giustizia della città tedesca di Norimberga dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946 (la città era, insieme a Berlino e Monaco, una delle città simbolo del regime nazista). 2 Il Diario di Anna Frank è la raccolta in volume degli scritti, in forma di diario e in lingua olandese, di Anna Frank (1929-45), una ragazza ebrea nata a Francoforte e rifugiatasi con la famiglia ad Amsterdam, costretta nel 1942 a entrare nella clandestinità insieme alla famiglia per sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio nazisti. Nel 1944 i clandestini vennero scoperti e arretati, furono condotti in un campo di concentramento e qui le loro strade si divisero. Tutti, ad accezione di Anna, morirono all’interno dei campi di sterminio nazisti. Dopo essere stata deportata nel 1944 ad Auschwitz, Anna morirà di tifo nel 1945. Alcuni amici di famiglia che avevano aiutati i clandestini riuscirono a salvare gli appunti scritti da Anna all’interno dell’alloggio segreto, consegnandoli poi al padre, Otto Frank, che ne curò la pubblicazione ad Amsterdam nel 1947. Hitler, infatti, nel 1938 aveva adottato quelle che noi conosciamo come “Leggi razziali”. L’Italia fascista era anche la principale alleata europea della Germania nazista nel momento in cui fu intrapreso il genocidio degli ebrei, ma importanti lavori storiografici hanno anche evidenziato che funzionari italiani si spesero per contrastare deportazioni e massacri di ebrei. L’Italia ebbe dunque, da una parte, un ruolo di genitura e collaborazione nel genocidio e, dall’altra, fu un compagno di viaggio incerto. Dopo il luglio del 1943, questo già complesso statuto divenne ancora più complesso con la caduta di Mussolini e la firma di un armistizio con gli Alleati, così che l’Italia si ritrovò spaccata in due, invasa a sud dagli Alleati e occupata al centro e al nord dalla Germania e vide divampare una guerra civile, o Resistenza partigiana. A quel punto i nazisti iniziarono a deportare ebrei dall’Italia (principalmente verso Auschwitz). Ora gli italiani erano passati a essere vittime di tutte le espressioni della violenza nazista. La questione riguardante l’Olocausto, come abbiamo appreso, rimane marginalizzata per un periodo abbastanza lungo, per poi essere ripresa e discussa. La cultura italiana del dopoguerra ha, infatti, prodotto gruppi straordinari di scrittori e registi, artisti e architetti, storici e intellettuali, mossi dall’intento di affrontare il fenomeno dell’Olocausto. Molti di essi hanno assunto posizioni di primo piano nel vasto panorama internazionale delle risposte al genocidio: autori come Primo Levi, Giorgio Bassani e Natalia Ginzburg; e registi come Vittorio De Sica, Francesco Rosi, Roberto Benigni e molti altri. Ma lo scopo di questo libro non è quello di riesporre la storia del coinvolgimento dell’Italia fascista con la Germania nazista, né di parlare dei migliori lavori sull’Olocausto prodotti in Italia, quanto piuttosto passare in rassegna questi lavori e inserirli nel più vasto ambito di risposte che li ha generati e plasmati, e in tal modo tracciare il progresso del lento, ma illuminante incontro fra la cultura italiana e l’Olocausto. Il testo delinea il modo in cui, sul finire del ‘900, una larga fetta di italiani, dai sopravvissuti ormai anziani ai ragazzi, siano giunti ad acquisire conoscenze su ciò che veniva definito con i termini Olocausto o Shoah. Come accennato in precedenza, l’Olocausto non può mai essere interamente contenuto a un livello nazionale. È ed è sempre stato un fenomeno poroso, plurilinguistico, transnazionale. Questo libro, quindi, guarda non solo alle specificità delle risposte italiane al ruolo dell’Italia stessa nell’esperienza della Shoah, ma anche alle interazioni di questo ambito con il più esteso fenomeno transnazionale. È opportuno ricordare che l’Olocausto occupò un posto apparentemente marginale nella cultura italiana generale. Gordon, nel suo testo, tratta anche un’altra questione, importante per riuscire a percorrere e comprendere il percorso subito dopo delineato, ovvero la definizione del concetto di Olocausto, in generale e per quanto concerne l’Italia in particolare. 4 sono i possibili parametri di definizione per l’Olocausto, ciascuno dei quali connesso a eventi dell’Olocausto in relazione all’Italia. 1) Il termine Olocausto, in senso stretto, è stato usato in riferimento al progetto genocida nazista di sterminare gli ebrei d’Europa (e non solo), ovvero la Soluzione finale della questione ebraica. Come si è detto, l’Italia era un’alleata di primo piano della Germania nazista e già nel 1938 era diventata uno “stato razziale” con la promulgazione di drastiche leggi antisemitiche3. 2) il termine Olocausto, in altre definizioni, potrebbe rimandare ai campi di concentramento, alle deportazioni. 3) una terza variante, invece, rimanda ai Lager. Lager è un termine tedesco che indica i campi di 3 Le leggi razziali fasciste furono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati in Italia a partire dal 1938. Esse furono rivolte prevalentemente contro le persone ebree. Per la legislazione fascista era ebreo chi era nato da: genitori entrambi ebrei, da un ebreo e da una straniera, da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica. Con la pubblicazione e, di conseguenza, l’entrata in vigore delle leggi razziali gli ebrei non vennero più considerati cittadini italiani come tutti gli altri, perdendo così diritti civili e politici. pubblico anni dopo grazie a nuove edizioni o adattamenti per uno sceneggiato televisivo. In questo Gordon fa riferimento a 4 sfere principali di attività culturali che, secondo l’autore, contribuirono a dar vita al discorso sull’Olocausto. La prima è quella che possiamo chiamare la sfera associazionistica o istituzionale (prima non per importanza, sono tutte poste sullo stesso piano). È indubitabile che i primi canali semipubblici di attività ed espressione per gli italiani che in prima persona esperirono sull’Olocausto si sono creati grazie a gruppi e associazioni istituiti, in parte, allo scopo di rivelare quegli eventi e offerti sostegno alle vittime. Per darsi reciproco sostegno e ottenere pubblico ascolto, i sopravvissuti e i familiari delle vittime formarono associazioni, ancora prima che la guerra finisse, e in seguito, lungo gli anni del dopoguerra, altre iniziative collettive continuarono a prendere forma in nuove associazioni o innestandosi in gruppi più estesi. Tre associazioni meritano di essere citate quali esempi particolarmente influenti: l’ANED, l’UCII (in seguito UCEI) e il CDEC. -L’ANED (Associazione nazionale degli ex deportati politici) tenne il suo primo congresso nazionale nel 1957 e fu riconosciuta dallo stato come “ente morale”, cioè un organismo che non agisce a scopo di lucro, quindi senza nessun vantaggio o guadagno economico, con un decreto presidenziale del 5 novembre 1968, ma era già attiva in più di una città, al servizio dei superstiti e delle famiglie di coloro che non erano tornati. Per tutto il dopoguerra l’ANED sostenne un’ampia gamma di iniziative, finanziando monumenti e memoriali in tutte Italia e persino negli stessi campi di concentramento (Auschwitz ad esempio), costituendo archivi e organizzando mostre, convegni, visite a luoghi dello sterminio, interventi nelle scuole e pubblicazioni di libri, raccolte di testimonianze orali e progetti per la memoria, e tanto altro ancora. Molti dei sopravvissuti ai campi di concentramento più attivi e di più elevato profilo, tra cui Primo Levi, furono per lungo tempo membri impegnati dell’ANED. Sembra che l’ANED fosse in origine focalizzata non sul genocidio ebraico, bensì sulla figura del deportato