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Posizioni Sociali e Norme Comportamentali: Lavoro, Disoccupazione e Flessibilità, Sintesi del corso di Sociologia Del Lavoro

La relazione tra le posizioni sociali e le norme comportamentali, con un focus sul lavoro come occupazione, la disoccupazione e la flessibilità del mercato del lavoro. della tendenza storica all'aumento dell'offerta di lavoro femminile, la degradazione del lavoro operaio e impiegatizio, e la crescente diffusione di lavori atipici come quelli intermittenti e a chiamata. Vengono anche analizzate le implicazioni di queste tendenze per diverse categorie di lavoratori, come gli immigrati e le donne.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 05/11/2021

francescapisani
francescapisani 🇮🇹

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Scarica Posizioni Sociali e Norme Comportamentali: Lavoro, Disoccupazione e Flessibilità e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Del Lavoro solo su Docsity! Sociologia del lavoro Introduzione Anna Arent fu una filosofa della prima metà del ‘900 che parlò del totalitarismo in relazione al lavoro. Scrisse Human Condition. Il lavoro è un elemento fondamentale per capire i fenomeni sociali. È strutturante per la nostra identità. Il valore del lavoro è unico ed ha permesso l’integrazione dell’uomo nella società. L'approccio dello studio è quello sociologico: la sociologia è una scienza che studia le diverse forme di vita umana associata e il suo ambito di interesse è molto vasto. L'insegnamento fondamentale è “quanto consideriamo naturale, inevitabile, buono o vero può anche non essere tale e le caratteristiche date dalla nostra esistenza sono fortemente influenzate da fatti storici e sociali”. Il lavoro del sociologo dipende dall’immaginazione sociologica, ovvero la capacità di riflettere su se stessi liberi dalle abitudini familiari della vita quotidiana, al fine di guardare la realtà con occhi diversi. Il sociologo, dunque, è colui che riesce a liberarsi dai condizionamenti della situazione personale collocando le cose in un contesto più vasto. Le varie teorie dell’integrazione sociale elaborate dalla fine dell ‘800 cercano di rispondere alla domanda “com'è possibile la società?” Nella sociologia del lavoro, l’obiettivo è di rispondere partendo dalla centralità del ruolo del lavoro e delle modalità produttive nella società moderna. La sociologia del lavoro e delle organizzazioni studia le dinamiche comportamentali delle persone nel contesto lavorativo e nello svolgimento delle loro attività professionali in rapporto alle relazioni interpersonali, ai compiti da svolgere, alle regole e al funzionamento dell’organizzazione. Il lavoro viene definita come un'attività sociale complessa perché è difficile identificare in cosa consiste. È un rapporto sociale, una situazione grave alla quale i soggetti entrano in relazione reciproca che può essere gerarchica o coordinata come nei rapporti con i colleghi (Simmel). Sono presenti diverse definizioni del termine lavoro tra cui: 1. Il lavoro indica un'attività dell'uomo in grado di produrre un certo utile per se stesso o per altri uomini. Il lavoro costituisce un bene economico in quanto esiste l'equivalente in denaro di ogni lavoro effettuato. Il lavoro soddisfa un bisogno di se stessi o di un'altra persona (tuttavia, vi sono alcune attività che comportano un guadagno ma che non vengono considerate lavoro, quali ad esempio: la locazione di un immobile, vincere al gioco, etc., a meno che le medesime attività non siano svolte da un professionista). 2. Il lavoro viene ad essere, nelle definizioni più ricorrenti, un'attività cosciente diretta a conseguire un bene economico. Non è, dunque, sufficiente lo svolgimento di una qualsiasi attività per parlare di lavoro; occorre, invece, che l’attività sia produttiva di un utile, di un bene, che sia cioè economica (per bene economico bisogna intendere qualcosa idoneo a soddisfare un bisogno e che sia, d’altra parte, disponibile in quantità limitate). Con il termine lavoro, si intende designare l’attività umana a tutti i livelli: il lavoro manuale e quello intellettuale, l’attività direttiva, quella commerciale, imprenditoriale, ecc. 3. Il lavoro è considerato come un insieme di attività praticate all’interno di contesti organizzati socialmente e culturalmente. Nella nostra società molto spesso la domanda chi sei si traduce in che lavoro fai, in questo modo il lavoro diviene un forte indicatore per rendere la persona «socialmente riconoscibile» nell'interazione (Depolo - Sarchielli, 1987). Pertanto, l’avere o il non avere un'attività lavorativa diviene un mezzo per categorizzare le persone, per assegnare loro un posto (e un significato) nel nostro ambiente psico-sociale. Il lavoro offre un’identità sociale, per questo la disoccupazione è un disagio individuale perché è come se il disoccupato non trovasse posto nel mondo. Qual è la valutazione sociale del lavoro? 1. Lavoro come fatica (subordinazione sociale ed eteronomia) 2. Lavoro come affermazione delle proprie capacità (autorealizzazione) 3. Liberazione dal lavoro o nel lavoro Anche nel lavoro sussistono dei benefici. Essi furono studiati da Warr nel 1982, il quale individuò i benefici che derivano alle persone dall’avere un lavoro: denaro, attività, varietà, organizzazione del proprio tempo, contatti sociali, posizione sociale ed identità nella società. Il lavoro permette alle persone di mettere in pratica le proprie conoscenze, di sviluppare capacità ed abilità; rappresenta una fonte di varietà e svolge un ruolo importante nell’organizzazione del tempo. Fino a 50-60 anni fa il lavoro occupava il 25-30% della vita di una persona, attualmente poco più del 10%, in quanto la scuola si protrae per un periodo più lungo, l'orario di lavoro più corto, vi sono più giomi di ferie. Il lavoro ha un importantissimo valore nella costruzione dell'identità. La rappresentazione di sé tende a costruirsi progressivamente in quanto il lavoro mette in contatto l’individuo con altre persone, e le valutazioni che provengono dagli altri sono una fonte importante di informazione su se stessi. Inoltre, il lavoro permette a ognuno di auto-valutarsi direttamente sulla base dei risultati conseguiti e degli obiettivi raggiunti. Quindi si può anche dire che il valore del lavoro sia: senso di utilità sociale, strumento di autorealizzazione, identità sociale e personalità, sentimento di appartenenza alla società, etica del lavoro (comportamento adeguato da mantenere sul lavoro. Il lavoro svolge per l’individuo una pluralità di funzioni come: i legami sociali tra individuo e società; luogo di apprendimento della vita sociale; luogo di socializzazione: processo attraverso il quale gli individui apprendono le regole della società e ne diventano membri; luogo di costruzione delle identità; luogo d’interazione e scambio; legame sociale; costruzione del sistema degli status (statico): posizione sociale cui sono connesse norme comportamentali, è il grado di prestigio, l'onore, il rispetto, la deferenza, attribuito ad una posizione sociale o a chi la occupa, è l'aspetto allocativo di una posizione sociale; e dei ruoli all’interno di un dato assetto sociale (dinamico): norme e aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in un sistema sociale; strumento per la sussistenza Lavoro come occupazione: il lavoro inteso come occupazione è indipendente dal contenuto sostanziale dell’attività ed è definito dal quadro formale in cui si colloca: il luogo di lavoro, l’orario di lavoro, la specializzazione del lavoratore, il contratto. In questo senso, si parla di lavoro astratto, perché prescinde dall’utilità immediata e concreta dell'attività lavorativa rispetto ai bisogni del lavoratore; il lavoro è reso astratto dall’intermediazione del salario che spezza il legame diretto di senso tra le attività in termini di rapporto tra mezzi e fini. La divisione sociale del lavoro: l'integrazione sociale è fondata primariamente su processi di interdipendenza. Fra questi processi il più importante è stato la divisione del lavoro ovvero la parcellizzazione di un lavoro totalizzante in tante occupazioni diverse. Siamo passati dall'home faber (faceva tutto) al lavoratore salariato (svolge solo una funzione). comunitarie di produzione. Si sono inoltre diffuse forme di economia comunitaria: non si produce per vendere sul mercato ma per soddisfare le esigenze del gruppo sociale di appartenenza e si seguono principalmente le regole dettate dalla solidarietà affettiva. La causa di questo fenomeno si trova nel crescente squilibrio tra la forte dinamica della produttività del lavoro nella produzione di beni, servizi e la stagnazione che caratterizza la produzione di altri servizi alla persona, che diventano sempre più costosi. L'occupazione è ricondotta a quella di mercato ma anche questa procede verso una formalizzazione, cioè all'affermazione del posto di lavoro standard. Il lavoro precario, occasionale sta piano piano ricomparendo. Sottoccupazione: caratterizzata da coloro che sarebbero disposti a lavorare più intensamente ed è alla ricerca di un lavoro più impegnativo. È come se esistesse un’area grigia delineata dal grado di volontarietà di una partecipazione ridotta al lavoro. Quest'area si amplierà se si ritiene che quasi tutto l’universo dei lavoratori occupati sia percorso da insoddisfazione. Bisogna distinguere tra occupati-soddisfatti e disoccupati-insoddisfatti. Il fenomeno della sottoccupazione, definita in termini dinamici per il continuo passaggio delle persone tra occupazione-disoccupazione e inattività, è molto importante in Italia in quanto si trovano in questa condizione molti giovani e donne. Ci sono allo stesso modo persone che si trovano a cavallo tra occupazione e disoccupazione come, per esempio, chi è alla ricerca di un lavoro stabile e nel mentre svolge lavori precari. Sussiste anche una situazione ancor più ambigua: la cassa integrazione. Sul piano giuridico i cassaintegrati sono ancora occupati ma a livello comportamentale sono al pari di un inattivo o di un disoccupato. Disoccupato: esistono tre dimensioni: condizione economica (non avere occupazione); attività (ricerca occupazione salariata o lavoro indipendente); attitudine (accettare un lavoro alle condizioni esistenti); condizione amministrativa (registrato negli uffici di pubblico impiego e ricevere disoccupazione o altro). Molte persone in cerca di lavoro sono giovani o donne che vivono in famiglie con altri redditi e non sono disponibili ad accettare qualunque lavoro. Per i maschi adulti l’alternativa è solo tra occupato o disoccupato a differenza di quello che avviene a giovani (studenti), anziani (lasciano il lavoro) e donne (casalinghe). Essi quando non hanno un'occupazione, non hanno lavorato nemmeno un'ora nella settimana di riferimento e non hanno cercato attivamente lavoro vengono identificati come inattivi. Cercare un lavoro è un'attività costosa in termini di tempo e di impegno psicologico. Quindi per le persone che non hanno un bisogno assoluto di lavorare, la ricerca può arrivare a cessare del tutto. Questa è la figura dello scoraggiato che è disponibile a lavorare, ma non cerca un lavoro perché crede di non riuscire a trovarlo. A questo scoraggiamento se ne può aggiungere un altro che riguarda alcune donne adulte che non cerca lavoro se non riescono a rendere compatibili gli impegni lavorativi con quelli familiari. Esistono poi le persone forzatamente inattive che sono i carcerati. Il comportamento di ricerca può essere molto attivo ma molto condizionato dal tipo di lavoro cercato o dalle sue modalità (giovane istruito che non vuole entrare stabilmente nel mercato di lavoro dequalificato). Infine, esiste una zona grigia tra occupazione e inattività (casalinga), e il caso di chi svolge attività saltuarie nell'azienda familiare o chi svolge lavori occasionali o part time. Dai concetti alle rilevazioni statistiche Lo strumento per raccogliere informazioni è l'indagine sulle forze lavoro. In questa indagine, lo schema per classificare la posizione di ogni persona è monovalente e gerarchico: gli stati di occupato, disoccupato e inattivo si escludono reciprocamente e sono posti in scala. Il campione di famiglie intervistate è tratto dalle anagrafi comunali. È solo dal 2005 che l’Istat rende nota l'informazione sulla cittadinanza e sul paese natale per poter analizzare l'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano. Secondo l'indagine del 2004 la classificazione della popolazione italiana è la seguente: 1. Occupati: persone che hanno svolto almeno un'ora di lavoro retribuito nella settimana precedente l'intervista 2. Persone in cerca di occupazione: non occupati con almeno un'azione di ricerca svolta negli ultimi 30 giorni e disponibili a lavorare nella settimana successiva e sono suddivisi in: disoccupati e in cerca di una prima occupazione. Gli occupati e chi è in cerca di una prima occupazione fa parte delle forze di lavoro o popolazione attiva ovvero l’offerta di lavoro. Gli occupati sono la domanda di lavoro. 3. Non forze di lavoro o popolazione non attiva: sono sia la popolazione in età non attiva (sotto i 15 anni e sopra i 65), sia la popolazione non attiva benchè in età attiva (studenti, casalinghe, inabili dai 15 ai 64 anni), sia la forza di lavoro potenziale (non ricerca lavoro ma sarebbe disponibile) Dal 1963, in Italia, si è deciso di non conteggiare tra i disoccupati, a differenza di altri paesi, coloro che non hanno svolto un’azione di ricerca di lavoro negli ultimi 30 giorni. Perciò, dal 2006 sono state individuate anche le persone che sono immediatamente disponibili a lavorare, ma non hanno fatto un’azione di ricerca negli ultimi 30 giorni (35-40% dei disoccupati). Esiste anche il censimento della popolazione in cui sono coinvolte tutte le famiglie ed è l’unico strumento per compiere un'analisi dei mercati del lavoro a livello locale ed è condotto ogni 10 anni. Con il censimento si possono rilevare notevoli divari tra disoccupati ed occupati in quanto manca un intervistatore (occupati precari posti tra disoccupati). Invece, con i dati sugli avviamenti al lavoro si possono ricostruire le dinamiche delle assunzioni per caratteristiche sia dei posti di lavoro, sia del lavoratore. Inoltre, con le comunicazioni che le imprese devono fare ai centri per l’impiego quando assumono un lavoratore, si possono costruire archivi in grado di seguire la carriera occupazionale dei lavoratori con un rapporto dipendente o di collaborazione. Si può ricostruire la storia lavorativa degli occupati nel settore privato tramite l'Inps. La rappresentazione del mercato del lavoro Occupazione, disoccupazione e popolazione inattiva sono stock, ovvero le quantità misurate in un dato istante, cui gli intervistati devono riferire la propria posizione. Sono rese pubbliche medie mensili, trimestrali ed annue. Per rappresentare al meglio il mercato del lavoro occorre vederlo come una serie di bacini, collegati tra loro da canali. Quindi gli stock sono collegati tra loro da flussi che vanno in entrambe le direzioni. Le variazioni di uno stock dipendono da come variano gli altri stock. Il volume della disoccupazione aumenta o diminuisce in base a: se la somma dei licenziati, dimessi volontari, donne o giovani in cerca di lavoro sia superiore o inferiore alla somma di chi trova lavoro, rinuncia alla ricerca o va in pensione. Le variazioni dell'occupazione sono date dal saldo tra i posti di lavoro distrutti e creati. Il flusso principale verso l'occupazione proviene da chi l’anno prima di trovava tra le non forze di lavoro. Quindi non tutta l'occupazione