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Teoria Struttural-Funzionalista di Parsons: Sistemi Sociali e Azione, Schemi e mappe concettuali di Sociologia

Parsons, dopo le dimissioni di sorokin, diventa direttore del nuovo dipartimento di relazioni sociali, sviluppando ulteriormente il carattere interdisciplinare del reparto. In due volumi intitolati 'sistemi di società', parsons cerca di elaborare evolutivamente la sua teoria del sistema sociale. La teoria di parsons è criticata per dare poco spazio al mutamento sociale, al conflitto, alle diseguaglianze sociali. Parsons identifica la natura sociale dell'azione come oggetto specifico della sociologia, sviluppando una teoria volontaristica dell'azione. Il lavoro di parsons può essere distinto in due momenti: la definizione di un modello astratto di sistema sociale e l'applicazione di questo modello alla ricostruzione dell'evoluzione delle società storiche.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 12/01/2024

giuseppeancona
giuseppeancona 🇮🇹

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Scarica Teoria Struttural-Funzionalista di Parsons: Sistemi Sociali e Azione e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociologia solo su Docsity! 2. Il funzionalismo 2.1. Introduzione Alla base del funzionalismo c’è il concetto di funzione. Possiamo pensare a due modi di intendere tale concetto: in senso biologico e matematico. Nel primo caso, la funzione indica un’attività utile al mantenimento in vita dell’organismo: ad esempio, la funzione respiratoria serve a raggiungere una serie di obiettivi fondamentali per la vita. Funzione è un concetto astratto e non coincide con un organo specifico: essa prescinde dalla cosa materiale che la attua. Nel secondo caso, il concetto di funzione è ancora più astratto, perché indica il semplice fatto che esiste una relazione tra variabili, come nella formula y = f(x). In sociologia, Durkheim può essere visto come un precursore del funzionalismo. Egli, anche se supera l’organicismo comtiano, nel suo concetto di solidarietà organica pensa all’integrazione sociale come alla cooperazione funzionale tra varie attività lavorative, all’interno di una società vista come un grande organismo. A proposito di questa prima fase del suo lavoro, possiamo perciò parlare di funzionalismo organicista. Parsons intende liberare il concetto di funzione da ogni possibile riferimento alla metafora organicista: la società non deve essere più pensata come un grande corpo e la teoria deve raggiungere un grado di astrattezza tale da superare ogni metafora. Il funzionalismo punta così ad assumere la forma di una teoria la cui astrattezza dovrebbe portare a compimento le aspirazioni dei padri fondatori della sociologia: fornire un modello teorico – la grande teoria – capace di spiegare il modo in cui si costituisce, si mantiene e si sviluppa la società. La società viene vista come un sistema sociale. Con questa espressione si intende un insieme strutturato, e quindi non contingente, di relazioni sociali tra ruoli istituzionalizzati. Struttura è, a sua volta, la forma relativamente stabile che assumono le relazioni tra le parti del sistema. Per fare un esempio: se ho un mucchio di libri sparpagliati alla rinfusa sul mio tavolo non ho un sistema strutturato; per ottenerlo, devo dare a tale insieme disordinato una relazione stabile tra i vari elementi. Potrò inserirli in una libreria ordinandoli a seconda dell’argomento, oppure dell’autore, o della casa editrice e così via. Ognuna di queste alternative costituisce una struttura che trasforma l’insieme disordinato di libri in un sistema. Sistema, struttura, funzione e processo sono perciò i concetti base del funzionalismo: si spiega il primo se si è in grado di spiegare come possa persistere la struttura che lo identifica e come tale struttura mantenga una sua funzionalità attraverso dei processi. Qui appare la questione centrale del funzionalismo: sulla base di quale criterio posso definire la funzionalità? Quando un sistema funziona? Per l’organicismo, la risposta è semplice: l’organismo funziona quando consente il mantenimento della vita. C’è un obiettivo, un fine ultimo, che consente di giudicare del buono o cattivo funzionamento. Ma