politico, cioè il partigiano, l’antifascista. L’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) è l’ente ufficiale della comunità ebraica italiana, fondato nel 1930 dal regime fascista poco dopo gli accordi conclusi da quest’ultimo con la Chiesa cattolica nel 1929. L’UCII/UCEI ha svolto un ruolo decisamente di minor profilo nella costruzione della consapevolezza dell’Olocausto in Italia se confrontato al progetto pubblico, didattico e per certi versi militante dell’ANED. Ciò nonostante, è sempre stato al centro della discussione e ha collaborato all’organizzazione di eventi e commemorazioni, rivendicando una voce per le vittime ebraiche della violenza nazista. Anche l’UCII ha sostenuto e finanziato attività di influenza fondamentale: ad esempio la pubblicazione, presso Einaudi, nel 1961, di uno dei primi e tuttora più autorevoli resoconti storici dell’antisemitismo fascista, “La storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” di Renzo De Felice5. Sempre internamente all’ambito delle organizzazioni ufficiali degli ebrei italiani, si ebbe a metà degli anni ’50 l’istituzione del CDEC (Centro di documentazione ebraica contemporanea). Il CDEC fu inizialmente sistemato in una stanza a Venezia, per iniziativa della Federazione giovanile ebraica italiana. Significativo è il dato generazionale, l’interesse giovanile quindi. Il CDEC ereditò il lavoro del colonnello Massimo Adolfo Vitale, che sin dalla fine del 1944 aveva da solo gestito il CRDE (Comitato ricerche deportati ebrei), allo scopo di indagare sulla sorte degli ebrei italiani deportati e offrire aiuto ai superstiti. Il Centro divenne la principale istituzione accademica italiana per la memoria dell’Olocausto ebraico. Forse ciò che meglio incarna l’attività del CDEC è “Il libro della memoria”, un’opera straordinaria, in cui sono citate e 5 Si tratta di un saggio storico pubblicato da Einaudi nel 1961. Fu commissionato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane e benché l’obiettivo del committente fosse esplicitamente quello di documentare in un libro la storia della persecuzione antiebraica nella penisola, delle successive deportazioni e dello sterminio nazista, De Felice, invece, dedicò ampio spazio al periodo precedente la promulgazione delle leggi razziali del 1938, quindi delineando anche aspetti riguardanti l’origine e poi tutta la storia del fascismo. documentate tutte le vittime italiane del genocidio6. Tendenzialmente le sopracitate attività culturali costituiscono il centro di attività della fase iniziale, sono i primi agenti nel campo, che fissano parametri e schemi sin dai primi mesi e anni, prima ancora che altri settori della cultura diventassero consapevoli della loro esistenza. La seconda sfera è quella accademica e comprende l’ambito della ricerca accademica, degli studi sui vari aspetti dell’Olocausto, pubblicati in volumi, riviste e recentemente online. La storiografia accademica è anche la sfera presso la quale tendono a essere verificati per la prima volta documenti di recente scoperta e interpretazioni controverse o revisioni. Occorre sottolineare un’ulteriore caratteristica della sfera accademica. Si tratta della marcata tendenza da parte di questi storici a raccontare gli eventi in prima persona. Il fenomeno del sopravvissuto-testimone-storico fu, infatti, un tratto cruciale della prima storiografia internazionale sull’Olocausto. Ed è questo che lega la sfera accademica a quella associazionistica: molto spesso furono i superstiti ad avviare la ricerca storiografica, in parallelo all’opera di testimonianza, e in effetti non di rado queste due attività si mescolavano. La terza sfera della produzione culturale intorno all’Olocausto costituisce forse il centro focale dell’attenzione per un libro come quello di Gordon, poiché è da qui che l’attivismo delle associazioni, la ricerca e i dibattiti fra accademici e intellettuali, e anche le storie e le voci dei singoli individui si diffondono nella culturale in generale. Si tratta della sfera culturale, nel senso stretto del termine. È qui che troviamo tutti quei lavori, siti, artefatti ed eventi in cui rappresentazioni, vicende e immagini danno forma culturale all’Olocausto. Una significativa porzione di questa sfera è data dai materiali scritti. Ai generi scritti corrono parallele altre forme di arte narrativa: esiste una distinta storia cinematografica dell’Olocausto che emerge in Italia sin dai primi anni del dopoguerra; così come esiste una sempre più importante fase di produzione televisiva sull’Olocausto, soprattutto dagli anni ’80 in poi, che comprende sia documenti che sceneggiati storici. E anche altre arti audiovisive entrano in questo scenario, dalla pittura al disegno alla musica, a volte all’interno di pubblicazioni di libri, opere di scultura e architettura o a essere ispirate. Infine, occorre includere nella sfera culturale, insieme a luoghi e spazi, anche gli eventi pubblici e culturali, eventi che possono interagire con altri attori culturali e istituzionali in svariati modi. Mostre e performance, e le stesse pubblicazioni di libri, costituiscono eventi locali che suscitano la partecipazione pubblica, con riflessioni e dibattiti. Più strutturate e pianificate sono le manifestazioni pubbliche formali di commemorazioni, talvolta patrocinate da organi statali, anniversari nazionali o lovali, nell’ambito delle quali l’Olocausto o gli aspetti antisemitici e razzisti del fascismo occupano uno spazio più o meno centrale. Possono essere ricorrenze annuali di origine nazionale o transnazionale (per esempio il 25 aprile come giornata in cui si celebra la Liberazione, la Resistenza e la fine della guerra; il 16 ottobre per il rastrellamento degli ebrei di Roma; il 23 marzo per le Fosse Ardeatine; il 27 gennaio per la liberazione di Auschwitz e in seguito come commemorazione internazionale dell’Olocausto), o anniversari decennali (1938, 1943, 1945), che portano a una concentrazione di eventi nelle rispettive ricorrenze. La quarta e ultima sfera del nostro campo è quella dell’industria della cultura e dell’informazione, nonché dei mass media. Quotidiani e riviste di grande diffusione, televisione, radio e, più di recente, internet hanno tutti svolto ruoli cruciali nella trasmissione di conoscenze, consapevolezza, esiti derivanti dalla condivisione della memoria e della cultura dell’Olocausto a un pubblico esteso, non esperto e non totalmente partecipativo, e nel fornire a quest’ultimo degli strumenti per interpretare e comprendere il fenomeno. Ad esempio, tra il 1958 e il 1963, Einaudi ha pubblicato più di una decina di libri che direttamente o indirettamente toccavano il tema del genocidio o dei campi di concentramento, lavori storici accademici o divulgativi, ricerche originali e traduzioni 6 Si tratta di un’opera di Liliana Picciotto, storica e saggista italiana, specializzata nello studio della storia degli ebrei in Italia nel periodo fascista (1922-43) e della Repubblica di Salò (1943-45). dall’inglese e dal francese, testimonianze di prima mano, romanzi autobiografici e lavori di documentazione contemporanea, come il resoconto del processo di Eichmann del 19617. ●Gordon continua il suo discorso focalizzandosi su monumenti commemorativi e cita il Cimitero monumentale di Milano. La grande cappella all’entrata funge anche da cosiddetto “famedio”, dove vengono commemorati i più onorevoli e illustri cittadini milanesi. Dietro al famedio si apre il parco cimiteriale, al di là di un piccolo piazzale in ghiaia. Qui, ne 1946, fu eretto un nuovo monumento, dedicato ai “Caduti nei campi di sterminio nazisti”. Era uno dei primissimi monumenti pubblici italiani