è stabile (e la disoccupazione non è cronica), così come il concetto di disoccupazione/sottoccupazione è molto più ampio in quanto vi sono persone occupate discontinuamente e altre momentaneamente inattive. Per analizzare la struttura e l'evoluzione del mercato del lavoro si utilizzano degli indicatori: 1. Tasso di inattività: dato dal rapporto percentuale tra le forze lavoro e popolazione in età attiva. Misura il grado di partecipazione al mercato del lavoro di una popolazione. | tassi di attività specifici possono essere costruiti per genere, classi di età e livelli di istruzione 2. Tasso di disoccupazione: dato dal rapporto percentuale tra persone in cerca di occupazione e forze di lavoro, indica quanti non trovano lavoro su ogni 100 che lo cercano 3. Tasso di mancata partecipazione al lavoro: pari al rapporto percentuale con al numeratore i disoccupati e gli inattivi disponibili e al denominatore la somma di questi e gli occupati 4. Tasso di occupazione: dato dal rapporto percentuale tra occupati e popolazione in età attiva, è un indicatore del livello della domanda di lavoro. Può essere calcolato per specifici gruppi CAPITOLO DUE Una tendenza storica non soltanto italiana Uno dei maggiori cambiamenti del mercato del lavoro nei paesi europei, è stata l'aumento dell’offerta di lavoro femminile. La ripresa dei tassi di attività femminili decolla negli anni ’70, ma l’Italia, nonostante il forte aumento, rimane il paese con la più bassa partecipazione femminile al lavoro. La fascia ad alta partecipazione si trova in Europa settentrionale, mentre la fascia medio-superiore/inferiore si trova nell'Europa centrale. Tra i vari paesi, le differenze nei tassi di attività femminili dipendono da quelli delle donne adulte sposate e/o con figli. Per studiare la partecipazione al lavoro delle donne, viene utilizzato lo strumento delle curve dei tassi di attività per età. Nell’Europa centro-settentrionale, la curva presentava un andamento bimodale in cui la partecipazione femminile era discontinua, perché legata al ciclo di vita familiare; nei paese dell’ Europa meridionale, la curva assume una forma ad L rovesciata in quanto la presenza femminile risultava limitata all’età più giovane; si afferma poi un nuovo modello in cui la curva assume una forma a campana con un tetto molto lungo dai 25 ai 45-50 anni e comincia poi a declinare (le donne continuano a lavorare anche se hanno figli). Tuttavia, per valutare meglio le trasformazioni in atto bisognerebbe considerare le diverse coorti di età e vedere l'andamento della partecipazione al lavoro lungo le fasi della loro vita. L'Italia ha assunto un modello a campana ma i tassi di attività tra i 15 ai 24 anni è diminuito a causa della maggiore scolarizzazione, gli incrementi si nota dai 30-40-50 fino ai 64 anni. Possiamo però notare una grande differenza tra la curva italiana e quella dell'Europa occidentale a causa della scarsa partecipazione delle donne meridionali. La ripresa della presenza femminile nel mercato del lavoro italiano iniziò a metà degli anni ’70. In passato le donne adulte lavorano nelle imprese familiari, ad oggi, invece, possiamo notare un crescente accesso di attività lavorative extrafamiliari dato da preferenze per il lavoro in base al livello di istruzione, disponibilità di reddito, norme sociali, ruolo della donna nella società, aspetti istituzionali, regime del welfare state, part time... La questione del part time Molto diversa può essere la posizione che le occupazioni a tempo parziale assumono nei mercati del lavoro nazionali. Il lavoro part time può essere sia a tempo indeterminato che determinato. La quota delle lavoratrici part time assunte a tempo determinato è superiore solo del 2-4% a quella delle occupate a tempo pieno. Maggiore è la precarietà di fatto, perché le part timer hanno periodi di lavoro più brevi e maggiori probabilità di smettere di lavorare delle lavoratrici occupate a tempo pieno. È difficile stabilire se ciò derivi dalla natura del rapporto o dal minore attaccamento al lavoro delle occupate part time. Sono, invece, maggiori le differenze tra i paesi europei per quanto riguarda lo status giuridico e contrattuale. Per esempio, a differenza della Germania, in Italia le part timer hanno le stesse tutele giuridiche e contrattuali delle full timer. La qualità del lavoro part time dipende poi dalla connessione con orari socialmente disagiati e dipende anche da come sono regolate la possibilità dell'azienda di chiedere straordinari e/o variazioni nella distribuzione dell'orario di lavoro e quella della lavoratrice di passare a un rapporto a tempo pieno. Infatti, la possibilità di poter conciliare lavoro e vita familiare dipende dall’organizzazione delle minori ore lavorative. Infine, le qualità dei lavori a tempo parziale dipendono dallo scopo per cui sono stati organizzati (per far lavorare chi altrimenti sarebbe rimasto a casa o per assicurarsi basso costo e alta flessibilità). Fra trasso di occupazione femminile e quota part time vi è una relazione discreta. A conferma di questa ipotesi si può osservare che nei paesi dell'Europa occidentale dei primi anni ’90 è andata crescendo una relazione negativa tra quota di part time e tasso di disoccupazione femminile. un'indagine Istat, il 18% delle madri occupate all’inizio della gravidanza non risulta al lavoro a 18- 21 mesi della nascita del figlio. Tra i demografi sembra prevalere l'ipotesi che la caduta della natalità sia per lo più l’effetto della diffusione di nuovi valori così come la ricerca di un lavoro da parte delle donne. Il familismo porta a ridurre il numero di figli perché frena le nascite fuori dal matrimonio, provoca una ritardata uscita dei giovani dalla famiglia di origine e una più elevata età del matrimonio. Inoltre, il regime welfare, fondato sulla coesione della famiglia, riduce la propensione a fare figli perché carica la famiglia di troppi compiti e porta le donne ad avere meno occasioni di lavoro. Bisognerebbe aumentare l'occupazione delle donne senza ridurre la natalità e per fare questo bisognerebbe mutare il sistema di welfare e l’organizzazione del lavoro e l’organizzazione del lavoro. Esiste una forte relazione positiva tra tasso di occupazione delle donne di 30-34 anni e il livello delle politiche dirette a conciliare lavoro e famiglia (servizi per i figli piccoli, trattamento matemità e flessibilità dell'orario di lavoro). L'istruzione tra investimento ed emancipazione In Italia la crescita dell'istruzione superiore è stata maggiore tra le giovani donne. Con il succedersi delle generazioni il sorpasso ha investito progressivamente le classi di età più avanzate e si è ampliato. Il tasso di attività femminile cresce al crescere dei livelli di istruzione. Tra le donne le percentuali di casalinghe si riduce all'aumentare del livello di istruzione. Per le donne più istruite fin dai primi anni ’90 si era affermato il modello di partecipazione a campana, che prevede una maggior presenza sul mercato del lavoro anche nella fase di matrimonio e nascita dei figli. Anche l'aumento del tasso di attività delle 40enni e 50enni ha assunto una forma a campana così come per le donne con licenza media. Il modello di partecipazione ininterrotta al lavoro si è esteso dalle laureate sino alle donne con la licenza media. Circa i 2/3 dell'aumento della forza lavoro femminile si devono attribuire all'incremento dei livelli di istruzione poiché è cresciuto il peso relativo nella popolazione femminile delle laureate e delle diplomate. Un cambiamento culturale negli orientamenti verso il lavoro è presente solo per le coorti di donne nate dopo la fine degli anni ’70. Le differenze tra tasso di attività delle diplomate/laureate sono diminuite, mentre sono aumentate quelle tra le più e le meno istruite. Si è invertita la tendenza alla riduzione delle differenze nella partecipazione al lavoro per livello di istruzione. Due questioni: 1. Perché le donne più istruite sono anche più attive? 2. Perché la scolarità femminile è cresciuta più di quella maschile? Il diverso comportamento delle donne si spiega con la teoria del capitale umano: la maggiore scolarità spingerebbe le giovani donne a cercare un’occupazione perché l'istruzione viene vista come un investimento costoso Alla scuola può essere attribuita una funzione emancipatrice dalla condizione di casalinga. Secondo un approccio più sociologico, le giovani donne trovano nella scuola nuovi valori e nuovi modelli di riferimento e non sopportano più l’idea di passare dalla sudditanza verso i genitori a quella verso il marito. Esistono, quindi, due punti di vista diversi ma convergenti: quello della famiglia che vuole essere ripagata dall’investimento facendo studiare la figlia e quello della figlia che vuole essere autonoma. Le differenze si trovano con le donne sposate e con figli: proseguire il lavoro in età adulta per le istruite è possibile probabilmente per la più alta retribuzione e la possibilità di ricevere aiuto extrafamiliare. Ma quando devono decidere se rimanere al lavoro entra in gioco anche l'approccio sociologico. Il settore pubblico (assunte donne istruite) permette di far conciliare attività lavorativa e familiare. Perché le donne sono più istruite? Probabilmente per l'intenzione di rimanere maggiormente nel mercato del lavoro e per rendersi autonome dalla famiglia di origine e futura. Si può anche dire che la forte crescita della scolarità delle donne è un fenomeno dovuto al fatto che spesso sono figlie uniche (elevato tenore familiare) e all’aspirazione alla mobilità sociale che prima si realizzava con il matrimonio per le donne mentre quella occupazionale era degli uomini. Ad oggi però si cercano di evitare squilibri di istruzione in seno alla coppia. Ma con lo sviluppo del terziario è possibile per le giovani donne trovare occupazioni più qualificate. Quindi anche le figlie hanno una prospettiva di mobilità sociale data dall’istruzione. La femminilizzazione della domanda di lavoro Alla fine degli anni ’70 il ricorso alla forza lavoro femminile venne visto come un modo di aggirare la rigidità di quella maschile adulta e quindi di ridurre il costo del lavoro. Nacque lo stereotipo della forza lavoro femminile debole e marginale (scarso attaccamento al lavoro, impegno discontinuo), ma la partecipazione diventa sempre più stabile. L'occupazione femminile si inserisce in quelli in crescita e tra i nuovi occupati le donne sono più istruite. L'aumento dell'occupazione delle donne si concentra nel terziario così come la presenza delle donne nel settore industriale sempre più terziarizzato. Fattori di offerta e di domanda si sono combinati nel favorire la presenza delle donne nel mercato del lavoro. La domanda si è femminilizzata. I rami del terziario più femminilizzati sono istruzione, sanità, servizi sociali e servizi domestici alla persona. La domanda terziaria è prevalentemente rivolta alle donne perché sono la professionalizzazione di attività che venivano svolte in famiglia. In diverse culture e in tempi diversi le donne hanno svolto ruoli lavorativi che comportano differenti attitudini e questo incide sulla costruzione sociale delle occupazioni femminili. Le donne sono anche ricercate per attività di vendita, che implichino relazioni personali, lavori che richiedono diverse abilità (pazienza, adattabilità...) si fa ricorso allo stereotipo sulle caratteristiche psicologiche delle donne. Gli stereotipi di genere guidano le scelte educative delle ragazze che si concentrano nei percorsi umanistici, amministrativi... ma con il tempo le scelte delle ragazze hanno cominciato a differenziarsi (meno nel sud). La tradizionale discriminazione di genere nelle assunzioni si fondava sul rischio di una maggiore frequenza e imprevedibilità delle assenze e di una minore continuità nel lavoro. L'aumento dell'occupazione femminile significa che imprenditore e risorse umane abbiano mutato orientamento? Si. Alla crescita dell'occupazione femminile ha dato un contributo l'espansione dei settori in cui operano meccanismi di selezione all'ingresso formalizzati e indifferenti agli attributi di genere come il pubblico impego, molto importante nel sud. Nel pubblico impego si accede tramite concorso per titoli ed esami e la presenza delle donne è quasi il 56% del totale. Alle particolari condizioni di lavoro nel pubblico impiego va attribuito un ruolo importante nel consentire alle donne con figli di conservare la propria occupazione: il tempo pieno è un orario ridotto a 36 ore (spesso in mattinata); esistono i congedi per la cura dei figli. Nei servizi pubblici un orario abbreviato sostituite parzialmente il part time per favorire la partecipazione femminile al lavoro. Ma solo una minoranza di donne ha trovato lavoro nel pubblico impiego. È possibile che nel terziario privato vi sia una distribuzione più favorevole alle donne e un contesto lavorativo più tollerante. Ma le donne sono sempre meno coadiuvanti in imprese familiari e molte di più sono libere professioniste e collaboratrici che devono fare un maggior investimento personale e di tempo nel loro lavoro. L'equilibrio della doppia presenza si regge sulla minore natalità e sul ricorso ad aiuti. Più occupate ma più segregate? L'espansione dell'occupazione femminile è avvenuta per di più grazie alla crescente domanda per attività considerate femminili mentre alcune professioni importanti, si sono femminilizzate lungo questo processo. Si può quindi parlare di segregazione in cui la concentrazione di donne si ha solo in certi settori. Esistono due tipi di segregazione: Orizzontale: misura la concentrazione in settori che sono soltanto differenti Questa è quella che si considera nei confronti del tempo e tra paesi diversi. Una minore segregazione è considerata positiva per la condizione femminile. Per misurare questo tipo di segregazione bisogna costruire l'indice di dissomiglianza, il cui valore rappresenta la porzione di donne che dovrebbe cambiare settore affinchè vi sia un’uguale presenza di donne in ogni settore. È stato rilevato che la maggior segregazione si ha nei paesi in cui l'occupazione femminile risulta maggiore. Questo trade off tra occupazione e segregazione era spiegato con le caratteristiche dell'aumento dell'occupazione (esternalizzazione attività prima svolte in famiglia e diffusione part time). Ora sembra che sia tutto cambiato e che la segregazione sia maggiore dove c'è meno occupazione femminile. L'Italia, invece, è il paese europeo con la minor quota di occupazione femminile e presenta un livello di segregazione tra i più alti. Questa forte segregazione è confermata dal sex typing caratterizzazione di genere delle occupazioni. Verticale: conceme la posizione di uomini e donne nei livelli gerarchici di una professione ed implica un giudizio sugli eventuali squilibri. Nell’Europa occidentale il modello è chiaro, in quanto le donne: non sono sovrarappresentate tra impiegati esecutivi, addetti ai servizi... e sono sottorappresentate in tutte le attività manuali legate alla produzione industriale e nel lavoro direttivo. Le disuguaglianze che investono le donne si trovano nell’area del lavoro non manuale e terziario In Italia le distanze tra lavoratori maschi e femmine prima sono scomparse e poi si sono rovesciate. Per valutare la segregazione verticale cui sono soggette le donne bisogna sia comparare la distribuzione dei livelli professionali per genere, sia tener conto dei diversi livelli di istruzione. In Italia la percentuale di donne con ruoli manageriali o di supervisione è poco meno della metà di quella dei maschi. Alcune indagini hanno dimostrato come i progressi di carriera delle donne