abbandonando la metafora organicista, si perde la possibilità di avere un fine ultimo sulla base del quale giudicare del buono o cattivo funzionamento del sistema. Il fine della società è mantenersi in vita? Inoltre, siamo sicuri che una società che «funzioni» abbia garantita la propria sopravvivenza? Ad esempio, una macchina che sta correndo a tutta birra verso un precipizio funziona bene, ma il suo perfetto funzionamento non solo non garantisce la sopravvivenza, ma ne accelera la fine. Tangentopoli funzionava, ma il suo funzionamento non può essere il solo criterio per giudicare la legittimità di quel sistema. Proprio intorno a questo problema – se esista o meno la possibilità di indicare un fine sottratto al funzionamento e che ne giudichi la legittimità – possiamo distinguere varie forme di funzionalismo. Il primo Durkheim, e più in generale tutto l’organicismo, pensano che tale fine esiste e che esso sia la sopravvivenza dell’organismo società; Luhmann fa proprio un funzionalismo radicale, per il quale non c’è un fine esterno al funzionamento del sistema; Parsons assume una posizione intermedia tra i due. L’importanza della questione è anche la seguente: nella prospettiva durkheimiana, abbiamo un criterio per giudicare se qualcosa non funziona Importanti lavori di questa fase sono The American University (1973), Social Systems and the Evolution of Action Theory (1977) e Action Theory and the Human Condition (1978). Parsons muore nel 1979 per crisi cardiaca a Monaco, in Germania, dove si era recato per tenere delle lezioni all’università. Parsons è l’autore che forse più di tutti ha cercato di costruire una teoria generale della società. In questo, e nonostante il suo successo, va in controtendenza rispetto al clima di generale sfiducia e di crisi generalizzata che caratterizzano il Novecento. Forse due soli altri sociologi – Jürgen Habermas e Niklas Luhmann – raccolgono questa grande sfida e, non a caso, entrambi devono molto al lavoro di Parsons. In estrema sintesi, possiamo dire che tre elementi caratterizzano il lavoro parsonsiano: la ricerca di una teoria generale della società; l’idea che l’individuo si integra nella società attraverso l’interiorizzazione di valori sociali; un modello di evoluzione sociale basato sul concetto di differenziazione funzionale. 2.2.2. Il metodo Si ricorderà che un tema chiave affrontato dai classici della sociologia è il problema della transizione alla modernità. Questo processo è vissuto come una radicale frattura, un cambiamento epocale, l’emergere di qualcosa di completamente nuovo. Ciò crea diversi problemi: che legami ci sono con il passato? Come è possibile una teoria della transizione senza continuità? La società moderna è qualcosa di unico? Inoltre, l’enfasi posta sulla natura individualistica della modernità tende a sottolineare gli elementi di discontinuità: esistono comunità senza individui (la premodernità) e società di individui (la modernità). Non a caso, due scienze sociali moderne per eccellenza, l’economia politica e la psicologia, riconducono il comportamento sociale a qualcosa che è presociale, o addirittura asociale, agli interessi (l’economia) o alle passioni e ai processi interiori (la psicologia), due direzioni diverse, ma entrambe ancorate nell’individuo inteso come realtà autonoma. La sociologia costituisce, invece, il tentativo di spiegare il sociale senza ricondurlo ad altro, usando, in modo non riduzionistico, una spiegazione essa stessa sociale. Si ricordi, a questo proposito, l’idea di Durkheim per cui i fatti sociali devono essere spiegati attraverso altri fatti sociali. Alla base della società, allora, non ci devono essere le passioni (non la paura e l’egoismo di Hobbes, ma neppure l’altruismo di Rousseau) né gli interessi, espressione di quell’homo oeconomicus liberista e utilitarista, teorizzato dall’economia politica inglese classica. Lo sforzo di Parsons è quello di identificare la natura sociale dell’azione come oggetto specifico della sociologia: la risposta sta, come vedremo, nella concezione «volontaristica» dell’azione. L’azione sociale non può essere ricondotta a una spiegazione biologica, economica o psicologica e non può essere indagata con i metodi del comportamentismo, per il