specificamente destinati alle vittime dei campi. Il monumento fu concepito e finanziato nel 1945 da una delle numerose associazioni di sopravvissuti ai campi costituitesi nell’immediato dopoguerra, l’ANPPIA (Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti), e progettato dallo studio di architettura BBPR, nello specifico da uno dei suoi soci, Enrico Peressuti. In seguito a questa realizzazione, lo studio BBPR divenne il più influente creatore di memoriali italiani sull’Olocausto e sulla deportazione dell’intera epoca postbellica. Gordon poi mette in evidenza un aspetto e afferma quanto sia difficile, guardando a ritroso, rintracciare le prime consapevolezze del genocidio nazista e inserire i primi bagliori di informazione e di risposte all'interno del panorama vasto e rapidamente cangiante delle notizie riguardanti la possibile fine del conflitto mondiale nel 1944-45. Già nei primi anni della guerra erano filtrati in Italia frammenti di informazione. Primo Levi, nel suo libro autobiografico “Il sistema periodico”, rileva come lui stesso e i suoi amici cercassero di afferrare e al tempo stesso scegliessero di ignorare i segnali di ciò che stava accadendo agli ebrei d’Europa, vivendo in uno stato di cecità volontaria. I giornali e le riviste non avevano la facoltà di esprimersi: alla fine del conflitto era a stento rimasta in piedi “Il Corriere della sera”. Ci furono certo delle eccezioni: ad esempio, il giornale socialista “Avanti”, che pubblicò tra la fine di aprile e il maggio 1945 svariati articoli sui campi italiani di raccolta e pre-deportazione di Bolzano e Fossoli, e su Mauthausen, la principale destinazione per i deportati della Resistenza italiana. Alla fine di maggio, a Milano un corteo commemorò 68 martiri di Fossoli (che erano stati giustiziati dai nazisti nel campo il 12 luglio 1944) e l’Avanti pubblicò in successione gli elenchi di circa 1500 vittime italiane di Mauthausen. Qualche articolo era anche accompagnato da fotografie, come nel caso del quotidiano comunista “L’Unità” del 20 magio 1945. Come in parecchi altri paesi dell'Europa occidentale, la metà degli anni ‘40 vide sorgere in Italia una consapevolezza del genocidio, largamente privata o di specifici gruppi, che aveva però manifestazioni e forme di rappresentazione pubblica ricche e varie, a tratti con momenti che rivelano una più generale, benché frammentaria, presa d’atto delle vere e proprie vette di orrore raggiunte dal nazismo. Monumenti memorialistici, articoli, libri, venivano adesso edificati o circolavano in quantità maggiori, per informare e ricordare quanto accaduto. Potrà forse sorprendere, ma i primi tentativi rilevanti di dare forma scritta, in italiano, al genocidio non provennero da scrittori-sopravvissuti, bensì dalle penne notevolmente in contrasto fra loro di due intellettuali dotati di un notevole talento letterario, Giacomo De Benedetti e Curzio Malaparte. “16 ottobre 1943” di Debenedetti risale alla fine del 1944. Si tratta di una cronaca breve, trattenuta, ma anche vividamente umana e a tratti affilata nei toni, quasi fosse ripresa dal vivo, della notte tra il 15 e il 16 ottobre 1943, nell’area dell’ex ghetto di Roma, quando più di 1000 ebrei furono rastrellati dai nazisti e caricati sui convogli ferroviari diretti ad Auschwitz. Intrecciandolo a questo diario della deportazione, Debenedetti, lui stesso ebreo, ricorda il settembre 1943 e l’episodio tragicomico del “tributo” dei 50 chilogrammi d’oro richiesti alla comunità ebraica romana dalle autorità naziste appena insediatesi. Brevemente, la narrazione giunge fino all’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo successivo; e 7 Citiamo qui il saggio di Hannah Arendt “La banalità del male”. Uscito nel 1963, è il diario tenuto dalla Arendt, quando, inviata per il New Yorker, segue il dibattimento in aula, e il processo ad Adolf Eichmann. solo perché segnava la prima incursione di questo storico nel campo della storiografia del fascismo, un campo nel quale nei decenni a seguire sarebbe divenuto la voce preminente; non solo perché segnava un’inversione di rotta nel puntare i riflettori sulla storia specificamente italiana dell’antisemitismo fascista; ma anche per la collaborazione fra Einaudi e la comunità ebraica che ne consentì la produzione, e per la tempesta politica che scatenò. Nella narrativa di finzione, questo periodo segnò il passaggio verso un registro letterario maggiormente inventivo nel modo di trattare l’Olocausto, come ancora una volta illustrato da Levi con il marcato cambiamento di stile e di tecnica fra “Se questo è un uomo” e “La tregua” quest’ultimo testo più una tragicommedia picaresca10 che non un sobrio lavoro di testimonianza. In contemporanea uscirono numerosi nuovi lavori di letteratura autobiografica e finzione o semifinzione insieme sull’Olocausto, anche in questo caso sia italiani sia tradotti, lavori incentrati sull’Italia come anche sul genocidio europeo. La “Tregua” fu pubblicata da Einaudi nel 1963, lo stesso anno in cui uscì, per lo stesso editore, “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg11. Alcuni mesi prima, nel 1962, un terzo fondamentale testo aveva spianato la strada a questo momento eccezionale per la narrativa italiana ebraica sull’antisemitismo nell’incombere dell’Olocausto: “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani, che costituiva l’apice del suo ciclo di storie su Ferrara, iniziato con “Cinque storie ferraresi” e “Gli occhiali d’oro”. Le opere di Levi, Bassani e Ginzburg offrono nel loro insieme la chiara dimostrazione di come la letteratura mainstream (opinione o tendenza dominane) si stesse aprendo alla rappresentazione dell’olocausto, sebbene tutti e tre gli autori si accostino al genocidio da un’angolazione obliqua se non implicita, narrando storie locali, inseguendo momenti premonitori o conseguenze collaterali, facendo leva sull’ombra incombente del genocidio nella mente dei lettori. Passando a esaminare la narrativa in traduzione ricordiamo lo scrittore-sopravvissuto israeliano noto come Ka-Tzetnik 135633 (pseudonimo tratto dal numero di matricola in campo di concentramento) che, nel 1953, aveva pubblicato il suo bestseller mondiale “La casa delle bombole”; tradotto da Mondadori nel 1959, il libro ebbe 7 edizioni in 9 mesi. Ambientato nelle baracche femminili dei campi di concentramento in cui le donne erano costrette a prostituirsi. “La casa delle bambole” fu una delle prime opere di finzione sull’Olocausto che suscitò controversie, uno dei primi grandi romanzi sul tema, iniziatore di un filone che avrebbe raggiunto il suo picco negli anni ’70, la “sessualizzazione” dell’Olocausto. Come la narrativa scritta, anche i film denotano un’attenzione all’olocausto sia come fenomeno internazionale sia per specifici aspetti locali, italiano della sua storia, un’attenzione non scevra da relazioni oblique con eredità nazionali quali la Resistenza. Ad esempio, nel 1959, il film di Roberto Rossellini “Il generale della Rovere”, protagonista Vittorio De Sica, narrava una drammatica storia di partigiani in carcere, che al suo apice conclusivo toccava il tema della persecuzione degli ebrei. E nel 1961 Carlo Lizzani girò “L’oro di Roma”, una ricostruzione della persecuzione della comunità ebraica romana da parte dei fascisti e dei nazisti nel 1943, in cui il giovane protagonista sceglie di affermare se stesso sia come ebreo sia come italiano, avviandosi 10 Relativo a un genere narrativo sorto in Spagna nella seconda metà del sec. XVI, fondato su una particolare figura di protagonista (picaro = Popolano furbo e privo di scrupoli, avventuriero che vive di espedienti). 