siano minori in quanto il loro ingresso sia stato introdotto di recente. L'esistenza di un soffitto di cristallo per le donne è stata messa in luce da alcuni studi che hanno studiato la difficoltà di carriera per il genere femminile: anche nei contesti lavorativi più flessibili, le carriere continuano a richiedere alti investimenti di tempo e di disponibilità. Qualora la donna scelga il part time, corre un rischio di emarginazione professionale poiché le imprese investono meno nella formazione del part timer. Le imprese tendono a non investire sulla carriera delle donne anche senza responsabilità familiari perché potrebbero averle in futuro. I meccanismi di progressione di carriera dipendono dalla cooptazione e dalle cerchie di relazioni sociali, le cordate (le donne hanno più difficoltà ad entrare nei clan intemi alle organizzazioni). Le donne sono le ultime venute. È possibile che si verifichi una situazione schizofrenica, per cui le organizzazioni reclutano sempre più donne ma ne bloccano la carriera all’inizio. L'Italia è uno dei paesi europei in cui le differenze tra uomini e donne a livello di retribuzione è più ridotta perché non tiene conto dell'occupazione. In differenziale retributivo di genere, gender pay gap, è basso in tutti i paesi con una bassa occupazione femminile. In Italia nel settore pubblico c'è scarsa diversità poiché c'è stata la femminilizzazione di alcuni comparti a elevata retribuzione. In Italia, le differenze di genere vanno attribuite per lo più alla discriminazione. creare occupazione si deve alle donne e ai giovani. La scarsa capacità di creare occupazione in Italia è dovuta alle fasce deboli dell'offerta di lavoro. Ciò significa che bisogna aumentare il tasso di occupazione delle donne e dei giovani. Dal 2000 l'aumento dell'occupazione dei lavoratori anziani è stato molto importante. I meno istruiti tra i 55 e i 65 anni hanno un tasso di occupazione inferiore per i lavori dequalificati, per la mancanza di basi professionali, per via della lunga carriera lavorativa che gli permette di accedere a forme di pensionamento. | più istruiti possono tardare l'uscita dal lavoro qualificato perché vi trovano motivi di gratificazione ed identità. Se cresce la percentuale di persone con elevati livelli di istruzione, il tasso di occupazione medio tra i 55 e i 65 aumenta. In Italia si è stimato che fino alla riforma Fornero del 2013 gli aumenti del tasso di occupazione dei lavoratori anziani fossero dovuti solo a nuove norme che limitavano l’acceso alle pensioni di anzianità e per un aumento spontaneo dovuto all'ingresso nella fascia di età dei 55-65 anni. La scarsa partecipazione al lavoro degli italiani da 55 a 64 anni era dovuta ad un sistema pensionistico lassista e alla grande presenza di persone poco istruite. La riforma Fornero ha fatto si che in pochissimi anni l’età effettiva di ritiro dal lavoro aumentasse. Il tasso di occupazione dei laureati italiani è superiore a quello medio europeo e lo stesso vale per i diplomati ma è ancora forte la presenza di persone poco istruite tra quelle in età da pensionamento (difficoltà nella riforma che ha abolito il riferimento alla carriera lavorativa). Il divario nel tasso di occupazione si deve quasi tutto al mezzogiorno infatti la distanza del mezzogiorno dai paesi europei che creano più occupazione è enorme. | tassi di occupazione dei giovani e delle donne sono infimi circa la metà dei livelli medi dell'Europa Occidentale. a livello internazionale risulta chiaramente che il tasso di occupazione totale è più alto nei paesi europei in cui più alta è la percentuale di persone in età lavorativa che sono occupate nei servizi. | tassi di occupazione nell'industria non variano molto da un paese all'altro mentre ciò che spiega le forti differenze nel tasso di occupazione totale è lo scarto fra i tassi di occupazione nei servizi. si tratta però di paesi molto diversi per quanto riguarda le caratteristiche del welfare. La caratteristica che accomuna questi paesi è l'alta partecipazione femminile al lavoro, le donne che lavorano fanno nascere posti di lavoro per fornire quelle attività che erano svolto in modo non retribuito in seno alle famiglie e richiedono anche servizi in altri settori. I servizi al consumatore si sviluppano quando le famiglie hanno minor tempo per auto produrli perché le donne sono occupate. L'unico settore produttivo che contribuisce in modo abbastanza significativo alle differenze nei livelli del tasso di occupazione totale è quello dei servizi finanziari per le imprese che svolgono il compito di far funzionare meglio l'industria e hanno una capacità di produrre ricchezza simile all'industria. Un caso è quello della Germania in cui era relativamente scarsa l'occupazione nei servizi tuttavia è riuscita a raggiungere i più alti livelli di occupazione totale in Europa grazie alla conservazione della tradizionale occupazione industriale e aumentando in misura cospicua il tasso di occupazione nei servizi alle imprese. La femminilizzazione di questo settore ha consentito un forte aumento dell'occupazione delle donne. L'Italia rispecchia la relazione tra livello e struttura dell'occupazione. In Italia è molto debole l'occupazione nei servizi alle imprese e soprattutto nella scuola, nella sanità e nella pubblica amministrazione. Mentre della scarsa presenza dei servizi alle imprese soffrono le attività industriali, della carenza dei servizi sanitari e scolastici soffre la qualità della vita delle famiglie. Le differenze tra regioni italiane sono impressionanti: il nord Italia segue il modello tedesco perché presenta il più alto tasso di occupazione manifatturiera. Ma sussistono anche problemi: un alto tasso di occupati nell'industria si scontra con la capacità del sistema sociale di riprodurre una sufficiente offerta di persone disponibili a fare gli operai in fabbriche di piccole dimensioni. In regioni dove le famiglie hanno redditi relativamente elevati, l'aspirazione agli stili di vita proposti dalla società dei consumi e dei mass media spinge i giovani a non accettare più di svolgere per la vita il lavoro operaio dei loro genitori. per quanto riguarda il centro Italia, la struttura dei tassi di occupazione è fortemente influenzata dalla presenza della burocrazia pubblica che lavora a Roma mentre lo scenario del Mezzogiomo appare desolante. Il tasso di occupazione industriale nel meridione non raggiunge neppure il 6% mentre il tasso di occupazione nei servizi educativi e sanitari è piuttosto simile a quello del nord è il tasso di occupazione nella pubblica amministrazione è addirittura superiore. Possiamo quindi notare che in Italia ci sono delle serie difficoltà delle politiche economiche e del lavoro in quanto vi sono due sistemi socio-economici con problemi diversissimi. Il nord è sovraindustrializzato ma sottodimensionato per i servizi alla persona nel mezzogiorno, invece, il tasso di occupazione nei servizi é basso ma il vero vuoto occupazionale si registra nell'industria manifatturiera. Dalla classe operaia “centrale” al lavoro manuale non operaio Alla terziarizzazione settoriale se ne accompagna una professionale ovvero si riduce il lavoro manuale e quello operaio. Nella riduzione del lavoro manuale assume grande rilievo il declino della classe operaia della grande industria, che ha avuto un ruolo centrale nel mercato del lavoro e nel sistema di relazioni industriali, oltre che nella ricerca sociologica e nell’ ideologia dei movimenti politici di sinistra. La grande fabbrica, secondo Marx sociologo del lavoro, aveva la funzione di sviluppare la solidarietà, necessario per lui dal conflitto e al sindacato. Ma la classe operaia della grande fabbrica compare tardi nella società italiana e presto declina. L'industrializzazione in Italia decolla il ritardo e rimane a lungo ristretta in poche aree settentrionali e cresce di più grazie alle piccole fabbriche. Dopo la guerra, la ripresa economica è segnata dal forte sviluppo delle piccole imprese, mentre le grandi crescono meno che negli altri paesi europei. Per l'Italia gli anni 70 sono quelli di maggiore sviluppo industriale. Questo è il momento di maggiore espansione della classe operaia e in particolare della sua componente centrale, quella delle fabbriche con produzione in serie (fordista) e organizzazione del lavoro parcellizzato e ripetitivo (taylorista). All'inizio degli anni 70 si verificano contemporaneamente tre picchi: il livello massimo dell'occupazione manifatturiera, al suo interno la più alta quota di lavoratori dipendenti e il massimo di occupati nei grandi complessi. Con oltre 1/3 dell'occupazione dipendente la classe operaia industriale era al culmine della sua espansione e queste condizioni spiegano nel ciclo di conflitti sindacali che esplode alla fine degli anni ‘60 e prosegue sino a metà degli anni ’70. | principali protagonisti erano gli operai delle grandi fabbriche. Tuttavia, già dal 1975 l'occupazione ma manifatturiera comincia a diminuire e la discesa prosegue sino ai giomi nostri. Ancor più rapida è la caduta dei lavoratori delle grandi fabbriche: dal 1971 al 1981 l'occupazione manifatturiera nelle imprese diminuisce del 7%; a metà degli anni ‘70 si arresta il processo di solarizzazione e per la classe operaia centrale comincia il crollo. Sia pur più lentamente, il declino prosegue negli anni ‘90: si può stimare che a fine anni ‘90 gli operai della grande fabbrica siano circa il 2% dei lavoratori dipendenti; le grandi imprese manifatturiere che sopravvivono si terziarizzano perché la presenza di operai è sempre minore, mentre cresce quella dei dirigenti, tecnici e ricercatori. La riduzione del lavoro diretto di trasformazione dei materiali a favore di quello indiretto investe le grandi imprese mentre quelle di minori dimensioni non hanno bisogno di questi servizi. La quota di lavoro manuale diminuisce ininterrottamente nell’ industria manifatturiera e nelle costruzioni, ma nei servizi dal 2004 sia una ripresa dei lavoratori manuali. La storica discesa dalla quota di lavoratori manuali sul totale dell'occupazione dipendente rallenta, il processo di terziarizzazione settoriale se da un lato contribuisce in misura determinante alla forte crescita del lavoro non manuale dall'altro crea anche un cospicuo numero di lavori manuali per lo più dequalificati. Nasce una nuova figura l'operaio dei servizi: in passato si trattava di persone al servizio di una singola famiglia, mentre ora i lavoratori manuali del terziario prestano perlopiù servizi all' intera collettività. Rispetto alla condizione dell’operaio industriale poco qualificato sono ci sono differenze e somiglianze: in entrambi i casi la prestazione richiesta è molto semplice e non richiede particolari abilità, alla manualità invece non si accompagna per gli operai dei servizi uno sforzo fisico altrettanto intenso ma la capacità di resistere a condizioni di lavoro disagiate. Anche se il loro status è all'ultimo posto nella scala della valutazione delle occupazioni, i bad Jobs dei servizi richiedono delle competenze trasversali richieste professionisti (dedizione funzioni e capacità di gestire le relazioni). La mobilità del lavoro è molto alta e quasi inesistenti sono le possibilità di carriera professionale. La qualificazione del lavoro in una prospettiva comparata Karl Marx descriveva come l'operaio sia espropriato dalle potenze intellettuali della produzione e ridotto ad appendice della macchina, nella sociologia del lavoro dagli anni ’50 si è studiata la degradazione professionale del lavoro operaio, poi esteso a quello impiegatizio nelle grandi organizzazioni burocratiche. Ma a fine anni ’80, alcuni studi hanno rilevato processi di riqualificazione del lavoro operaio nelle grandi imprese industriali. Mentre economisti e sociologi delle professioni coglievano la crescita di nuovi lavori qualificati fuori dall’industria. Il contrasto tra ottimisti e pessimisti riguarda sia l'approccio microsociologico sia quello macroeconomico. Esiste una divisione internazionale del lavoro per cui nei paesi più avanzati tendono a concentrarsi le teste ad alta professionalità di più vasti e dequalificati corpi produttivi sparsi in paesi meno sviluppati. Il decentramento produttivo a livello internazionale ha fatto quasi scomparire alcune industrie mature nei paesi più avanzati, ma il recente sviluppo dell’informatica e delle telecomunicazioni ha permesso di decentrare anche servizi di livello superiore. Con la terziarizzazione dell'economia cresce il processo di innalzamento professionale dell'occupazione, perché la società della conoscenza invade il mondo del lavoro. | lavoratori che trattano informazioni sono aumentati. Gli stessi studi che hanno mostrato un upgrading dell'occupazione nei paesi dell'unione europea rivelavano che in UK crescevano anche i lavoratori occupati in mansioni poco qualificate. Le differenze tra i paesi consentono di completare il quadro dei fattori che incidono sulle tendenze nella composizione dell'occupazione: l’attuale mutamento tecnologico contribuisce a far crescere le occupazioni di più alto livello ma anche di ridurre quello di livello medio, mentre incide poco su quelle di livello più basso. Inoltre, all'attuale tendenza ha contribuito anche la disponibilità di forza lavoro, che nei paesi sviluppati si polarizza. Grazie alla maggior partecipazione delle donne, cresce la forza lavoro istruita e si riduce quella con un livello medio-basso. Cresce, però, la forza di lavoro immigrata. Le differenze nelle istituzioni che regolano il mercato del lavoro e il ventaglio retributivo possono spiegare perché la polarizzazione si sia presentata prima nei paesi anglosassoni in cui le più elevate differenze di reddito possono aver aumentato la domanda di lavoratori poco qualificati e pagati per fomire servizi ai molti ricchi. Per analizzare la struttura dell'occupazione si considera la professione dei lavoratori che viene classificata dalle indagini sulle forze lavoro. A volte si parla di professioni emergenti per la forte crescita, ma si tratta per lo più di attività che restano elitarie; più modesto è il livello di qualificazione delle occupazioni che, pur aumentando poco in termini percentuali, creano molti nuovi posti di lavoro. | paesi europei adottano una classificazione che si fonda su tre criteri: a. Settore di specializzazione b. Funzione svolta c. Livello di responsabilità o autonomia nei processi decisionali Ci troviamo di fronte ad una doppia polarizzazione, all’interno sia del lavoro manuale sia di quello non manuale, che sortisce l’effetto di rendere più difficile la mobilità ascendente di ha avuto la sventura di entrare nel gradino più basso. Raggruppando gli otto livelli in 4 grandi aree (professioni intellettuali, attività non manuali poco qualificate, quelle manuali qualificate e quello manuali non qualificate) possiamo notare che: in UK, Svezia e Olanda è altissima la proporzione delle professioni intellettuali ed è alta quella delle attività non manuali poco qualificate ma è molto bassa la percentuale delle occupazioni manuali. In Spagna ed in Portogallo sono molto alte le occupazioni manuali ma hanno poche occupazioni non manuali. Tra questi estremi abbiamo Italia e Germania che hanno % delle occupazioni manuali molto simili ma diversa è l'occupazione non manuale. In Italia prevalgono le professioni meno qualificate. La % degli occupati in attività manageriali o intellettuali è in Gran Bretagna. In Italia, abbiamo una consistente presenza della fascia più bassa delle professioni non manuali qualificate (tecnici paramedici...) ma il nostro paese si caratterizza per una discreta % di lavoratori occupati