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Sociologia dell'arte di Nathalie Heinrich, Appunti di Sociologia Dei Processi Culturali

Riassunto dettagliato del libro con relativi concetti fondamentali

Tipologia: Appunti

2018/2019
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Scarica Sociologia dell'arte di Nathalie Heinrich e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! La sociologia dell’arte Di Nathalie Heinrich INTRODUZIONE Soltanto lo 0,5% della produzione sociologica riguarda la sociologia dell’arte. Tale affermazione implica che i criteri che ne delimitano i confini sono assai labili, dal momento che non è mai facile stabilire ciò che appartiene o meno al suo campo CAPITOLO PRIMO - DALLA PREISTORIA ALLA STORIA I fondatori della sociologia attribuirono al problema estetico un’importanza marginale. Durkheim affrontò il problema dell’arte solo nella misura in cui essa costituiva un diverso modo di rapportarsi alla religione. Solo Georg Simmel approfondì il problema, tentò di mettere in evidenza il condizionamento sociale dell’arte e l’influenza delle visioni del mondo sulle opere d’arte. Agli inizi della sociologia dell’arte la storia culturale fu molto presente. Fra gli storici dell’arte inglesi soprattutto William Morris si sono interessati alle funzioni sociali dell’arte e delle arti applicate. In Francia Gustave Lanson all’inizio del XX sec ha tentato di dare un orientamento sociologico alla storia della letteratura. Ma la storia culturale dell’arte conoscerà uno straordinario sviluppo nel 900. Nel 1926, un giovane storico, Edgar Zilsel, ricostruisce in un libro gli spostamenti dell’idea di genio nei diversi campi della creazione e della scoperta e dimostra come il valore attribuito inizialmente alle opere tenda ad essere trasferito sulla persona del creatore. Ernst Kris e Otto Kurz nel 1934 pubblicarono un’opera “la leggenda dell’artista” divenuta insuperata nel suo genere, è un’indagine sulle rappresentazioni dell’artista attraverso lo studio delle biografie e dei motivi ricorrenti che rimandano ad un immaginario collettivo. Da questo libro è assente ogni intento critico o progetto esplicativo. Alla storia culturale dell’arte si ricollega anche l’opera del più celebre storico dell’arte tedesco Erwin Panofsky, rileva l’omologia fra le forme architettoniche e l’organizzazione del discorso dotto del medioevo. Uno dei grandi contributi all’interpretazione delle immagini consiste nell’avere distinto tre livelli di analisi: • Iconico (dimensione propriamente plastica). • Iconografico (convenzioni pittoriche che ne permettono l’identificazione). • Iconologico (la visione del mondo sottesa all’immagine). In uno dei primi libri egli analizza l’uso della prospettiva come correlata a una filosofia dei modi di rapportarsi al mondo. Sostiene che nell’antichità esisteva una prospettiva curvilinea corrispondente ad una visione soggettiva empirica. Nel medioevo si sviluppa un sistema prospettico lineare che corrisponde ad una visione del mondo. Questo modo divenuto naturale costituisce una razionalizzazione della visione. La sociologia dell’arte è nata in ambito degli specialisti di estetica e della storia dell’arte, animati dalla volontà di rompere nettamente con la tradizione incentrata sul binomio artisti/opere. Nel momento in cui fu introdotto, negli studi sull’arte, un terzo termine - la società - si aprirono nuove prospettive e si formò una nuova disciplina. Ma i modi di sperimentare tali possibilità sono tanti. Fra essi possiamo distinguere tre tendenze principali in cui operano e si incrociano generazioni intellettuali, origini geografiche, appartenenze disciplinari e principi epistemologici: 1. Estetica sociologica (1900-1950): durante la prima metà del XX secolo, la preoccupazione di stabilire un nesso tra arte e società si manifestò sia a livello estetico sia a livello filosofico. L’estetica sociologica non fa ricerca empirica, ma affronta lo studio dell’arte in termini teorici, speculativi, astratti. All’interno di essa vi troviamo la tradizione marxista, la scuola di Francoforte e la storia dell’arte. 2. Storia sociale dell’arte (1940-1970): proviene dagli storici dell’arte e da una tradizione molto più empirica, particolarmente sviluppata in Inghilterra e in Italia. Questi studiosi sostengono un tipo di ricerca basata sui documenti e si sono adoperati ad immergere concretamente l’arte nella società. Questa corrente ha permesso di integrare o di rivestire il problema tradizionale degli autori e delle opere con quello dei contesti nei quali si evolvono. A differenza dei predecessori non aspirano né a una teoria dell’arte né a una teoria della società. 3. Sociologia empirica (1950-giorni nostri): questa disciplina ha avuto i centri maggiori in Francia e negli Usa ma l’università ha un ruolo secondario. Condivide con la precedente l‘indagine empirica applicata, però, al presente (non al passato). Anche la problematica è mutata: non si esamina più l’arte e la società o l’arte nella società, ma si indaga l’arte come società, ovvero l’insieme delle interazioni, degli attori, delle istituzioni in un processo evolutivo comune teso a fare esistere ciò che chiamiamo arte. CAPITOLO SECONDO - LA PRIMA GENERAZIONE: L’ESTETICA SOCIOLOGICA Nella svalutazione dell’autonomia dell’arte e dell’idealizzazione dell’arte riconosciamo i momenti fondatori della sociologia dell’arte. L’idea di una tradizione extra-estetica ha i propri antecedenti in filosofia. Già nel 1865, Hippolyte Taine, volendo applicare all’arte il modello scientifico, affermava che l’arte e la letteratura variano secondo la razza, l’ambiente, il momento e insisteva in un grande slancio positivista, sulla necessità di conoscere il contesto. Molti anni dopo Charles Lalo porrà le basi di una “estetica sociologica”, distinguendo, nella “coscienza estetica”, i fatti anestetici (ad esempio, il soggetto di un’opera) e i fatti estetici (ad esempio, le proprietà plastiche). Egli opera un rovesciamento di prospettiva (analogo a quello d Marcel Mauss), affermando che “non si ammira la Venere di Milo perché è bella, è bella perché la si ammira”. La generazione dell’estetica sociologica affronta lo studio dell’arte in termini teorici, speculativi, astratti, quindi, non fa una ricerca empirica. La Heinich la definisce come una generazione di studi incentrata sull’analisi del rapporto tra arte e società, all’interno del quale troviamo la tradizione marxista, la scuola di Francoforte e la storia dell’arte (una certa variante sociologica della sociologia dell’arte). Con la tradizione marxista, il problema dell’arte divenuto sociologico ha assunto un’importanza determinante nell’applicazione delle tesi del materialismo. Ma Marx nei suoi testi affronta i problemi relativi all’estetica attraverso la constatazione - paradossale, in prospettiva - dell’”eterno fascino” esercitato dall’arte greca, suggerendo che non esiste relazione alcuna fra “certe epoche di fioritura artistica” e lo “sviluppo generale della società”. È stato il russo Georgij Plekhanov, nel 1912, a porre le basi di un approccio marxista all’arte, che viene presentata come un elemento della “sovrastruttura”, materiale ed economica di una società. L’ungherese Gyorgy Lukács ne ha proposto un’applicazione meo meccanica affermando che il legame fra le condizioni economiche e la produzione artistica è costituito dallo “stile di vita” di un’epoca. Nelle sue opere egli riconduce sostanzialmente i diversi