11 Il romanzo racconta dall'interno la vita quotidiana della famiglia Levi, dominata dalla figura del padre Giuseppe. Il libro è la cronaca ironico-affettuosa della famiglia dal 1925 agli anni '30 ai primi anni '50, attraverso abitudini, comportamenti e soprattutto la comunicazione linguistica, da cui deriva il titolo. Figure ed eventi si avvicendano nella pagina senza ordine gerarchico, e si presentano da sé, vivono attraverso i loro gesti e le loro parole. In questo libro si affrontano anche tutti i conflitti e le vicende della famiglia Levi. Molta attenzione viene dedicata alle figure della madre e dei fratelli, soprattutto durante il fascismo. Il romanzo ripercorre vicende familiari cronologicamente legate soprattutto all'età fascista e la seconda guerra mondiale, quando vengono evocati l'uccisione del marito dell'autrice, Leone Ginzburg, per attività politica antifascista, la persecuzione degli ebrei, fino ad arrivare al suicidio di Cesare Pavese e alla caduta delle illusioni della Resistenza. nelle campagne romane per unirsi alle fila della Resistenza. Tanto Lizzani che Rossellini (e in realtà anche De Sica) si rifanno in modo diretto al neorealismo, a suggerire che certi aspetti dell’olocausto stavano ora ponendo questioni etiche ed estetiche, rispetto cioè a quali storie i film civili o impegnati o nazional- popolari dovessero raccontare. Lavori documentaristici di questo stesso periodo indicano una spinta analoga: Liliana Cavani stava per esempio producendo per Rai 2 “Storia del Terzo Reich” (1961-62), un documentario nel quale il genocidio, cosa fino ad allora rara in televisione, svolgeva un ruolo preminente. Un epocale evento mediatico dei primi anni ’60 è predominante in tutte le analisi relative al crearsi di una consapevolezza mondiale dell’olocausto: la cattura, il processo e l’esecuzione di Adolf Eichmann fra il 1960- 62. L’Italia non fece eccezione. Nel 1964 viene pubblicato il più influente documentario emerso dal processo “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” di Hannah Arendt, che scatenò accesissime controversie. Agli eventi mediatici si accompagnavano altri eventi pubblici, di genere più locale, partecipativo: commemorazioni, dibattiti pubblici, mostre e conferenze. Intorno agli anni 1958-63 si ebbe dunque in Italia un’eterogenea ondata di produzione e attività culturale in rapporto all’olocausto. Con la guerra ormai finita da 15 anni, i tempi erano maturi per una generale, distaccata rivalutazione dei vari aspetti della sua storia, genocidio compreso. Questo cambiamento coincise con una fase di espansione e diversificazione dell’industria editoriale, così che i materiali di studio, quelli educativi e quelli di più ampia diffusione, trovarono tutti un loro spazio per illuminare da questa nuova angolazione prospettica il recente passato, mentre andavano rafforzandosi anche i circuiti internazionali di diffusione e traduzione. Alcuni editori si impegnarono attivamente, come ad esempio la Feltrinelli ed Einaudi. La distanza temporale implicava anche che, per la prima volta, emergesse fortemente una cultura, in senso stretto, della memoria, in parallelo a una storiografia documentata; e complementare a questo duplice sviluppo era la tendenza a spostare l’interesse dalla malvagità dei leader nazisti all’esperienza delle vittime. ● In Italia, nel corso del dopoguerra, il profilo di Levi ha raggiunto gradualmente un notevole picco di apprezzamento e di autorevolezza, che continua ben oltre la sua morte e che dall’Italia si è diffuso in tutto il mondo. Ma il modo in cui un singolo individuo, persino uno ammirato come Levi, interagisce con il campo del discorso sull’olocausto in cui è immerso, plasmandolo e venendone plasmato, non è affatto lineare. Gordon, infatti, in questa parte del testo tenterà di sondare alcune delle complessità del ruolo e dell’influenza particolari esercitati da Levi nell’ambito locale della cultura dell’olocausto maturata in Italia nei decenni del dopoguerra. Ad un certo punto della storia che stiamo delineando, in Italia la figura dello scrittore-sopravvissuto, è andata identificandosi in modo pressocché assoluto con Levi. L’ingresso di Levi nella sfera culturale pubblica può farsi risalire tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Benché il suo primo libro “Se questo è un uomo”, nella prima edizione del 1957 fosse stato recensito e apprezzato nella ristretta cerchia intellettuali torinese e in ambiti legati alla Resistenza, fu solo con la sua seconda edizione del 19658, seguita a un contratto firmato con Einaudi nel 1955, che ebbe inizio la seconda “carriera” di Levi come testimone pubblico e scrittore. Nel 1959 egli partecipò per la prima volta a un evento pubblico, una conferenza legata a una mostra sui campi di concentramento allestita a Torino; e nello stesso anno scrisse per “La Stampa” una recensione a una mostra su Auschwitz fatta a Roma. Nel 1961 rilasciò la sua prima intervista, su Eichmann, pubblicata sul periodico popolare “Storia illustrata”. Iniziò a lavorare al suo secondo libro, un’opera più da scrittore, “La tregua”, che nel 1963 vinse il premio Campello, aprendogli le porte di una carriera letteraria di una certa rilevanza, accanto alla carriera di sopravvissuto dell’olocausto, che andava infittendosi, con un’infinità di scuole che lo invitavano per parlare agli studenti. Da questo punto in poi, Levi iniziò a intraprendere molte delle tipiche attività di un intellettuale italiano dell’epoca. Scriveva articoli, saggi e racconti per quotidiani, inizialmente in modo sporadico per testate quali “Il Giorno”, “Il Mondo”, “Corriere della sera” e “La Stampa”, poi, dalla metà degli anni ’70, come regolare opinionista della “Stampa”. Rilasciò interviste per giornali, radio e televisione, ma anche a moltissimi studenti e ricercatori; tenne conferenze e interventi pubblici, in veste di sopravvissuto dell’olocausto. Pubblicò svariati libri, su temi legato all’olocausto e non, vincendo regolarmente dei premi. Scrisse prefazioni per il suo editore, Einaudi, ma anche per molti altri, grandi e piccoli. Vi furono prefazioni a romanzi, libri di storia o cataloghi di mostre, per la maggior parte legati all’ebraismo o all’olocausto. Tradusse lui stesso opere letterarie sull’olocausto, opere di antropologia e oltre opere di narrativa. Alla metà degli anni ’80, il profilo di Levi ebbe un ulteriore scarto in avanti quando il suo lavoro ottenne il plauso internazionale, soprattutto americano, e successivamente la sua reputazione fu reimportata in Italia accresciuta da un simile riconoscimento mondiale. In questo periodo la sua attività fu intensa. Dopo il suicidio, nel 1987, la sua reputazione postuma raggiunse un picco ancora più elevato, in Italia e all’estero, in concomitanza con il diffondersi di una forte attrazione per tutto ciò che fosse connesso con l’olocausto. Levi è un sopravvissuto, sopravvissuto e quindi anche testimone, per la precisione un testimone di prima mano. Gordon, in questa parte del testo attua una distinzione tra testimone di prima mano e testimone di seconda mano. - Di prima mano: colui che ha vissuto l’esperienza sulla propria pelle. - Di seconda mano: persone vicine al sopravvissuto, figli, parenti, amici ecc. Occorre notare che Levi è interessato all’olocausto come fenomeno nazista o tedesco. Lo mostra dalla parte delle vittime, attraverso le loro testimonianze. Levi è anche, coerentemente, aperto ad allineare la propria esperienza a quella dei combattenti della Resistenza e dei deportati politici, oltre che alle vittime ebree (lui stesso apparteneva a entrambe le categorie). L’attività di Levi degli anni ’70-’80 fu contraddistinta da un forte interesse