in professioni relative alle vendite e ai servizi personali e per un’altissima % di lavori manuali specializzati. Anche le percentuali di lavoratori manuali poco o non qualificati sono superiori alla media europea. Queste differenze nella struttura dell'occupazione riflettono quelle nell’organizzazione del lavoro. Tuttavia, da metà anni ’90, in Italia, le occupazioni intellettuali e tecniche sono aumentate in misura notevole ma la tendenza si è interrotta con la crisi. Le differenze nella composizione dell'occupazione per livello professionale sono in parte frutto della diversa struttura produttiva per settore economico. La bassa qualità professionale dell'occupazione italiana non si deve alla scarsa presenza di settori ad elevata intensità di lavoro intellettuale qualificato. La distribuzione commerciale non è un settore ad alta intensità di lavoro molto qualificato ma nei paesi dell'Europa centro-settentrionale si sono sviluppate forme organizzative che hanno creato occasioni di lavoro ad elevato contenuto intellettuale e tecnico. Resta grave il ritardo in Italia in cui continua a prevalere l'impresa su basi familiari, in cui il microimprenditore deve anche prestare attività di servizio ai clienti. Molto in ritardo era il settore della pubblica amministrazione che comunque, in Italia, rimane il regno delle mezzemaniche, poiché gli impiegati esecutivi e gli addetti ai servizi alla persona sfiorano il 55%. Questo, però, non indica un eccesso di burocrazia pubblica dequalificata, sono molto pochi i dirigenti, i professionisti ed i tecnici pubblici. L'occupazione nell’industria manifatturiera è ovunque a bassa intensità di professioni manageriali ed CAPITOLO 7 Il sistema delle flessibilità tra mercato interno ed esterno La crisi della grande impresa manufatturiera si accompagna a quella del modello produttivo ed organizzato cui deve il suo sviluppo: il fordismo ovvero la produzione in grande serie di beni standard, e il taylorismo, cioè la divisione del lavoro in mansioni semplici e ripetitive. Il successo di questo modello si deve ai principi delle economie di scala secondo i quali le imprese miravano a produrre volumi sempre più alti di merci identiche per ridurne il costo unitario e perché il lavoro poteva essere parcellizzato e standardizzato. L'organizzazione fordista e taylorista iniziano a sgretolarsi quando iniziano a sorgere le prime conflittualità sui temi dell’organizzazione del lavoro alla fine degli anni ’60. Spesso l'instabilità dei mercati è attribuita alla concorrenza internazionale. Nei paesi sviluppati il maggior potere di acquisto e la crescente sofisticazione del gusto dei consumatori hanno imposto di puntare sulla qualità dei prodotti e di accelerarne il ritmo di innovazione e di ampliarne la differenziazione con strategie per personalizzare il bene o il servizio. La concorrenza sulla qualità e sulla capacità di soddisfare i mutevoli gusti dei consumatori genera mercati instabili ed incerti. Il prezzo è percepito come indicatore di qualità e prestigio. Le imprese possono tentare di ricostruire il potere di mercato condizionando i gusti dei consumatori con le pubblicità ma non è possibile ridurre comunque l'incertezza. Si affermano i nuovi principi dell'economia dell’appropriatezza, secondo i quali è importante produrre i beni e i servizi appropriati. L'efficienza di un'impresa si misura sulla prontezza di risposta agli impulsi del mercato e ciò richiede un modello organizzativo in grado di integrare commercializzazione, progettazione e produzione e di favorire la circolazione delle informazioni nell'impresa e di permettere continue e rapide variazioni sia nei volumi sia nelle caratteristiche die prodotti. Lo sviluppo dell'impresa flessibile si deve all'impiego di macchine polivalenti e programmabili che permettono un'elevata variabilità dei prodotti in un processo continuo e di superare la distinzione tra sistemi produttivi di piccola serie e di grande serie. Essenziale è un uso flessibile delle risorse umane. Flessibilità nel mercato del lavoro: * Flessibilità salariale: possiede la variante macro che riguarda l'adeguamento dei salari alle fluttuazioni di un sistema economico nazionale e quella micro che riguarda il collegamento delle retribuzioni all'andamento economico di un'impresa mediante premi di produzioni o di risultato * Flessibilità nell’uso della forza lavoro: riguarda l'orario di lavoro, l'ingresso e l'uscita dall'impresa e la mobilità interna ad essa: 1. Flessibilità nell’orario di lavoro: possibilità di variare l'orario secondo le esigenze dell'impresa 2. Flessibilità numerica: grado di libertà con cui un'impresa può variare il volume dell'occupazione ed interessa: i vincoli normativi, contrattuali o convenzionali che regolano i licenziamenti; la possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro dipendente diversi da quelli a tempo indeterminato; possibilità di affidare fasi o funzioni del ciclo produttivo in subappalto ad altre imprese o con contratti d'opera 3. Flessibilità funzionale: possibilità di spostare i lavoratori da un posto all’altro all’interno dell’impresa o di variarne il contenuto della prestazione. Questa mobilità intema richiede assenza di vincoli e condizioni in positivo. Questa flessibilità richiede una strategia di mercato interno del lavoro. Questi mercati si hanno quando nelle grandi imprese esistono regole per definire i processi di assunzione e licenziamento e i percorsi di carriera. Le grandi imprese devono agevolare le carriere interne per trattenere i lavoratori, ricorrendo ad assunzioni solo per i punti di ingresso di ogni percorso di carriera. | lavoratori hanno stabilità dell'occupazione e certezza deli aumenti ma il rischio di perdere il posto può indurre i lavoratori privilegiati a dei comportamenti nei confronti dell'impresa altrettanto subaltemi di quelli degli altri lavoratori esteri. Funzioni e caratteristiche del mercato interno cambiano quando tratta di ottenere dai lavoratori una partecipazione attiva, un impegno quasi senza limiti. La sicurezza occupazionale diventa uno strumento per costruire quell’identificazione nell'impresa che consente la massima flessibilità funzionale. Anche le modalità di mercato interno sono diverse: polivalenza, lavoro di gruppo, salari poco differenziati e legati a risultati collettivi, gerarchia snella. Un'impresa esternalizza funzioni o fasi del ciclo produttivo quando ne affida la realizzazione ad altre imprese o a lavoratori indipendenti, da cui acquista il risultato della prestazione. Abbiamo sia un’esternalizzazione fisica sia giuridica. Grazie alle estemalizzazioni, le imprese possono segmentare la propria forza lavoro in una fascia fissa di lavoratori permanenti con i quali seguire una flessibilità funzionale, e una variabile, che consente una flessibilità numerica. Sussiste anche una flessibilità dualistica che si ha quando l’impresa varia la proporzione tra il nucleo fisso e le fasce periferiche. La decisione delle imprese di collocarsi lungo il continuum flessibilità funzionale/flessibilità numerica dipende dalla disponibilità dei lavoratori con le competenze richieste. Molto importante è anche la dimensione di impresa: nelle piccole imprese la divisione del lavoro è poco rigida e il coinvolgimento dei lavoratori è un problema di relazioni personali e possono anche esserci forme di flessibilità funzionale, legate all’instabilità di quella numerica. Per molte grandi imprese ci sono delle rigidità che frenano la mobilità interna. Le diverse forme di flessibilità si presentano in una relazione inversa: quanto più flessibile diventa un aspetto del rapporto di lavoro, tanto più un altro si irrigidisce. Netta è la relazione tra flessibilità funzionale e formazione dei lavoratori: in un contesto di stabilità, le imprese e i lavoratori sono motivati a investire in formazione e a sua volta una specifica formazione acquisita sul lavoro riduce il turnover. | lavoratori temporanei ricevono molto meno addestramento dell'impresa (meno occupabili a lungo termine). Ecco perché alla fiessibilità funzionale si associa la qualificazione di innovativa (mira alla competitività internazionale, fondata su produzioni a elevata intensità tecnologica o intellettuale) e alla flessibilità numerica quella di difensiva (si fonda sulla comprensione del costo del lavoro). Ci dovrebbe essere un’interdipendenza tra aspetti di flessibilità e rigidità, le imprese devono bilanciare consenso ed efficienza. Occorre preoccuparsi dell’insicurezza del posto di lavoro e combinare la flessibilità del lavoro con un adeguato livello di protezione sociale e riequilibrare la protezione dell'occupazione tra rapporti a tempo determinato e a tempo indeterminato. La Commissione Europea ha proposto una nuova strategia della flexicurity, che ad un’elevata flessibilità del lavoro unisce efficienti strumenti di protezione del reddito e di sostegno al reimpiego. Per comprendere le implicazioni dei diversi tipi di flessibilità, bisogna considerare tre tipi di sicurezza dell'occupazione: quello dell'impiego in una data impresa; quello della mansione svolta; quello di restare occupati seppur in imprese diverse. Un lavoratore temporaneo o di una piccola impresa, pur dovendo cambiare spesso lavoro, può non restare mai disoccupato (elevate competenze) e godere di una sicurezza sul mercato del lavoro. | rapporti temporanei, inoltre, possono favorire la produttività delle imprese e lo sviluppo economico, che sul medio-lungo periodo dovrebbero favorire la crescita dell'occupazione. A livello macro non è detto che una maggior flessibilità dei rapporti di lavoro abbia effetti positivi sull'occupazione. Nei paesi sviluppati, dopo gli anni ’70, la parte di reddito riprende a crescere mentre le remunerazioni ad ampliarsi. La causa principale è la globalizzazione ma ci possono essere anche altre cause, tra cui i profondi mutamenti nelle norme sociali che regolano le ricompense. Oltre alle differenze retributive sono aumentate quelle nel grado di stabilità dell'occupazione (causa di una politica di deregolazione parziale e selettiva). Da fine anni ’80 i paesi dell'Europa continentale e meridionale hanno ampliato la possibilità di ricorrere a rapporti a termine, introducendo nuove forme di lavoro, riducendo di pochissimo i vincoli e i costi che le imprese devono sostenere per liberarsi dai lavoratori a tempo indeterminato. Ciò ha permesso di proteggere i lavoratori stabili nelle organizzazioni medio grandi (adulti) e di attribuire la funzione di flessibilità numerica solo ai lavoratori con rapporti instabili (giovani). Le riforme a margine hanno causato segmentazione del mercato del lavoro con una forte connotazione generazionale. I lavori atipici o non standard I lavori atipici sono differenti rispetto al modello di occupazione degli anni ’70 che si caratterizzava per la subordinazione a un solo imprenditore; l'integrazione in un’organizzazione produttiva; un contratto di assunzione a tempo indeterminato; una protezione legislativa o contrattuale contro il rischio di perdere il lavoro. I lavori non standard sono privi di una o più di queste caratteristiche. Nel lavoro a tempo determinato manca il requisito del rapporto senza scadenze, inoltre nei lavori temporanei o stagionali sono compresi anche i rapporti con finalità formative per i giovani (apprendistato). Per quanto riguarda i tirocini o gli stage non esiste un rapporto di lavoro, non c'è retribuzione ma solo il rimborso spese. Il lavoro in somministrazione o interinale è il caso più flessibile di lavoro atipico, i lavoratori sono assunti da agenzie di somministrazione di lavoro e vengono poi inviati nelle aziende con cui non hanno rapporto di lavoro in quanto l’unico contratto di fornitura è quello con le agenzie. Nel 2003 è stato reso legale lo staff leasing in cui gruppi di lavoratori sono assunti dalle agenzie e inviati a svolgere attività integrate nell’organizzazione dell'impresa committente senza vincoli di tempo. Per regolare questi lavori occasionali nel 2003 sono stati introdotti sia il contratto a zero ore (lavoro a chiamata: il lavoratore si pone a disposizione di un'impresa per svolgere una prestazione saltuaria quando richiesta), sia il lavoro accessorio retribuito con buoni lavoro orari (vouchers). Sono atipici anche i lavori giuridicamente indipendenti, ma economicamente dipendenti e inseriti in un’organizzazione aziendale come il cottimismo. In Italia sono stati regolati anche i rapporti di collaborazione o lavori a progetto. Le aziende, con i lavori atipici, affrontano i rischi posti dall’incertezza dei mercati esternalizzando dei lavoratori sul piano giuridico senza rinunciare ai vantaggi del loro inserimento nella propria organizzazione; inoltre hanno maggiore libertà nelle politiche di selezione del personale. I rapporti di lavoro a tempo determinato in Europa La quota del lavoro temporaneo era cresciuta fino al 2007 poi con alti e bassi dovuti alla crisi economica fino al 2014. In Italia così come in Francia è stata adottata la politica di deregolazione parziale. Le imprese ricorrono sempre più spesso al lavoro temporaneo nei paesi in cui devono sostenere maggiori vincoli e costi per liberarsi dai lavoratori a tempo indeterminato. In Spagna, invece, si è cercato di ridurre il lavoro temporaneo. Ma se promuovere il lavoro temporaneo mirava a ridurre la disoccupazione, l’esito è stato incerto perché non c'è alcuna relazione tra proporzione di occupate temporanea e livello del tasso di disoccupazione. La più alta percentuale di lavoratori temporanei in Europa si trova nei settori agricoli, edilizi, turistici... essendo caratterizzati dalla stagionalità. Il lavoro a termine è spesso un periodo di formazione o prova, che prelude all'assunzione a tempo indeterminato. In molti casi, i contratti a tempo determinato sono utilizzati per la funzione di addestramento e di prova per lo più per i giovani. Per gli adulti, di solito, il lavoro temporaneo è involontario tranne che in UK perché i lavoratori a tempo indeterminato rischiano più il licenziamento di quelli a tempo determinato. A questi tipi di lavori sono solitamente interessati i giovani. In quasi tutti i paesi europei l'occupazione a termine è più diffusa tra le donne (solo 2% in più). Inoltre, i contratti temporanei interessano per la maggior parte i lavoratori meno istruiti perché l’apprendistato forma addetti a mansioni manuali e perché le imprese tendono a stabilizzare i lavoratori con elevate competenze. Buona parte della crescita si deve a mutamenti istituzionali: legge che introdusse il lavoro interinale ed estese la possibilità di ricorrere all’apprendistato. La lieve riduzione è invece dovuta agli incentivi per la stabilizzazione dei lavori temporanei e per la legge diretta a facilitare il ricorso al tempo determinato. Tuttavia, oscillazioni congiunturali sono dovute all'andamento dell'economia: nei periodi di crisi i contratti a termine diminuiscono e molti lavoratori a tempo indeterminato rimangono occupati grazie al ricorso alla cassa integrazione. Quando l'economia riprende, i lavoratori temporanei aumentano. All’aumento dell'occupazione temporanea contribuiscono anche fattori strutturali: crescente importanza dell'occupazione nei servizi e maggior difficoltà nella selezione dei lavoratori. Neppure la metà dei lavoratori a tempo determinato svolge una funzione di flessibilità (es. sostituzione di un assente), mentre quasi % sono in apprendistato, formazione, prova e 1/5 sono gli stagionali. La percentuale di temporanei in formazione o in prova è maggiore tra i giovani. Solitamente sono le donne ad avere più spesso contratti a tempo