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Sociologia dell arte, Sintesi del corso di Comunicazione Teatrale

riassunto del libro di testo :Sociologie dell'arte. Dal museo tradizionale a quello multimediale

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 28/01/2015

simone.alessandrini.91
simone.alessandrini.91 🇮🇹

4.7

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Scarica Sociologia dell arte e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Teatrale solo su Docsity! Presentazione “Sociologia dell’arte” rappresenta la seconda tappa di un percorso di riflessione sul rapporto tra arte e sociologia, iniziato nel 1997 con “Etnografia dell’arte”. In quel caso l’attenzione si incentrava sull’insieme dei processi sociali che rendono possibile l’arte, e le modalità che attraverso i contesti istituzionali producono in continuazione le carriere degli oggetti e degli artisti. L’intento era quindi osservare come la società produce l’arte, attraverso pratiche sociali ed istituzionali : l’idea di fondo era che un’opera diviene arte soltanto nel momento in cui è esibita e riconosciuta come tale. Si indagavano insomma le modalità attraverso cui i vari contesti sociali, istituzionali e culturali influiscono sulla produzione/consumo dei prodotti artistici. Questo nuovo libro segue un percorso complementare e inverso: l’artisticità è sempre definita non tanto come qualità presente a priori in alcuni oggetti/soggetti, quanto come risultato di un processo di definizione sociale che giunge a compimento nell’atto del consumo. Tuttavia la direzione del percorso di studio è diversa: non si studiano più i processi sociali che rendono l’arte possibile, ma piuttosto quelli relativi all’intreccio tra arte e memoria, discorso pubblico, tra prodotti culturali ed identità. Si tratta di riflettere su come certi prodotti artistici possano infuenzare la vita quotidiana, la memoria collettiva e le ricostruzioni del passato. Si passa dall’analisi del modo in cui la società costruisce l’arte, a quella del modo in cui l’arte costruisce la società. L’arte è analizzata come fabbrica di senso per pensare e dare un nome ai ricordi, alla realtà ed al passato. Poetiche dell’Arte e Politiche del Consumo Culturale (Prima Parte) Ogni oggetto artistico è “vittima” di una serie di processi sociali che ne influenzano la carriera, come un romanzo che viene spedito all’editore, poi messo da parte, poi letto, poi rimesso da parte, poi perso, poi ritrovato, poi rifiutato ed infine pubblicato dopo anni: si tratta di un insieme di processi che rende possibile l’arte. Adottare uno sguardo sociologico significa ricostruire questi percorsi, analizzare i contesti, studiare l’intreccio tra istituzioni artistiche (le case editrici, nel caso del nostro esempio) e definizioni sociali del talento. La prima parte analizza il rapporto tra poetiche dell’arte e politiche di consumo, ovvero come l’arte ci appare in un dato contesto sociale e come le istituzioni partecipano in modo fondamentale alla sua definizione, ovvero come ci dicono se un oggetto è arte oppure no. Questo perché la produzione di un’opera d’arte ed il suo consumo non avvengono nel vuoto, ma all’interno di sistemi di convenzioni sociali, che possono essere trasgredite. Collezioni di Oggetti, di Atti di Consumo (cap1) 1) Valore e Oggettivazione delle Opere d’Arte La sociologia dell’arte nasce nello spazio vuoto che si crea tra produzione e fruizione: uno spazio vuoto che si crea tra ciò che l’artista inscrive nel prodotto e ciò che vi inscrive il consumatore. Di conseguenza il significato di un’opera è il risultato di una PAGE 36 negoziazione. In questo senso l’arte non è più una mera collezione di oggetti considerati di maggiore o minor valore, destinati a ristagnare in collezioni private di uomini ricchi, ma una collezione di atti di consumo, ovvero di opere esibite al pubblico (come nei musei): l’impostazione marxiana, non a caso, sostiene che un’opera d’arte è tale solo nel momento in cui viene esibita e consumata a livello sociale e non personale. Ma cosa rende un oggetto un’opera d’arte? Nessun oggetto può essere considerato a priori un’opera d’arte: un oggetto lo diventa in base al giudizio di un soggetto. Il soggetto quindi esprime un giudizio su un’opera ed in base a quello gli assegna un “valore” (Simmel): un valore che non è mai caratteristica intrinseca dell’oggetto, ma sempre un giudizio di un soggetto. Simmel spiega in modo chiaro questo concetto nella “Filosofia del Denaro”: il valore economico che noi diamo a qualcosa non dipende dal fatto che quel qualcosa ha in sé un certo valore, ma dal fatto che esso è difficilmente ottenibile (si pensi appunto al denaro). Questo processo è chiamato “processo di oggettivazione”: l’attore sociale produce in un primo tempo un giudizio di valore su un oggetto che, come detto, non possiede questo valore per natura; successivamente questo giudizio viene accettato socialmente e diventa quindi una credenza. Infine tutti gli attori sociali, avendo assimilato tale credenza, arrivano a credere che le cose abbiano un valore indipendentemente dal loro giudizio. Simmel in proposito parla di sensazione di estraneità: il soggetto si sente estraneo rispetto ai giudizi ed alle credenze che produce, “dimenticandosi” che un oggetto ha un certo valore solo perché è stato lui a darglielo. Quindi finisce per considerare l’oggetto come qualcosa dotato di un valore ed un’importanza autonoma, come se facesse parte della sua natura. Per quanto riguarda le opere artistiche, soprattutto nella contemporaneità, le opere divengono opere d’arte perché qualcun altro ce lo fa credere: l’istituzione guida il consumatore all’interno del museo, proponendogli oggetti che assumono valore solo per il fatto di essere esposti. Oppure ci pensano gli esperti a stabilire se un certo oggetto ha un valore artistico: noi finiamo per delegare a qualcun altro un giudizio che ci appartiene in prima persona, incorrendo così nell’errore dell’oggettivazione. Si pensi per esempio ad un idrante: se esposto in un museo diventa un’opera d’arte, anche se si tratta di un banalissimo idrante. Riprendendo il discorso sui confini fra arte e non-arte, all’interno di una concezione pragmatica tale differenza non è data da caratteristiche fisiche, ma dal rispetto di determinate convenzioni (Schmidt): un oggetto è artistico non se è bianco, quadrato o di legno, ma se rispetta la convenzione della polivalenza (convenzione P) e se sospende quella della congruenza dei fatti (convenzione F). Sempre secondo Schmidt, un oggetto artistico è un oggetto la cui destinazione funzionale è messa in secondo piano dalla sua rilevanza estetica. Per fare un esempio, il vaso come oggetto è un pezzo della realtà, con una sua funzionalità nella vita quotidiana, mentre la sua forma artistica conduce ad un’esistenza nettamente separata. Questo problema emerge nell’analisi dell’ansa del vaso (la maniglia) che serve per afferrarlo e usarlo, ma al tempo stesso dev’essere parte della forma artistica e quindi, nella piena indifferenza del suo fine pratico, assume la valenza di ornamento. 2) Arte e Sociologia: una relazione difficile In Italia, così come in tutti gli altri paesi (ma per più tempo), l’arte è stata per lungo tempo considerata come un campo d’indagine prettamente estetico, escludendo e opponendo resistenze a qualsiasi tentativo di analisi sociologica. La prima ad affrontare questo problema è stata la studiosa Vera Zolberg (1990). Si tratta di fatto di due prospettive disciplinari che sembrano agli antipodi. L’estetica ha da sempre avuto per oggetto l’individuazione dei criteri di distinzione delle opere d’arte: è una PAGE 36 di non considerare che anche il lettore è un costrutto linguistico-discorsivo, al pari dell’autore. Ma la sua teoria è stata fondamentale, insieme alle teorie della ricezione, nell’esplorare ogni possibile sfumatura del rapporto fra testo e fruitore. Ma le teorie autoriali, alle quali si oppongono quelle della morte dell’autore, non sono le uniche a descrivere la genesi del prodotto artistico. Esistono altre teorie che delineano differenti modalità di risposta. Le teorie autoriali, come abbiamo visto, considerano la produzione artistica come un processo tutto interno ai soggetti. Le teorie della ricezione sottolineano invece come il processo di consumo del lettore/ fruitore sia decisivo nella definizione dell’evento artistico. Infine le teorie contestuali, riprendendo ed approfondendo quelle della ricezione, sottolineano come il processo di fruizione dello spettatore non si limiti al testo e non avvenga nel vuoto sociale, ma sia orientato da informazioni non solo testuali ma anche contestuali (come la prossemica) e sociali. *) Le Teorie Autoriali (Etnografia, pag.20) Secondo le teorie autoriali, l’opera d’arte è un prodotto compiuto dall’artista, il quale trasferisce la sua genialità ed il suo talento nell’opera stessa, che arriva a possedere naturalmente le caratteristiche di opera d’arte: il valore artistico di un oggetto è quindi indipendente dall’esistenza di un pubblico che lo consumi e lo riconosca come arte (prospettiva analitica oggettuale). Tuttavia il concetto di genio così inteso è un concetto piuttosto recente che, come documenta Murray (1989), nasce nel Settecento e si sviluppa nel Romanticismo. Le stesse teorie psicoanalitiche sull’arte hanno rinforzato la concezione romantica del genio, indagando le motivazioni incosce che spingono l’autore a creare opere d’arte, la cui origine prescinde dal contesto ed appartiene esclusivamente all’individuo. Hauser (1958) sostiene che un limite di queste teorie psicologiche sia il confondere i momenti psicologicamente determinanti nel processo creativo con quelli artisticamente rilevanti, che invece sono un’altra cosa. Fondendo la concezione romantica del genio e l’approccio psicoanalitico, possiamo elencare i tratti distintivi di artista: • Il Mito della Separatezza – L’artista è un solitario, povero e sconosciuto ai suoi contemporanei. La straordinarietà del suo talento si manifesta nell’isolamento della sua torre eburnea e dunque nella separatezza. Concependo il genio come sottratto alle relazioni sociali, si arriva alla scissione dell’individuo: poiché nessuno può isolarsi completamente, nel genio si separano la sua genialità ed il resto della sua personalità. L’artista Mozart diventa così un superuomo e l’uomo Mozart un uomo da disprezzare: il suo talento è dono di natura e non ha niente a che fare con il resto della sua personalità. (film). • Il Mito della Celebrità post-mortem – L’artista prescinde dal consenso dei suoi contemporanei, anzi, egli viene riconosciuto da un pubblico del futuro. In tal caso il mancato riconoscimento del genio viene addossato al pubblico incompetente. • L’Arte come Malattia – Esiste un nesso fra sofferenza psichica e qualità artistica: il dolore come fonte del sublime. Qui, paradossalmente, viene meno la distinzione fra artista e uomo: anzi, la personalità diventa un tratto distintivo del genio. Un uomo che fallisce nella vita, che soffre incredibilmente, e che da lì crea la sua arte. Si tratta della concezione psicoanalitica di genio, che potremmo definire addirittura come antenata della concezione romantica del genio. Ritratto Ovale di Poe: l’artista pennella un ritratto della sua amata, ma ad ogni pennellata uccide progressivamente l’amata. Autoritratto di Klingsor: l’artista lavora giorno e notte al suo ritratto, dimagrendo, non facendosi la barba PAGE 36 e non lavandosi. Dottor Zivago di Pasternak: Juri scrive perché ispirato da una forza straordinaria derivante dalla sofferenza. 