generi alle grandi tappe della storia occidentale, rilegge la letteratura alla luce delle lotte del proletariato e ella borghesia e analizza il ritmo dello stile vedendovi il riflesso del rapporto tra società e lavoro e propugnando il realismo letterario come il solo capace di rappresentare la vita sociale nella sua totalità. L’applicazione dell’analisi marxista alle arti visive è dovuta soprattutto ad alcuni storici dell’arte inglesi: Francis Klingender esamina i rapporti fra la produzione pittorica e la rivoluzione industriale iniziata nel XVIII secolo, considerando le opere più come lievito che come specchio del grande evento e gli artisti come protagonisti di quel processo. Frederick Antal si interroga sulle ragioni della coesistenza in uno stesso contesto, durante il XV secolo, di opere molto diverse sul piano formale, quali le Madonne di Masaccio e di Gentile da Fabriano, le une progressiste, le altre retrograde. In queste opere egli vede riflessa la diversità delle concezioni del mondo a seconda delle classi sociali, in un’epoca in cui si affermano le classi medie e la grande borghesia mercantile e finanziaria che tendeva a razionalizzare e a matematizzare i modi della rappresentazione. Nello stesso periodo, Arnold Hauser propone una spiegazione dell’intera storia dell’arte fondata sul materialismo storico, dove le opere d’arte sono interpretate come un riflesso delle condizioni socioeconomiche: il manierismo, per esempio, sarebbe espressione della crisi religiosa, politica e culturale del Rinascimento. Hauser è stato criticato sotto molti aspetti: il modo monolitico di considerare le epoche (diversamente da Antal, più sensibile alle dissonanze); la priorità attribuita - per principio - alle opere, considerate in se stesse e isolate dai loro contesti, a scapito delle condizioni di produzione e di ricezione; o anche l’utilizzazione di categorie estetiche prestabilite - manierismo, barocco - tendenti a presentare l’arte come un fatto trans-storico. L’energica contestazione dell’approccio marxista da parte di un altro storico dell’arte, Ernst Gombrich, rivela tutto lo scetticismo che le analisi di questo tipo destano negli specialisti, indipendentemente da qualsiasi appartenenza ideologica. Instaurare un rapporto di causalità fra entità così diverse - le opere d’arte, frutto di una individualità e le classi sociali, espressione di una generalità - è, infatti, un’operazione destinata al fallimento, quando ci si prefigga di conoscere la realtà e non di dimostrare un dogma. Negli anni trenta, in parallelo con la corrente marxista, erano stati pubblicati diversi saggi sull’arte dovuti ad alcuni filosofi tedeschi, che furono considerati in seguito come gruppo noto sotto il nome di “scuola di Francoforte” (Walter Benjamin, Theodor Adorno, Franz Neumann, Herbert Marcuse, Marx Horkheimer). Questa corrente, tuttavia, presenta un carattere di ambiguità dal punto di vista della sociologia dell’arte. Per un aspetto ne farebbe parte, poiché pone al centro delle proprie riflessioni i rapporti fra l’arte e la vita sociale; essa insiste, infatti, sulla dimensione eteronoma dell’arte, in quanto attività soggetta a determinazioni non esclusivamente artistiche. Ma, per un altro aspetto, il gruppo d Francoforte si allontana dalla tradizione marxista e, più in generale, dai fondamenti di una sociologia dell’arte di tenore de-idealizzante, attraverso l’esaltazione della culutra e dell’individuo, unita alla stigmatizzazione del “sociale” e delle “masse”. • Il lavoro di contestualizzazione delle pratiche artistiche ha trovato uno dei migliori rappresentanti in uno storico dell’arte inglese, Michael Baxandall: egli esamina alcuni degli aspetti inediti della “cultura visiva” del tempo, cioè i quadri di riferimento collettivi che organizzano la visione. Egli studia il sorgere dell’interesse dei letterati per le immagini; ricostruisce l’universo degli scultori del legno tedeschi, stabilendo un nesso tra la paura dell’idolatria e lo sviluppo di una percezione specificatamente estetica, più attenta alla forma che al soggetto. • L’attenzione al contesto culturale delle pratiche artistiche è presenta anche negli studi di un’americana, la storica dell’arte Svetlana Alpers. L’autrice analizza la cultura visiva dell’epoca in cui operano i grandi pittori olandesi, e in particolare l’uso della calcografia: analizza i modi in cui Rembrandt costruì la ricezione della sua opera penalizzando il proprio stile pittorico, acquistando quadri sul mercato, oppure concentrando la propria attenzione sui generi considerati a quel tempo minori: atteggiamento che porta ad attribuire maggiore importanza alle caratteristiche formali rispetto al soggetto, a tutto vantaggio di una percezione specificatamente estetica. Veniva, così, proclamata l’eccellenza della pittura in quanto tale, anticipando le concezioni romantiche dell’arte. Fare dell’artista il costruttore - e non più soltanto l’oggetto passivo - della propria ricezione è diventato un punto di forza della nuova storia sociale dell’arte, quale si è sviluppata negli anni ottanta. In questa prospettiva non ci collochiamo più a monte della produzione delle opere (mecenatismo e contesto materiale, culturale), ma a valle, ovvero dalla parte della ricezione. Dalla produzione alla ricezione: di questa evoluzione è sintomo e testimonianza il percorso dello storico inglese Francis Haskell (ha affrontato un problema di ricezione in uno dei suoi studi più importanti, dedicato alle “riscoperte dell’arte”). Fra le categorie che si interessano all’arte non vengono annoverati soltanto i mecenati e i collezionisti, anche la nozione di “pubblico” vi figura. Parallelamente alla critica d’arte che si afferma nello stesso periodo (XVIII secolo), il pubblico interessato all’arte, esercitando il proprio sguardo nello spazio aperto a tutti dei Salons ha favorito l’emancipazione del gusto degli amateurs (amatori) dalle norme accademiche e dalla gerarchia ufficiale dei generi che privilegiava la pittura di soggetto storico e svalutava i generi “minori”, in particolare le scene di vita quotidiana e le nature morte. Vi sono studi che si interessano dei fattori costitutivi del gusto (posizione sociale, istruzione, critica, mezzi di propaganda collettiva – i sottosistemi manageriale e istituzionale del sistema della ricezione di Hirsch). In Francia, Robert Escarpit ha proposto una “sociologia della letteratura” che, coniugando l’indagine storica e quella empirica, si interessa alla circolazione effettiva delle opere. Un libro, infatti, non esiste se non in quanto è letto, funzione che implica la compresenza di tre poli: produzione, distribuzione e fruizione. Ma la “sociologia della ricezione” propriamente detta è nata e si è affermata in Germania. La “scuola di Costanza” con Wolfgang Iser e Hans Robert Jauss (teoria della ricezione, Griswold), insiste sulla storicità dell’opera e ne sottolinea il carattere polisemico dovuto alla pluralità delle ricezioni. Si tratta di ricostruire l’”orizzonte di attesa” del primo pubblico, di misurare lo “scarto” estetico in base “alla scala delle reazioni del pubblico e dei giudizi della critica” e di ricollocare ogni opera nella “serie letteraria” di cui fa parte. Questa corrente tuttavia resta troppo programmatica e continua a mettere in risalto l’opera, punto di partenza e di arrivo delle ricerche, anziché concentrare l’attenzione sull’esperienza concreta del rapporto con la letteratura. Ora il problema della