quale l’attore è una specie di scatola nera che reagisce agli stimoli dell’ambiente esterno. L’azione è volontaria e libera: implica quindi la messa in campo di una scelta fatta sulla base di un senso intenzionato che rimanda a valori socialmente condivisi. Parsons è forse l’autore che più di tutti cerca di formulare l’idea di una scienza sociale capace di spiegare sociologicamente il sociale, indipendentemente dalla fattispecie storica e, quindi, senza partire dall’individuo moderno, dalle sue passioni o dai suoi interessi. Presa radicalmente, questa prospettiva esige una risposta capace di rendere conto sia del sociale moderno sia di quello premoderno, interpretando entrambi all’interno di una comune prospettiva teorica. La sociologia diviene così una teoria della società formulata dentro la società moderna, ma applicabile a qualunque gruppo umano, del presente, del passato e del futuro. La teoria deve essere astratta così da essere in grado di vedere ciò che accomuna al di là di enormi diversità. Da qui la prospettiva parsonsiana della «grande teoria». Detto questo, che cosa accomuna allora una tribù nomade all’impero inca e alla città di New York? Cosa c’è in comune tra il clan, la gens romana e la famiglia moderna? Naturalmente, non posso prendere caratteristiche specifiche di queste particolari formazioni sociali per poi andare a cercare similitudini e differenze: il lavoro sarebbe esasperante e, alla fine, inutile. La risposta di Parsons mira a sviluppare l’approccio dell’antropologia funzionalista – in particolare di Malinowski – che egli aveva conosciuto nel soggiorno londinese. Il clan, la gens e la famiglia sono formazioni sociali diverse che rispondono però a una medesima funzione: ciò che accomuna le varie società non sono le specifiche risposte istituzionali, ma i problemi comuni cui quelle diverse istituzioni danno una risposta. Parsons è funzionalista perché pensa che la teoria sociologica debba identificare le funzioni fondamentali che ogni struttura sociale operativizza a modo suo. Naturalmente, queste funzioni non sono visibili empiricamente, ma sono messe in atto da strutture e processi sociali concreti. Ecco perciò il senso in cui la teoria parsonsiana è struttural- funzionalista: esistono strutture sociali – la famiglia, lo Stato, la scuola ecc. – che svolgono le loro funzioni in modo da garantire la stabilità del sistema sociale nel suo insieme. Questi concetti – processi, funzione, struttura e sistema – sono del tutto destoricizzati: sono prodotti della teoria attraverso i quali si guarda alla realtà storica per capire come essa funziona e per vedere se possa darsi una linea di sviluppo da una società a un’altra più evoluta. Non è perciò a partire dalla realtà che si costruisce la teoria, per via empirica, ma è, al contrario, la teoria che produce la realtà che poi osserva. Ad esempio, quando studio empiricamente la famiglia, vedo un’istituzione con una funzione specifica, e questa funzione viene definita per via teorica dal modello che applico alla realtà. Istituzioni come la famiglia, il clan e la gens spariscono in quanto mera realtà empirica, dotata di consistenza autonoma, e vengono ridefinite attraverso la teoria, che le vede come espressioni diverse di una stessa funzione sociale, rendendo così possibile la comparazione. La conoscenza implica un lavoro di ridefinizione e di selezione della «realtà». Da questo punto di vista, Parsons si allontana dalla maggior parte dei sociologi di Chicago, non perché, banalmente, egli non faccia ricerca empirica, ma perché per costoro la teoria è prodotta per via induttiva, è una specie di collegamento plausibile dei fenomeni osservati. Il lavoro di Parsons può allora essere idealmente distinto in due momenti: da un lato, la definizione di un modello astratto di sistema sociale, costruito per via teorica; dall’altro, l’applicazione di questo modello alla ricostruzione dell’evoluzione delle società storiche, nel tentativo di spiegare, da sociologo, come emerga il mondo moderno all’interno di tale evoluzione. I due paragrafi seguenti cercheranno di mettere in luce questi due momenti. 