4) Le Teorie della Ricezione Le Teorie della ricezione nascono in Germania sul finire degli anni ’60: originariamente intese per indicare il dibattito nato fra i vari teorici della Scuola di Costanza, attualmente il termine viene utilizzato in ambito sociologico per indicare gli approcci che hanno spostato l’attenzione sui processi ricettivi. Molti di questi approcci sono stati originariamente applicati all’analisi del testo letterario, alcuni dei quali successivamente applicati per l’analisi del testo spettacolare (fra cui quello di Eco, 1979). Questi approcci sono confluiti all’interno della sociologia dell’arte per colmare quello spazio vuoto che si apre fra artefatto materiale ed artefatto mentale, ovvero fra l’oggetto (un quadro, un libro, un film) e la rappresentazione mentale di quell’oggetto (ciò che il fruitore vede in un quadro, o legge in un libro). Tali approcci hanno il compito di sottolineare il ruolo del processo di ricezione, che diviene fondamentale nell’evento artistico. Teoria dei Vettori Secondo queste teorie, l’autore inscrive nelle opere d’arte un insieme di significati (finito) all’interno di un vettore; da questo vettore, il lettore pescherà un significato particolare e lo attualizzerà tramite l’inferenza: immaginiamo quindi che un autore inscriva nel testo un vettore composto dai significati x1, x2, x3, … , x25: il lettore andrà a pescare uno di quei significati (compresi fra x1 e x25) e lo attualizzerà. Ma l’attualizzazione permetterà al lettore di assumere anche significati non previsti dall’autore: trattandosi di una personalizzazione di quei significati (ibridazione), essi sono potenzialmente infiniti, al contrario di quelli inscritti originariamente dall’autore nel testo (Teoria dei Vettori). Di conseguenza tali teorie tendono a considerare un’opera come “non conclusa”, in quanto essa si completa, assume un significato solo con la cooperazione del lettore, che a livello interpretativo è come se diventasse co-produttore dell’opera stessa. L’evento artistico è quindi definibile come il risultato di un processo di integrazione fra le due fasi di produzione e ricezione. Spesso, anzi, spessissimo il prodotto culturale è già destinato a diventare opera d’arte, in quanto l’artista lo crea per quello, con lo scopo di mostrarlo. Tuttavia, il valore artistico di un’opera si realizza solo nel momento in cui essa viene consumata dallo spettatore, quindi l’attività di ricezione gioca un ruolo fondamentale nella definizione di “opera d’arte”. Strutturalismo e Linguistica Testuale Questi due contributi hanno in comune la centralità del processo di ricezione, e alla concezione di produzione artistica frutto di una realizzazione cooperativa: non a caso vengono incluse nelle teorie della ricezione, proprio per questo motivo. Queste due teorie spostano la definizione del valore artistico da un piano semantico ad un piano pragmatico: in parole povere, l’attributo “artistico” non indica oggetti differenti per contenuto, ma oggetti che appartengono ad un sistema preciso di azioni regolato da convenzioni specifiche (l’arte, la letteratura, il teatro). L’analisi di queste convenzioni (convenzioni estetiche) si deve soprattutto a Schmidt (1979). Secondo Schmidt e la sua linguistica testuale, non si può continuare ad occuparsi di letteratura limitandosi ad analizzare i testi e trascurando le azioni comunicative che compiamo su di essi: la letteratura è infatti un “dominio”, ovvero un complesso sistema sociale di azioni (produrre, mediare, recepire, elaborare) incentrate su oggetti PAGE 36 che i partecipanti considerano oggetti letterari. Tali azioni sono però vincolate dalle convenzioni che le regolano e che istituiscono il dominio stesso dell’arte. In pratica, l’arte non può essere scissa in letteratura, teatro, poesia ecc. perché esse non esistono come valore oggettivo, ma solo come zone che rispettano determinate convenzioni (gioco linguistico). Per questo Schmidt distingue fra “comunicato” (i significati assegnati al testo dai partecipanti) e “base comunicativa” (il mero supporto fisico, come un libro o un film o un quadro). PAGE 36 5) Le Pratiche Sociali dell’Arte Il dibattito teorico indicato con il nome di teorie della ricezione, insieme alle teorie della morte dell’autore e dei vettori, influenzano profondamente l’analisi sociologica dell’arte, la quale basa i suoi fondamenti sulla distinzione fra oggetto materiale ed oggetto estetico (o artefatto mentale). In tal senso l’opera d’arte si può definire come vettore di significati (vedere: teoria dei vettori): ad ogni specifico oggetto materiale corrispondono vari tipi di artefatti mentali elaborati da questo o quel ricevente. Inoltre l’oggetto materiale non sarà un oggetto qualsiasi, ma un oggetto destinato ad un uso artistico (dall’autore, dalla galleria, dai critici), quindi esibito all’interno di circuiti adatti (come i musei, le gallerie d’arte, le mostre, il conservatorio, ecc). Una volta sottolineata questa distinzione, occorre formulare una teoria della produzione artistica, ovvero una teoria che spieghi i processi attraverso cui, a partire da un oggetto materiale, si formano gli artefatti mentali. Una teoria di questo genere dovrà analizzare, rispetto all’oggetto materiale, gli emittenti e, rispetto all’artefatto mentale, sia le istruzioni per l’uso fornite dai produttori (l’equivalente del lettore modello), sia le istruzioni per l’uso fornite dal contesto organizzativo istituzionale (il museo per esempio), sia infine le attività di ricezione. Nel caso dello spettacolo teatrale, Tota (1997) sostiene che, per elaborare l’artefatto mentale corrispondente, lo spettatore utilizzi sia informazioni testuali (codificate da chi mette in scena lo spettacolo) sia informazioni contestuali (codificate dall’istituzione teatrale). Tali informazioni sono decisive in quanto guidano lo spettatore alla formazione del proprio artefatto mentale: pur non essendo obbligato a seguire questa sorta di istruzioni per l’uso, lo spettatore tenderà a dargli grande importanza. La sociologia dell’arte, partendo dalla distinzione fra oggetto materiale e artefatto mentale, altro non è che lo studio dei processi di produzione (sia come analisi dei testi prodotti, sia come analisi dei contesti sociali che influiscono su tale produzione) e dei processi di consumo dell’arte (sia come attività di ricezione vera e propria, sia come analisi dell’infuenza dei contesti sociali in cui la ricezione ha luogo). Sullo sfondo di tutti questi processi, si colloca il problematico rapporto fra attore e struttura, cioè fra artista e istituzione, e istituzione e fruitore: si pensi ai casi di tardiva istituzionalizzazione, di mancato riconoscimento, di cattiva impostazione dei musei. Per quanto riguarda la sempre problematica questione dei criteri che permettono ad un’opera di appartenere al sistema arte, possiamo distinguere due tipi di giudizi formulati dal fruitore: il giudizio artistico ed il giudizio estetico. Il giudizio artistico è un giudizio relativo all’identità dell’opera: sancisce o meno la sua appartenenza al sistema arte. Il giudizio artistico è spesso implicito e sottratto al fruitore: quando entro in un museo, so già che quella è arte, anche se non l’ho deciso io. Il giudizio estetico riguarda invece il valore dell’opera ed è immediatamente successivo al giudizio artistico: questo significa che se non c’è giudizio artistico, ovvero se l’oggetto non è considerato un oggetto artistico, allora non può esserci giudizio estetico. Spesso però il giudizio estetico del fruitore è condizionato dal fatto che egli sa già che si tratta di arte, quindi finisce per giudicarla come tale, anche se si tratta di un oggetto bello o brutto. La cosa curiosa è che il giudizio artistico dovrebbe appartenere al fruitore, non alle istituzioni: di conseguenza, quando esprimiamo un giudizio estetico considerando un oggetto di valore solo perché lo dice il museo, anche se bello o brutto, cadiamo nell’errore dell’oggettivazione di cui tanto abbiamo parlato in precedenza. PAGE 36 Etnografia e Prossemica Una dimensione importante, emersa durante gli studi etnografici della ricezione teatrale, ha riguardato l’analisi prossemica. Parlare di prossemica teatrale significa documentare come anche lo spazio e il tempo siano luoghi di significazione rispetto all’evento: in tal senso la prossemica teatrale è costituita da quell’insieme di convenzioni che distinguono lo spazio dello spettatore da quello dello spettacolo. Essa diventa una possibile chiave di lettura del modo attraverso cui, nella mente di un determinato spettatore, testo e contesto si intrecciano per produrre l’artefatto mentale. La prossemica teatrale può anche essere intesa come lo studio dei processi attraverso cui l’istituzione-teatro comunica (mediante un design dello spazio e del tempo) con lo spettatore. Stile, Egemonia e Altri Misfatti (cap2) Una delle questioni più rilevanti e spinose che la sociologia dell’arte deve affrontare, riguarda l’affermazione dello stile e dei canoni artistici in un certo contesto socioculturale. Affrontare questo argomento significa studiare tutta una serie di problemi, quali per esempio la definizione di cosa sia un canone e quali funzioni il canone svolga rispetto alla produzione artistica e al suo consumo. E anche delineare il delicato intreccio tra gusto e classi sociali, che evidenzia come le relazioni tra classe sociale ed egemonia culturale siani tutto tranne che lineari. Un’ulteriore questione da analizzare concerne il rapporto tra arte e ideologia: una parte di studiosi di tradizione marxiana ha cercato di evidenziare come tale relazione fosse essenzialmente lineare, dall’altra però altri studiosi hanno mosso ai primi feroci critiche. Wolff (1981) ha criticato questo tipo di approcci, in quanto sottovaluterebbero l’autonomia della produzione artistica rispetto agli altri modi di produzione operanti in società. Infine parlare di stile implica anche parlare di controculture, ovvero quelle dinamiche artistiche e sociali che si rivoltano contro lo stile: gli studi più approfonditi in questo campo sono merito della Scuola di Birmingham. 