percezione estetica, ovvero del modo in cui le persone vedono, ascoltano o leggono un’opera è per il sociologo almeno altrettanto interessante quanto quello dei suoi significati o quello dei suoi usi pratici. Passando dal mecenatismo al contesto e, infine, alla ricezione, ci si è allontanati da un approccio esplicativo incentrato sulle opere, tipico della sociologia dell’arte di prima generazione. Ma con lo studio dello statuto degli artisti si è fatto un passo avanti: osservando più da vicino le condizioni della produzione, si rifiuta la primitiva idea secondo la quale il sociale è esterno all’arte, posizione che esonerebbe gli artisti da qualsiasi preoccupazione, salvo quella estetica. La questione dello statuto dei produttori d’arte può essere affrontata sia in una prospettiva istituzionale, attraverso gli aspetti concreti in cui si inquadra l’attività, sia in termini di identità o di immagine dell’artista, attraverso le rappresentazioni cui danno luogo i vari modi di concepirlo o di percepirlo, seguendo la via aperta già nel 1934 da Kris e Kurz. Non per questo l’immaginario intorno all’artista sarà meno intimamente legato allo statuto o all’identità effettivi dei creatori. La heinich ha studiato in prospettiva sociologica il passaggio “dal pittore all’artista”. Ha ricostruito la situazione in cui fu creata a Parigi, in pieno XVII secolo, l’Académie royale de peinture et de sculpture, destinata a sostituire il primitivo statuto, troppo rigido, con uno statuto “liberale” delle arti e dell’immagine Esaminando in parallelo il ruolo delle istituzioni, l’influenza del contesto politico, la riorganizzazione delle gerarchie, la trasformazione dei pubblici, l’evoluzione delle norme estetiche, o anche la semantica dei termini in uso, la Heinich ha ripercorso le trasformazioni dello statuto di artista dal Rinascimento al XIX secolo in funzione di tre regimi di attività che si sono succeduti e, talvolta, sovrapporti: il regime artigianale del mestiere, dominante fino al Rinascimento; il regime accademico della professione, che si è imposto dall’epoca dell’assolutismo fino al tempo degli impressionisti; il regime artistico (in senso moderno) della vocazione, apparso nel XIX secolo, per affermarsi pienamente nel corso del XX secolo. Rinunciando di proposito a ogni tentativo di “spiegare le opere”, la Heinich ha inteso ripercorrere, nelle sue dimensioni a un temo soggettive e oggettive, l’itinerario che porta alla costruzione di una identità di artista. Allo stesso indirizzo di ricerca si riallacciano altri importanti lavori sullo statuto delle arti. Tutti ci permettono di misurare lo straordinario sviluppo della storia sociale dell’arte nella seconda metà del XX secolo. Se ne sono aggiunti altri, a partire dagli anni sessanta, ad opera di un terzo orientamento specificatamente sociologico. CAPITOLO QUARTO - LA TERZA GENERAZIONE: LA SOCIOLOGIA EMPIRICA La terza generazione ha in comune con la storia sociale dell’arte l’indagine empirica, applicata, in questo caso, al tempo presente anziché ai documenti del passato. L’oggetto della sociologia empirica non è più l’arte e la società, né l’arte nella società, è l’arte come società, trattandosi di un approccio che analizza il funzionamento dell’ambiente in cui l’arte si manifesta: attori, interazioni, strutturazione esterna. Questa tendenza, dunque, non privilegia più le opere selezionate dalla storia dell’arte, anche se non nega affatto l’importanza o le differenze di qualità artistica: riserva, però, altrettanta attenzione ai processi di cui tali opere - indipendentemente dai loro pregi artistici - sono occasione, causa o risultante. La specificità e la forza dell’attuale sociologia dell’arte risiedono soprattutto nell’adozione delle metodologie di ricerca sociale: misurazioni statistiche, interviste di tipo sociologico, osservazioni etnologiche; tutte forme di indagine che, oltre a conseguire nuovi risultati, rinnovano le problematiche e si aprono al dialogo con altri campi della sociologia, permettendo così alla sociologia dell’arte di far propri i progressi di una disciplina in rapida evoluzione. Nel corso delle ultime due generazioni la sociologia si è resa autonoma, ha elaborato problematiche e acquisito metodi propri: la sociologia dell’arte, una volta entrata a far parte a pieno titolo della sociologia, si è a sua volta emancipata dalla tutela dell’estetica e della storia dell’arte per imboccare liberamente la propria strada. La sociologia dell’arte non è più una semplice giustapposizione di tendenze intellettuali, ma una branca del sapere con una storia, dei precursori, dei capostipiti e degli innovatori, presenti o futuri. Non è più possibile oggi immaginare un’”arte” che si costituisca la di fuori di una “società”, così come è impossibile farlo nel caso opposto - l’arte all’interno della società -, poiché l’una e l’arte si costituiscono di pari passo. L’arte è una forma, fra le altre, di attività sociale fornita di caratteristiche proprie. Finalmente liberati dall’obbligo gravoso di produrre una “teoria del sociale” partendo dall’”arte” e una “teoria dell’arte” partendo dal “sociale”, i sociologi dell’arte possono dedicarsi alla ricerca delle ricorrenze regolari che presiedono al moltiplicarsi delle azioni, degli oggetti, degli attori, delle istituzioni, delle rappresentazioni che concorrono a comporre l’esistenza collettiva dei fenomeni riconducibili al termine “arte”. I lavori ispirati ai metodi sociologici che si applicano al presente hanno il vantaggio di proporre risultati concreti, progressi effettivi nella conoscenza. In che modo presentare i risultati di questa sociologia empirica? Per maggiore chiarezza, si adotterà una ripartizione che rispetti i diversi momenti dell’attività artistica: ricezione, mediazione, produzione, opere. CAPITOLO QUINTO - LA RICEZIONE “È lo sguardo dell’osservatore a fare il quadro”, dichiarava l’artista Marcel Duchamp negli stessi anni in cui l’antropologi Marcel Mauss spiegava come basti che i clienti del mago credano nei suoi poteri magici per renderli efficaci. Lo studio della ricezione non porta a una migliore comprensione delle opere in sé; conduce soltanto a conoscere e a capire il rapporto che si stabilisce fra attori e fenomeni artistici. Uno degli atti fondatori della sociologia dell’arte all’inizio degli anni sessanta è consistito nell’applicare alla frequentazione dei musei di belle arti i metodi di indagine statistica elaborati negli Stati Uniti da Paul Lazarsfeld. Questi sondaggi di opinione si sono rivelati preziosi per misurare ciò che differenziava i vari comportamenti in funzione delle stratificazioni sociodemografiche - età, sesso, origine geografica, ambiente sociale, livello di studi e di reddito - per spiegare, all’occorrenza, i primi per mezzo delle seconde. Pierre Bourdieu è stato il più autorevole tra gli studiosi che hanno importato l’indagine statistica nel mondo della cultura. L’indagine empirica ha aperto nuove problematiche nel campo delle pratiche culturali: uscito nel 1966 L’Amore dell’arte ha costituito u notevole contributo innovativo rispetto a concezioni più astratte della sociologia accademica e ha portato ad una serie di conclusioni destinate a trasformare irreversibilmente l’approccio a questo tipo di problemi. Un primo risultato è che non si è più potuto parlare del pubblico in generale, ma dei pubblici, rinunciando così al punto di vista globalizzante sul pubblico dell’arte per ragionare, invece, in termini