2.2.3. Sistema d’azione e sistema sociale La distanza di Parsons dai sociologi di Chicago – e in generale dalla sociologia americana precedente – si evidenzia non solo sul piano metodologico, ma anche per una diversa concezione del concetto di suo secondo grande libro, Parsons vuole portare il livello della sua riflessione a un punto ancora più generale e astratto, passando dal singolo atto elementare ai modelli che sono alla base dell’azione collettiva. Nel nuovo dipartimento di Relazioni sociali, attraverso la collaborazione con i colleghi di altre discipline e in particolare con l’amico antropologo Clyde Kluckhohn (1905-1960), si sviluppa l’idea per cui tutte le scienze sociali hanno come oggetto specifico l’azione, a diversi livelli. La sociologia, come abbiamo visto, si occupa del senso in cui le azioni sono sociali, cioè orientate da conoscenze, valori e credenze socialmente condivisi. Fortemente influenzato dall’antropologia funzionalista e dalla scoperta della psicanalisi freudiana, Parsons giunge così a formulare l’esistenza di tre diversi sistemi d’azione: il sistema sociale, il sistema della personalità e il sistema della cultura. L’interazione tra questi tre sistemi – la società come realtà sui generis, direbbe Durkheim, la personalità soggettiva e la cultura – deve spiegare come sia possibile l’ordine sociale, cioè la relativa stabilità di un sistema d’azione. Parsons ritiene che una teoria generale della società deve render conto della stabilità e del mutamento all’interno di una comune prospettiva. Lo specifico equilibrio che si dà tra struttura e funzione determina il livello più o meno alto di stabilità e di cambiamento che caratterizza una determinata società. Inoltre, una teoria generale della società deve spiegare sia i processi macrosociali che quelli micro, cioè sia il funzionamento delle grandi istituzioni collettive – lo Stato, le strutture economiche ecc. – sia le modalità in cui si danno le interazioni. Il problema alla base del Sistema sociale può essere così formulato: visto che di fatto le società durano nel tempo conservando un equilibrio dinamico, quali sono i processi che garantiscono questa relativa stabilità? La risposta teorica ruota intorno al concetto di ruolo sociale, inteso come soluzione alla tensione tra l’autonomia degli individui e l’esigenza di stabilità del sistema sociale. Semplificando, possiamo dire che il sistema sociale è un insieme integrato di ruoli e funziona perché gli individui hanno interiorizzato le credenze alla base delle aspettative sociali tipiche dei ruoli che ricoprono. Il concetto di ruolo ha alcune caratteristiche tipiche. In primo luogo, è indipendente dalla persona: il ruolo di professore di Sociologia non coincide con il professore che lo ricopre e, integrandosi con gli altri ruoli sociali – quelli degli altri docenti, del personale amministrativo, degli studenti ecc. –, costituisce la struttura di uno specifico sistema sociale, l’università. Inoltre, il ruolo è definito dalle aspettative di ruolo; esso si coordina con gli altri ruoli perché garantisce la messa in atto di quelle specifiche azioni sociali che gli altri ruoli si aspettano: il professore di Sociologia andrà regolarmente a lezione, scriverà un’introduzione alla sociologia, effettuerà gli esami ecc., così che, ad esempio, il lunedì mattina, all’ora stabilita, gli studenti – per la precisione, coloro che ricoprono il ruolo di studente – si aspettano da lui la lezione di sociologia. Tra i vari ruoli si dà così una reciprocità delle aspettative. Infine, le aspettative di ruolo non sono naturali o scontate: esse sono il risultato di un processo di istituzionalizzazione, così che volta a volta solo alcuni specifici contenuti normativi vengono incorporati nel ruolo. Le aspettative che definivano il ruolo di professore universitario cinquant’anni fa erano diverse da quelle attuali, perché nel frattempo si sono andati istituzionalizzando nuovi contenuti e altri sono venuti meno. Un sistema sociale mantiene quindi una sua stabilità a condizione che la struttura integrata dei ruoli che lo costituisce si mantenga nel tempo, e si mantiene solo se gli individui hanno interiorizzato – sistema della personalità – quei valori socialmente condivisi – sistema culturale – alla base delle aspettative di ruolo. Il processo di interiorizzazione dei valori è quindi