verso una serie di scritti sul nazismo e sull’olocausto. Alcuni autori e i rispettivi libri divennero i suoi principali interlocutori: “Intellettuale a Auschwitz” (1966) dell’austriaco sopravvissuto Jean Améry; “Uomini ad Auschwitz” (1972) dello storico austriaco Hermann Langbein e “In quelle tenebre” (1974) di Gitta Sereny (giornalista e storica britannica di origini ungheresi). Un’ulteriore linea di indagine concerne le strategie di Levi per nominare l’olocausto. L’importanza di quest’area non riguarda certo solamente Levi: questioni linguistiche e di nominazione sono state al centro di svariati ambiti di ricerca sull’olocausto, dagli studi sulle distorsioni della lingua tedesca operata dai nazisti, all’uso del termine “genocidio” durante i processi di Norimberga, agli intensi dibattiti sorti intorno al termine stesso “Olocausto”. Di tutti gli scrittori-sopravvissuti, Levi fu forse quello che mostrò il più acuto e prolungato interesse per il linguaggio, per i sistemi dei segni e per la nominazione. I termini che utilizzava per l’evento oggi noto come Olocausto sono significativi. Il suo primissimo lavoro pubblicato, il rapporto igienico- sanitario su Auschwitz del 1946, stilato insieme a Leonardo De Benedetti, già parla di “annientamento degli ebrei d’Europa”. Se facciamo un salto in avanti, ai suoi ultimissimi scritti sull’olocausto di inizio 1987, vediamo che la lotta per la nominazione non si è ancora spenta: in un articolo sulla controversia fra gli storici tedeschi, l’ultima di una lunga serie di risposte di Levi ai negazionisti e ai revisionisti, lo scrittore utilizza espressioni come “strage hitleriana del popolo ebreo”, “inferno”, “buco nero”. In un altro scritto dell’ultima fase, la prefazione a “La vita offesa”, troviamo espressioni che alludono alla comunità dei deportati-sopravvissuti, ebrei e politici, con ricordi e sofferenza condivisi, largamente simili: “deportazione politica di massa”, “questo moderno ritorno alla barbarie”, “Il Lager”, “reduce” ecc. La voce più significativa e contraddistinta del lessico di Levi per l’olocausto fu tuttavia il termine “lager”, che utilizzò più di qualunque altro scrittore e che, di conseguenza, in Italia è entrato nell’uso corrente. È un termine che punta alla neutralità ma che, come tutti gli altri, ha connotazioni grevi e spesso ambivalenti. Innanzitutto, ci riporta ai primi inquadramenti concettuali del dopoguerra per comprendere il nazismo e l’olocausto, per discorso intellettuale e nel campo della cultura in generale, termini che inizialmente erano indicatori diretti di quegli eventi e siti storici, ma che poi divennero anche, in maniera cruciale, metafore flessibili e altamente riconoscibili (termini quali genocidio, Lager, Auschwitz, olocausto). Iniziarono a circolare testi e film riguardanti il discorso sull’olocausto, per i primi citiamo “Il diario di Anna Frank”, per i secondi “Schindler’s List” e “La via è bella”. In questa parte del testo Gordon sottolinea un aspetto, ovvero il fato che nell’immediato dopoguerra il genocidio degli ebrei europei era, nella consapevolezza generale, un qualcosa dai contorni sfocati e, anche quando era presente, veniva considerato come uno dei tanti aspetti e atti di violenza prodotti da questa guerra totale. Anche là dove il genocidio trovava spazio ed espressione, la sofferenza degli ebrei era spesso compresa e limitata entro i termini, entro il linguaggio stesso, utilizzati per parlare di altre manifestazioni estreme di violenze. Per quanto concerne gli ebrei italiani, i sopravvissuti e le famiglie sia di costoro che di coloro che erano morti, i loro racconti sulla deportazione nei campi, o su come si fossero nascosti o avessero combattuto, o sull’esilio e altre storie italiane in apparenza analoghe, storie di partigiani deportati dai nazisti nei campi di lavoro e di concentramento; di soldati italiani internati in campi nazisti e di civili costretti al lavoro forzato; di vittime della brutale violenza fascista e nazista, in particolare i massacri di civili perpetrati nell’Italia centrale e settentrionale fra il 1943 e il 1945. Per contro, la violenza “genocida” fascista, contro le popolazioni slave, o nelle colonie africane, era coperta da un silenzio pressoché totale. Primo Levi, nella sua opera intitolata “La tregua”, in un momento successivo, descrisse il panorama dell’Europa orientale nei primi mesi dopo la guerra come un “Caos primigenio”. L’esperienza della guerra, infatti, aveva sollevato grandi questioni, e si rendevano necessarie grandi risposte e il linguaggio per parlarne fu spesso costituito da archetipi semplici, universali e da lessici onnicomprensivi ma di grande forza, citiamo parole come ad esempio “uomo o essere umano, deportato, ebreo”. Vennero pubblicati numerosi testi riguardanti l’argomento quali: “Conversazioni in Sicilia”12 e “Uomini e no”13 di Elio Vittorini, che avevano sondato la categoria dell’umani e il problema di ciò che ne restasse, non solo delle vittime di sofferenze inflitte, ma anche negli assassini e nei torturatori; l’articolo di Ginzburg “Il figlio dell’uomo”. L’autrice aveva trascorso gli anni della guerra negli Abruzzi, a Torino e a Roma con il marito russo, l’intellettuale ebreo e antifascista Leone Ginzburg, che fu torturato a morte nel 1944 a Roma. Scritto in una prosa lineare, ma non per questo meno eloquente, il testo esprime un senso di frattura assoluta. Il fascismo e la guerra hanno trasformato la generazione dell’autrice in “una generazione di uomini”, per i quali non c’è possibilità di riaversi da una sensazione di minaccia incombente, persecuzione e violenza. Non c’è ritorno. Ginzburg utilizza l’immagine della casa, della famiglia, e dell’impossibilità di farvi ritorno, come ricorrente metafora per la rottura che ha avuto luogo; “L’uomo come fine” di Alberto Moravia, scritto nel 1946 ecc. lo scrittore aveva trascorso gli anni successivi al 1938 combattendo contro la legislazione fascista antisemita, che lo aveva fatto includere in un elenco di autori ebrei proibiti. Dopo il settembre 1943, sfuggì alla cattura nascondendosi nelle colline della Ciociaria, a sud di Roma, con Elsa Morante, che era all’epoca sua moglie. “L’uomo come fine”, composto nel fervore dei mesi del dopoguerra a Roma in una fase di straordinaria prolificità letteraria per lo scrittore, fu la sua più esauriente riflessione morale, storica e filosofica sulla guerra e insieme sulla propria maturità. Furono proprio questa eclettica commistione di differenti filoni di pensiero, e il tentativo di vasta portata macrostorica che rappresentava, a caratterizzare le prime riflessioni generali sulla guerra e sull’olocausto, attraverso l’imponderabile questione di ciò che gli 12 Vittorini, siciliano emigrato al nord, racconta la propria terra, di cui riscopre terribili condizioni di vita, e la trasforma in una metafora del mondo intero e dell’esistenza collettiva. Il protagonista è Silvestro, un tipografo siciliano emigrato al nord. Egli è anche l’io narrante del romanzo. 