di pubblici socialmente differenziati a seconda delle fasce di appartenenza. Questo tipo di ripartizione rivela che l’accesso alla cultura dei musei era caratterizzato da una fortissima disuguaglianza sociale. Un secondo risultato è collegato alla ricerca di una spiegazione del fenomeno: ricorrendo al parametro dell’origine sociale si riesce a evidenziarne l’influenza, mentre prima “l’amore per l’arte”, frainteso o negato nella sua realtà, era sempre stato attribuito ad una disposizione individuale. Bourdieu ha intrapreso così una critica coerente delle “disposizioni alla cultura”, intese come inclinazione innata, per mettere in rilievo il ruolo primario dell’influenza familiare. L’”illusione del gusto puro e disinteressato”, unicamente soggettivo e finalizzato al diletto, è sfatata dalla stretta correlazione fra le pratiche estetiche e l’appartenenza sociale, “gli usi sociali del gusto”, la “distinzione” in base al processo di “beni simbolici”. L’influenza di origine sociale non si limita alla disparità dei redditi e dei livelli di vita: Bourdieu, infatti, aggiunge alla nozione marxista di “capitale economico” la nozione di “capitale culturale”, misurato sui titoli di studi superiori. L’accesso ai “beni simbolici”, non riducibili ai valori economici, non è condizionato soltanto dai mezzi finanziari, ma da “disposizioni” profondamente introiettate, meno consce e meno oggettivabili. Le conclusioni a cui è giunto hanno anche applicazioni pratiche. I musei, infatti, proprio perché ignoravano i fattori sociali di accesso alla cultura, continuavano a moltiplicare gli ostacoli invisibili, soprattutto con l’assenza di spiegazioni riguardanti le opere, chiarimenti superflui per gli iniziati, ma necessari ai profani. Bourdieu ha denunciato il fatto che i musei, anziché essere gli strumenti di una possibile democratizzazione dell’accesso all’arte, accentuano la separazione tra profani e iniziati. Dagli anni sessanta in poi, grazie a questi nuovi indirizzi, la gestione dei musei, con l’aiuto di numerosi studi sul campo, ha compiuto notevoli progressi, facendosi carico delle esigenze pedagogiche dei pubblici e di problemi di segnaletica. Contro l’idealismo di senso comune che considera l’arte soggetta unicamente alle proprie determinazioni, la sociologia sceglie di privilegiare le inclinazioni culturali, proprie degli attori, rispetto alle qualità estetiche, inerenti le opere. Da questa impostazione partono due indirizzi di ricerca: una statistica delle pratiche culturali e una sociologica del gusto. A gettare un ponte fra i due orientamenti sarà il concetto di habitus che Bourdieu sviluppa in un lungo arco di tempo. L’habitus, infatti, è il “sistema di disposizioni” introiettate dagli attori che permette loro di giudicare la qualità di una fotografia o di orientarsi in un museo. Con questo termine Bourdieu intende significare un “sistema di disposizioni durature”, una “struttura strutturata e strutturante”, ovvero un insieme coerente di capacità, di abitudini, di caratteri distintivi che formano l’individuo attraverso un condizionamento non cosciente e l’interiorizzazione dei modi di essere propri di un ambiente sociale. Questa nozione ci permette di capire in che cosa consiste lo sbarramento che impedisce l’accesso ai luoghi di alta cultura: non tanto nell’insufficienza di mezzi finanziari e neppure, in certi casi, di conoscenze, quanto nell’impossibilità di familiarizzarsi con l’ambiente, nel sentirsi a disagio, in una diffusa consapevolezza di “non essere a proprio agio”, che si manifesta nelle posture del corpo, nelle caratteristiche dell’abbigliamento, nel modo di parlare o di muoversi. L’altro indirizzo di ricerca è quello, meno teorico e più amministrativo, della misurazione statistica delle pratiche culturali. Esso ha trovato il proprio fondamento nello sviluppo - a partire dagli anni sessanta - dei servizi studi che utilizzavano le acquisizioni metodologiche delle scienze sociali per far progredire la conoscenza e migliorare i processi decisionali. Si è assistito, così, a una proliferazione di studi sulla frequentazione dei teatri, dei musei, delle sale cinematografiche, dei monumenti storici, ecc. In Francia si pubblicano regolarmente i risultati dell’inchiesta condotta dal ministero della Cultura. Da questi documenti apprendiamo che la frequentazione dei musei resta una pratica sostanzialmente minoritaria, poiché riguarda meno di un terzo della popolazione. Eppure il debole aumento percentuale della presenza di pubblico, riferito all’insieme della popolazione francese, assume un diverso significato se espresso in cifra globale; in questo caso, infatti, si constata una netta crescita degli ingressi. Dal 1960 al 1978 il numero di visite conteggiate nei musei nazionali era raddoppiato. Risultato, quest’ultimo, di due fattori concomitanti: l’innalzamento generalizzato del livello di istruzione e l’aumento dell’offerta. Per spiegare tale fenomeno il sociologo può ricorrere a due interpretazioni: o ad una democratizzazione del pubblico, dovuta all’aprirsi dei musei a nuove categorie sociali, più numerose e meno selezionate; oppure ad un’intensificazione della pratica da parte delle stesse categorie sociali, attirate più di frequente nei musei sia dal moltiplicarsi delle esposizioni, sia all’aumento del tempo libero. A conti fatti, l’una e l’altra spiegazione contengono una parte di verità, anche se la seconda ha un peso più determinante: il mondo dei musei di è democratizzato solo marginalmente; si è, invece, modernizzato, rispondendo in altissime dieci anni fa in pieno boom del mercato dell’arte, oggi non verrebbero acquistate neppure a un decimo del prezzo di allora. Dover passare attraverso questi “mediatori” può tuttavia causare qualche problema, poiché è spesso difficile dissociare la “mediazione” dai due poli che la delimitano, ovvero dalla produzione e dalla ricezione. Dal punto di vista della produzione, infatti, i quadri di riferimento mentali sono comuni a coloro che appartengono a uno stesso ambiente, qualunque tipo di attività esercitino; i curatori delle mostre tendono a conformare il loro comportamento a quello degli artisti che sono spesso i migliori promotori delle proprie opere, anche se non ne predeterminano la ricezione, come ha dimostrato Svetlana Alpers a proposito di Rembrandt. La stessa Heinich sostiene che la mediazione contribuisce talvolta persino a produrre opere, quando le procedure di accreditamento fanno parte della proposta artistica: si gioca così, sul tavolo dell’arte, una partita a tre fra produttori, mediatori e ricettori. Se invece ci poniamo dal punto di vista della ricezione, dove si devono collocare i critici: fra i mediatori o fra i ricettori? Tutto dipende dal tipo di “riconoscimento” cui tendiamo; su questa base, infatti, il giudizio degli specialisti e l’azione dei posteri acquisteranno maggiore o minore rilevanza: i critici, poco importanti quando si tratta di opere a diffusione immediata, rientrano, in questo caso, nella categoria dei ricettori, mentre diventano mediatori indispensabili in presenza di opere più difficili, a lenta diffusione. Da tutto questo nasce un interrogativo: la nozione di “mediazione”, per sua natura, non rischia forse di dissolversi nell’uso che se ne fa? Ciò non significa mettere in dubbio la validità della nozione; si tratta, al contrario, di un invito a costruire in modo diverso l’approccio al mondo dell’arte. Infatti, se si persiste a mantenere nettamente