fondamentale. Parsons sviluppa questa idea coniugando Durkheim e Freud. Come si ricorderà, per Durkheim la società è costituita dall’insieme delle credenze condivise, che egli chiama «coscienza collettiva». Parsons, attraverso l’uso di Freud, chiarisce come la coscienza collettiva – composta da valori sociali, esterni all’individuo – venga interiorizzata, fatta propria da ogni individuo attraverso i processi di socializzazione, a partire dalla prima infanzia. In questo modo, pensa di aver risolto il problema del legame tra coscienza individuale e coscienza collettiva, problema che nella teoria durkheimiana dell’homo duplex veniva solo formulato, ma non spiegato. Parsons, invece, vede nel Super-Io di Freud la traduzione soggettiva dei valori sociali: mano a mano che il bambino impara a comportarsi secondo le regole sociali, sviluppa una forma di autocontrollo interiore – il Super-Io – che gli consente di accrescere sempre più la sua adesione alla società. Tanto più saranno interiorizzati i valori sociali, tanto più sarà forte e strutturato il Super-Io, tanto più l’individuo agirà – in maniera «inconsapevole» – sulla base delle aspettative di ruolo che ha fatto proprie. Il controllo sociale, per Parsons, non è un poliziotto che ci fa la multa se sbagliamo: il poliziotto è, se così si può dire, dentro di noi, al punto che quando ci fermiamo al rosso lo facciamo senza pensarci, e l’azione è come se perdesse la sua natura di scelta consapevole. Da qui l’importanza che hanno, per Parsons, i processi di socializzazione, che ci seguono per tutta la nostra vita, da quando siamo bambini sino alla vecchiaia. Dapprima impariamo a fare il bambino, poi a fare lo scolaro, poi lo studente universitario, poi il padre e così via, per tutta la molteplicità dei ruoli che, anche contemporaneamente, impariamo a ricoprire nella nostra esistenza. I processi di socializzazione vengono messi in atto dalle agenzie di socializzazione, cioè da strutture sociali ad essi preposte (famiglia, scuola, mass media, Chiese, partiti ecc.). Dovrebbe essere perciò chiara la centralità che hanno per Parsons gli orientamenti normativi: essi guidano l’azione sociale e ne costituiscono l’aspetto sociale. L’importanza del terzo sistema d’azione, quello culturale, sta nel fatto che deve garantire la permanenza degli orientamenti normativi che verranno interiorizzati. Parsons ha ben presente il problema durkheimiano dell’anomia: laddove le credenze non sono stabili e coerenti, la struttura della personalità ha difficoltà a formarsi e, di conseguenza, anche il sistema sociale è più fragile e instabile. Detto questo, sembra venir meno il carattere volontaristico dell’azione. Ciò è solo parzialmente vero. Rimane sempre la possibilità della devianza: per quanto perfettamente socializzato, l’individuo può sempre non fermarsi al semaforo rosso. La trattazione della devianza in Parsons non è particolarmente originale rispetto alle tesi di Durkheim: egli, per evitare che un eccesso di devianza mini le fondamenta della stabilità sociale, enfatizza il ruolo delle agenzie di controllo e di repressione e la necessità di avere processi di socializzazione efficaci. Inoltre, Parsons identifica alcuni dilemmi dell’azione che, se da un lato sono anch’essi socialmente strutturati, dall’altro lasciano al soggetto la libertà di muoversi all’interno di uno spettro di alternative. Essi rimangono anche in un individuo perfettamente socializzato, nello studente modello e nel perfetto padre di famiglia: sono, per così dire, dilemmi intrinseci alla natura volontaristica, e quindi non determinata e non determinabile, dell’azione sociale, espressione della sua natura umana, non meccanica. Possiamo pensarli Fig. 2 - Schema AGIL L’adattamento (A – adaptation) si riferisce alla funzione del sistema tesa a procurarsi dall’ambiente le risorse necessarie e a renderle disponibili all’interno (esterno/futuro). Il raggiungimento degli scopi (G – goal attainment) è la funzione che serve a realizzare gli scopi del sistema sociale e a predisporre i mezzi e le energie necessari a raggiungerli (esterno/presente). L’integrazione (I – integration) mira al mantenimento dell’ordine interno tra i vari sottosistemi funzionalmente differenziati (interno/presente). La