1) La Formazione dei Canoni Artistici nella Società Mediale Noi sappiamo che il sistema arte di una data società ha bisogno di una qualche forma di classificazione delle sue opere: questo è indispensabile se l’arte si vuole dotare di una organizzazione interna e se vuole essere leggittimata in un certo contesto societario. Questa classificazione, ovvero un insieme di schemi che permettono di fruire l’arte nelle diverse epoche (“occhio del periodo”, Baxandall 1972), avviene utilizzando due strumenti molto efficaci: la formazione del canone ed il processo di diffusione di uno stile. L’analisi della formazione del canone è di fondamentale importanza per la sociologia dell’arte, in quanto è uno degli strumenti principali che il potere usa per riprodurre sé stesso. Attraverso il consolidamento di un certo canone artistico, si consolidano anche un insieme di valori sociali che rappresentano la legittimazione di un determinato gruppo di attori sociali: può trattarsi dei valori della classe dominante che diventano egemonici attraverso la riproduzione di un canone artistico, oppure dei valori di un sottogruppo sociale che si pone come antagonista della classe dominante. Si pensi per esempio ai canoni artistici utilizzati dal nazismo, alla plasticità delle statue greche utilizzate per diffondere i valori di perfezione del corpo umano, o all’imponenza dei monumenti per diffondere i valori di forza del regime. PAGE 36 In questo senso non è possibile sostenere che tali canoni artistici ed estetici si sviluppino naturalmente, in modo oggettivo: Hauser (1958) ed altri sociologi hanno infatti sottolineato la natura sociale di tali schemi classificatori, che in quanto tali possono diventare oggetto di un’analisi sociologica. Secondo Crespi (1996) non esistono criteri assoluti per stabilire una distinzione fra arte e non-arte: i criteri, i canoni che stabiliscono se un oggetto è artistico mutano nel tempo e a seconda dei diversi contesti storico-socio-culturali, soprattutto in base alle caratteristiche della classe dominante. Anche Foucalt analizza la natura sociale e istituzionale di tali schemi di classificazione, insieme a Mary Douglas (1986), la quale sostiene che sono le istituzioni dominanti ad orientare la mente e le percezioni degli individui, rendendole compatibili con i canoni e gli schemi da esse classificati e autorizzati. I canoni artistici sono dunque il prodotto dell’attività classificatoria delle istituzioni artistiche (compresi musei, gallerie, teatri ecc) operanti in un dato contesto sociale, le quali stabiliscono ciò che è arte e ciò che non lo è: anche la formazione del gusto è quindi di natura istituzionale. Una volta stabilita la natura istituzionale e sociale dei canoni artistici, occorre interrogarsi sulle dinamiche sociali che si attivano in un preciso periodo storico, ovvero in che modo le opere d’arte vengono poste alla nostra attenzione, definendo questo o quel canone artistico. A tal proposito Sanguanini (1998) parla provocatoriamente di “Sindrome di McLuhan”: secondo lo studioso, sono i mass-media che influenzano pesantemente la diffusione di certi canoni artistici ed estetici, avendo il potere di mettere in risalto opere d’arte, monumenti o siti archeologici che altrimenti passerebbero inosservati ai non-esperti del settore. Ancora prima di Sanguanini, era intervenuto a favore di questa tesi Benjamin (1955): egli non poteva certo riferirsi ai mass-media, ma nonostante questo aveva già sottolineato il grande impatto che la tecnologia aveva sulla natura stessa dell’opera d’arte, in particolare riferendosi alle tecnologie che avevano permesso una veloce riproducibilità tecnica delle opere (si pensi alla diffusione dei libri tramite la stampa). La riproducibilità tecnica delle opere provoca un mescolamento delle culture molto veloce, soprattutto nella società moderna, dove le informazioni viaggiano a ritmo frenetico. Questo provoca una contaminazione delle culture, finendo per massificare anche le culture degli intellettuali. Un esempio è l’amico di Nanni Moretti, che nel viaggio a Lipari (Caro Diario) finisce per appassionarsi a Beautiful e ad operare così una metamorfosi da intellettuale puro a intellettuale massificato. Anche il teatro è, per così dire, “vittima” di questa contaminazione: i giovani sono oramai a fruire concerti rock, così quando vanno a teatro fanno baccano e vorrebbero alzarsi come ai concerti, solo che l’attore li zittisce perché pensa che disprezzino il suo lavoro. L’avvento di nuove tecnologie dunque non modifica il sistema-arte solo tramite le innovazioni degli artisti (si pensi all’arte interattiva) ma anche tramite gli stessi consumatori, i quali insieme ai cambiamenti culturali e tecnologici cambiano anche il modo di percepire il mondo: tutto ciò muta l’arte nel suo complesso. 2) Decostruzione del Gusto: Linguistica Testuale e Criticismo Post- Strutturalista Abbiamo visto che attraverso un processo di canonizzazione, un prodotto artistico acquisisce una certa posizione all’interno di un sistema di valori e di classificazioni, entrando così a far parte della cultura condivisa in un certo contesto sociale. Ciò che caratterizza le società contemporanee, secondo Schmidt e Vorderer (1985), è il fatto che tali processi di formazione dei canoni non riguardano più solo l’estetica e l’arte, ma anche valori sociali, politici, religiosi. PAGE 36 3) Arte ed Egemonia: Il Rapporto con l’Ideologia All’interno di una prospettiva sociologica, l’arte può essere studiata sia da un punto di vista micro, sia da un punto di vista macro: la formazione dei canoni artistici ed il rapporto con le ideologie dominanti appartengono ad un punto di vista macro, in quanto connettono le opere d’arte al sistema sociale. Ma cosa s’intende per ideologia dominante? L’idea originaria è che le idee che tendono a prevalere in un dato contesto sociale siano quelle della classe dominante, che così facendo estenderebbe il suo controllo non solo sulla produzione materiale, ma anche su quella simbolica e culturale. Questo implicherebbe una visione monolitica della classe dominante, intesa come un grosso gruppo omogeneo in accordo con la produzione di una determinata ideologia, imposta poi al sistema sociale. Ma questa definizione trascura totalmente la complessa stratificazione sociale nell’età contemporanea. La classe dominante non può essere intesa come un’amalgama omogenea per due motivi: i criteri di inclusione ed esclusione sociale, e la continua negoziazione del potere da parte di più gruppi pseudo-dominanti, che competono fra loro. Rispetto ai criteri di inclusione ed esclusione sociale, occorre introdurre il concetto stesso di subcultura. Tale concetto, così come è stato formulato dai cultural studies, sovverte di fatto ogni appartenenza di classe: la dimensione subculturale può tagliare e attraversare diverse classi, traccia insomma distinzioni indipendenti dai tradizionali criteri di inclusione ed esclusione sociale. Prima si tendeva a settorizzare in modo netto le classi, oggi invece nelle società contemporanee è molto difficile individuare una classe dominante particolare, con un suo profilo sociale e culturale definito: questo perché tutte le classi sono oggi a loro volta attraversate da criteri di appartenenza più complessi, come il sesso, l’etnia, le diverse generazioni, che di fatto finiscono per frammentarle e renderle difficilmente riconoscibili. Questo ci conduce al secondo punto, ovvero alla negoziazione del potere fra più classi in competizione fra loro: essendo la negoziazione un processo dinamico, è molto difficile stabilire quale sia a priori la classe dominante, ammesso che ce ne sia una. In pratica questa continua concorrenza si gioca sulla definizione ed il mantenimento dei confini culturali: ogni gruppo che mira al potere, cerca di negoziare questi confini secondo i propri interessi, includendo o escludendo qualcuno (ineguaglianze sociali). Tali confini possono essere invisibili, e per questo latenti e più efficaci per diffondere determinate ideologie, come nel caso di una famiglia afro-americana che compra un appartamento in centro e non è ben vista dal vicinato (razzismo), oppure visibili socialmente. Una delle partizioni più classiche, nell’ambito della produzione e del consumo artistico, fonte di diseguaglianza sociale, è quella fra cultura d’elite e cultura popolare. Secondo questa presunta partizione, si identifica nella cultura d’elite una classe privilegiata, colta, in grado di apprezzare l’arte perché più istruita e perché possiede un gusto più raffinato: si tratta di una falsità, come spiegheremo più avanti, in quanto l’arte è un sistema indipendente dalle ideologie, pur essendone attività e prodotto. Non a caso un artista può decidere di trasgredire un certo canone, di andare contro una certa partizione imposta dai centri di potere, di produrre un’opera d’arte appartente ad una subcultura che potrebbe anche insinuarsi nelle maglie delle classi considerate dominanti, quindi diretta espressione della cultura e dei valori che quella subcultura mette in discussione, il che sarebbe paradossale se si considerasse, appunto, la classe dominante come un gruppo monolitico ed omogeneo. PAGE 36 4) Canoni Artistici e Classi Sociali: Il Gusto Come anticipato precedentemente, la relazione tra gusto e classi sociali rappresenta una delle questioni più dibattute nella sociologia dell’arte contemporanea. La teoria del capitale culturale (Bourdieu/DiMaggio – 1979, 1982) sostiene che l’arte (quella vera, contrapposta all’arte popolare) richiede per la sua piena comprensione e apprezzamento una competenza che deve essere acquisita e che viene ricondotta al concetto di “gusto”: il gusto consisterebbe dunque nella capacità di apprezzare davvero l’arte, ma tale capacità non sarebbe distribuita equamente nella popolazione, ma apparterrebbe agli strati medio-alti. I soggetti appartenenti alla classe lavoratrice, stando a questa teoria, avrebbero meno possibilità di apprendere questa competenza, di conseguenza avrebbero meno gusto e non sarebbero in grado di apprezzare sul serio l’arte, limitandosi ad un gusto di serie B, circoscritto nell’arte popolare. Inoltre questa teoria sostiene che il gusto funziona come una sorta di sistema di chiusura sociale: il “buon gusto” sarebbe così uno dei fattori che creano le diseguaglianze sociali, che stabiliscono l’accesso alle classi più alte, diventando così un criterio di appartenenza e riconoscimento imprescindibile per chi aspira, o già si trova all’interno delle cosidette classi alte. Ma come si apprende il “buon gusto”? secondo questa teoria, esso si apprende tramite i processi di socializzazione primari (famiglia) e secondari (studi), e che soprattutto la scuola sia fondamentale per imparare ad apprezzare l’arte vera. Ma questo discorso ha portato molti pareri contrastanti: se è vero che le classi medio-alte hanno più possibilità di accedere ad un’istruzione migliore rispetto le classi lavoratrici, è anche vero che solo una minoranza di membri delle classi alte si interessa realmente di arte. Questo, come minimo, mette quantomeno in dubbio il concetto di gusto come criterio di inclusione ed esclusione sociale (Halle, 1989). È proprio Halle (1989) che dimostra come l’arte non determini un gusto di serie A o di serie B, grazie ad uno studio sull’arte astratta, considerata dalle classi alte come un esempio di vera arte, dato che richiede una competenza specifica per essere compresa. Dal risultato di 160 interviste, Halle scopre che molti apprezzano l’arte astratta per il suo aspetto decorativo, aspetto che l’arte astratta paradossalmente tenta di rifuggere. Inoltre, stando sempre alle interviste, molti vedrebbero nell’arte astratta dei paesaggi. Questo cosa significa? Che le classi alte prediligono l’arte astratta per gli stessi motivi per cui, magari, le classi basse prediligono l’arte tradizionale, ovvero perché vi vedono paesaggi. Si tratta di una provocazione che Halle esprime per sottolineare una relazione fra gusti non lineare, problematica, soprattutto nella società moderna e nella cultura di massa. 