differenziati, come oggetti a sé stanti, il polo dell’”arte” (opera) e il polo del “sociale” (il contesto o la ricezione), in tal caso fra i due ci saranno numerosi “intermediari” che dovrebbero portarci dall’uno all’altro avvicinandoli sempre di più. Ma se si accetta di trattare “l’arte come società”, allora cadrà ogni divisione netta fra i due poli per fare posto a un sistema di relazioni fra persone, istituzioni, oggetti, parole, in virtù del quale si organizzano i continui spostamenti fra le molteplici dimensioni dell’universo dell’arte. A questo punto non è più un problema di “intermediari” impegnati a tessere relazioni improbabili fra mondi separati, bensì di “mediatori”, nel senso di operatori di trasformazioni - o di “traduzioni” - che fanno l’arte nella sua totalità, mentre l’arte, a sua volta, fa esistere i suoi mediatori. Questo programma può essere inteso in due modi. Secondo il modello “costruttivista”, che insiste sulla dimensione “socialmente costituita” (e pertanto non naturale e non oggettiva) dell’esperienza umana, si arriva a una critica dell’artificialismo dei valori estetici. L’altro modello, invece, ispirato alla sociologia delle scienze e delle tecniche e incentrato particolarmente sul ruolo degli oggetti, tende a mettere in evidenza il rapporto di costruzione reciproca fra realtà materiali ed azioni umane, fra ciò che è dato e ciò che è costruito, o anche fra le proprietà oggettive delle opere create e le rappresentazioni che le fanno esistere in quanto tali. In un senso più lato, per “mediazione” si può intendere anche tutto ciò che si interpone fra l’opera e il suo fruitore, confutando così l’idea presociologica di un rapporto faccia a faccia fra le due realtà. In questa prospettiva anche altri approcci possono fornire un supporto teorico alla nozione di “mediazione”: ad esempio, il concetto di “campo” elaborato da Pierre Bourdieu può ricondursi a una problematica della mediazione. La nozione di “autonomia relativa” è indissolubilmente legata al concetto di campo e Bourdieu l’ha applicata in modo specifico alla sfera dell’arte. Nessun campo, infatti, è del tutto autonomo, poiché gli attori vivono, per forza di cose e nello stesso tempo, in numerosi campi di cui alcuni sono più inglobanti o più potenti di altri. In altre parole, più un’attività è mediata grazie ad una rete di posizioni, di istituzioni, di attori, più essa tende verso l’autonomia delle proprie scelte e dei propri valori: la portata della mediazione è funzione del grado di autonomia del campo (un esempio può essere il campo letterario dove coesistono vari gradi di autonomia). Ma sia il concetto di autonomia del campo sia quello di mediazione possono essere formulati in base ad un altro tipo di approccio: la sociologia del riconoscimento. Applicata all’arte, questa problematica può fondarsi su un modello alternativo proposto da Alan Bowness. Si tratta di un modello che, oltre al vantaggio della semplicità, ha anche il merito di integrare la duplice articolazione, spaziale e temporale, di una dimensione fondamentale nella sfera dell’arte: la costruzione della notorietà di un artista. Malgrado la sua apparente semplicità, Il modello dei cerchi concentrici ambisce a coniugare tre dimensioni: innanzitutto la prossimità spaziale rispetto all’artista; poi lo scorrere del tempo rispetto alla vita presente dell’autore; infine l’importanza per l’artista del riconoscimento stesso, commisurato alla competenza dei giudici. Tutto questo può mettere in evidenza l’economia paradossale delle attività artistiche in epoca moderna, dove l’innovazione e l’originalità sono diventate criterio discriminante della qualità e fanno dell’arte il luogo privilegiato in cui applicare il “regime di singolarità”. Un grande artista può essere riconosciuto in tempi brevi, se ciò accade ad opera di altri artisti o di specialisti molto qualificati (è il caso di Van Gogh); se invece è riconosciuto dal grande pubblico, si tratta con ogni probabilità di un artista mediocre o, più precisamente, senza avvenire, oppure ancora che pratica un genere minore. Al contrario, un artista riconosciuto da pochi seguaci solo molto tempo dopo la morte non avrà superato la prova del riconoscimento. Mediazione, campi, riconoscimento: si dovrà, dunque, scegliere fra i tre modelli? Anche se questi approcci sembrerebbero escludersi a vicenda, è tuttavia più pertinente considerarli come punti di vista diversi da cui seguire la “carriera” di un’opera dal momento in cui nasce in un atelier di un pittore, nello studio di uno scrittore o di un musicista fino a quando arriva agli occhi o agli orecchi di tutti coloro che riuscirà a raggiungere. Infatti, perché un’opera sia, occorre che l’artista esca dal chiuso del lavoro per poter entrare nel campo ed operarvi grazie a nuove mediazioni debitamente articolate nello spazio e nel tempo. La teoria della mediazione ci fa capire come funzionano le cose in una rete di relazioni, ma non ci dice molto su come essa si struttura. La teoria dei campi, invece, attiene alle strutturazioni, ma non offre - o quasi - alcuno strumento per descrivere le trasformazioni e le associazioni rese poco leggibili dalla separazione a priori in campi specifici (“campo della ricezione”, “campo della produzione”). La teoria del riconoscimento ha il merito di evidenziare la catena delle mediazioni e, nello stesso tempo, l’articolazione strutturata; inoltre relativizza la nozione di “autonomizzazione”, evitando di considerarla come una evoluzione ineluttabile e universalmente accettata; ma, all’opposto, permette anche di capire i processi di irreversibilizzazione, risultato che non si può ottenere attraverso la “mediazione” sino a che tale nozione non sia costituita su basi spazio-temporali. Il problema del riconoscimento ci riconduce ad una proprietà già notata a proposito della ricezione: impossibile capire la specificità dei fenomeni artistici se non si considera la stratificazione dei pubblici, inseparabile dagli affetti di elitarismo che a loro volta si ripropongono come sfasamenti temporali fra i momenti e le modalità della riuscita di un artista (notorietà nello spazio, a breve termine, oppure posterità nel tempo, a lungo termine). Se la “sociologia del dominio” ha il pregio di rivelare le disuguaglianze, essa è tuttavia meno attrezzata per pensare le interdipendenze che costringono gli attori e le istituzioni entro sistemi di accreditamenti incrociati in cui neppure chi è dotato di maggior potere può agire arbitrariamente senza rischiare di perdere ogni credibilità. Bisogna dunque cambiare paradigma sociologico e, rinunciando a denunciare i rapporti di dominio, osservare le relazioni di interdipendenza per comprendere a quale punto - soprattutto in materia di arte - il riconoscimento reciproco sia un requisito fondamentale della vita in società e possa tradursi in pratica senza dover essere ridotto al rapporto di forza o alla “violenza simbolica” che condannerebbero gli “illegittimi” al risentimento e i “legittimi” al senso di colpa. La problematica del riconoscimento permette infine di sciogliere il nodo delle gerarchie estetiche, superando sia la rappresentazione di senso comune, sia l’estetica di una élite culturale. In questa prospettiva, infatti, ciò che interessa il sociologo non è decidere se, nell’arte, la gerarchia dei valori sia fondata oggettivamente oppure se sia soltanto un effetto della soggettività, una pura e semplice costruzione; al sociologo preme invece