latenza (L – latent pattern maintenance o latency) serve al mantenimento delle credenze condivise al fine della stabilità del sistema (interno/futuro). Possiamo dire, semplificando e riassumendo, che ogni sistema sociale si deve procurare, attraverso l’adattamento all’ambiente esterno (A), i mezzi – risorse materiali – utili a raggiungere i suoi fini esterni (G); per raggiungere, invece, il fine interno della relativa stabilità (I) deve istituzionalizzare un modello latente di credenze – risorse simboliche – (L). Le quattro funzioni corrispondono a quattro sottosistemi funzionali in cui si articola il sistema sociale: il sottosistema economico si occupa dell’adattamento (A); quello politico del raggiungimento dello scopo (G); la comunità societaria dell’integrazione (I); in ultimo, il sottosistema fiduciario della latenza (L). I quattro sottosistemi interagiscono all’interno di un complesso sistema di interscambio funzionale; ognuno di essi è inoltre caratterizzato da un suo specifico mezzo simbolico di interscambio, cioè di uno strumento del tutto specifico attraverso cui interagisce con gli altri sottosistemi. I quattro mezzi di interscambio sono: il denaro, tipico del sottosistema economico; il potere, di quello politico; l’influenza, della comunità societaria; l’impegno di valore, del sottosistema fiduciario. Particolarmente interessante è l’analisi che Parsons fa del potere, da lui paragonato al denaro. Egli critica la concezione politologica allora dominante del potere, che lo vede come una quantità a somma zero. Secondo questa impostazione, il potere è una quantità data, che si divide tra i vari soggetti, così che se uno ne ha molto, qualcun’altro deve averne poco. Per Parsons, invece, la quantità di potere non è fissata una volta per tutte, ma varia a seconda dei processi di interscambio tra i vari sottosistemi. Inoltre, sempre come il denaro, il potere deve circolare, deve potersi scambiare solo in determinate situazioni, deve avere un grado elevato di generalizzazione simbolica. Come il denaro non ha un valore in sé – la banconota da 50 euro rappresenta simbolicamente quel valore –, così il potere vale simbolicamente per gli effetti che può raggiungere. I parallelismi sono molti altri: le elezioni politiche sono la consegna del potere ai partiti, così come consegniamo il denaro alle banche; la periodicità delle elezioni assomiglia alla periodicità dell’orario di apertura delle banche; come il banchiere, il leader politico investe il potere che ha raccolto, fiducioso di poter distribuire dei dividendi ai suoi azionisti, cioè ai suoi elettori; ci può essere un potere inflazionato o deflazionato e così via. L’idea di pensare il potere come qualcosa che assomiglia al denaro deriva dal fatto che entrambi – così come gli altri due mezzi di interscambio – servono alla comunicazione funzionale tra sottosistemi: devono avere un carattere fluido, circolante, astratto, fortemente simbolico, tutte caratteristiche tipiche del denaro nella sua forma moderna. 2.2.4. Evoluzione per differenziazione funzionale e generalizzazione dei valori La teoria struttural-funzionalista fornisce un modello capace di interpretare qualsiasi società: ogni società storica può essere vista come una diversa combinazione di strutture e processi che realizza le quattro funzioni fondamentali e come l’insieme di soluzioni specifiche date ai dilemmi dell’azione identificati dalle cinque variabili strutturali. A questo punto, si tratta di vedere se è possibile rintracciare uno schema evolutivo che va da società più semplici a società più complesse e se tale evoluzione porta alla società moderna ed è capace di spiegarne le caratteristiche. Secondo Parsons, questo schema evolutivo ha a che vedere con un processo di differenziazione funzionale, lo stesso che – per usare una metafora biologica – porta dall’ameba ai mammiferi. Nella prima, in quanto organismo monocellulare, tutte le funzioni sono svolte da un’unica cellula; nei secondi abbiamo invece una progressiva specializzazione funzionale, così che troviamo cellule capaci di svolgere solo una funzione specifica e, nell’organismo, si evidenziano strutture e processi autonomi e specializzati (l’apparato respiratorio, digerente ecc.). La stessa