5) La Rivolta dello Stile: i Cultural Studies I Cultural Studies nascono nel 1964 presso l’Università di Birmingham, seguendo una linea di continuità fra la sociologia marxista e quella della Scuola di Birmingham: tale continuità è legata al fatto che uno dei contributi più rilevanti di questo filone consiste nella rielaborazione del concetto gramsciano di egemonia e sulla sua declinazione sul piano prettamente culturale. La cultura viene vista come un’arena conflittuale, all’interno della quale diversi attori sociali o gruppi competono per negoziare i significati a loro più consoni (ved. Pag.10). Gramsci sosteneva che l’egemonia si riferisse ai modi attraverso cui si rendeva possibile la dominazione, non solo attraverso processi esterni, ma anche in modo concreto nella vita quotidiana. I Cultural Studies spostano invece il concetto di egemonia in ambito sociologico, impiegandolo per mostrare come pezzi di pensiero PAGE 36 sociale divengono dominanti (egemonici) all’interno di un dato contesto sociale (Hebdige, 1979). Svelando i processi attraverso cui le idee di alcuni gruppi sociali si impongono per divenire dominanti, e per fornire schemi di interpretazioni di eventi che devono essere rispettate da un dato contesto sociale, la Scuola di Birmingham individua il modo per sovvertire questi schemi, questi canoni. Per i Cultural Studies tutto diviene cultura, l’arte elevata cessa di esistere perché ogni singolo oggetto, interagendo con un attore sociale, è in grado di produrre interpretazione, che può essere conforme ai canoni o difforme: se conforme potrà rafforzare e confermare i canoni già esistenti, se difforme potrà invece scatenare una guerra semiologica in grado di avviare nuovi processi egemonici e di sovvertire un piccolo pezzo dell’ordine sociale, introducendo nei canoni nuove negoziazioni di significato. Il potenziale politico di rivolta e di antagonismo rispetto ai canoni tradizionali ed allo status quo è molto elevato nei Cultural Studies, per questo alcuni suoi esponenti come Agger (1992) sostengono che questo filone debba espandersi ed uscire dall’ambito accademico, per definire una vera e propria agenda politica, aiutando gli individui a sottrarsi alla dominazione di quelle pratiche che violano i loro interessi e che sono comunemente accettate come facenti parte del quotidiano. Identità D’Autore: Le Politiche del Genio (cap3) Calvino (1979), con l’ironia pungente che da sempre lo contraddistingue, sottolinea che l’autore non ha un accento inconfondibile e non è facile riconoscerlo leggendo un libro, anzi: l’autore cambia molto da libro a libro, ed è proprio in questi cambiamenti che si riconosce come autore. la singolarità del genio dunque si frammenta per poi ricomporsi discorsivamente: come hanno testimoniato le teorie sulla morte dell’autore, l’autore altro non è che una strategia testuale, un costrutto linguistico-discorsivo. Questo capitolo affronta il tema dell’autorialità dal punto di vista delle politiche del genio. Come ricorda Murray (1989) il concetto di genio è piuttosto recente: nasce nel Settecento e assume la sua configurazione attuale durante il Romanticismo, che contribuirà a rivestire l’artista di un alone misterioso e sacrale. Ancora oggi sopravvive nell’immaginario collettivo una rappresentazione sociale dell’artista che tende ad affidarsi a stereotipi di derivazione romantica: l’artista come genio e sregolatezza, che fallisce nella vita ma risorge nell’arte, che fonda le sue opere sulla sua sofferenza psichica e fisica, una sorta di martire simbolico il cui genio è trascurato in vita per poi essere esaltato e riconosciuto soltanto dopo la morte. Nella postmodernità il genio così configurato non è affatto passato di moda, anzi continua ad essere riprodotto socialmente anche attraverso i meccanismi di mercato. Si pensi all’asta del 1998, tenutasi a Parigi, durante la quale sono andate venduti più di 200 schizzi di Picasso a prezzi impensabili. Fenomeni come questo si prestano a molteplici letture da un punto di vista sociologico: tralasciando la spiegazione economica, che può essere riduttiva (investire in un Picasso, anche se si tratta di uno schizzo, è molto conveniente), si potrebbe dire che possedere un Picasso, seppur si tratti di uno schizzo su un tovagliolo, da un punto di vista antropologico potrebbe essere inteso come un rituale che consente all’acquirente di impossessarsi di un brandello del genio del pittore, emanata dall’oggetto, in modo da crescere a livello individuale. Da un punto di vista estetico la cosa è discutibile: un discorso è acquistare un quadro di Picasso perché bello e gratificante da ammirare, una cosa è acquistare una scatoletta di fiammiferi con un viso appena accennato a matita. Da un punto di vista sociologico ciò che colpisce è la concezione di genialità intesa come insieme di PAGE 36 riprodotti socialmente quali difensori della nostra epoca e del nostro sapere: sembra che il sistema sociale esiga continuamente la riproduzione sociale del genio a riprova della propria cultura. Ma un’altra cosa è interrogarsi su quelli che saranno i nuovi geni della nostra epoca: l’accento a quel punto si pone sull’individuazione dei criteri sociali condivisi che permetteranno la nascita di geni della post-modernità. Un interrogativo che non può essere posto senza avere prima analizzato le politiche del genio che hanno influenzato tali carriere nei secoli passati e nel passato più recente. 1) Verso una Nozione Costruttivistica di Genio Geni si diventa, non ci si nasce. Lungi dall’essere un prodotto naturale, il genio è un vero e proprio costrutto sociale, storico e culturale. Ma cosa rende possibile il genio? A spiegarcelo intervengono gli studi sulle politiche del talento. Di solito si tratta di studi di sociologia storica che ricostruiscono le dinamiche sociali che hanno permesso a geni come Raffaello di affermarsi. Emblematica è l’analisi dei presupposti materiali di Scheler (1926) che hanno consentito a Raffaello di emergere: egli per disegnare ha bisogno di un pennello, ma le sue idee e le sue visioni artistiche non glielo possono procurare. Raffaello ha bisogno di committenti politicamente potenti, che lo incarichino di glorificare i loro ideali, altrimenti il suo genio non può esprimersi. In questa prospettiva, l’analisi del genio non può prescindere dalla sua componente sociale, dal rapporto con i centri di potere, pur senza negare l’importanza del suo talento. Da questo filone emergono profili sociologici di artisti di grande interesse che, senza negare il peso del loro talento, restituiscono alla loro musica quella collocazione sociale che l’ideologia romantica gli aveva sottratto, riducendoli a stereotipi. In particolare parliamo di biografie del calibro di Mozart (Elias, 1991) e di Beethoven (De Nora, 1995), e altri come Botticelli e Mendel, giunti al successo anni dopo la loro morte. Grazie a queste biografie si ha il passaggio da una concezione di genio come dono piovuto dal cielo, possessore di doti straordinarie per natura, ad una concezione sociologica di genio più terrena, che lo consideri come il risultato di un incontro fra il suo talento e le dinamiche sociali che lo rendono possibile. Il termine “genio” appare come una parola vuota se non coniugato con le dinamiche sociali: perché Mozart è in grado di produrre musica così perfetta? Perché è un “genio”, il che equivale a dire che non lo sappiamo. Ovviamente ciò non è ammissibile nella sociologia, che si incarica di indagare tutto ciò che è successo all’artista aldifuori della sua preparazione accademica, ovvero quelle che sono state le relazioni sociali che hanno permesso all’artista di imporsi, al contrario degli altri “normali” con cui aveva condiviso la stessa preparazione (si pensi a Mozart). 2) Beethoven e Mozart: Vite da Genio Elias (1991) definisce letteralmente Mozart come “un genio vissuto prima dell’età dei geni, nato in una società che ancora non conosceva il concetto romantico di genio e il cui canone sociale non offriva ancora un posto legittimo all’artista geniale con una personalità molto spiccata”. È proprio questa la chiave interpretativa più importante per comprendere il conflitto che si scatena fra il giovane Mozart ed il suo poco flessibile datore di lavoro, che considerava Mozart come un esecutore il cui compito era eseguire i suoi suggerimenti musicali. Mozart invece malsopportava l’intrusione dell’Arcivescovo di Salisburgo nel suo modo di comporre: forte della notorietà acquisita, il musicista decise negli ultimi anni della sua vita di farsi libero artista, contrariamente al volere del padre che vedeva in quel gesto la fine della sua luminosa carriera. Intuizione che si rivelerà fondata. PAGE 36 La tragedia di Mozart consiste nel fatto che egli cercò di infrangere da solo le barriere PAGE 36 del gusto e del potere cui la società del suo tempo era fortemente legata: a quel tempo non esisteva infatti uno spazio in cui un libero artista potesse inserirsi con successo, in quanto l’attività del musicista era soggetta a regole ferree che lo legavano al patrocinio di personaggi potenti in qualità di datori di lavoro. Mozart anticipò i tempi e questo ebbe profonde ripercussioni sulla sua vita di artista e di uomo: l’aristocrazia viennese decise di voltargli le spalle e a quel punto Mozart si ritrovò da solo, incapace persino di guadagnarsi da vivere. La buona società era infatti tutt’altro che propensa ad ingaggiare un artista malvoluto dall’imperatore, proprio perché a quel tempo non era ancora presente la concezione del genio inteso come personaggio particolare, ribelle. De Nora invece, quando tratta di Beethoven, non scende nei particolari analizzando il rapporto fra vita e genialità, ma si limite ad analizzare l’importanza cruciale che ebbero i suoi contemporanei nel permettere l’emergere del suo talento, e quindi del suo successo. Il talento di Beethoven non è self-evident, non basta da solo per permettergli di spiccare, ma necessita dell’aiuto dei poteri vigenti all’epoca, fondamentali per cucire il rapporto con Beethoven e fra Beethoven ed il suo pubblico: in particolare lo studioso fa riferimento al principe Lichnowsky, che comprando una serie di opere del musicista, gli fece una pubblicità sfrenata e bastò questo per farlo diventare famoso agli occhi del pubblico. Inoltre la carriera di Beethoven fu anche aiutata da profondi mutamenti che all’epoca intervennero sul panorama musicale. La conclusione è che genio e talento, ben lungi da essere caratteristiche insite nella natura dell’artista, vengono fuori quando ottengono il riconoscimento e l’aiuto dalla società. 