descrivere la “crescita in oggettività”, in altre parole l’insieme delle procedure di oggettivazione che permettono a un oggetto dotato delle proprietà richieste di acquisite e di mantenere i segni di valorizzazione che ne faranno un’”opera” agli occhi delle diverse categorie di attori (Heinich). CAPITOLO SETTIMO - LA PRODUZIONE Coloro che producono l’arte sono i creatori. Diversamente dai pubblici e dagli intermediari, gli artisti sono sempre stati ben presenti nella storia dell’arte, sia attraverso le attribuzioni sia attraverso le biografie, ma a titolo individuale. Che cos’è un autore? Con questa domanda Michael Foucault dava inizio alla decostruzione di una categoria che, semplice in apparenza, si rivelava, a un esame più accurato, insidiosamente complessa. Infatti, l’operazione che sta alla base della sociologia delle professioni è un’impresa ardua. La definizione degli artisti si scontra con un duplice ostacolo: la distinzione fra arti maggiori e minori o mestieri dell’arte e dall’altra la separazione tra professionisti e amatori. I criteri classici propri della sociologia delle professioni - ovvero l’enumerazione e la descrizione di una categoria di soggetti attivi al fine di stabilirne la morfologia sociale (quanti sono e chi sono) - è impresa al limite del realizzabile quando si tratta di artisti; non per nulla essi sono stati a lungo assegnati alla rubrica “vari e diversi” nella classificazione delle categorie socioprofessionali adottate dagli istituti di statistica. La definizione di artisti si scontra con un duplice ostacolo, che rimanda ad una duplice gerarchia: da una parte la distinzione fra arti maggiori e arti minori o mestieri d’arte; dall’altra la separazione fra professionisti e amatori. In questo caso i criteri classici propri della sociologia delle professioni - reddito, titolo di studio, appartenenza ad associazioni di categoria - sono quasi inutilizzabili: l’attività artistica, anche per il fatto di non essere, in sostanza, indirizzata a fini economici, è spesso abbinata a un secondo mestiere che procura la maggior parte del reddito; inoltre si può imparare ad esercitare un’arte senza passare attraverso un insegnamento istituzionalizzato. La ricerca diretta da Raymonde Moulin offre una interessante caratterizzazione degli artisti francesi all’inizio degli anni ottanta. I pittori e gli scultori sono in maggioranza uomini e la proporzione cresce di pari passo con l’indice del successo. Gli artisti hanno origini sociali eterogenee, poiché provengono da ambienti diversissimi. Infine, accade spesso che gli intervistati si dichiarino “autodidatti” (senza titoli di studio) anche quando hanno conseguito degli studi superiori. L’indagine si conclude con il tentativo di leggere i rapporti che intercorrono fra le variazioni dell’orientamento estetico e l’effetto prodotto dalle singole generazioni, al fine di spiegare attraverso dei fattori generazionali le scelte relative all’espressione artistica. Ma il risultato non è molto convincente. Il progetto di Pierre Bourdieu, per conto, è nettamente esplicativo ed orientato verso le opere; egli, infatti, si propone di fare la “sociologia dei produttori” d’arte. Egli intende palesemente porre “i fondamenti di una scienza delle opere il cui oggetto non sia soltanto la produzione materiale dell’opera, ma anche la produzione del suo valore”. La sociologia dei produttori si pone dunque come un passaggio obbligato per approdare alla sociologia delle opere, in una prospettiva che non sia descrittiva, ma esplicativa e, in certi casi, critica, quando intende denunciare le “credenze” degli attori. Bourdieu non si discosta dunque dal progetto materialista classico, rivolto a spiegare l’opera d’arte: ma l’autore non lo fa più descrivendo le caratteristiche dei mecenati o il contesto della ricezione, bensì analizzando tutto ciò che concerne il produttore delle opere. Tuttavia, la figura dell’artista non è più esaminata in quanto individuo con una propria psicologia, come avviene nell’estetica tradizionale, né in quanto membro di una classe sociale, come vuole la tradizione marxista, ma in quanto egli occupa una determinata posizione nel “campo di produzione ristretta” in cui si esplica la sua creazione. Al parametro collettivo del “campo” corrisponde per omologia il parametro individuale - risultante comunque da condizioni sociali - che è l’habitus, attraverso l’aggiustamento fra strutture dell’attività e disposizioni incorporate. Come abbiamo già visto parlando di “campo” e di “mediazione”, questa analisi ha il vantaggio di evitare il rischio di subordinare l’opera e il produttore individuale ad una istanza troppo generale (la società o anche una determinata classe sociale) grazie al concetto di “autonomia relativa”. Essa trova tuttavia dei limiti nel suo stesso progetto, organizzato con lo scopo di mettere in evidenza gli effetti di “legittimazione” in virtù dei quali i valori “dominanti” si impongono ai valori “dominati” che li riconoscono come “legittimi”. Il concetto di “legittimità”, mutuato da Max Weber, ha una delle sue principali applicazioni nel campo dell’arte; esso costituisce, infatti, il fondamento di una sociologia del dominio tesa a mettere in luce le gerarchie più o meno aperte che strutturano il campo, per sfociare in una “demistificazione” delle “illusioni” che gli attori nutrono a proposito del loro rapporto con l’arte. Ma c’è un inconveniente: la sociologia del dominio, incentrando il proprio interesse sulle strutture gerarchiche, non favorisce la descrizione concreta delle interazioni effettive, molto più complesse di quanto appaiono se le si riduce a un semplice rapporto di forza fra dominanti e dominati. Infine questa sociologia è poco compatibile con l’analisi comprendente del senso che le rappresentazioni del processo creatore assumono per gli attori. Ne I mondi dell’arte il sociologo americano Howard Becker riflette sulla produzione dell’arte; descrive le azioni e le interazioni di cui le opere sono la risultante. Si tratta infatti, di studiare “le strutture dell’attività collettiva nell’arte” nel solco di una tradizione “relativistica, scettica e democratica” in antitesi sia con l’estetica umanistica sia con la sociologa tradizionale dell’arte, finalizzate entrambe ad una analisi del “capolavoro”. Un aspetto particolarmente originale dell’analisi di Becker consiste nel fatto che essa non riguarda solo un tipo creazione, ma le forme più diverse dell’espressione artistica (la letteratura, la musica, la fotografia…). In ciascuno di questi campi egli mette in evidenza la necessità di coordinare le azioni in un universo sostanzialmente multiplo, sia riguardo ai momenti dell’attività, sia ai tipi di competenze, sia alle categorie dei produttori. Questa descrizione empirica dell’esperienza reale la rivela come collettiva, coordinata ed eteronoma, ovvero sottoposta a condizionamenti materiali e sociali esterni ai problemi specificamente estetici: grazie a questo approccio Becker decostruisce alcune concezioni radicate nella tradizione, quali la superiorità intrinseca delle arti e dei generi maggiori, l’individualità del lavoro creativo, l’originalità o singolarità dell’artista. Nasce così un interrogativo fondamentale che investe l’intera disciplina sociologica: se si riducono le rappresentazioni, immaginarie e simboliche, allo statuto di illusioni pericolose o dannose, non si finisce per privarsi della possibilità di stesse”. In questo caso si tratta di descrivere