13 Ambientato nella Milano occupata dai tedeschi, durante il mite inverno di guerra del ’44, racconti gli slanci generosi dei partigiani impegnati nella lotta clandestina nella metropoli lombarda. Il protagonista è un giovane partigiano, il cui nome di battaglia è Enne 2. orrori del nazismo implicassero sul piano della lettura della storia e dell’umanità stessa. “L’uomo come fine” costituisce uno dei primi e più efficaci esempi dell’uso diretto del campo di concentramento e dello sterminio nazista quale figura chiave e incarnazione della soglia che il nazismo avevo superato, dell’essenza del suo significato storico e morale. L’argomentazione centrale è che l’uomo deve essere “un fine”, non un mezzo. In sintonia con Vittorini, Moravia trova l’essenza dell’essere umano in ciò che rimane, il residuo e la sofferenza, quando l’uomo viene usato come puro “mezzo” anziché come “fine”. I campi erano l’illustrazione perfetta di questa perversa e assurda forma di modernità: un fine perfettamente razionale e inumano, perseguito attraverso il mezzo di milioni di uomini, con violenza estrema e ragione pura unite a produrre immense sofferenze e dunque, paradossalmente, vaste riserve di umanità residuale. Anche nell’arte visiva era molto diffusa la figura del Cristo sofferente come simbolo delle vittime della guerra in genere, ma anche, più nello specifico, delle vittime della persecuzione e del genocidio. Questo vale per artisti cristiani come lo scultore Giacomo Manzù. Ma valeva anche per il comunista Renato Gattuso. Nell’agosto del 1948 il poeta siciliano Salvatore Quasimodo, in precedenza noto per il suo linguaggio poetico ermetico, classicizzante, ma come molti altri della sua generazione ora in una fase di scrittura più impegnata, partecipò al Congresso mondiale degli intellettuali per la pace tenutosi e Wroclaw, in Polonia, visitando il complesso dei campi di Auschwitz e rimanendo profondamente segnato da quell’esperienza. La poesia che Quasimodo scrisse dopo la visita, intitolata semplicemente “Auschwitz”, fu pubblicata nella sua raccolta del 1956, “Il falso e vero verde”. Tale poesia è forse il primo grande esempio di un’opera in italiano di rappresentazione distaccata, non testimoniale, di alta qualità letteraria dell’olocausto, con il sito di Auschwitz come suo emblema e gli ebrei come sue vittime principali. Il testo colpisce sia per la sua autentica forza lirica sia per il suo molteplice utilizzo di tropi di un incipiente immaginario dell’olocausto, di una letteratura dell’olocausto come fenomeno a sé, che nei successivi due decenni avrebbe preso forma nella cultura generale. La poesia si tiene efficacemente in equilibrio tra una serie di tropoi ed echi letterari comunemente noti: il rivolgersi a una persona amata, risonanze dal mito e dalla letteratura e la consapevolezza della loro inadeguatezza di fronte a questo luogo, ovvero Auschwitz. Non mancano allusioni a Dante e ad altri paesaggi dell’oltretomba e rituali di morte di derivazione cristiana e classica, quali angeli, mostri, l’aldilà, l’inferno ecc. A compensare e presto sovrastare i topoi della tradizione letteraria vi sono i nuovi tropi e le nuove espressioni per delineare così il nuovo campo immaginario- letterario: il filo spinato, le vittime scheletriche e le camere a gas con le loro docce, il fumo e la cenere dei forni crematori e le pile di oggetti appartenuti ai morti, i capelli, le scarpe, le sciarpe. Anche l’espressione “campo di morte”. Se la poesia di Quasimodo, nel suo essere cronaca della visita al sito di Auschwitz ed esposizione di un’antologia di nuovi archetipi (nomi, oggetti, stati mentali), aveva colto una nuova energia metaforica che andava formandosi intorno all’olocausto, a metà degli anni ’60 un’ancora più sistematica e, se possibile, più potente versione di Auschwitz in quanto metafora veniva espressa dalla nuova “poesia”, giovanilistica, alternativa, della canzone popolare. Nel 1965 Francesco Guccini, nato a Modena nel 1940, era prossimo a intraprendere la sua lunga carriera di cantautore, termine coniato in Italia sul finire degli anni ’50 per quei cantanti-scrittori di canzoni che sono spesso politicamente e socialmente impegnati e narrano in parole e musica i valori e i sentimenti di una determinata regione o generazione. I primi cantautori furono fortemente influenzati dalla tradizione francese, ma Guccini e altri, a metà degli anni ’60, iniziarono a guardare anche alle voci americane, soprattutto ai poeti della Beat Generation e allo straordinario recente successo di Bob Dylan. Come per Dylan in questo periodo, anche per Guccini la modalità musicale predominante era il folk moderno, con voce e chitarra a sottolineare l’intensa forza di versi semplici che narravano storie di povertà e di protesta. Guccini pubblicò il suo primo album solo nel 1967, con il titolo dylaniano “Folk Beat n 1”, ma già da parecchi anni le sue canzoni circolavano e venivano cantate da gruppi musicali vicini al cantautore. Una fu persino bandata dalla Rai per blasfemia (“Dio è morto”). Guccini aveva anche letto Levi e quindi altro sull’argomento. La combinazione di queste memorie e nuove conoscenze sommate all’influenza di Dylan lo indusse a scrivere una canzone che sarebbe divenuta una delle più note opere cantautoriali degli anni ’60, un emblema della canzone di protesta. Come la poesia di Quasimodo, si intitolava semplicemente “Auschwitz” con il titolo alternativo di “Canzone del bambino nel vento”. A parlare in prima persona, nel testo, è la voce di un bambino morto, trasformato in cenere in un forno crematorio, che ora si trova “qui nel vento”. I versi della canzone riprendono “Blowin’ in the Wind” di Dylan. Le due canzoni hanno in comune una serie di espressioni e immagini semplici e universali che le collocano nello stesso campo di associazione semantica, tra queste vi sono: i cannoni della guerra, il suono e il silenzio, la morte e l’atto di uccidere. In realtà, le due canzoni hanno in comune anche uno stile e una struttura d’insieme, entrambe sono costruite intorno a semplici sequenze di ancestrali evocazioni dell’essere umano, della violenza e della sofferenza. La canzone di Guccini è saldamente intessuta attorno a motivi, rime e assonanze semplici e reiterate. Si scende in due blocchi, il primo incentrato direttamente su Auschwitz, il secondo proiettato al di là, negli scenari presenti e futuri del genere umano. Come abbiamo precedentemente accennato, a parlare è un bambino, vittima del genocidio. L’olocausto è così un atto dell’immaginazione, che parla per voce del fantasma di questo innocente, il bambino che non riesce a sorridere. Nella seconda parte la canzone si rivolge al genere umano come un tutt’uno, per domandare come un uomo possa ancora uccidere, come possa uccidere un suo fratello (con ovvio riferimento biblico a Caino e Abele), come ovunque vi siano ancora guerre. È chiaro che Guccini aggancia il lamento per l’olocausto a un lamento generalizzato per le guerre allora in atto in Vietnam, in Algeria e nel resto dell’Africa, e per tutti gli sconvolgimenti politici e sociali che ispirarono e accesero i movimenti giovanili degli anni ’60. Gordon nel corso della trattazione fa riferimento al nesso Auschwitz-Hiroshima e cita Levi, in particolare il romanzo del 1982 “Se non ora, quando?”14 e una poesia del 1978 intitolata “La bambina di Pompei. In “Se non ora, quando?” le vicende picaresche di un gruppo di partigiani ebrei originari dell’Europa dell’Est si concludono con la nascita, il 7 agosto 1945, di un bambino figlio di due dei sopravvissuti del gruppo, che erano riusciti a raggiungere l’Italia. Il bambino viene alla luce lo stesso giorno in cui arriva la notizia della prima bomba atomica sganciata, il giorno prima, su Hiroshima. Nella poesia “La bambina di Pompei” sono accostate 3 figure infantili vittime di catastrofi sia naturali sia prodotte dall’uomo: l’eponima bambina di Pompei, pietrificata in cenere ma preservatasi e ora riportata alla luce così che i visitatori ne possono rivivere il terrore e l’angoscia; una “fanciulla d’Olanda”, ovvero Anna Frank; e una “scolara di Hiroshima”. Tutte e tre rappresentano l’innocenza distrutta, bruciata e strappata all’esistenza; ma sono soprattutto Anna Frank e la piccola vittima di Hiroshima a essere collegate fra loro, poiché