3) Stendhal, uno scrittore imperfetto: le retoriche del Plagio Stendhal rappresenta un caso limite di scrittore imperfetto, il cui talento viene legittimato secondo vie a dir poco atipiche. Il suo esordio letterario coincide con la pubblicazione di una serie di biografie (fra cui una di Mozart) copiate letteralmente da esperti del settore. Da un punto di vista sociologico questo caso risulta molto interessante in quanto, da una parte, siamo in presenza di una violazione così palese da non essere sottovalutabile (il plagio) e che teoricamente non dovrebbe essere propria dei grandi artisti, dall’altro lato abbiamo invece uno scrittore di un indiscusso valore artistico: questa contraddizione, ancora oggi, spinge molti studiosi ad interrogarsi su come sia possibile conciliare questi due aspetti così contrastanti. Lo studioso di Stendhal si pone di fronte ad un dilemma: o negare il plagio (cosa impossibile), oppure negare che Stendhal sia un grande artista (cosa altrettanto impossibile). In pratica ci si trova davanti ad una netta rottura delle convenzioni che regolano la formulazione di un giudizio artistico, fino a quel momento considerate immutabili. Ma è proprio da qui che si risolve la contraddizione: Stendhal avrebbe senza dubbio plagiato Carpani, ma è altrettanto vero che il suo plagio ha finito per essere meglio dell’originale. Di conseguenza il plagio di Stendhal assume una luce diversa: non più il mero plagio di uno scrittore giovane, alle prime armi e sprovveduto (come spesso capita) ma addirittura un’operazione volontaria il cui scopo sarebbe dimostrare che lui, in quanto genio, è capace di creare un’opera d’arte anche partendo dal plagio che, per definizione, è la negazione assoluta di ogni arte (Arbo, 1993). Il plagio sarebbe dunque stato ricercato volontariamente, come una palestra in cui sfidare il proprio genio. Magnani invece non si spinge così in là ma si limita a considerare il plagio una marachella giovanile, comunque volontaria e compiuta da un artista fuori dal comune, magari divertito dallo scompiglio creato nell’ambiente letterario. Una cosa comunque è certa: Stendhal non sembra uno che abbia bisogno di copiare. PAGE 36 4) Pattern Narrativi nelle Professioni Artistiche La narrazione della propria vita, l’autobiografia, occupa un ruolo fondamentale in quanto è una sorta di strumento utilizzato per ripercorrere a ritroso tutte le tappe della propria vita organizzandole, dando loro una veste ed una forma. Ma come scegliamo le forme di narrazione più adeguate per rappresentare noi stessi? Vi sono teorie che sostengono l’esistenza di pattern narrativi tipici e ricorrenti che caratterizzano certi tipi di narrazioni biografiche. Secondo Tota (1994), il processo di oggettivazione dell’esperienza biografica può seguire in certi casi dei percorsi narrativi ricorrenti, predelineati dal contesto professionale di riferimento. Secondo Simmel (1900), l’oggettivazione consiste nel fatto che noi, quando ripensiamo alla nostra vita, la giudichiamo in base alle convenzioni sociali, culturali e linguistiche che sono vigenti all’interno di un determinato contesto: in pratica è come se pensassimo a noi stessi come un oggetto, e ci giudicassimo in quanto tali. È proprio da qui che nascono quei pattern narrativi che spesso utilizziamo senza nemmeno accorgercene. Melucci (1994), durante una ricerca sulle professioni creative, nelle interviste ha riscontrato che spesso la narrazione biografica dei soggetti avveniva utilizzando schemi cognitivi quasi preconfezionati: in pratica i soggetti legati a professioni artistiche ripensavano la propria vita, la propria infanzia come l’inizio di un cammino iniziatico, all’interno del quale il loro talento era emerso in modo chiaro ed inequivocabile, quasi a segnare il loro destino di artisti (vocazione). L’artista concepisce sé stesso come un essere particolare, che più che identificarsi con altre figure simili, tende ad escludersene in quanto “speciale”, e ciò secondo le loro biografie emerge sin dall’infanzia, momento nel quale un artista viene fuori. L’artista quindi tende ad operare una vera e propria ritrascrizione biografica, in quanto traduce la sua infanzia a posteriori, cioè esaminandola alla luce del suo innegabile talento, della sua vocazione che si è appunto manifestata sin da bambino. La vocazione diventa una chiave di lettura per il proprio passato: se uno scenografo disegnava da piccolo, quello diventa il segno inequivocabile della sua vocazione, del suo talento, anche se in realtà si tratta di un gesto (il disegnare) comune a tutti i bambini del mondo. Qui si compie la ritrascrizione biografica dell’artista, la cui identità diventa sacrale e speciale. Secondo questa visione l’artista è una persona fuori dal comune, che possiede delle capacità peculiari che attendono solo di essere scoperte, retaggio della concezione romantica del genio. L’Arte come Tecnologia della Memoria (Seconda Parte) La memoria è stata solo di recente analizzata da un punto di vista sociologico: in tale prospettiva i processi del ricordare e del dimenticare non appaiono più come mere azioni individuali, ma come costrutti sociali. Si tratta di due azioni che avvengono entro precisi quadri istituzionali ed entro pratiche sociali ben definite: se è vero che è il singolo attore sociale a mettere in moto il percorso dei ricordi, è altrettanto vero che le modalità che utilizza sono di carattere sociale. Non è un caso che le società abbiano scelto di ricordare il proprio passato anche attraverso la mediazione delle istituzioni artistiche e culturali, le quali a volte ricordano, a volte dimenticano. I musei (o i monumenti), per esempio, sono istituzioni che tradizionalmente selezionano per noi la versione ufficiale di un passato che può avere molteplici chiavi PAGE 36 di lettura (Wagner-Pacifici, 1991), e per questo sono spesso al centro di dibattiti e critiche molto forti fra le istituzioni stesse, nel caso di argomenti scottanti che coinvolgono istituzioni di paesi diversi (come la mostra del’Enola Gay o quelle sulle minoranze). Il Monumento come Documento (cap4) Le forme culturali della memoria Analizzare l’arte come tecnologia della memoria significa analizzare gli artefatti come mezzo attraverso cui l’arte stessa costruisce e ricostruisce la memoria collettiva di una società: è proprio l’arte ad agire come risorsa o vincolo nel passaggio che trasforma le memorie collettive in storia. Storia e memoria sono spesso in aperto conflitto: solitamente si tende a credere che quando muoiono gli ultimi in grado di ricordare una qual cosa, a quel punto muore anche la memoria, ma si tratta di una definizione superficiale che non tiene conto del potere delle istituzioni. Le istituzioni sono infatti in grado di concedere o non concedere spazio al ricordo: esso si tramanda di generazione in generazione se gli viene concesso uno spazio, mentre muore se gli viene negato qualsiasi spazio culturale attraverso cui ricordare. Alle volte la storia viene addirittura rimossa collettivamente, come nel caso di epoche scomode come quella del Fascismo, che oggi (pur trattandosi di un passato recentissimo) sembra quasi che non sia mai esistito, come una parentesi insignificante fra prima e dopo. Ma che funzione hanno gli artefatti culturali in tutto ciò? Essi intervengono profondamente in tali processi, diventando risorse per riconciliarsi con un passato scomodo (i muri dell’isola di Ellis) o per negoziare una certa visione “ufficiale” di un passato molto controverso (come per la guerra in Vietnam). L’arte diventa una sorta di arena all’interno della quale diversi gruppi sociali, portatori di valori e culture diverse, si danno battaglia per negoziare le definizioni sociali di realtà. L’arte diviene una possibile fabbrica della storia, un luogo in cui valori ed identità si scontrano per favorire o delegittimare l’egemonia costituita. I monumenti non sono semplici costruzioni, ma parlano e raccontano di storie passate, sono quindi dei documenti. Spesso la fruizione di tali documenti è distratta, è quella di colui che passa di lì per caso: il monumento è forse l’unico artefatto culturale che già in partenza presuppone la disattenzione come forma tipica di relazione con i suoi osservatori. Questo ascolto intermittente spesso finisce per far diventare il racconto molto difficile. 1) Il Ricordo come Atto Politico di ricostruzione del Senso La sociologia dell’arte considera la memoria in modo molto specifico: in primo luogo si ritiene che la memoria non abbia sede esclusivamente nella mente delle persone, ma anche negli oggetti, negli artefatti culturali e simbolici. L’attività del ricordo viene quindi influenzata, determinata e arricchita dai numerosi artefatti in cui quel pezzo di memoria si è oggettivata. Proprio per via dell’oggettivazione, tali artefatti vengono considerati dall’attore sociale il fulcro della memoria, come se fossero i custodi fisici di un certo pezzo di storia: a quel punto l’individuo è chiamato ad esporsi, a giudicare e a prendere posizione riguardo quel ricordo. Wagner-Pacifici è il primo a interrogarsi su come la memoria collettiva si incarni in artefatti culturali diversi fra loro, come libri (diario di Anna Frank), canzoni (They dance alone, Sting), monumenti: questo infatti presuppone la presenza di modalità molto diverse di richiamare il ricordo nel fruitore. La memoria prende corpo secondo codici espressivi che sono definiti socialmente e culturalmente, e che possono cambiare da società a società: sono le istituzioni a decidere quali modalità di oggettivazione sono PAGE 36 permesse e quali no, per questo non si può assolutamente sostenere che i codici espressivi della memoria siano naturali e neutrali. PAGE 36 muro ma marginalizza bandiera e statue. Ma è proprio la complessità e l’ambivalenza del complesso che rende il Vietnam Memorial molto efficace, perché offre letture diverse senza imporne una in particolare, facendo quindi scegliere al visitatore. PAGE 36 3) Quando i Monumenti parlano: gli Artefatti della Commemorazione I processi di commemorazione rappresentano il corrispettivo istituzionale dei processi di elaborazione del lutto a livello individuale: la commemorazione è il processo di istituzionalizzazione di un ricordo, e spesso tale termine viene accostato a stragi e morti violente. Chi vuole ricordare di norma si scontra con la volontà di chi ha ucciso, che farà di tutto per evitare che tale commemorazione avvenga: costui tenderà a far dimenticare il suo crimine, o se lo ricorda, tenterà di legittimare a posteriori la sua azione, presentandola sotto altre luci. La commemorazione è dunque un