le operazioni che permettono agli attori di escluderle o includere il “valore sociologico” nella categoria “arte”, e le giustificazioni fornite dagli attori a sostegno della loro posizione. La nozione di “interpretazione” riveste troppi significati. Essa può indicare sia la spiegazione di un oggetto mediante fenomeni esterni ad esso, ovvero ricerca dei rapporti di causa e di effetto fra due entità più o meno eterogenee; sia l’estrazione di elementi privilegiati al fine di ricavare un modello generale a partire da un corpus empirico; sia, ancora, la ricerca di un senso nascosto. Fin dalle sue origini la sociologia dell’arte si è occupata di interpretazione. Secondo il sociologo Bruno Péquignot, nel suo scritto, il saggio di Michel Foucault su Velázquez dimostra la possibilità di una sociologia delle opere, capace di rintracciare dei fenomeni generali in certi temi e in certe strutture formali. Il punto di vista di Péquignot solleva alcuni problemi e, più precisamente, il problema del ruolo che, nel saggio su Velázquez, svolgono sia le preoccupazioni del commento sia le caratteristiche del suo oggetto. Innanzitutto le analisi di opere prese isolatamente, come avviene nel testo di Foucault, rappresentano una eccezione: opere che si prestino così bene alla proiezione di significati generali non abbondano certo nei musei o nelle biblioteche e meni ancora nelle sale da concerto. Ed è altrettanto innegabile che il margine lasciato all’interpretazione si riduce ulteriormente per l’intervento di un altro fattore: simili analisi, infatti, sono soltanto - e a stento - pertinenti per le opere narrative o figurative, mentre non lo sono per la musica. E, per finire, la pertinenza di queste analisi è anche limitata dal grado di autonomizzazione delle opere prese in esame. Un altro problema riguarda le categorie entro le quali il pensiero inquadra le opere analizzate. Infatti, se si assumono le classificazioni e le scale di valori indigene come fossero categorie oggettive, si corre il rischio di produrre semplicemente il lavoro degli attori. Un terzo problema riguarda il progetto che anima queste analisi e le conduce a contrapporsi sia all’idealizzazione sia all’autonomizzazione dell’arte, due tendenze tipiche dell’estetica tradizionale. Infatti, voler dimostrare l’eteronomia delle opere, intrepretate come espressioni di una società o di una classe sociale prese nel loro insieme, significa attribuire loro un potere straordinario e contribuire, quindi, a idealizzarle. Il progetto critico della sociologia dell’arte esigerebbe al contrario che le opere d’arte fossero considerate pure produzioni formali, soggette soltanto a condizionamenti interni. Tuttavia, non si può affermare l’eteronomia dell’arte riconducendone il significato ad una istanza molto generale e al tempo stesso opporsi alla sua idealizzazione: occorre scegliere fra critica ed ermeneutica - oppure cambiare radicalmente il proprio punto di vista. Un approccio “pragmatico” sarebbe invece meno vulnerabile. Che cosa intendiamo per approccio pragmatico? Da un lato si tratta di analizzare cosa fanno le opere d’arte e non in cosa consistano, che cosa valgano o che cosa significhino; e, dall’altro lato, si tratta di osservarle in situazione per mezzo dell’indagine empirica. In quanto fattori di trasformazione, le opere possiedono delle proprietà intrinseche che agiscono in modi e su elementi diversi. La Heinich sostiene che le proposte degli artisti contemporanei hanno contribuito ad estendere in modo straordinario la nozione di arte e nel contempo a provocare una frattura sempre più profonda tra gli iniziati che integrano questo ampliamento al loro sazio mentale e i profani che reagiscono riaffermando i limiti del senso comune. Ora, per studiare le azioni esercitate dalle opere, occorre avere una nozione chiara e completa dei termini in cui si deve studiare il problema: da un lato bisogna descrivere le condotte degli attori, degli oggetti, delle istituzioni, delle mediazioni, delle circolazioni dei valori partendo dalle opere d’arte e riflettendo su di esse; dall’altro descrivere tutto quello che, in riferimento alle loro proprietà formali, rende tali condotte necessarie. Il sociologo può così indagare le “opere in sé”. Prendiamo come esempio l’autenticità, nozione fondamentale nel rapporto con le opere d’arte. L’estetica sociologica tenderà a stabile, da un punto di vista essenzialmente speculativo, che cosa faccia sì che un’opera d’arte possa definirsi “autentica”. La sociologia critica mostrerà, invece, come e perché il modo di procedere dell’estetica sociologica racchiuda una ideologia o, in termini più moderni, una “costruzione sociale” che dissimula i processi di “imposizione di legittimità” estetica per mezzo della “violenza simbolica” esercitata sugli attori, indotti in tal modo a “crederci”. Quanto alla sociologia pragmatica, essa si svolgerà nel solco della tradizione definita “etnometodologica”, a studiare concretamente le procedure di autentificazione adottate dagli esperti e le competenze richieste a tale scopo; stabilirà ed elencherà le proprietà degli oggetti ai quali gli attori attribuiscono un carattere e un valore di “autenticità”. E i contesti in cui ha luogo questa operazione; infine, analizzerà il tipo di emozioni provocate negli attori quando si trovano in presenza di un oggetto percepito “autentico” e il rapporto fra questa azione e le proprietà dell’oggetto. Quando gli attori si interessano alle opere, si dovrà cercare di capire proprio questo loro interesse, ovvero cosa lo motiva, come si organizza, si giustifica, si consolida in giudizi di valore, in interpretazioni, in istituzioni, in oggetti materiali; e quando l’investimento sull’arte non passa prioritariamente attraverso le opere, si tratterà di capire gli attori osservando gli oggetti che amano o disprezzano, che ammirano o detestano. Il problema consiste, dunque, nel lasciarsi guidare dalle diverse categorie di attori, nel seguire la pluralità dei loro investimenti. Il sociologo applicherà, dunque, in senso specifico la propria disciplina al campo dell’arte interessandosi al modo in cui gli attori, a seconda delle situazioni, investono l’uno o l’altro di questi momenti al fine di consolidare il loro rapporto con l’arte e con il valore artistico e non esortando a privilegiare un determinato tipo di studio. In altre parole, non spetta al sociologo scegliere i propri “oggetti”: è suo compito, invece, lasciarsi guidare dagli spostamenti degli attori nel mondo in cui concretamente si collocano. CONCLUSIONE - UNA SFIDA ALLA SOCIOLOGIA Dopo l’estetica sociologica della prima generazione e la storia sociale dell’arte della seconda generazione, la sociologia empirica della terza generazione ha provato che la sociologia dell’arte può rispondere ai criteri di rigore, ai metodi controllati e ai risultati positivi che sanciscono l’appartenenza di una disciplina alle scienze sociali e non più ai tradizionali studi umanistici. Il problema della sociologia dell’arte oggi consiste nell’iscrivere la sociologia dell’arte nelle problematiche proprie della disciplina sociologica. Un primo compito che la sociologia dell’arte deve affrontare è rendersi autonoma dal proprio oggetto. In altre parole, si tratta di fare uscire la sociologia dell’arte dal campo delle discipline artistiche, che spesso la utilizzano per modernizzarsi con poca fatica, e confrontarsi alle problematiche e ai metodi della sociologia nel cui ambito