cosa vale per la società: le società premoderne sono meno differenziate funzionalmente di quella moderna. Questo però non significa che siano meno complesse: una società tribale può avere una struttura estremamente complessa e ricca, ma tale complessità non coincide con una altrettanto sviluppata differenziazione funzionale. Se pensiamo, ad esempio, al Medioevo cristiano, possiamo trovare un buon esempio di progressiva differenziazione funzionale nella lotta per le investiture, che ha contrapposto per secoli papato e impero. Si tratta di una lotta attraverso cui il potere politico tende a differenziarsi funzionalmente da quello religioso, acquistando una propria autonomia e una propria funzione. Non che una società teocratica sia meno complessa di una secolarizzata: il fatto è che, nella prima, la funzione politica non è ancora diventata pienamente autonoma. Il sistema di interscambio diventa così sempre più differenziato: ogni singolo sottosistema riproduce al suo interno le quattro funzioni, dividendosi a sua volta in quattro sottosistemi ognuno dei quali sarà sottoposto allo stesso processo, che prosegue fino ad arrivare a strutture sociali estremamente articolate. Il motore del processo di differenziazione giace – per Parsons non potrebbe essere altrimenti – nella struttura degli ordinamenti normativi, nel sistema dei valori e delle credenze. Infatti, come abbiamo visto, gli ordinamenti normativi rappresentano il cuore del sistema d’azione, la sua ragione profonda, e il cambiamento è, in primo luogo, cambiamento delle credenze. Nel Sistema sociale, Parsons aveva scritto che «la condizione fondamentale di stabilità di un sistema di interazione è che questo sia vincolato, nell’interesse dei soggetti agenti, a conformarsi a un sistema condiviso di criteri di orientamento di valore» (Parsons 1996, p. 44). L’idea fondamentale di Parsons è che la caratteristica tipica della società moderna è il suo individualismo, il sistema di credenze su cui essa si basa. L’evoluzione del mondo occidentale, e della sua specifica cultura, avrà perciò a che vedere con il progressivo diventare autonomo di un sistema di valori incentrato sull’individuo e su una struttura sociale che faccia della «religione dell’individuo» la sua base normativa. La modernità si dà quando esiste una società come sottosistema autonomo – indipendente dalla religione e dalla politica, cioè dalla Chiesa e dallo Stato – e quando questa società si basa sulla «fede» nell’individuo. Il destino della società – intesa dalla storia. Il primo funge anche da modello per i secondi, così che è possibile porsi la domanda: esiste un sistema d’azione concreto migliore degli altri? Lo schema evolutivo parsonsiano implica l’idea che si vada verso una progressiva realizzazione del modello teorico, di un sistema d’azione perfettamente funzionante e desiderabile? Poiché, come abbiamo visto, Parsons pensa che la società moderna è la più differenziata funzionalmente, quella più in grado di prendere risorse dall’ambiente per realizzare i propri fini, la più democratica e la più universalista e dal momento che, sempre secondo Parsons, gli Stati Uniti sono il punto di arrivo più alto della modernità e quindi dell’evoluzione sociale, la risposta può essere tranquillamente lasciata al lettore. 2.3. Ulteriori sviluppi Lo struttural-funzionalismo è stato il modello dominante della sociologia americana per circa trent’anni. Non è però una corrente compatta e monolitica: molti allievi di Parsons sviluppano propri specifici percorsi di ricerca, a volte allontanandosi anche parecchio dal maestro. In particolare, va ricordata l’opera di Robert K. Merton (1910-2003) che, dopo aver lavorato con Parsons a Harvard, insegna presso la Columbia University di New York. Già nella fase di collaborazione con Parsons egli mostra una radicale diffidenza verso il modello della grande teoria: secondo lui, la sociologia non è ancora pronta per intraprendere la formulazione di un modello generale della società, ma deve piuttosto concentrarsi sullo sviluppo di teorie di medio raggio, le cui ipotesi, dalla portata più circoscritta, possono essere più facilmente verificate. Solo in futuro, dopo l’accumulo di saperi più circoscritti ma validati empiricamente, sarà