determinato, tuttavia sono anche quelle più occupate nel pubblico impiego e si può parlare di una loro polarizzazione tra lavori instabili e garantiti. Per quanto riguarda gli stagionali, essi hanno un'anzianità di servizio elevata. Nel mezzogiorno si tratta di lavoro agricolo mentre nel centro-nord si tratta di lavoro turistico. La situazione del mezzogiorno è molto critica. Il lavoro temporaneo è estremamente diffuso, inoltre sono poco sviluppati i rapporti a fini formativi ed è per questo che questo tipo di lavoro permane anche tra gli adulti. In tutti i paesi europei la percentuale dei lavoratori con contratti a tempo determinato è molto più elevata tra i neoassunti. Molte aziende hanno, infatti, adottato una politica di deregolazione parziale, per cui le imprese possono facilmente far ricorso a rapporti a termine per evitare di assumere a tempo indeterminato e avere difficoltà nei licenziamenti. In quasi tutti i paesi europei la % di neoassunti a tempo determinato si riduce al crescere dell'età del lavoratore ma resta comunque molto elevata anche per gli adulti. Se i rapporti a termine interrompono lo stato di disoccupazione e riducono il peso di quella a lungo periodo, alla scadenza molti lavoratori si ritrovano di nuovo disoccupati. Solo un lavoro stabile assicura un’uscita dalla disoccupazione definitiva. La questione diventa quella dell'esito dei rapporti temporanei. Negli anni ‘90 la transizione verso un imprese a ristabilire un uso flessibile della forza lavoro ricorrendo al subappalto a microimprese o a lavoratori in proprio o favorirebbero lo sviluppo di sistemi e di piccole imprese. L'Italia è un caso estremo in quanto l'occupazione indipendente è più diffusa. L'occupazione indipendente è più diffusa dove le indennità di disoccupazione sono meno generose. Nel favorire l’altissima presenza di lavoro indipendente in Italia congiurerebbero due fattori istituzionali: 1. L'altra protezione degli occupati nelle imprese medio-grandi 2. La scarsa tutela di chi ha perso il lavoro Tuttavia, l’analisi dei comportamenti individuali rivela che tale immagine non corrisponde alla realtà ma risultano importanti due caratteristiche dei sistemi socioeconomici nazionali: 1. Il livello effettivo di tassazione del lavoro indipendente 2. L'importanza del capitale sociale fondato sulla famiglia La propensione del lavoro in proprio sarà maggiore nei paesi in cui i redditi da lavoro indipendente sono più elevati grazie all'evasione fiscale. E sarà maggiore dove è più elevata la probabilità di ereditare un’attività in proprio o le risorse finanziarie e relazionali per avviarla come in Italia. Coloro che avviano un'attività indipendente si distinguono per 3 caratteristiche: 1. Allavoro indipendente accedono principalmente i lavoratori a metà carriera, che hanno accumulato esperienze e risorse finanziarie, e hanno un futuro abbastanza ampio da poter sfruttare l'investimento iniziale 2. Molto importante è aver lavorato a lungo in una piccola impresa poiché fornisce sia competenze imprenditoriali, sia reti di relazioni 3. Decisivo è il sostegno familiare perché molti ereditano l’attività e perché vivere in ambienti familiari di lavoratori indipendenti fornisce reti sociali, risorse motivazionali e finanziarie che aiutano nell’avviare attività in proprio. Esiste lo spin-off: lavoratori che si mettono in proprio per salvaguardare o migliorare le proprie condizioni. La transizione verso un lavoro indipendente rivela che vi si accedere da un'occupazione dipendente o da una condizione di inattività. Solitamente chi avvia un lavoro indipendente è il maschio adulto con una solida esperienza professionale, adeguate risorse sociali. Molti hanno un’origine piccolo- borghese. Nel Mezzogiorno, il lavoro indipendente può essere il rifugio degli outsiders che non riescono ad entrare nel sistema delle garanzie dell'occupazione dipendente o ne sono stati esclusi. Alcuni lavori indipendenti sono tali più sul piano formale che sostanziale, perché presentano molte caratteristiche del lavoro subordinato, senza però averne le garanzie contrattuali e previdenziali (vi accedono soprattutto i giovani). In Italia i lavoratori indipendenti lavorano 8 ore in più di quelli dipendenti ma non sempre vi corrispondono elevati guadagni. Ma confrontare i guadagni degli indipendenti con quelli dei dipendenti è difficile a causa dell’elusione ed evasione fiscale. Un'altra dimensione che sancisce l’eterogeneità dell'occupazione indipendente: i dati sulla permanenza nello stesso posto di lavoro o attività, rivelano che, rispetto ai dipendenti, tra gli indipendenti vi è un’anzianità superiore ai 10 anni. La continuità si può spiegare perché nei momenti di crisi, gli indipendenti possono ridurre i propri guadagni senza perdere il lavoro (caso però degli indipendenti tradizionali con vasta clientela). Solitamente chi si mette in proprio sono maschi, in età adulta o avanzata e con esperienze lavorative in piccole imprese e disponibilità di una certa somma di denaro. L'età ancora più del genere caratterizza il tradizionale lavoro indipendente: per riuscire a costruirsi una posizione lavorativa indipendente, occorrono esperienze e reti di relazioni che solo una precedente atti può fomire. Tuttavia, se si accede più tardi ad un lavoro indipendente dopo un lavoro dipendente, si smette di lavorare in età più avanzata. In Italia a parte nell’agricoltura, il lavoro indipendente è più diffuso nel commercio, sei servizi privati alle imprese, al settore dei ristoranti e degli alberghi... Dagli anni ‘90 c'è stata una rivoluzione dell'occupazione indipendente nonostante il suo peso sul totale dell'occupazione non sia diminuito di molto (2%) mentre è cresciuta la % tra le professioni dirigenziali, intellettuali e tecniche. Sono emerse nuove figure (professionisti dei servizi alle imprese, finanziari e alle persone) e sono caduti gli indipendenti tradizionali. Invece, la propensione ad avviare un'attività in proprio si è ridotta perché tra i nuovi professionisti molti sono privi di indipendenza economica e di autonomia lavorativa. La recente rivoluzione dell'occupazione indipendente in Italia si riflette sulla composizione per età (più giovani tra i professionisti). Importante è anche la differenza territoriale: le nuove forme molto qualificate si diffondono di più nelle regioni centro-settentrionali. Tra indipendenza e subordinazione Il processo di professionalizzazione ha fatto si che non valga più il principio di eterodirezione che per la dottrina giuridica qualifica un rapporto di lavoro alle dipendenze. Questo processo si scontra con un altro fenomeno in cui i lavoratori indipendenti forniscono una prestazione d’opera ad un solo committente. Nel contratto d’opera che stipula con i lavoratori indipendenti l’oggetto è solo il risultato del lavoro, svolto senza vincoli di subordinazione verso il committente. Quando vi è un solo committente si parla di lavoro indipendente economicamente dipendente. Quando, oltre a diversi committenti, manca anche l'autonomia organizzativa nell'eseguire la prestazione, si parla di falso lavoro indipendente. La via di mezzo tra lavoro indipendente e dipendente esiste in molti paesi europei. Questi lavoratori hanno dei contratti con una scadenza e i periodi di non lavoro sono frequenti. In Italia la figura delle collaborazioni coordinate e continuative è stata definita una forma di parasubordinazione. L'’istituzionalizzazione compare con la |. n.30/2003 che istituisce una nuova forma di lavoro non subordinato, il contratto di lavoro a progetto, che prevede l’esistenza di un progetto di lavoro, determinato dal committente e gestito autonomamente dal lavoratore in funzione del risultato. Sussiste in divieto di rinnovo per il contratto. Le collaborazioni rinnovabili rimangono in vigore se il committente è un ente pubblico e lo stesso lavoratore può essere impiegato per più progetti successivi. I titolari di partita Iva, invece, lavorano per un solo committente da cui dipendono economicamente e per le modalità organizzative del proprio lavoro, queste sono le false partite Iva. Tuttavia, dal 2016, il Jobs Act vieta di instaurare nuovi contratti di lavoro a progetto e prevede di applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione (destinati ad esaurirsi). Grazie alla tecnica fascio di indici è possibile rilevare le situazioni di sostanziale dipendenza economica e organizzativa all'interno dell'insieme del lavoro indipendente. Infatti, quasi metà dei collaboratori non hanno alcuna autonomia sono cioè mono committenti. Rara e l'indipendenza economica: il grado di dipendenza economica organizzativa è maggiore per i più giovani e per coloro che svolgono mansioni meno qualificate mentre tra i liberi professionisti e lavoratori improprio prevale nettamente una piena autonomia. Ma l'inserimento nell'organizzazione del committente è molto alta anche tra coloro che sono pienamente indipendenti sul piano giuridico. Nel momento della maggiore diffusione, le collaborazioni erano più diffuse tra le donne e tra i giovani. Circa il 25% dei collaboratori lavorava nelle aree metropolitane di Roma e Milano in cui è concentrato il terziario avanzato. Oltre % aveva per committenti organizzazioni pubbliche. Anche per la giovane età, era molto altra la % di istruiti, cui corrispondeva un’elevata qualificazione professionale. Il ricorso alle collaborazioni non aumentava al crescere delle dimensioni dell'impresa. Le imprese private miravano a risparmiare sul costo del lavoro per mansioni qualificate, i collaboratori, infatti che avevano rapporti continuativi con lo stesso committente percepivano una retribuzione dal 20-30% in meno dei dipendenti. Chi ha un solo committente può essere alla sua mercè ma un contratto di lunga durata con un solo committente può indicare una situazione stabile, fondata su un rapporto fiduciario. Così come avere più committenti in cui si rischia di passare da un contratto all’altro ma si è meno vulnerabili nel caso in cui un committente non rinnovi il contratto. Con un contratto d'opera, tuttavia, l'impresa rischia che la prestazione non sia svolta come richiesto. Secondo la teoria dei contratti, le imprese avrebbero interesse ad internalizzare le attività da svolgere, assoggettando i lavoratori al rapporto di lavoro dipendente. Invece, la figura della collaborazione consente alle imprese di affidare operazioni complesse a lavoratori con cui stipulano contratti che definiscono solo i risultati da raggiungere. Il collaboratore che non adempisse con zelo e competenza le prestazioni perderebbe reputazione. Le imprese, in questo modo, fruiscono dei vantaggi di estemalizzare alcune attività complesse senza rischiare di sopportarne i costi. se si guarda come i collaboratori vivevano la propria condizione su delinea una polarizzazione tra chi la subiva in attesta di un lavoro stabile e chi ne era gratificato per il contenuto e la considerava un passaggio verso un'attività libero professionistica. La distinzione dipende dal livello di qualificazione del lavoro svolto: i primi svolgevano lavori meno qualificati e insistevano sugli aspetti negativi del rapporto di collaborazione; per i secondi contava la possibilità di utilizzare le conoscenze acquisite, l'autonomia di gestione del lavoro... Infine, è nata una nuova forma di esternalizzazione dei servizi: il subappalto a cooperative. Nelle cooperative di lavoro i soci sono lavoratori indipendenti: in cambio di una partecipazione fittizia ai processi decisionali, fanno un uso flessibile delle prestazioni. Instabilità, precarietà e insicurezza e Instabilità: aspetto giuridico dell'occupazione, per cui sono instabili i lavori a termine, sia quelli pienamente dipendenti sia quelli dipendenti solo economicamente e Precarietà: si riferisce al percorso occupazionale per un lungo periodo di tempo. Alcuni rapporti di lavoro a tempo indeterminato hanno breve durata. Il lavoratore può altemare brevi rapporti di lavoro alla disoccupazione e Insicurezza: dimensione soggettiva Escluso il settore pubblico, i rapporti a tempo indeterminato spesso si interrompono dopo pochi mesi. Anche per i lavoratori con un contratto giuridicamente stabile la continuità occupazionale non è garantita. La durata media dei contratti a tempo indeterminato è molto maggiore di quella dei contratti a termine. Esiste dunque una relazione tra instabilità giuridica e precarietà economica. Ma l’analisi longitudinale dimostra anche che per chi esce da un rapporto a termine, la durata media della disoccupazione è più breve di chi ha concluso un contratto a tempo indeterminato. Secondo la teoria dei segnali le imprese preferirebbero assumere fin dall’inizio con un contratto a tempo indeterminato chi ha dato buona prova di essere già stato assunto a tempo indeterminato da un’altra impresa. Il lavoro dipendente a tempo determinato è cresciuto molto in Italia dai primi anni ’90. Se ai dipendenti temporanei si aggiungono i collaboratori risulta che il livello dell'occupazione instabile in Italia supera nettamente la media europea. La politica di deregolamentazione parziale e selettiva, in Italia, ha sfruttato la consuetudine a privilegiare il lavoro indipendente per aggirare i vincoli normativi e i gravami fiscali di quello dipendete. In questo modo è stato fatto un uso flessibile anche dei giovani più istruiti (collaboratori e false partite Iva). Negli anni di aumento dell'occupazione la quota di occupati di lungo periodo si riduce perché aumentano gli occupati da poco tempo; invece, negli anni di crisi la quota di occupati da oltre 10 anni cresce perché le nuove assunzioni crollano e a restare occupati sono soprattutto i lavoratori dei settori più protetti. In Italia, dove è forte la segmentazione dell’occupazione tra una fascia garantita e una precaria, la quota dei lungo-occupati è più alta ma varia di più, aumentando durante la crisi, che colpiscono soprattutto la fascia precaria, e diminuendo nei periodi di congiuntura favorevole quando crescono le assunzioni che sono in maggior misura a termine. La sostanziale stabilità dell’occupazione di lungo periodo si può spiegare con due fenomeni che hanno bilanciato l'aumento delle occupazioni di breve durata dei sempre meno numerosi giovani: ® L'occupazione delle donne è diventata molto più continua, anche grazie alla diffusione del part time * Le occupazioni di lunga durata sono cresciute anche per l'innalzamento dell’età di pensionamento - L'occupazione di lunga durata è molto più diffusa tra i lavoratori indipendenti tradizionali e tra i maschi - I lavoratori più spesso occupati di lungo periodo sono quelli più qualificati, che sono una risorsa professionale per le imprese - settori che più fidelizzano i lavoratori sono quelli in espansione e i servizi pubblici Da cosa dipende il sentimento di insicurezza? Sussiste una generale sensazione di insicurezza che pervade la società contemporanea. Nel corso del tempo emerge un'evidente relazione congiunturale con il livello della disoccupazione, mentre non vi è alcuna relazione con la crescente diffusione del lavoro instabile. In Europa possiamo identificare due gruppi di paesi: 1. Costituito dai paesi dell'Europa meridionale in cui è elevata la % di chi ritiene probabile perdere il lavoro ed è bassa quella di chi pensa che potrebbe facilmente ritrovarne uno simile a quello perso 2. Contrario Disaggregando il sentimento di insicurezza del lavoro nelle sue 3 componenti: cognitiva (percezione probabilità di perdere il lavoro), del mercato del lavoro (percezione delle probabilità di ritrovare un lavoro), affettiva (valutazione della gravità delle conseguenze della perdita del