occupa oggi una posizione troppo marginale. Questa sarebbe la condizione per stabilire un vero dialogo con la storia dell’arte, della letteratura e della musica, sia con la sociologia. L’indagine empirica - attraverso la statistica, l’intervista, l’osservazione o l’analisi pragmatica delle azioni in situazione - costituisce, in questo caso, una condizione elementare affinché la sociologia dell’arte raggiunga la propria autonomia. L’arte offre un terreno particolarmente favorevole ad applicare il cosiddetto “sociologismo” che consiste nel considerare il generale, il comune, il collettivo - in una parola, il “sociale” - come il fondamento, la verità, la determinazione ultima del particolare, della singolarità, dell’individualità. Per realizzare ciò che lui solo è in grado di fare, il sociologo dovrebbe abbandonare un atteggiamento riduzionistico e smettere di privilegiare il generale rispetto al particolare o, viceversa, il particolare rispetto al generale, per considerare, invece, “simmetricamente” i due modi di vedere, in tal caso assunti davvero come oggetti e non più come prospettive di ricerca. L’interpretazione delle opere d’arte mira ad inscriverle in una serie di cause più generali che vanno ben oltre la semplice materialità o anche le proprietà plastiche, discorsive o sonore delle opere stesse. Ma queste operazioni che le aprono a una “crescita di generalità” hanno un senso ambivalente. Da un lato, infatti, esse possono tendere ad attestare la grandezza delle opere in quanto atte a provocare sollecitazioni, contenere temi che le travalicano. Ma le operazioni di generalizzazione possono agire anche in senso contrario, quando mirano a ridurre la grandezza delle opere, dimostrando che costituiscono soltanto il prodotto di determinazioni economiche, sociali, politiche. Sociologia critica o sociologia della critica? Questo interrogativo implica una scelta, basilare per la sociologia, fra un orientamento normativo - il più seguito dalla sociologia dell’arte fin da quando si è costituita - e un orientamento analitico-descrittivo. Nel primo caso si tratta di mettere in questione dei giudizi di valore ordinari: per esempio, in tema di costruzione della grandezza nell’arte per mezzo della “crescita in singolarità” e della “crescita in oggettività”, si può dimostrare che l’una si regge di fatto su caratteristiche comuni, mentre l’altra si basa su una soggettività. Nel secondo caso lo studioso dovrà sospendere qualsiasi giudizio di valore in conformità con il precetto weberiano di “neutralità assiologica”, in modo da assumere valori stessi come oggetto di ricerca. Questa prospettiva critica tende, inoltre, a far regredire qualsiasi prospettiva non critica a puro essenzialismo, ovvero ad una affermazione della realtà oggettiva dei valori estetici. Ora, il rifiuto di adottare una posizione normativa, qualunque essa sia, significa, peraltro, in larga misura, astenersi da ogni giudizio sulla natura dei valori. Il problema non è ritornare all’idealismo, bensì trattare simmetricamente idealismo e sociologismo in quanto si tratta, in entrambi i casi, di rappresentazioni da analizzare; questo tipo di analisi non consiste nel demistificare le illusioni, ma nel mettere in evidenza le logiche che permettono agli attori di orientarsi. Tuttavia, dato che il sociologo non ha più il compito di prendere partito nel merito delle controversie - opponendo un valore ad un altro e il reale alle rappresentazioni - ma di analizzare, egli dovrà circoscrivere il proprio ambito di competenza, rifiutando di assumere qualsiasi posizione normativa, di pronunciare qualsiasi giudizio di valore: il sociologo non deve più decidere se gli attori “hanno ragione”, ma far capire quali sono le loro ragioni. Ed eccoci di fronte a un’altra sfida che la sociologia dell’arte lancia alla sociologia nel suo insieme: si dovrà lasciare che il punto di vista, l’orientamento esplicativo costruito sul modello delle scienze della natura, continui a governare la parte essenziale della ricerca, oppure affiancargli - il che non significa sostituirgli - un approccio comprendente, specifico delle scienze umane? Nel primo caso si tratta, in sostanza, di far emergere, soprattutto utilizzando la statistica, delle correlazioni tra i fatti studiati (oggetti, azioni, opinioni…) e delle causalità esterne ad essi (contesti materiali o economici, origini sociali…). Nel secondo caso si dovranno esplicare le logiche soggiacenti che conferiscono coerenza all’esperienza quale è vissuta dagli attori, ricorrendo principalmente, ma non esclusivamente, ai resoconti che gli attori stessi sono in grado di produrre sia spontaneamente, sia su sollecitazione esterna. Questi due procedimenti, lungi dall’essere antitetici, sono complementari: la figura del genio incompreso si può spiegare benissimo con le proprietà di quanti ne affermano la grandezza anziché con le qualità dell’artista enfatizzate dall’amministrazione, mettendo tuttavia in evidenza il senso che una simile rappresentazione assume per i sostenitori dell’artista e le ragioni, più o meno consce, che li conducono ad aderirvi. Questa posizione incontra uno scoglio: la volontà di egemonia, che troppo spesso anima l’adesione pregiudiziale ad una metodologia, tende a costringere i ricercatori a scelte esclusive di altre possibilità. L’approccio esplicativo coincide, inoltre, con la scelta di focalizzare l’interesse sul reale a scapito delle rappresentazioni - immaginarie e simboliche - che, in questa prospettiva, appaiono come ostacoli alla verità. Il punto di vista della comprensione pone sullo stesso piano il reale e le rappresentazioni, in quanto dimensioni della realtà vissuta; si sostituisce così la coerenza (in quale modo una logica argomentativa si articola con un’altra?) alla prova di verità (l’argomento in questione è vero o falso?). Una simile inversione di rotta è difficile da accettare se si attribuisce alla sociologia un solo compito: spiegare la verità del reale, in quanto il reale è determinato. Ma appare evidente che questa disciplina sa anche essere produttiva, se si prefigge lo scopo di rendere esplicite le rappresentazioni, in quanto dotate di una coerenza propria. In ogni caso, è chiaro che la sociologia dell’arte può interessarsi alle persone, ai contenuti o agli oggetti in base al grado di pertinenza attribuito loro dagli attori anziché secondo una gerarchia decisa a priori, e descrivere le azioni e le rappresentazioni (comprese le accuse di credenza o di incredulità e le pretese alla disillusione o alla chiaroveggenza) al solo scopo di comprenderle. Dopo tre generazioni caratterizzate da pratiche molto eterogenee, è possibile affermare che incomincia ad emergere una 4 generazione? Sua caratteristica peculiare sarebbe non sostituirsi alle precedenti, ma completarle superando una prospettiva essenzialistica e normativa, in una direzione più antropologica e pragmatica, non più unicamente rivolta alla spiegazione degli oggetti e dei fatti, ma aperta alla comprensione delle rappresentazioni. Questa generazione segnerebbe una fine e un inizio: non si studierebbe più l’arte e la società oppure l’arte nella società, bensì l’arte come società e, più ancora, la sociologia dell’arte stessa come produzione degli attori. Ma questa è soltanto una delle numerose vie che si aprono alla sociologia dell’arte, ormai avviata a diventare una disciplina a pieno titolo nell’ambito della sociologia.
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