processo altamente conflittuale, in cui spesso si evidenziano ambivalenze gravi a livello istituzionale. Questo perché ogni volta che un’istituzione politica o culturale è chiamata a spendere la propria voce o a far valere il proprio peso per commemorare un evento, di fatto essa è chiamata a formulare una valutazione di quell’evento: alla base dei processi commemorativi c’è sempre una scelta (di cosa commemorare, in che misura e di cosa dimenticare), quindi gruppi diversi che hanno valori e giudizi diversi, tenderanno a ricordare eventi e persone diverse. Poiché una commemorazione implica sempre una valutazione di ciò che è accaduto, essa sarà sempre protagonista di forti tensioni conflittuali. Il processo di commemorazione avviene tramite i più svariati artefatti culturali (canzoni, film, libri, monumenti, ecc), i quali saranno interpretati in modo diverso in base al proprio codice espressivo che, ricordiamolo, è esclusiva delle istituzioni. Più il passato da ricordare è scomodo, più l’artefatto sarà al centro di negoziazioni incandescenti, ed è più probabile che dia esiti ambivalenti (come nel caso del Vietnam Memorial). Quello che i Monumenti non dicono: Ellis Island Ellis Island è un’isola di New York che dal 1892 al 1924 ha rappresentato la porta d’ingresso verso il sogno americano per migliaia di immigrati al giorno. Si tratta di un simbolo potente ma al tempo stesso ambivalente: tale ambivalenza deriva dal fatto che Ellis Island avrebbe ben poco da celebrare, se non una storia di sofferenze e umiliazioni subite da immigrati la cui unica colpa era stata quella di credere nel sogno americano. Nell’isola gli immigrati venivano passati in rassegna per verificare se erano malati o menomati, sottoposti a lunghi ed estenuanti colloqui per verificarne la sanità mentale, privati dei loro oggetti personali e alle volte torturati e segregati per giorni. Oggi Ellis Island è un museo che conserva e ricostruisce la memoria di tutta questa realtà, che appare come una sequenza interminabile di discriminazioni e soprusi contro gli immigrati di quegli anni. Ma ciò che più colpisce è il tono e l’atmosfera complessiva del museo che, pur fornendo informazioni sul modo in cui gli immigrati venivano trattati, sembra quasi sentirsi reduce da una battaglia vittoriosa: si tratta di una serie di strategie retoriche che hanno lo scopo di allontanare quegli atti di discriminazione da chi li ha commessi. Una ritrascrizione ideologica attraverso la quale la voce narrante del museo diventa la voce di un cittadino americano odierno, i cui nonni sono arrivati a New York da Ellis Island. La sofferenza degli immigrati diviene la sofferenza dell’intero popolo americano, riuscendo così ad occultare le pesanti responsabilità delle stesse istituzioni americane che adesso la commemorano. Queste istituzioni, come il museo stesso, ricordano il nome delle vittime di Ellis Island, evidenziando però che si tratta di un ristretto gruppo di immigrati, di una minoranza che però viene al tempo stesso negata dalle voci narranti del museo. Un ulteriore elemento interessante è il fatto che questa operazione di ritrascrizione fa leva sul desiderio di ogni americano di avere una prova tangibile del proprio passato, PAGE 36 come se esistesse la possibilità che un soggetto possa esistere senza avere avuto un passato. In realtà la società americana tende a dimenticare tutte le nefandezze di cui si è resa protagonista, di conseguenza rifiuta di riconoscere il proprio passato e ne cerca uno nuovo, più sopportabile. Così il muro di Ellis Island funziona perché ambivalente, perché racconta versioni diverse della stessa storia: un riconoscimento alle famiglie di chi ha sofferto, un passato glorioso agli eredi di quella sofferenza, un alibi a chi si è reso responsabile di quelle sofferenze. È un museo che mostra per nascondere, che racconta per non dire. L’ingiustizia viene vista come un tributo necessario per costruire il grande sogno americano, senza minimamente accennare alla critica di un’ingiustizia. Tale operazione retorica è resa possibile dal fatto che molti discendenti di quegli immigrati oggi sono persone benestanti e perfettamente integrate nel sistema americano, di conseguenza tendono ad accettare questa visione da martiri dei propri antenati. La Strage di Bologna Tota si è interrogata sul fatto che possano esistere particolari generi commemorativi adatti a ricordare le stragi del passato nel nostro paese, e su come tali generi interagiscano con la memoria collettiva. La memoria delle stragi rappresenta un caso spinoso: nella maggioranza dei casi si tratta di episodi controversi che ancora oggi attendono di avere una risposta, frutto di ricostruzioni contrastanti da parte degli opposti giudizi storici e politici che si sono avanzati per anni. La strage, in quanto tale, scatena nell’immaginario collettivo sentimenti di paura e di terrore, ed il termine stesso spiega poco o niente degli episodi in sé: per questo molte generazioni, persino quelle presenti durante le stragi degli anni ’80, son cresciute potendo dire “io c’ero”, ma non “io capivo”. Questa difficoltà a capire non è però colpa dell’attore sociale, ma delle istituzioni che non ci hanno dato il modo di capire. Le stragi parlano principalmente attraverso i loro artefatti, che rappresentano l’ultimo baluardo della possibilità per le generazioni di appropriarsi o riappropriarsi di questo passato così controverso, o dell’impossibilità di ricordare (tecnologie della memoria). Se le differenti versioni di questo passato non sono mai confluite in nessuna sintesi istituzionale o politica capace di dare un resoconto chiaro, se le controversie sono ancora aperte, è ovviamente impossibile che gli stessi artefatti della memoria possano trasmettere compiutamente l’eredità e la memoria storica di un passato così difficile. L’esempio lampante riguarda la strage di Bologna, un evento così drammatico e vicino a noi eppure così scarsamente sedimentato nella memoria collettiva nazionale. Il 2 agosto 1980 è una delle date più tristemente scolpite nella memoria collettiva del nostro paese: una strage in cui morirono 85 persone, avvenuta nella stazione di Bologna. Essa colpisce anche e soprattutto per il carattere di spersonalizzazione delle vittime: essendosi tenuta in un luogo pubblico così frequentato, chiunque si sarebbe potuto trovare là, noi compresi. La stazione è effettivamente considerata un non-luogo, frequentato in via provvisoria dai viaggiatori, proprio come avviene coi monumenti per strada: ma al contrario dei monumenti la fruizione non è distratta. Nessun viaggiatore potrebbe mai guardare gli artefatti della memoria (il buco nel muro, la targa coi nomi delle vittime) in modo distratto: o vengono ignorati, oppure spingono ad una riflessione molto profonda, senza possibilità di una contemplazione distaccata. Sono pochissimi i viaggiatori che soffermano lo sguardo sullo squarcio, perché una volta entrato nel nostro campo visuale non ammette alcuna distrazione: è lì, con il suo carico di morti. Allora perché molti lo evitano, facendo finta che non esista? Questo dipende dallo sgomento che suscita una strage del genere, particolarmente efferata perché capitata in un luogo pubblico che lo stesso viaggiatore si trova a frequentare giornalmente. Egli lo evita perché tenta di rifuggere i cattivi PAGE 36 analitico, perché la già controversa ricostruzione della strage finisce per innestarsi sulla memoria incompiuta del Fascismo nella società italiana, che come già detto viene oggi percepito come inesistente: in quel caso i tradizionali meccanismi di trasmissione della memoria non hanno funzionato, o hanno funzionato male. Si può dire che la generazione che ha vissuto le stragi degli anni ’80 è stata vittima di un vero e proprio meccanismo di produzione sociale dell’incosapevolezza, e questo vale sia per la memoria del fascismo, che per la memoria singola della strage di Bologna. Il complesso commemorativo allestito alla stazione è composto da 3 elementi: lo squarcio nel muro a simbolizzare la ferita che il terrorismo ha prodotto nella società civile e nello stato, la lapide con i nomi delle vittime e la loro età, ed un’altra lapide con l’iscrizione del pontefice in occasione di una cerimonia di commemorazione della strage. La decisione di costruire gli artefatti della memoria proprio all’interno della stazione è stata una scelta istituzionale complessa, per via della moltitudine di attori coinvolti in quella decisione (politici, giornalisti, personale, familiari). Verso una Sociologia del Museo (cap5) Poetiche espositive e Modelli di consumo Come già ampiamente spiegato, ogni società dispone di istituzioni per ricordare e istituzioni per dimenticare: i musei sono un luogo per non dimenticare, un magazzino della memoria dove si delineano le identità etniche, le classificazioni storiche e naturali, dove si scrivono e riscrivono il passato ed il presente delle nazioni. L’idea di museo nasce nel ‘400 inizialmente come stanze dove conservare specifiche collezioni di oggetti, e nel ‘500 inizia poi a consolidarsi l’idea di acquisire e trasmettere la conoscenza mediante tali collezioni, organizzate secondo linee di classificazione di tipo enciclopedico. Per questo occorre riflettere sul ruolo che i musei rivestono nella costruzione delle identità nazionali, etniche, e sulle modalità con cui parlano del passato, intervengono nei processi di ricostruzione storica, scelgono di commemorare certi eventi e non altri. Chiamati a rappresentare luoghi di aggregazione sociale, i musei possono anche diventare luogo di discriminazione etnica, decidendo di tacere invece che di parlare. Macdonald (1995) parla di “effetto museo”: la capacità dell’istituzione di congelare un pezzo di storia sociale, di mummificare un oggetto, fissandolo per sempre rispetto ad una cultura o un periodo storico. Per questo può accadere che la disposizione di tali oggetti rispecchi la visione del mondo (weltanschauung) dei curatori, piuttosto che della cultura da cui proviene quell’oggetto: questo avviene per esempio nelle mostre etniche, dove un oggetto che per i Maori rappresenta di uso quotidiano, nel museo diviene un oggetto esotico rivestito di un’aura sacrale. Questa impostazione rende giustizia alla sua fruizione estetica, ma di fatto non ci dice assolutamente nulla sulle funzioni dell’oggetto e sulla storia dei Maori. 