forse possibile costruire ciò che al momento è del tutto prematuro. Inoltre, egli distingue tra funzioni manifeste e funzioni latenti: ad esempio, un rituale come la danza della pioggia ha una funzione manifesta – quella di ottenere l’effetto meteorologico sperato – e una latente – quella di rafforzare l’identità di gruppo attraverso la partecipazione a un rito collettivo. Infine, Merton sviluppa un’interessante teoria della devianza, secondo la quale il comportamento deviante, piuttosto che essere espressione di povertà e disadattamento, è il prodotto della tensione tra sistema sociale e sistema culturale: quando il sistema culturale propone una serie di valori e il sistema sociale non consente di realizzarli, si può creare una tensione tale da spingere il soggetto a usare anche mezzi illeciti per realizzare le sue mete. Tutte queste e altre importanti idee sono contenute nel suo libro più importante, Teoria e struttura sociale, pubblicato nel 1968, dopo una prima edizione che risale al 1949. Il funzionalismo viene portato alle sue estreme conseguenze dal sociologo tedesco Niklas Luhmann (1927-1998). Egli rovescia l’approccio parsonsiano: la sua teoria non è struttural-funzionalista, ma funzional- strutturalista. Non è un gioco di parole: per Luhmann, la domanda chiave non è quali funzioni debbano essere messe in atto perché una struttura sociale duri nel tempo, bensì quella, più radicale, quali strutture sociali si producano attraverso la messa in atto di specifiche funzioni. La dimensione dinamica – la funzione – prende il sopravvento su quella statica – la struttura. Nel suo testo più importante – Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, del 1984 –, Luhmann sviluppa una teoria estremamente astratta e generalizzata dei sistemi sociali. Un sistema sociale è un sistema di comunicazioni e di scambio tra sottosistemi differenziati che opera in un ambiente (a sua volta parte del mondo, inteso come l’insieme di alternative rilevanti e non rilevanti per un sistema). Un sistema è definito dalla sua autoreferenzialità, cioè dalla sua capacità di riferirsi a se stesso come entità separata da un ambiente. Per Luhmann, non esiste un ambiente inteso come realtà autonoma dentro il quale ci sono sistemi: l’ambiente è sempre e solo ciò che è esterno a un sistema. Senza sistema non esiste nessun ambiente: l’ambiente è sempre e solo l’ambiente di un sistema. Questo perché, banalmente, l’ambiente non è capace di autoreferenzialità (se lo fosse sarebbe un sistema): «il concetto di ambiente viene definito in relazione al sistema; ogni sistema possiede un ambiente particolare, almeno in quanto esso non trova se stesso nel suo ambiente. Gli ambienti di sistemi diversi non possono perciò essere identici» (Luhmann 1991, p. 26). Il sistema, definendo in modo autoreferenziale i propri confini, articola la distinzione fondamentale tra interno ed esterno, tra sistema e ambiente. L’autoreferenzialità del sistema viene operativizzata nella funzione fondamentale di riduzione della complessità: essa è quell’operazione con cui il sistema si costituisce optando tra alternative presenti nell’ambiente. Selezionando le alternative, riducendo cioè la complessità del suo rapporto con l’esterno, il sistema produce complessità interna: abbiamo così produzione di complessità attraverso riduzione di complessità. La teoria tenta così «di comprendere processi di selettività condizionata che fanno capire come sistemi complessi possano formarsi a partire da condizioni meno complesse di essi stessi» (ivi, p. 25). I sistemi sociali sono perciò il risultato autoreferenziale di un processo continuo di differenziazione funzionale, il modo con cui gestiscono la complessità che si produce al loro interno. Si tratta di una differenziazione che avviene attraverso un processo di autonomizzazione: quando dentro un sistema una sua parte diventa autoreferenziale – il meccanismo fondamentale è sempre lo stesso – essa si autonomizza dall’insieme, che considera ora come suo ambiente. Le strutture del sistema sono così il prodotto, sempre instabile e sottoposto al cambiamento, di un continuo processo di adattamento funzionale tra sistema e ambiente.
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