lavoro) risulta che ognuna è collegata ad un diverso fattore, economico o istituzionale. Infatti, un’alta protezione dell'occupazione e un basso tasso di disoccupazione riducono l’insicurezza cognitiva; per contro CAPITOLO 9 L'Italia paese di immigrazione I movimenti migratori in Europa riprendono a metà degli anni ’80. | paesi di arrivo sono l'Europa meridionale e l'Irlanda, mentre gli immigrati provengono dall’ Europa orientale e da quasi tutti i paesi in via di sviluppo. L'Italia ha ricevuto un numero spropositato di immigrati fino a superare i 5 milioni. Se si considerano solo coloro che provengono da paesi a minore livello di sviluppo (a forte pressione migratoria), la quota di immigrati nella forza lavoro sfiora l’11%. Ma con l’aggravarsi della crisi, l’Italia è tomata ad essere un paese di emigrazione in cui i nuovi emigranti sono giovani con elevati livelli di istruzione che cercano un'occupazione che soddisfi le aspettative formatesi nel loro percorso formativo. Gli immigrati da paesi in via di sviluppo e in età attiva sono ben inseriti dal punto di vista giuridico anche se nel 2004, circa 2/3 degli immigrati viveva senza permesso di soggiorno ottenuto solo in seguito grazie a delle sanatorie o al sistema di quote annue di ingressi per lavoratori di paesi non comunitari. La prima fase di immigrazione fu dunque caratterizzata da ingresso non autorizzato e lavori irregolari. Pochi degli immigrati in ingresso erano clandestini, alcuni usavano documenti contraffatti, altri erano overstayers (entrati con visto di breve durata e fermatosi più a lungo). In un quadro di chiusura delle frontiere nei paesi dell'Europa Occidentale, chi riusciva a varcarle poteva ottenere un lavoro regolare e, se non avesse trovato lavoro, sarebbe tornato in patria. La possibilità di trovare lavoro, nell'economia irregolare, promuoveva gli ingressi di immigrati non autorizzati. Questi solitamente andavano verso l'Europa meridionale. Qui l'economia sommersa è stata la causa dell’immigrazione irregolare. Inoltre, l'economia sommersa ha svolto una funzione latente perché il mercato del lavoro in nero ha attirato e accolto immigrati che, una volta regolarizzati, hanno coperto i posti di lavoro vacanti nell'economia regolare. | flussi migratori verso l’Italia sono molto frammentati in quanto i paesi di origine, spesso, non hanno avuto nessun legame con l’Italia. È avvenuta una riduzione della frammentazione con l'espansione degli immigrati provenienti dall'Europa orientale. Questo mutamento si spiega sia con l’introduzione dell'obbligo di visto di ingresso per i cittadini dei paesi africani e con il processo di allargamento dell'UE, sia con la crescente domanda delle donne immigrate che ha creato nuovi bacini di forza lavoro femminile. La presenza di immigrati cinesi, indiani o americani (centro-meridionale), indica la globalizzazione dei flussi migratori. Con la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni ha permesso la nascita di comunità transnazionali, rappresentate da migranti che appartengono sia alla società di origine, sia a quella di arrivo e si muovono in un unico spazio migratorio, grazie ad un più elevato livello di istruzione e ad una migliore dotazione di capacità cognitive. Gli immigrati da paesi in via di sviluppo si concentrano nella fascia delle persone in età attiva. Pochissimi sono i gruppi in cui vi è un buon equilibrio tra i generi alcuni sono mascolinizzati e altri femminilizzati. In questi gruppi abbiamo una ridotta frequenza di ricongiungimenti familiari. La prevalenza femminile in alcuni gruppi fa riferimento ad un fenomeno quello delle donne che emigrano da sole per motivi lavorativi. Ciò si può imputare sia ad un effetto di domanda, sia ad un effetto di offerta, cioè alla possibilità di emigrare. Quanto al livello di istruzione, le migrazioni contemporanee sono più istruite per la forte crescita dell'istruzione superiore nei paesi in via di sviluppo e per l'ingresso tra i paesi di emigrazione dell'Europa orientale. L'Italia è il paese europeo che accoglie gli immigrati meno istruiti considerando che l'emigrazione, all’inizio, è un processo selettivo poiché occorrono rilevanti risorse personali, economiche e sociali per superare le difficoltà di entrare in un paese poco conosciuto. | paesi europei più istruiti accolgono gli immigrati più istruiti. Perché? Quando prevalgono le occupazioni altamente qualificate, la domanda spinge i nativi a raggiungere alti livelli di istruzione così come attrae più immigrati molto istruiti. Svantaggio, penalizzazione, discriminazione Differenze tra immigrati e nativi: * Svantaggio: si confrontano solo diverse performance nel mercato del lavoro senza considerare che la popolazione degli immigrati e quella dei nativi possono avere diverse caratteristiche * Penalizzazione: svantaggio degli immigrati rispetto ai nativi che rimane quando siano state considerate tutte le caratteristiche che è possibile osservare. | motivi possono trovarsi sia in caratteristiche non osservabili/osservate, sia con comportamenti discriminatori. La penalizzazione spesso è spiegata con la teoria del capitale umano: - gliimmigrati possono avere una bassa dotazione di capitale umano dal punto di vista del paese di arrivo per varie ragioni - il capitale umano è spesso specifico di un paese, poiché alcune competenze non sono trasferibili in un diverso contesto tecnologico, economico e sociale - l’immigrato può incontrare una serie di difficoltà ad adattare le credenziali educative acquisite nel paese di origine alla domanda di lavoro del paese di arrivo ma: a. gli immigrati e i loro datori di lavoro possono essere riluttanti ad investire in capitale umano specifico del paese di arrivo (immigrazione temporanea) b. gli immigrati possono seguire strategie lavorative diverse da quelle della popolazione locale, possono accettare la prima occasione di lavoro. Quando si insediano stabilmente, secondo la teoria assimilazionista, gli immigrati dovrebbero progressivamente integrarsi nella società ospite. La teoria dell’assimilazione segmentata rifiuta l'ipotesi che la penalizzazione degli immigrati si riduca nel corso del tempo, poiché continua a fondarsi sulla loro scarsa dotazione di capitale sociale o sulle pratiche discriminatorie della società ospite. Le reti sociali sono fondamentali per trovare lavoro, ma le reti sociali etnicamente omogenee possono penalizzare gli immigrati poiché forniscono informazioni solo si segmenti del mercato del lavoro in cui la comunità etnica è già molto presente. Perché le seconde generazioni con livelli di istruzione più alti, soffrono di svantaggi sul MdL? Per lo scarso accesso al capitale sociale del paese in cui vivono e perchè gli immigrati possono rimanere intrappolati nel MdL secondario (occupazioni dequalificate). Un poco più disoccupati, ma anche più occupati degli italiani In Italia, il tasso di disoccupazione degli immigrati non è molto superiore a quello dei nativi. L'Italia è uno dei paesi europei in cui in cui il tasso di occupazione degli stranieri è superiore a quello dei cittadini (con la crisi la differenza si è ridotta). Il nostro paese si pone come uno tra i paesi con il migliore inserimento degli immigrati dal punto di vista quantitativo. Poiché presenta una struttura per età molto squilibrata verso le persone anziane e dall'altro è un paese di recente immigrazione, tra gli immigrati vi sono molti più adulti con un altissimo tasso di attività. Poiché gran parte degli immigrati cerca un lavoro, il loro tasso di attività è superiore di quello degli italiani anche nelle classi di età centrali. Dal punto di vista femminile, se per le italiane la conciliazione è agevolata dalla possibilità di acquistare lavoro domestico grazie all'immigrazione femminile, le immigrate, quando hanno figli piccoli, sono costrette a non lavorare perché i servizi pubblici sono scarsi, quelli privati costosi e non hanno sostegno familiare. Il più alto tasso di attività dei giovani uomini immigrati si spiega con la precoce uscita dal sistema formativo. Esistono delle differenze tra gruppi nazionali, solitamente rilevanti per le donne. La distribuzione degli immigrati è la seguente: 60% nelle regioni settentrionali e il 15% nel mezzogiorno. La maggior concentrazione nel settentrione si spiega con la maggior possibilità di trovare lavoro. Questa concentrazione è cresciuta nel tempo perché gli immigrati senza radici socio- culturali in Italia sono molto mobili, sia perché le immigrazioni più recenti vengono dall'Europa orientale, quindi entrano nelle regioni del nord. Qui, però gli immigrati sono molto più disoccupati degli italiani. Nel mezzogiorno, gli immigrati sono meno presenti ma il tasso di disoccupazione è inferiore. Se non vi trovano lavoro, tendono comunque a spostarsi al nord. Un modello statistico che tenga in considerazione età, livelli di istruzione e stato familiare, potrebbe rivelare che per quanto riguarda il tasso di occupazione, la differenza a favore degli immigrati rispetto agli italiani si annulla prima della crisi e successivamente diventa negativa. Un'analisi analoga mostra come per il rischio di disoccupazione, la penalizzazione per dell'insieme degli immigrati non si aggrava ma consente di valutare il livello di penalizzazione dei gruppi di immigrati. La penalizzazione degli immigrati per quanto riguarda il rischio di essere disoccupati è almeno parzialmente attenuata dalla minore durata dei loro periodi di disoccupazione: la percentuale di disoccupati di lunga durata è minore, in particolare tra gli immigrati privi di cittadinanza europea. Ad una minore durata dei periodi di ricerca di lavoro, corrisponde una maggior probabilità di uscire dallo stato di disoccupazione verso una nuova occupazione, perché il forte orientamento al lavoro degli immigrati fa si che il fenomeno dello scoraggiamento, sia poco diffuso. Dalle transizioni annuali tra gli stati occupazionali è risultato che gli immigrati restano sia nello stato di occupazione sia in quello di disoccupazione meno degli italiani ma questo è un segnale negativo perché indica come gli immigrati siano propensi ad accettare qualsiasi lavoro. Un'altra penalizzazione a sfavore degli immigrati è che a differenza loro, per gli italiani il tasso di disoccupazione tende a diminuire all'aumentare dell'istruzione. Questo nullo o scarso rendimento dell'istruzione per gli immigrati dipende dalla loro segregazione nel MdL secondario. Un'alta instabilità occupazionale In Italia, gli immigrati lavorano alle dipendenze più dei nativi e tra i dipendenti sono assunti più spesso con rapporti temporanei. Quasi la metà delle donne immigrate lavora per conto di famiglie con rapporti a tempo indeterminato (possono essere interrotti con breve preavviso). Quasi la metà degli immigrati maschi lavora in piccolissime imprese che non forniscono contratti a tempo indeterminato nè garanzia di continuità. L'assunzione con l’indeterminato consentirebbe un permesso di lunga durata e agevolerebbe l’accesso ad alcuni diritti. Tuttavia, di solito, gli immigrati sono assunti con il determinato poiché sono interinali e soci di cooperative che sono un’importante via di avviamento al lavoro degli immigrati. L’irregolarità della posizione lavorativa è uno dei punti più critici dell’immigrazione in Italia. Inizialmente non si aveva scampo dall’irregolarità, fino a quando nel 1996 è stata richiesta la regolarizzazione del rapporto di lavoro. | nuovi arrivati da paesi non appartenenti all'UE sono costretti ad accettare un'occupazione in nero in cui i datori di lavoro sfruttano la condizione di debolezza degli immigrati per ridurre il rischio di essere denunciati. Molti immigrati comunque trovano che il lavoro in nero possa portare a dei vantaggi. Sussiste anche una forma di lavoro grigio (assunzione a tempo parziale a fronte di un rapporto, di fatto, a tempo pieno) in cui le imprese riescono a risparmiare sulle trattenute fiscali e contributive e gli immigrati riescono a guadagnare di più al netto e di avere maggiore accesso ai servizi dello stato sociale italiano. Il difficile accesso alle occupazioni non manuali e lo spreco di capitale umano Un sistema produttivo scarsamente innovativo e un assetto familistico del welfare esprimono una forte domanda di lavoro poco qualificato e allo stesso tempo gli immigrati sono disposti ad accettare qualunque condizione di lavoro (molti occupano i livelli più bassi della scala delle professioni). Tra le donne immigrate, le occupazioni più diffuse sono il lavoro domestico e quello di assistenza domiciliare agli anziani. Altre lavorano nei servizi alle persone a basso livello di qualificazione. Non sono sufficienti un elevato livello di istruzione ed esperienze professionali nel paese di origine per uscire dal lavoro manuale, occorre un lungo insediamento e la disponibilità di importanti risorse relazionali. Tra gli immigrati maschi prevalgono gli operai specializzati questo per la loro connotazione di lavori sporchi (per le piccole dimensioni delle imprese manifatturiere). Lo squilibrio con la distribuzione dell'occupazione per livelli di qualificazione degli italiani è enorme: un immigrato maschio, a parità di un italiano, ha una maggior probabilità di svolgere un lavoro a bassa qualifica (2X) un’immigrata donna (8X) rispetto ad un'italiana. Ci troviamo dinnanzi ad un brain waste ovvero lo spreco del capitale umane frutto dell'aumento dei livelli di istruzione dei paesi meno sviluppati e di una domanda italiana orientata verso occupazioni poco qualificate (spreco cervello importati+esportazione cervelli italiani). Per la maggioranza degli immigrati, molto spesso si va incontro al declassamento professionale quando arrivano nel nuovo paese. | motivi sono quelli indicati dalla scarsa trasferibilità e dal capitale umano e dalla scarsa conoscenza della lingua. Tuttavia, i successivi lavori dovrebbero segnare un recupero parziale del livello di qualificazione professionale raggiunto nel paese di origine. Ma un'indagine Istat ha mostrato che alla caduta dello status socioeconomico dall’ultimo lavoro nel paese di origine al primo lavoro in Italia molto raramente segue un recupero. Il livello di qualificazione dei lavori successivi è quasi sempre altrettanto basso dei primi lavori. Dove lavorano gli immigrati Gli immigrati costituiscono una componente crescente dell'occupazione italiana. Il loro contributo risulta essenziale se si considera che la loro presenza si concentra in alcuni settori/posizioni lavorative. Con la crisi la percentuale di immigrati tra gli occupati è rimasta stabile nelle professioni più qualificate ed è cresciuta in quelle meno qualificate. Quanto ai settori, in Italia, gli immigrati sono molto sovrarappresentati nel lavoro domestico e di assistenza, nel settore alberghiero, in edil agricoltura. Per contro sono meno presenti nei lavori non manuali qualificati. 