prive di una tomba o di un luogo in cui riposare in eterno, senza che del loro corpo o della vita sia rimasta traccia alcuna, tranne forse la cenere, e, potremmo aggiungere, poiché entrambe sono vittime di ingegnosissime tecnologie di assassinio concepite dalla mente umana. Levi chiude il componimento con una richiesta ai politici affinché si fermino prima di annientare il mondo in un Olocausto nucleare, richiesta formulata in termini imperativi che echeggiano l’epigrafe di “Se questo è un uomo”: “Prima di premere il dito, fermatevi e considerate”. È un appello alla consapevolezza della storia e a un riconoscimento dell’umanità dell’individuo e dell’individualità dell’essere umano, anche nella sua esemplarità. E la forza di 14 Il libro è cronologicamente ambientato tra luglio 1943 e agosto 1945 e narra le drammatiche vicende di quei partigiani ebrei polacchi e russi che combattono per sopravvivere e per ricostruirsi una nuova esistenza in fuga dai loro luoghi di origine. Il libro esce nel 1982 da Einaudi nella principale collana di narrativa, i “Supercoralli”, ed è il primo romanzo a pieno titolo di Primo Levi. L’aspetto più felice del libro è la costellazione di donne che lo abitano e lo fanno lievitare di passioni violente o pudiche, improvvise o contorte. mirato a dimostrare un’ipotesi, come egli stesso scrisse nell’introduzione al libro dedicato al documentario, e cioè che “gli italiani negli anni della guerra sono rimasti immuni da quella spaventosa … “epidemia psicologia” che è stato l’antisemitismo, perlomeno nella sua variante nazista e omicida”. Il resto dell’introduzione di Caracciolo è una lettura invariabilmente positiva del ruolo svolto dagli italiani nel salvataggio di ebrei: “il governo fascista fu il protettore degli ebrei; nessun reparto dell’esercito italiano prese parte agli orrori del genocidio; la gente comune, il clero e una infinita serie di semplici atti di gentilezza e amicizia si sommarono in una cospirazione umanitaria per salvare gli ebrei”. Renzo De Felice21 e Daniele Carpi sono accreditati in veste di principali consulenti storici di Caracciolo, e la prefazione di De Felice al libro che accompagna la trasmissione, benché molto più lucida e coerente di quella di Caracciolo, nondimeno ricapitola concisamente la storia edificante di come l’Italia avesse prestato soccorso agli ebrei. Fa delle asserzioni suddivise in 8 punti, ognuno dei quali mirato a disgiungere il fascismo e il popolo italiano dalla spinta antisemitica: così, per esempio, il nazismo in Italia era inesistente; il fascismo italiano non era antisemita e le leggi razziali furono un diktat (imposizione) esterno; le leggi razziali erano attenuate rispetto agli equivalenti nazisti e comunque scarsamente recepite. Internandosi ancora una volta con la questione della zona grigia, i due modelli interpretativi di De Felice e Sarfatti guardano in maniera radicalmente diversa alla scelta di soccorrere o aiutare gli ebrei. Per il primo, questa scelta denota un certo grado di civiltà sociale come aspetto del carattere, ma anche una distanza da qualunque ideologia fascista e un istinto di matrice locale a stringersi l’un l’altro e resistere alla violenza della guerra; per il secondo, invece, quella di aiutare gli ebrei è una scelta altrettanto forte, connotante in termine esistenziali e politici, del vecchio mito della Resistenza, la scelta di combattere i nazifascisti, tanto nella lotta armato quanto nella lotta civile. Il contrastato terreno a cavallo di bravi italiano e zone grigie tornò vividamente alla ribalta, e con mille echi, su finire del secolo scorso (XX secolo) con la riscoperta di un’altra storia di aiuto prestato agli ebrei, quella di Giorgio Perlasca. Perlasca, nato nel 1910 e già convinto fascista nonché militare volontario, in tempo di guerra si trovò per lavoro a Budapest, niente affatto entusiasta della piega antisemita presa dal regime. Dopo il 1943 si mantenne fedele al giuramento fatto al re e, assistendo nel 1944 alle deportazioni in massa di ebrei ungheresi, decise di salvarne il più possibile, spacciandosi per diplomatico spagnolo e rilasciando finti salvacondotti (lasciapassare). Perlasca fu una figura dimenticata fino al 1988, quando venne insignito dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” dal museo Yad Vashem di Gerusalemme. In seguito a questo riconoscimento, la sua vicenda fu riesumata prima da un quotidiano neofascista, poi, nel 1990, da un popolare programma televisivo della Rai, Mixer, poi ancora, nel 1991, da un libro di successo del giornalista di sinistra “Enrico Deaglio” (che aveva lavorato per Mixer), il quale sarebbe in seguito divenuto direttore del settimanale “Diario”, una rivista che fu molto attiva nella politica di memorializzazione dell’olocausto dei primi anni 2000. Al libro seguì, nel 2002, un film televisivo acclamato da pubblico e critica, “Perlasca. Un eroe italiano”, trasmesso da Rai 1, la principale rete pubblica. Perlasca era sia bravo che grigio. Era stato un fascista convinto, ma non un antisemita, anzi fu istintivamente ostile all’antisemitismo nazista e fascista; fu un patriota, e un eroe per i rischi corsi e i sacrifici compiuti, ma anche tipicamente italiano per gli espedienti di finzioni e falsificazione a cui fece ricorso. Per quanto in apparenza opposti, dal momento che la zona grigia contiene il vizio e il bravo italiano la virtù, i due stereotipi sono di fatto strettamente legati l’uno all’altro e, per giunta, sembrano ritrovarsi, sin dalla loro origine, a contatto con vicende legate all’olocausto. ● Nel 1953 si verificò un caso alquanto insolito nel campo della storiografia, con formidabile risonanza per la questione della traduzione: 3 lunghi articoli di Luigi Meneghello22 usciti sulla rivista di Olivetti 21 (1929- 1996) È stato uno storico e accademico italiano, considerato da alcuni il maggiore studioso del fascismo. 22 Partigiano, accademico e scrittore italiano. “Comunità”23, che esponevano, sostanzialmente per la prima volta in italiano, una sintesi della storia della Soluzione finale. Meneghello lavorava a Reading, nel Regno Unito, sin dai tardi anni ’40, e questi suoi contributi a “Comunità”, firmati con lo pseudonimo Ugo Varnai, giunsero sotto forma di recensioni a opere di politica, storia e letteratura uscite in inglese. Gli articoli di Meneghello/Varnai erano un inconsueto mix di recensioni, riassunto, selezione, traduzione e riorganizzazione, a cui potremmo anche aggiungere elaborazione visiva, dato che lo stesso Meneghello rintracciò nella stampa e nelle biblioteche britanniche una serie di mappe e di impressionanti immagini fotografiche da pubblicare accanto ai suoi articoli24. La trasmissione linguistica dall’inglese all’italiano, a opera di Meneghello, che viveva e lavorava a Reading, è essa stessa un primo importante esempio di traduzione storiografica e di diffusione della consapevolezza dell’olocausto, un caso di accessibilità transnazionale. Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, uno dei topoi principali, sotto il profilo realistico, metaforico e linguistico, nel quale campeggiava come sua più tremenda incarnazione l’immagine smarrita del sopravvissuto all’olocausto, è la figura del DP, la displaced person, ovvero reduci, profughi e sfollati che per mesi o anni vagarono senza casa e senza meta in un’Europa devastata. In alcuni rari casi (come quello di Primo Levi) fu un peregrinare verso casa, ma per molti la sopravvivenza portò con sé un senso permanente di sradicamento, esilio e alienazione, un senso dell’impossibilità di ritornare a un prima. Emigrazione, esilio o fuga costrinsero molti sopravvissuti, e fra loro alcuni dei grandi scrittori-sopravvissuti, a reinventare sé stessi e a scrivere in terre e lingue straniere. Ad esempio, citiamo Elie Wiesel25 che iniziò a scrivere in Argentina in una delle sue lingue native, lo yiddish, ma la sua voce acquisì forza come scrittore francese e poi come figura pubblica e scrittore in America. In Italia, a cominciare dalla fine degli anni ’90, “Shoah” ha uguagliato e superato “Olocausto”, divenendo diffusamente adottato nella stampa nazionale così come nella ricerca specialistica quale termine corretto, riconosciuto e persino ufficiale per indicare il genocidio nazista degli ebrei. “Shoah” fu la denominazione utilizzata nella legge del 2000 che istituiva il Giorno della Memoria, la cui finalità essenziale è quella di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico). Il termine “olocausto” non viene utilizzato. Analogamente, nella legge del 2003 per l’istituzione in Italia di un museo nazionale dell’olocausto, il progetto è stato denominato “Museo nazionale della Shoah”. Una parola straniera, anche se Shoah non ha lo svantaggio di essere difficile da pronunciare in italiano, indica qualcosa di estraneo, che richiede tradizione e spiegazione. Inoltre, una parola ebraica e non italiana, sottolinea che il genocidio non faceva parte della storia italiana. Tuttavia, paradossalmente, l’aumentato utilizzo del termine “Shoah” finiva per coincidere anche con una tendenza opposta, quella di collocare per la prima volta la complicità italiana al centro dell’olocausto e l’olocausto al centro delle narrative nazionali del fascismo e della guerra. Queste inversioni e associazioni paradossali, la Shoah come evento specificamente ebraico, ma insieme anche italiano, furono colte al meglio da un’emblematica affermazione ribadita più volte da Furio Colombo per la sua campagna finalizzata all’istituzione in Italia di una giornata commemorativa ufficiale dell’olocausto. Scrive Colombo: “La Shoah è (anche) un delitto italiano. Il filone conclusivo nell’elaborata rete di trasmissione transnazionale della cultura dell’olocausto che indagheremo ora ci conduce dall’Italia a quello che è diventato il luogo per eccellenza della storia, della conoscenza collettiva e dell’immaginario dell’olocausto: Auschwitz. L’apertura e la ristrutturazione del campo dopo il 1989 portarono a una 23 Rivista politico-culturale fondata a Roma nel marzo del 1946, in seguito trasferita a Torino e poi a Ivrea, sotto la direzione di Adriano Olivetti fino alla sua morte avvenuta nel 1960. Adriano Olivetti è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano. 24 Le fotografie, alcune delle quali erano immagini scioccanti di corpi scheletrici, fecero correre il rischio a “Comunità” di essere citata in giudizio per la pubblicazione di immagini “oltraggiose per il pubblico pudore”. 25 Eliezer Wiesel, detto Elie, è stato uno scrittore, giornalista, saggista, filosofo, attivista per i diritti umani e professore di origine ebraica e poliglotta, nato in Romania e superstite dell’olocausto. rinnovata elaborazione in loco della storia di ciò che vi accadde, ma portarono anche alla problematica crescita del turismo dell’olocausto, qui come in altri ex campi e ghetti. Nell’ambito di questa storia gravida di implicazioni, si è compiuta un’intensa opera di memorializzazione e di cordoglio, legata a singoli individui, gruppi e nazioni. Ad Auschwitz sono stati realizzati due specifici progetti memorialistici: il monumento internazionale alle vittime di Auschwitz (1967) e il padiglione italiano ad Auschwitz (1980). -MONUMENTO INTERNAZIONALE: il Comitato internazionale di Auschwitz (IAC) fu costituito nel 1952 da un gruppo internazionalista composto principalmente da ebrei sopravvissuti. Nel 1957 il Comitato indisse un concorso per progettare un monumento ufficiale da erigersi ad Auschwitz II (Birkenau). Vennero presentati tantissimi progetti, ma ne furono selezionati solo 7 per un secondo vaglio; e in seguito i 3 più votati fra questi ultimi vennero commissionati, ma, a dimostrazione di come la giuria considerasse il concorso un forte impegno estetico e politico-culturale, i 3 gruppi furono invitati a rivedere il proprio lavoro, preferibilmente collaborando fra loro, per giungere a uno o più progetti definitivi. I 3 gruppi presentarono 4 progetti alternativi collettanei, creati utilizzando parti adattate di ciascuno dei 3 precedenti lavori vincitori. Alla riunione di Roma fu approvato il primo questi progetti congiunti, anche se con riserva, seguirono vari anni di difficili negoziati con scontri di sensibilità e di personalità (nel 1961 sia lo IAC che le autorità polacche rifiutarono il progetto finale raccomandato dalla giuria), conflitti sui costi e su questioni di politiche. Il monumento venne poi inaugurato nel 1967. La cerimonia ebbe luogo il 16 maggio, di fronte a tantissime persone, con funzionari polacchi, ex deportati e autorità provenienti da Israele, dalla Germania Est e da altri paesi (tra cui l’Italia). Questa sintesi della complessa storia della costruzione di uno dei principali monumenti europei dedicati all’olocausto sarebbe qui di relativo interesse se non fosse per il singolare fatto che, dei 7 progetti selezionati nel 1958-59 per la seconda tornata, 3 erano di gruppi italiani (due di Roma, uno di Trieste), insieme a 3 polacchi e uno della Germania Ovest; e dei 3 finalisti, 2 erano italiani (i due gruppi romani). I sei architetti e artisti italiani coinvolti in questa fase finale del concorso erano giovani e relativamente sconosciuti, e questo è già di per sé un segnale indicativo del crescente interesse non solo nei testimoni diretti verso la memorializzazione dell’olocausto, oltre che della grande vitalità e del prestigio internazionale dell’architettura e della scuola di progettazione italiane. Come si è accennato, inizialmente, non si riuscirono a raccogliere fondi sufficienti a finanziare la costruzione del monumento. In altre parole, questo rispetto per l’olocausto manifestato dall’associazionismo e da certe élite in realtà non era ancora penetrato così in profondità. - IL PADIGLIONE NAZIONALE: il padiglione italiano ad Auschwitz fu aperto il 13 luglio 1980 nel Blocco 21 di Auschwitz, con il titolo ufficiale di “Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti”. Nel 1979-80, erano stati anche inaugurati altri padiglioni, in Austria, Francia, Ungheria e Olanda; nel 1978 l’inaugurazione di una sezione dedicata “alla sofferenza e al martirio degli ebrei”, e il 1979 aveva registrato anche lo straordinario evento del papa da poco eletto, Giovanni Paolo II, che tornava in Polonia e celebrava una messa a Birkenau26 davanti a una folla di più di un milione di persone. Era dunque un periodo di fervente attività e di ripensamento del sito di Auschwitz. Il progetto italiano, promosso e sovvenzionato dall’ANED, fu guidato in larga misura dallo studio BBPR, e in particolare da Lodovico Belgiojoso27. Il testo di presentazione, attentamente calibrato, venne scritto da Primo Levi. Come accadde nel caso del monumento internazionale, anche in questo caso vi furono continui problemi sia con le autorità polacche sia all’interno degli organismi organizzativi. Ma il risultato fu un eccezionale, benché poco visitato e presto ridotto in stato di abbandono, prodotto corale della raffigurazione italiano dell’olocausto. Dal luglio 2011, 26 Il campo di sterminio di Birkenau fu uno dei tre campi principali che formavano il complesso concentrazionario situato nelle vicinanze di Auschwitz, in Polonia. 27 Lodovico Barbiano di Belgiojoso è stato un architetto, designer e accademico italiano.
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