1) Il Museo come Oggetto/Costrutto Sociologico Spesso capita che i curatori abbiano in mente una certa idea nell’allestire una mostra, e tale idea, tale progetto non venga poi assolutamente recepito dai visitatori. Questo è capitato per esempio durante una mostra sul cibo (“Food for thought”) tenutasi a Londra: i curatori avevano impostato la mostra secondo un progetto non costrittivo, libero, secondo modalità che avrebbero dovuto permettere ai visitatori la visita libera, in stile supermercato. Il pubblico ha invece inteso l’esperienza in modo molto diverso, interpretando la mostra come una selezione fra cibi buoni e cibi cattivi per la mente. L’intento dei curatori era di evitare qualsiasi strategia espositiva che conferisse PAGE 36 autorità a ciò che era esposto, per favorire una lettura creativa del pubblico: il pubblico invece l’ha intesa nel modo esattamente contrario. Questo cosa significa? Significa che i curatori non hanno il monopolio sulle strategie espositive del contesto spaziale in cui la mostra ha luogo: essi possono curare le luci, allestire le teche, curare le didascalie, ma di fatto non possono certo cambiare i muri delle stanze, la loro grandezza, o il fatto che gli oggetti per forza di cose debbano stare a distanza dal visitatore, chiusi nelle teche espositive. Questo significa che, oltre ai curatori, esistono altre due soggetti che modificano le esperienze di consumo dei visitatori, soggetti invisibili che per questo sono indicati col termine “ghost writers”: il museo stesso e la scienza. Per quanto riguarda il primo, è evidente che il museo abbia un ruolo tacito ma attivo nel modificare le esperienze dei visitatori. Lo studio di Macdonald descrive empiricamente cosa significhi guardare al museo in una prospettiva sociologica. Innanzitutto bisogna introdurre il concetto di “Visitatore modello”, nato dalla rielaborazione del lettore modello di Eco: si tratta della strategia testuale inscritta nella mostra allestita dai curatori, i quali attraverso di esso esplicitano le loro poetiche espositive. I curatori non scrivono su carta come gli scrittori, ma utilizzano codici comunicativi messi a loro disposizione dal museo: luci, allestimento degli spazi, didascalie, classificazione degli oggetti, notizie, prossemica. Va sottolineato che non sempre i curatori hanno a disposizione tutti gli strumenti sopra indicati: alle volte potranno per esempio curare le luci ma non modificare la prossemica. Questo perché, come già visto, il Visitatore modello stesso non è totalmente deciso dai curatori: si tratta di un progetto a più mani dove intervengono anche i ghost writers, in particolare il museo, che finisce sempre per fornire gran parte delle istruzioni per l’uso della mostra stessa. Questo effetto di autorità è chiamato “musealizzazione”. Tali istruzioni per l’uso sono dunque frutto dell’intreccio delle strategie e delle poetiche espositive dei curatori e del museo stesso, per questo occorre studiare l’intreccio tra Visitatore modello e Utente modello, che concerne il piano istituzionale ovvero il punto di vista del museo. L’Utente modello comporta un’analisi delle modalità di fruizione che il museo mette a disposizione del visitatore: l’accesso al museo, il costo dell’ingresso, gli orari di apertura, il pubblico cui si rivolge e avvantaggia, chi discrimina, chi rappresenta ecc. A tal fine è sempre utile un’analisi etnografica degli spazi del museo e dell’edificio. Da un punto di vista metodologico, per studiare Visitatore e Utente modello non occorre solo un’analisi etnografica degli spazi e delle modalità di allestimento (delle poetiche espositive, dunque), ma anche una raccolta di dati relativi all’esperienza di fruizione del visitatore (interviste) che possono più o meno chiarire la divergenza/ convergenza con gli scopi e le poetiche espositive di curatori e museo. I visitatori hanno infatti una serie di gradi di libertà nel decodificare i messaggi iscritti nell’allestimento museale da curatori e museo: in altre parole, essi svolgono un lavoro interpretativo dando un senso a ciò che vedono e leggono. Per questo non solo le interviste, ma soprattutto l’osservazione diretta dell’esperienza di consumo diventa fondamentale. I dati raccolti in questo modo permetteranno di costruire modelli di visitatore da confrontare rispettivamente con le strategie testuali: se da una parte il Visitatore Modello concerne il piano della produzione, e rappresenta il tipo di visitatore che i curatori hanno in mente, dall’altra parte il modello di visitatore rappresente i tipi ideali di visitatori che potremo ipotizzare analizzando il pubblico. Essi si costruiscono a partire dalle tipologie di consumo che emergono dai dati raccolti durante la fruizione degli stessi. Ma in che misura i processi interpretativi dei visitatori corrispondono alle aspettative dei curatori e del museo? Ciò l’abbiamo già spiegato precedentemente con la Teoria dei Vettori (ved. Pag.4). PAGE 36 PAGE 36 atomica. Ogni fazione tentò così di portare acqua al proprio mulino, interpellando vari gruppi pacifisti, stampa, politici e docenti di storia: fu chiamato ad intervenire persino il pilota dell’Enola Gay, oramai in pensione da anni. Alle controversie nazionali si affiancarono presto quelle internazionali, relative ai rapporti con l’ambasciata ed il governo giapponese: le reazioni dei giapponesi furono ambigue, in quanto nel commentare questa mostra un ufficiale dell’esercito giapponese disse che si trattava di un problema americano, non loro. Eppure in passato si era sfiorato l’incidente diplomatico per via di un francobollo commemorativo sul bombardamento di Hiroshima e Nagasaki raffigurante il fungo atomico. Tutto ciò espose lo Smithsonian Institute a critiche asprissime, di nuovo, perché già in passato era stato accusato di revisionismo storico riguardo alle ingiustizie inflitte agli indio-americani: alla fine approvò solo una piccola parte della mostra, tagliando tutte le foto ed i riferimenti alla guerra, e riducendo la mostra al semplice funzionamento dell’aereo. Questo caso prova come un museo funzioni come tecnologia in grado di ricordare, di dimenticare, o di ricordare solo quello che conviene ad una certa istituzione nazionale. 3) Il Museo come Tecnologia dell’Identità Che cosa succede quando un’istituzione egemone progetta di allestire una mostra su un gruppo minoritario? Ogni qualvolta questo succede, il museo si trova costretto ad affrontare delicate questioni circa la legittimità delle sue vesti di portavoce delle comunità discriminate, oltre a dover giustificare di possedere oggetti che non gli appartengono, frutto probabilmente di bottini di guerra o altro, che spesso successivamente vengono reclamati dai nativi. Nelle società multiculturali il problema del rapporto fra gruppi egemoni e minoranze viene affrontato sempre più spesso nell’ambito artistico, culturale, turistico e museale. Abbiamo già visto che la lettura neutrale di un certo accadimento culturale sia impossibile, di conseguenza tali mostre finiscono spesso per essere la traduzione delle culture di queste minoranze da parte del gruppo sociale egemone: normale quindi che le minoranze non si rispecchino in quei punti di vista, anzi si ribellino alla costruzione sociale della loro identità da parte di un gruppo che di loro non sa niente. In questo senso, per un nativo, visitare una mostra sulla sua cultura organizzata da un’istituzione egemone significa assistere ad un vero e proprio furto e falsificazione della propria identità culturale. Questo tipo di questioni è stato affrontato con successo nel caso del Chinatown History Museum, in particolare nell’allestimento della mostra Memories of New York Chinatown. Questo museo, fondato nel 1980, si è dato la missione di documentare i 160 anni di storia dell’insediamento cinese a New York: il presupposto era dare voce ai vari esponenti della comunità cinese nella convinzione che non si sarebbe mai potuta ricostruire la storia e la memoria di Chinatown senza far parlare i protagonisti. Le tematiche si concentravano sul significato dell’essere cinesi a New York, sui motivi che avevano spinto in passato ad emigrare, su come Chinatown è rappresentata nell’immaginario collettivo americano, sul problema del razzismo antiasiatico e sugli stereotipi sociali che vi sono implicati. In questo quadro il museo cerca di sperimentare nuove forme di dialogo con i suoi visitatori (museo dialogico), coinvolgendoli e trasformandoli in fonte d’informazione per il museo stesso, incitandoli a raccontare le loro storie (soprattutto se cinesi) per integrare le conoscenze del museo. In tal senso un grosso successo ha riscontrato la mostra sulle lavanderie cinesi allestita nel 1983: inizialmente tale mostra venne snobbata dalla comunità cinese, ma riuscì a riscuotere successo quando, dal museo, venne spostata all’interno di una casa PAGE 36 di riposo. Fu lì che molti lavoratori cinesi ruppero il clima di diffidenza e fecero notare l’errore di fondo della poetica espositiva della mostra: per i cinesi non aveva alcun interesse ammirare le numerose foto ritraenti i lavoratori asiatici delle lavanderie, cosa che probabilmente poteva attirare solo visitatori americani, incuriositi dalla diversità della razza. Era invece strano che non venissero rappresentate le tecniche di lavaggio. Questo significava che i cinesi erano interessati a ben altro aspetto della vita delle lavanderie, e questo lavoro di ricerca e scoperta fu fondamentale per avvicinare la comunità cinese all’istituzione stessa, fondamentale per la buona riuscita degli intenti del museo. Il museo, teoricamente, dovrebbe avere il compito di promuovere valori comuni fra i cittadini, elevandone il livello culturale e civile, facendosi quindi strumento di uguaglianza sociale. I teorici del capitale culturale sostengono invece che i musei funzionano come portatori di ineguaglianza sociale, come barriere di classe, e questo è stato vero per molti decenni. Secondo uno studio di Bourdieu e Darbel (1996) i visitatori provenienti da classi alte (la maggioranza) tendevano a visitare i musei da soli o con un amico competente, facendo prevalentemente riferimento alla propria cultura personale, evitando le visite guidate. I visitatori appartenenti alle classi medie invece si affidavano alle guide e leggevano le didascalie con grande attenzione: così facendo, cercando quindi di appropriarsi di una cultura, le stesse classi medie sottolineavano le barriere culturali con quelle alte, mirando ad acculturarsi e a diventare come loro. Infine le classi operaie al museo nemmeno ci andavano, perché si vergognavano in quanto non in grado di comprendere le poetiche espositive dei curatori, temendo che venisse fuori la propria ignoranza agli occhi degli altri. La situazione complessiva, soprattutto in Italia, sembra essere rimasta quella teorizzata dal capitale culturale: nel nostro paese la prospettiva museale si connota come classista. Inoltre per uno strano e diffuso stereotipo si tende a credere che i musei italiani siano visitati soprattutto da turisti e stranieri: in questo modo il museo italiano sembra perdere di vista l’importante ruolo sociale di democratizzazione e di ricomposizione dei conflitti sociali, che teoricamente gli dovrebbe appartenere. 