1. Negli anni ’90 c'è stato un aumento degli immigrati nell’industria manifatturiera (psicologiche). Sono più i risk-takers, più ambiziosi e più motivati a lavorare sodo. Gli immigrati più istruiti, se hanno acquisito nel paese di origine buone competenze, possono essere un fattore rilevante di innovazione. Ma la diversità può avere anche un impatto negativo perché i conflitti che potrebbero sorgere tra i diversi gruppi, potrebbero ostacolare la collaborazione che è necessaria per qualsiasi processo di innovazione. In Italia, comunque, essendo un paese a bassa intensità di lavoro qualificato, la domanda di immigrati dotati di elevate competenze professionali è scarsa. Diverso è per i lavori non qualificati. Secondo l’approccio economico, l'importazione di manodopera a basso costo dovrebbe ridurre l'innovazione e rallentare la modemizzazione ma questo vale solo per l'industria manifatturiera. Per il resto dei lavori non qualificati la domanda è ancora alta e solo gli immigrati possono soddisfarla. Inoltre, la disponibilità della forza lavoro immigrata ha consentito la sopravvivenza anche di imprese a bassa innovazione tecnologica e organizzativa. Le immigrate svolgono una particolare funzione sostitutiva anche nel caso di servizi domestici e di assistenza, perché le giovani italiane non sono disposte ad un lavoro che richiede coabitazione con il datore di lavoro e orari impegnativi e che richiama un passato con un connotato servile e socialmente squalificante. Così le donne italiane hanno potuto aumentare la loro partecipazione al lavoro retribuito senza modificare il tradizionale assetto della divisione del lavoro familiare. L'immigrazione ha quindi l’effetto di favorire la conservazione del tradizionale sistema di welfare fondato sulla famiglia. La disponibilità degli immigrati a qualunque lavoro, inoltre, disincentiva le azioni per migliorare le condizioni delle mansioni delle mansioni più dequalificate. Rischia anche di attivarsi una dinamica dei lavori cattivi, per cui attività faticose e mal pagate, quando sono svolte da immigrate, vengono ancor di più trascurate dalle imprese e degradano ulteriormente. Inoltre, soddisfacendo i fabbisogni di forza lavoro poco qualificata delle imprese e delle famiglie del Centro-Nord, l'immigrazione ha sostituito la mobilità da Sud a Nord almeno per i giovani poco istruiti. L'Italia nei prossimi anni dovrà continuare ad accogliere nuovi flussi di immigrati per rallentare la crescita del tasso di dipendenza degli anziani dalle persone in età attiva, su cui grava il compito di mantenerli o direttamente nelle famiglie o attraverso trasferimenti pubblici. Secondo le previsioni demografiche, senza nuovi immigrati, il rapporto tra anziani e persone in età attiva sarebbe destinato a crescere, mentre la popolazione totale si ridurrebbe di almeno 10 milioni di persone. Per risolvere la questione delle pensioni si dovrà contare sul lavoro immigrato (non basterà comunque) e l’Italia continuerà ad attrarre forza lavoro da paesi a minore livello di sviluppo. Quindi le disuguaglianze etniche sono destinate a diventare cruciali per analizzare il funzionamento del mercato del lavoro italiano. CAPITOLO 8 La flessibilità ha consentito da un lato di ridurre il lavoro irregolare, ma dall’altro spesso i vari contratti di lavoro introdotti dalla flessibilità (lavoro part time, interinale) vengono utilizzati in modo improprio, aumentando il fenomeno dell’irregolarità: ti faccio un contratto di lavoro part time ma in realtà lavori a tempo pieno. Possiamo distinguere tra economia informale si indica quella domestica, familiare e comunitaria, con la quale si intendono attività che non sono retribuite e inserite in relazioni di reciprocità; e economia formale dove opera razionalità e avvengono gli scambi monetari. Insieme questi due tipi costituiscono l'economia sostanziale. Le attività di produzione di beni e servizi per il consumo familiare non sono considerate lavorative poiché per svolgerle non viene percepita alcuna retribuzione. Accanto all'economia sostanziale esiste l'economia criminale, caratterizzata dal fatto che vengono scambiati beni illeciti (furti, estorsioni, o contrabbando e traffico di droga); e l'economia irregolare o in nero, dove lo scambio di beni e servizi leciti avviene violando norme che tutelano il lavoro dipendente o disciplinano quello in proprio. Può riguardare lavori dipendenti non registrati o lavori indipendenti privi delle necessarie licenze o iscrizioni agli albi professionali. Si definisce occupazione nascosta quella non dichiarata alle autorità amministrative e quindi sottratta a ogni regola. Il lavoro grigio comprende anche l’uso improprio di rapporti non dipendenti quando si tratta in realtà di lavoro subordinato e del part time quando di fatto l’orario è intero. L'economia sommersa è l'economia monetaria non criminale che sfugge alle rilevazioni statistiche. La coincidenza tra sommerso statistico e irregolare giuridico non è scontata, poiché esistono lavori neri che sono rilevati e lavori regolari che non lo sono. Gli occupati irregolari, poiché non registrati, non sempre sono sommersi, cioè ignorati dalle rilevazioni statistiche. Nelle indagini Istat si considerano occupati anche i lavoratori irregolari, tranne gli stranieri non residenti, i minori di 15 anni, e chi svolge un doppio lavoro; chi svolge un'attività irregolare è compreso nell’aggregato occupazione senza essere identificato come tale. Le stime dell’ISTAT partono dalla contabilità nazionale e cercano di fare una distinzione tra le persone occupate e la quantità di lavoro che ci vorrebbe per produrre il PIL di un determinato periodo. Questi dati danno indicazioni generali, rivelando un volume di occupati superiore del 5-6% a quello che risulta dalle indagini sulle forze di lavoro. Queste statistiche forniscono una stima sia degli occupati non regolari distinguendone il settore e la posizione (dipendente/indipendente), sia delle posizioni lavorative, che considerano tutte le attività svolte da un occupato. La differenza tra posizioni lavorative e occupati può fornire una stima delle occupazioni plurime, cioè dei secondi lavori svolti da chi ha un lavoro principale. Le stime degli economisti si propongono di misurare il sommerso economico, che comprende un’area più vasta dell'occupazione irregolare. La maggior parte del reddito non tassato (fuori busta, sotto fatturazioni, doppio lavoro) è prodotto da lavoratori regolari, che dichiarano redditi inferiori rispetto a quelli reali. Secondo un rapporto della commissione europea, nei primi anni 2000 i lavoratori non registrati superavano il 20% in Grecia, Spagna e Portogallo, il 16% in Italia e nei paesi scandinavi tra il 2-4%. In posizioni intermedie Francia e Germania. Si sviluppò un filone di studi, quello sul decentramento produttivo, che attribuiva il subappalto a microimprese industriali e la ripresa del lavoro nero al tentativo di sfuggire al miglioramento delle condizioni retributive e normative del lavoro regolare grazie alle conquiste sindacali e legislative (statuto dei lavoratori 1970). L'attenzione per il lavoro irregolare riprende negli anni 80 per la diffusione di ammortizzatori sociali e negli anni 90 per la crescente presenza di immigrati non autorizzati. Come negli altri paesi dell'Europa meridionale, prevale un approccio strutturalista, che attribuisce l'occupazione irregolare a uno stato di necessità per lavoratori che non hanno altre opportunità, mentre in quelli dell'Europa settentrionale attribuiscono il lavoro irregolare a una scelta per evitare costi e vincoli di una eccessiva regolamentazione. In Italia il lavoro irregolare c'è sempre stato. Si è sviluppata nella fase dell’industrializzazione fino agli anni 60. Negli anni 70 ci si accorge che il lavoro non regolare non si è ridotto con il processo di modemizzazione, anzi è ripreso per sfuggire alla regolazione dei rapporti di lavoro: è un tratto strutturale dell'economia italiana. Secondo le stime più recenti di contabilità nazionale, gli occupati non regolari diminuiscono dal 14,5% nel 1995 sino al 12,3% nel 2003, poi si assestano su questo livello sino al 2011 quando risalgono raggiungendo il 13,3% nel 2014; la ripresa dell'occupazione irregolare a causa dell’acuirsi della crisi si deve tutta al lavoro dipendente. Scarsissimo impatto ha avuto anche l'operazione emersione avviata nel 2001, perché la caduta degli irregolari nel biennio 2002-2003 si deve alla sanatoria degli immigrati. L'agricoltura è il regno del lavoro nero; presenta un andamento a V, con un minimo nel 2003, che non si deve alla congiuntura economica ma alle variazioni dell'impiego in nero di immigrati non autorizzati. È il lavoro che più si presta alle attività irregolari, un po’ perché è un lavoro svolto tendenzialmente in ambito familiare, ma anche perché caratterizzato da forte stagionalità. Invece l'andamento a V di un altro settore tradizionalmente a elevata intensità di lavoro nero, quello dell'edilizia, si spiega anche con la congiuntura economica. Questo andamento si deve all'occupazione dipendente, che rispetto a quella indipendente presenta un tasso di irregolarità inferiore negli anni del boom e superiore negli altri. Ma in edilizia il lavoro nero dei dipendenti non è stato in larga misura sostituito da quello grigio degli pseudo-artigiani e degli immigrati assunti con contratti a tempo parziale ma impegnati a tempo pieno. C'è un problema legato ai controlli, anche se la normativa in materia di sicurezza sui cantieri ha favorito la regolarizzazione degli addetti. L'industria manifatturiera è il settore ove l'occupazione irregolare è meno diffusa. Ancora maggiori sono le differenze nel settore dei servizi, il cui tasso di irregolarità segue lo stesso andamento di quello totale, su livelli di pochissimo superiori. Nei rami ove la presenza pubblica è dominante, la quota di lavoro dipendente non regolare è bassa; tuttavia tra i pochi indipendenti il tasso di irregolarità supera il 12% nella sanità e il 33% nell'istruzione. Lo stesso accade nell’intermediazione finanziaria e nell’informazione. Anche nei servizi domestici svolti presso le famiglie la caduta dell'incidenza del lavoro nero, pur restando ovviamente elevatissima, si è ridotta dal 75-80% al 57% essenzialmente grazie alla sanatoria delle donne immigrate. Se infine si guarda alla composizione dell'occupazione non regolare gli occupati irregolari risultano ancor più addetti ai servizi di quelli regolari, poiché nel terziario lavorano più di 3 lavoratori in nero su 4. Il lavoro irregolare è svolto più frequentemente da giovani, donne e anziani. Il tasso di irregolarità delle donne si stima sia superiore di 2 punti percentuali a quello dei maschi, mentre quello dei giovani e degli anziani schizza oltre il 20% a fronte di un minimo per gli adulti intorno all’8%. Queste differenze per età spiegano in buona parte quello per livello di istruzione: il lavoratore in nero è più diffuso tra chi non ha completato la scuola dell’obbligo. Infine il tasso di irregolarità è più alto tra i lavoratori stranieri. Per i giovani, si discute se il lavoro irregolare sia un porto di ingresso verso un'occupazione stabile oppure presenti rischi di intrappolamento. Il rischio di intrappolamento interessa quasi la metà dei lavoratori in nero, mentre quasi il 20% finisce disoccupato e solo 1/3 riesce a trovare un lavoro regolare. Dei lavoratori adulti e anziani con un'attività irregolare molti non sono privi di tutela previdenziale: sono pensionati e cassaintegrati che hanno interesse a non regolarizzare la posizione lavorativa per conservare il sussidio percepito. Occorre poi distinguere il ruolo familiare del lavoratore, poiché diverse sono le prospettive con cui si svolge un lavoro irregolare: come integrazione al reddito familiare o come unico sostegno alla propria esistenza o alla famiglia. In un’economia italiana connotata da profonde divisioni territoriali, l’occupazione non regolare continua a essere molto più diffusa nel mezzogiorno. Secondo le stime di contabilità nazionale, dal 2002 al 2013 il tasso di irregolarità oscilla intorno al 9% al nord, 12% nel centro e 19% nel mezzogiorno. L'Italia meridionale è una delle aree dei paesi economicamente avanzati ove il lavoro irregolare è più diffuso (1 occupato su 3 lavora in nero). La diffusione del lavoro nero risulta maggiore ove è più elevato il tasso di disoccupazione, più difficile accedere al credito bancario, maggiore il peso delle piccole imprese familiari e della pubblica amministrazione sull'occupazione. Ne emerge uno stretto legame tra economia sommersa e sottosviluppo, che però non esaurisce lo scenario del lavoro nero. Condizioni che consentono una maggiore presenza di lavoro irregolare: poiché prevalgono gli indipendenti. Il doppio lavoro è più diffuso nel pubblico impiego, ove è vietato per legge, mentre nel settore privato il lavoratore deve solo non svolgere attività in concorrenza con l’Împresa. Per reprimere la diffusione del doppio lavoro nel pubblico impiego sono state aggravate le sanzioni ed è stata concessa la possibilità di svolgere regolarmente un’altra attività a chi avesse il tempo parziale. Nel pubblico impiego italiano si è innescato un circolo vizioso, per cui le basse retribuzioni e il lassismo organizzativo incentivano il doppio lavoro, il quale a sua volta contribuisce a ridurre la produttività e a giustificare le basse retribuzioni. Il doppio lavoro è più diffuso al Sud perché vi è più agricoltura e meno industria. Alcune condizioni e modalità del primo lavoro possono ostacolare l’ulteriore dispendio di tempo e di energie psicofisiche, possono cioè costituire dei vincoli. Tra questi vi sono l'orario spezzate dall’intervallo di pranzo. L'attività secondaria è favorita da una maggiore libertà nell'organizzare il lavoro, da un ambiente meno costrittivo. Ma la probabilità di trovare un'attività secondaria dipende dal possesso di qualità o capacità, per cui vi è una buona domanda, cioè di adeguate risorse professionali e imprenditoriali. Perché un lavoratore occupato si assuma un onere aggiuntivo occorre che sia motivato dal desiderio o dalla necessità di rispondere a esigenze non soddisfatte dal lavoro principale. Il doppio lavoro è più diffuso tra chi ritiene di guadagnare poco rispetto al proprio gruppo di riferimento. Rilevanti sono infine le pressioni esercitate da esigenze di reddito familiare. Perché sia possibile sostituire quelle secondarie con attività svolte in via principale da lavoratori disoccupati devono essere soddisfatte 4 condizioni: - Gli spezzoni di lavoro secondario dovrebbero essere ricomposti in occupazioni a tempo pieno e/o svolte con continuità - Oltre a ristrutturarsi, la domanda dovrebbe essere disposta a impiegare lavoratori meno occupati, sostenendone garanzie istituzionali e oneri indiretti. - disoccupati dovrebbero avere caratteristiche professionali e sociali adatte a svolgere tali attività - Nel caso di attività indipendenti, questi disoccupati dovrebbero essere in grado di entrare con successo nei mercati tipici dei plurioccupati. Per i lavori dipendenti i plurioccupati potrebbero essere preferiti perché non hanno interesse ad avanzare pretese a fine rapporto; inoltre i doppiolavoristi per lo più prestano servizi in forma indipendente a famiglie. Inoltre il primo lavoro può fornire la carta di credito dell’affidabilità sociale, molto utile in contesti ad alta microcriminalità; avere un'occupazione garantita fornisce la sicurezza necessaria ad avviare un'attività rischiosa. L'occupazione principale svolge una duplice funzione: di sostegno nella fase iniziale, in cui costruire la rete di relazioni, e poi di copertura assicurativa, qualora l’attività secondaria non abbia successo. In entrambi i casi l'occupazione stabile consente di superare le barriere di ingresso costituite dalla mancanza di reti di relazioni e dall’eccessiva alea. Vi sono problemi di costo: non poche attività sono volte in settori con produttività troppo bassa per consentire guadagni sufficienti. In tali condizioni sostituire un doppiolavorista con un lavoratore principale e regolare potrebbe far scomparire l’attività stessa. Per affrontare i costi non diretti del lavoro è stata avanzata la proposta di maggiore flessibilità: meno vincoli ai licenziamenti, maggior diffusione dei rapporti a tempo parziale e determinato. Il doppio lavoro deriva anche da un forte stimolo derivante da uno stato di deprivazione, in quanto si ritiene di guadagnare troppo poco rispetto al proprio gruppo di riferimento; inoltre deriva d rilevanti esigenze di reddito familiare, in quanto spesso i doppiolavoristi sono maschi in età adulta e capifamiglia. CAPITOLO 4 Apogeo e declino della disoccupazione giovanile? Oltre alla penalizzazione di genere, in Italia c'è anche la penalizzazione per età. Quella italiana è la disoccupazione da inserimento, poiché colpisce per lo più il momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. Il prototipo del disoccupato italiano è un giovane senza esperienza lavorativa che vive con i genitori. Infatti, nel corso della grande crisi il tasso di disoccupazione dei giovani è esploso sino a livelli eccezionali ma non è vero che i giovani dai 15 ai 24 anni sono in cerca di lavoro, essendo una fascia di età ricca di studenti. Quindi, attualmente il 70% dei giovani (15-24) sono ancora studenti e la disoccupazione si calcola sul restante 30% che ha finito gli studi. I giovani sono sempre più una minoranza tra le persone in cerca di lavoro, attualmente sono poco più del 20% e questa tendenza continuerà a causa del calo delle nascite, sia per l'aumento della frequenza degli istituti superiori e dell’università. Alla metà dei disoccupati si arriva aggiungendo i giovani adulti (25-34) che non vivono con i genitori e possono contare meno sul loro supporto. Livello e composizione della disoccupazione nelle due Italie Gran parte della disoccupazione italiana è dovuta a quella meridionale, mentre nel Mezzogiorno vive solo 1/3 della popolazione italiana. Dalla fine degli anni '80 il tasso di disoccupazione delle regioni centro-settentrionali rimase stabile o subì un declino, mentre quello delle regioni meridionali cresce. Invece, nel periodo della grande crescita (2001-2008), la disoccupazione nel Centro-Nord si riduce ed il divario con il Sud pure. Un ruolo importate è stato dato sia alla riduzione del tasso di attività delle donne e le migrazioni interne. Il divario nei tassi di disoccupazione si riduce ancora anche quando la disoccupazione dal 2009 risale fino a quando nel 2012 con la stabilizzazione della crisi, la differenza nei livelli di disoccupazione toma a crescere. Per circa un ventennio la mobilità da Sud a Nord è diminuita, segnando una balcanizzazione del mercato del lavoro, grazie per esempio al maggior benessere economico, le differenze nei costi della vita... questi motivi spiegano perché fin dai primi anni 90 sia aumentato il pendolarismo (mobilità interna temporanea). Ora da Sud a Nord si traferiscono principalmente i giovani diplomati o laureati. In Italia si sono consolidati due mercati del lavoro: quello del Centro-Nord con tassi di occupazione intorno al 65%, e quello del Mezzogiorno con tasso di occupazione inferiore al 45%. Negli anni ‘90 nel Mezzogiorno la differenza tra il tasso di disoccupazione maschile e femminile oscillava di molti punti rispetto al Centro-Nord. Il divario è poi crollato superando di poco quello del Centro-Nord. Per quanto riguarda la penalizzazione per età, la differenza tra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti, nel Mezzogiorno, è stato molto più elevato che nel Centro-Nord, ma il divario si è ridotto con la crisi del 2009. Mentre le regioni centro-settentrionali sono caratterizzate da uno svantaggio delle donne e dei giovani relativamente moderato, nelle regioni meridionali, la loro situazione è sempre stata drammatica. La grande crisi ha ridotto la penalizzazione delle donne ma ha aumentato quella dei giovani. Le donne nel Mezzogiorno sono meno presenti tra i disoccupati in quanto gli alti tassi di disoccupazione insistono su un'offerta di lavoro femminile ancora ridotta. Mentre per quanto riguarda l’età, il minor livello di invecchiamento della popolazione fa sì che nel Mezzogiorno, tra le persone in cerca di lavoro la % dei giovani sia poco inferiore di quella del Centro-Nord. La crescita dei disoccupati si è invece rilevata negli ultratrentenni. Tra le persone in cerca di lavoro, sono sempre meno coloro che sono privi di precedenti esperienze lavorative ma il divario territoriale rimane forte. Lo stato di attesa del primo lavoro ha assunto una dimensione drammatica in particolare nelle grandi aree urbane del Mezzogiorno. Inoltre, un’altra importante differenza è data dal fatto che nelle regioni meridionali si è verificato un processo di riduzione del tasso di occupazione dei capifamiglia maschi che non si è verificata nelle regioni del Centro-Nord. Perciò l'aumento della % di persone che vivono in famiglie senza occupati, nel Centro-Nord è stato modesto ma nel Sud può essere devastante. La disoccupazione giovanile è anche intellettuale? In Italia la disoccupazione è stata classificata come intellettuale in quanto tra le persone in cerca di lavoro vi sono molti laureati e diplomati. Nonostante il forte aumento dell'accesso dei giovani all’istruzione superiore, le opportunità educative sono rimaste diseguali a livello sociale. Tuttavia, sembra che le migliori condizioni economiche e sociali della famiglia non riducano il tempo di ricerca del lavoro dei figli ma, anzi, ne consentono il prolungamento secondo la strategia dell’attesa del posto buono. La disoccupazione, sostanzialmente, non aveva mai colpito un modo così diffuso il ceto medio e la borghesia dei professionisti. Si tratta comunque di un fenomeno transitorio ma che ha causato un incrinamento del sentimento di sicurezza delle persone medio-altolocate. L'elevata scolarità viene considerata come una difficoltà aggiuntiva alla ricerca di un'occupazione per un giovane. Partiamo dai primi anni ’70 in cui si affermava l’ipotesi della scuola come area di parcheggio per giovani in attesa di lavoro. In seguito, dopo la riduzione dell’offerta di lavoro, si è potuto notare come l’accresciuta scolarità delle nuove generazioni non fosse dovuto ad una riduzione dell’offerta ma da un aumento per le femmine. Tuttavia, la spinta verso una maggiore istruzione è in contraddizione con le esigenze del sistema economico, infatti ne deriverebbe uno spreco di forza lavoro istruita. Questo spreco può assumere due forme: 1. Spiazzamento: dei giovani meno istruiti da parte dei più scolarizzati che occupano posti di lavoro per i quali sono richieste competenze inferiori a quelle acquisite nel sistema formativo. Quindi, i meno istruiti non restano senza lavoro a causa del deficit formativo ma perché per la concorrenza dei più istruiti, disposti ad accettare attività per cui sono sovrascolarizzati. 2. | più istruiti non spiazzano i meno istruiti quando accettare un impiego non corrispondente al titolo di studio, è considerato un declassamento sociale e una dequalificazione professionale. Quindi quando c'è un eccesso di forza lavoro istruita, gli istruiti rimangono disoccupati. La relazione tra i livelli di istruzione e le diverse soglie di accettabilità sociale dei posti di lavoro cambia in ogni società e nel tempo. Nel lungo periodo possiamo notare un progressivo slittamento verso l’alto nei livelli di istruzione per le stesse posizioni lavorative. Oppure possiamo notare come che sono cresciute le competenze richieste per una stessa professione. Comunque, ogni corrispondenza tra livelli di istruzione e posizioni lavorative è frutto di una convenzione sociale, dipendente dalle aspettative che esistono in una data società in un certo momento. Per l’Italia, secondo un’indagine, si può notare come ci sia un netto svantaggio per i diplomati rispetto ai giovani meno istruiti solo alla fine degli anni ’70; a fine anni ’90, invece, il rischio di restare senza lavoro dei neodiplomati è uguale a quelli con istruzione inferiore. Con la grande crisi del 2009, la situazione cambia. Consideriamo anche che i giovani laureati hanno sempre avuto un inserimento nel mercato del lavoro meno difficile che per i diplomati. Quindi di disoccupazione intellettuale si può parlare dagli anni "70 alla fine degli anni ’90 e solo per i diplomati. Quando alla metà degli anni ’70, i giovani diplomati uscivano, si aspettavano di trovare un lavoro non manuale ma non riuscendo a trovarlo, NON si accontentavano di ciò che trovavano spiazzando i meno istruiti. Solo successivamente le aspettative dei giovani si sono adeguata alla domanda di lavoro italiana. Nell’Italia centro-settentrionale, nemmeno negli anni ’80 la disoccupazione giovanile si caratterizzava come intellettuale. Nel Mezzogiomo era diversa. Lo svantaggio dei diplomati alla fine degli anni '70 fu enorme. Invece, i laureati anche a fine anni '70 avevano una posizione di vantaggio, che si ridusse solo a metà anni 2000. La più duratura e rilevante situazione di svantaggio dei neodiplomati rispetto a chi aveva la licenza media si può spiegare considerando che nel Mezzogiorno la cesura tra lavoro manuale e non è più forte. Un piccolo vantaggio per i giovani istruiti italiani? Il vantaggio dei giovani istruiti italiani è maggiore o minore di quello in altri paesi? Sia le differenze istituzionali, sia quelle che riguardano i gradi di apprendimento non contano se si confronta il vantaggio a livello del MdL di cui godono i giovani in possesso di un titolo di studio elevato rispetto ai meno istruiti. In tutti i paesi europei il tasso di disoccupazione dei giovani con un livello di istruzione medio o alto è inferiore a quello dei giovani meno istruiti. Ma, il vantaggio comparato dei giovani istruiti in Italia è nettamente inferiore a quello di cui godono i giovani istruiti in altri paesi europei. peculiari strategie di solidarietà intergenerazionale, per cui i genitori sono disposti a compiere grandi sacrifici affinchè i figli possono accedere a posizioni lavorative congrue con il titolo di studio raggiunto. La presenza di persone ben inserite nel mondo del lavoro e nel Mezzogiorno una buona collocazione della famiglia nel sistema politico sono fattori importanti per trovare un buon lavoro. Il comportamento di attesa del posto buono in famiglia è estato spiegato, con il tradizionale familismo che caratterizza l’Italia così come gli altri paesi dell'Europa meridionale. In Italia chi esce presto dalla famiglia di origine corre maggiori rischi di avere problemi economici per mancanza di lavoro o scarsi redditi. Infatti nel Mezzogiorno molto più che nel Centro-Nord una prima occupazione sottoqualificata condiziona negativamente tutta la carriera lavorativa successiva, dunque per un giovane alla ricerca del primo impiego è relazionale rimanere a lungi in attesa del posto “giusto” rispetto al proprio titolo di studio per non rischiare di essere intrappolato in un lavoro scadente in particolare nel Mezzogiomo. Attesa del lavoro, sussidi ed economia sommersa Per i disoccupati adulti nel Mezzogiorno significativa è la presenza nei bilanci familiari di varie forme di trasferimenti monetari pubblici: dalle indennità di disoccupazione agricola alle pensioni sociali e di invalidità. Negli anni Settanta e Ottanta il ruolo più importante del reddito dei disoccupati meridionali fu svolto dalle pensioni di invalidità elargite con riguardo alla cattiva situazione del mercato del lavoro locale più che alla reale situazione di disabilità. La riforma del 1984 ne bloccò la diffusione, ma solo dieci anni dopo se ne videro i risultati, contraddetti dalla grande diffusione delle invalidità civili di altre forme di sussidi non specifici. Degli studi condotti verso la fine degli anni Settanta attribuivano a questi sussidi assistenziali l’effetto di incentivare il lavoro nero e di diffondere clientelismo e omertà. Il lavoro nero ha avuto attenzione e svolge un ruolo importante nelle strategie di azioni dei disoccupati adulti. In passato i settori dominanti erano l’edilizia e l'agricoltura e adesso prevalgono i mille mestieri urbani: dal commercio ambulante all’imbianchini, dl barbiere al trasportatore abusivo; mentre per le donne il lavoro a domicilio e quello domestico si accompagnano al lavoro agricolo stagionale. Nelle grandi città sono diffusi attività illegali (contrabbando, bagarinaggio, vendita abusiva) e anche criminali ( lo spaccio di droga, la manovalanza nella delinquenza di tipo mafioso o camorristico). Per quanto riguarda la disoccupazione meridionale maschile e femminile, attività saltuarie e piccoli traffici contribuiscono alla sopravvivenza, ma non ne attuano né l’attivismo nella ricerca di un'occupazione, né tanto meno la percezione di sentirsi disoccupati. Una disoccupazione socialmente grave, ma non economicamente seria? Tra gli Ottanta e Novanta le tensioni sociali furono minori come l'impatto sulla povertà rispetto, per esempio, agli anni Cinquanta che bastò un livello di disoccupazione ben inferiore per provocare una diffusa insicurezza. Per comprendere la differenza tra chi cercava lavoro nell’Italia di allora e chi lo cercava negli anni Cinquanta di distinse una dimensione economica da una sociale della disoccupazione. La grande disoccupazione provocata dalla lunga crisi esplosa del 2009 per alcuni aspetti assomiglia di più a quella del primo dopoguerra che a quella degli anni Ottanta e Novanta, poiché tra i senza lavoro vi sono meno giovani e più capifamiglia, meno donne e più maschi e quindi si ripropone la questione della relazione tra disoccupazione e povertà. Disoccupazione e povertà Negli anni Ottanta in Italia la povertà sembrava separarsi almeno in parte dalla disoccupazione e trovare altre cause: soprattutto l’età avanzata, le cattive condizioni di salute e l’alto numero dei figli. | poveri erano meno del 13% dei disoccupati e i disoccupati non raggiungevano il 5% dei poveri; oltre il 70% dei poveri si trovava in condizione non professionale ed erano anziani, casalinghe o minori. Anche se la mancanza di lavoro influiva sulla povertà nel 1998 le famiglie di adulti disoccupati del Mezzogiorno superavano di poco il lunario, poiché i disoccupati giovani che vivono con i genitori sono quelli che meno dichiarano di soffrire difficoltà economiche. Dopo la grande crisi la composizione della disoccupazione fa sì che la sua relazione con la povertà si accentui. Ormai quasi il 12% delle famiglie in Italia e un quinto nel Mezzogiomi sono prive di redditi da lavoro o da pensioni da lavoro e quindi ad alto rischio di povertà. E tra quelle in cui vive almeno un disoccupato le famiglie prive di ogni reddito da lavoro, anche pensionistico sono giunte a superare il 33% e a sfiorare il 40% nel Mezzogiorno. Piuttosto la crescente diffusione di lavori saltuari a tempo parziale o poco pagati ha fatto sì che anche in Italia sia ricomparsa la figura dei working poors, cioè dei lavoratori con infime retribuzioni che nel pieno della crisi sono ormai oltre il 15% dei lavoratori dipendenti. Le conseguenze psicologiche della disoccupazione giovanile Le ricerche sulle conseguenze psicologiche della disoccupazione affrontano per lo più trauma provocato dalla perdita del lavoro, che spesso genera apatia più che protesta. La mancanza di lavoro può avere effetti differenti a seconda delle diverse fasi del ciclo di vita. Il lavoro rimane un elemento centrale nelle esperienze di vita dei giovani se la ricerca di un'occupazione tale da consentire l'uscita della famiglia il giovane può subire una situazione di disagio psicologico grave. Il ritardo nell’acquisire l'indipendenza economica dalla famiglia rischia di bloccare lo sviluppo psicosociale dei giovani. La causa del grave disagio dei giovani non sta tanto nell’assenza di un lavoro, ma nella situazione di insicurezza che impedisce qualunque progetto di carriera professionale e di vita.
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