4) Il Museo come Barriera di Genere: L’Approccio Femminista La presunta neutralità e obiettività del museo come forma di rappresentazione delle culture e delle arti è stata messa in discussione da più parti: non solo esso si risolve come luogo in cui avviene la negozazione conflittuale fra le istituzioni, ma il museo opera anche come barriera etnica e di classe, come abbiamo visto finora. Ma esiste anche un’ulteriore critica: secondo l’approccio femminista, il museo opererebbe anche come barriera di genere, relegando le donne in un ruolo secondario nella storia, o sottolineando che le poche donne che hanno giocato un ruolo decisivo siano di fatto eccezioni (Gaby Porter, 1996). Esistono musei che stanno cercando di risolvere questo errore di fondo, come per esempio il Women’s Museum in Danimarca, che nelle sue mostre si schiera sempre dalla parte delle donne. Tutto ciò provoca una nuova definizione di cultura e di arte, tale da rendere conto anche del mondo femminile, spesso sottovalutato e taciuto: un mondo nuovo di cose da raccontare e da ricordare. È questo il caso di un museo che, piuttosto che parlare per non dire e dimenticare, parla per ricordare. Ma non va dimenticato che, sia nel caso dei musei dialogici che nel caso di musei particolari come quelli dedicati alle donne, si tratta pur sempre di musei e per questo di istituzioni in grado di definire la cultura e di imporla ai visitatori (asimmetria): ciò non toglie che sarà sicuramente più piacevole e costruttivo visitare musei particolari o musei che dialogano col visitatori, piuttosto che gli altri musei. PAGE 36 PAGE 36 culture allestite nelle mostre, in modo da limitare il carattere di incompiutezza che, purtroppo, appartiene a tutti gli allestimenti museali, siano essi innovatori o classici. PAGE 36 4) Il Mitate Giapponese, i Rasa indiani e l’arte africana L’allestimento museale è in primo luogo un allestimento dello sguardo, un punto di osservazione sulla realtà esposta. Essendo un medium, fornisce descrizioni della realtà che non sono naturali ma condizionate dalle istituzioni che le mostrano. In questo senso il mbulu-ngulu diventa un oggetto esotico, misterioso, protocubista e d’ispirazione per artisti come Picasso, ma per l’artigiano che l’ha prodotto questa descrizione apparirà quantomeno assurda. Di fatto, il mbulu-ngulu originario e il mbulu-ngulo esposto, pur essendo fisicamente lo stesso oggetto, finiscono per creare due artefatti mentali molto diversi. Il museo potrebbe anche cercare di chiarire che la sua rappresentazione è una rappresentazione parziale di quelle culture, che si tratta di oggetti che all’interno del museo assumono connotati diversi, ma questa è un’operazione possibile solo se il curatore è consapevole di ciò e agisce in modo consono: ma già ammettere e chiarire ciò, metterebbe il visitatore nelle condizioni di sapere che ciò che il museo dice e pensa di una cultura rappresenta un suo punto di vista, e non la verità assoluta. A tal proposito sono stati fatti esperimenti interessanti, come quello di Yamaguchi sul Mitate giapponese: lo studioso ha avuto il merito di studiare la poetica d’esposizione nella cultura giapponese. Il Mitate è una pratica molto diffusa in Giappone, che associa oggetti della vita di tutti i giorni a immagini mitologiche e classiche familiari alle persone colte, allo scopo di amplificare l’immagine di un oggetto e trascendere i vincoli del tempo. Questa analisi è interessante perché sottolinea quanto i sistemi di classificazione dell’arte siano molto diversi da cultura a cultura: una mostra sulla cultura giapponese dovrebbe quantomeno cercare di comprendere il Mitate, quindi la loro poetica, e riprodurla. Questo vale anche per altre poetiche, come i Rasa indiani. Il Rasa è centrale nella comprensione dell’arte indiana: essi indicano 9 condizioni emotive che l’osservatore di un’opera d’arte può sperimentare. Si tratta di una concezione che considera l’esperienza estetica prodotta interamente dal soggetto. Goswamy (1995) confronta i casi di due mostre sull’arte indiana, il cui intento era di comunicare col visitatore cercando di seguire la filosofia dei Rasa indiani: le difficoltà che ne derivarono furono frutto della netta diversità fra i Rasa ed il modo di fruire l’arte che invece appartiene alla cultura occidentale, ma solo il fatto di provarci ha significato un grosso passo avanti nella sensibilizzazione delle istituzioni museali come innovatrici sociali e culturali. Un tentativo analogo è stato fatto da Susan Vogel (1995) riguardo l’arte africana. Vogel ha riflettuto a lungo su come adattare la propria figura di curatore della mostra alla cultura africana, cercando di ammorbidire la presenza ingombrante di un ruolo che spesso finisce per parlare di sé stesso e non della cultura esotica in esposizione. Per fare un esempio la Vogel ha messo in mostra tutti gli oggetti, senza operare alcuna selezione, e le didascalie avevano un tono informale, sottolineando la loro natura di opinioni soggettive e non neutrali. Una poetica espositiva di tipo riflessivo. PAGE 36 L’Arte come Pratica Testuale (Terza Parte) Calvino, con la sua sottile ironia, nelle prime righe del suo romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” si rivolge direttamente al lettore, dipingendolo e consigliandolo di mettersi comodo e magari di andare a fare pipì prima di cominciare a leggere. Questa tecnica è chiamata “decostruzione del testo”: attraverso di essa è possibile rompere gli schemi (in questo caso del romanzo) e addirittura comunicare col lettore. In sociologia questa pratica è stata ripresa ed indicata come “decostruzionismo sociale”: questi approcci guardano ai testi come arene negoziali e conflittuali all’interno delle quali l’identità di qualcosa può essere ridefinita. L’arte, intesa come pratica testuale, diviene luogo conflittuale in cui si combattono le pratiche di produzione e consumo artistico, e le politiche di soggettività: è in questo conflitto che si ha la possibilità di cambiare la società, di rompere gli schemi precostruiti e di intuire significati nuovi, proprio come nel caso di Calvino. Questa pratica di decostruzione sociale è inoltre fondamentale per comprendere alcune nuove tendenze dell’arte contemporanea, che più di qualsiasi altra tenta in tutti i modi di scuoterci, di colpirci e di sconvolgerci, proponendoci nuove definizioni della nostra soggettività e della realtà stessa, che vadano al di fuori degli schemi precostruiti dall’arte stessa. In questa parte si parlerà dunque della decostruzione, in particolare di quella femminista, per poi spostarsi sulla nozione di contaminazione, di ibridazione delle culture e del rapporto dell’arte con le nuove tecnologie (arte cyborg). Decostruzionismo Femminile (cap7) Iconografia del corpo femminile L’artista Audre Lorde, alcuni anni fa, prima di leggere le sue poesie esordì con questa frase: “sono una femminista nera, lesbica, guerriera, poetessa, madre, che fa il suo lavoro. E voi chi siete?”. Si tratta di un modo di rivolgersi agli altri che rompe gli schemi, che sottolinea la volontà di rivolta verso una cultura e un’arte pervase e definite dal patriarcato degli uomini, dove le donne iniziano a riappropriarsi degli oggetti culturali secondo un’ottica nuova. Il decostruzionismo femminista si è riappropriato in vari modi di una cultura e un’arte pensate tutte al maschile, decostruendo quei canoni che tradizionalmente hanno escluso la maggiorparte delle donne, relegando il loro talento al mero aspetto di muse ispiratrici. L’arte appare sessuata sia nelle poetiche con cui è prodotta e allestita, sia nelle modalità con cui è consumata dai visitatori, donne comprese. 1) Testi Sessuati? L’Arte come Tecnologia di Genere Il decostruzionismo femminista è una corrente intellettuale e politica che analizza le rappresentazioni testuali dell’identità e del corpo proposte dagli artefatti culturali (come i film), i quali finiscono per determinare l’idea che noi abbiamo di noi stessi. In questo filone si inserisce bell hooks (1995), che per rompere gli schemi si riferisce a sé stessa sempre in minuscolo: rappresentando il corpo nudo di una donna nera ella rompe in un solo colpo gli schemi di un immaginario tutto bianco, eterosessuale e maschile. PAGE 36 pensi agli embrioni surgelati, alla soia transgenica, ale balene dotate di radio-sonda, alle banche-dati virtuali. Sul piano artistico, si tratta di figure impolitiche che interpretano l’arte come un momento di creazione di una realtà diversa da quella del quotidiano, sintomi di nuove geografie dei corpi, ma riflesso anche della società moderna. Arte Ibrida, Arte Cyborg (cap8) La distinzione tra arte d’elite e arte di massa diventa sempre più complessa nella società moderna: si tratta di un confine spesso violato dalle ibridazioni. Si può per esempio sonnecchiare davanti la soap opera preferita mentre si sfoglia un catalogo di opere d’arte: siamo di fronte ad n’epoca che propone continuamente una cultura ibrida, frutto dell’incontro della cosidetta cultura d’elite e di quella di massa. 1) La Distinzione Sociale nel Post-Moderno L’ibridazione fra culture è il modo in cui le classi dominanti creano le condizioni per l’incontro con le classi medie, favorendo improbabili processi di identificazione: questa ibridazione da un lato favorisce un’assimilazioni fra classi alte e classi medie, comunque sempre incompiuta, e dall’altro esclude definitivamente le classi meno abbienti, quelle che a Picasso non arrivano nemmeno se si inaugura una mostra di massa. Viene quindi sempre più sottolineata l’esistenza di un sottoproletariato escluso dalla cultura perché non possiede il capitale culturale necessario nemmeno per accedere ad un museo. In tale prospettiva l’ibridazione culturale, l’arte ibrida è il luogo in cui queste diseguaglianze sociali vengono sottolineate, come se si trattasse di una rinnovata forma d esclusione. Da un lato essa è effettivamente frutto di una rottura dei margini, delle convenzioni artistiche, ma dall’altro rimane pur sempre una poetica che trasmette i contenuti ideologici delle classi dominanti. 2) Arte e Pubblicità: Mahler incontra una Y10 Vi è una forma di ibridazione dominante nella nostra epoca: è l’ibrido dell’opera che, parlando attraverso uno spot, si piega alle logiche di marketing per divenire qualcosa di diverso da sé. Da un lato vi sono i conservatori che considerano ogni forma di rivisitazione come dannosa, dall’altro vi sono gli innovatori che vedono nel connubio spot/arte il prolungamento estremo del significato dei giochi fra testi, tendenza dell’arte contemporanea. Ma una volta che comincia l’ibridazione, è sempre difficile stabilire quale sia il punto limite che, oltrepassato, snatura il testo originario in modo definitivo. L’ibridazione nasce quando un testo viene utilizzato per scopi impensabili dall’autore: si pensi ad un pezzo di musica classica utilizzato come sfondo di uno spot pubblicitario. Cosa succede quando un pezzo di Mahler incontra, per esempio, la Y10? Avviene una contaminazione irreversibile, un’ibridazione irrevocabile: da quel momento non sarà possibile ascoltare quel pezzo senza pensare alla Y10, di fatto snaturando completamente il significato originario del testo musicale, che invece di trasmetterci emozioni ci farà pensare ad un’automobile. Occorre comunque specificare che il mutamento dell’orizzonte dell’opera non è uguale per tutti i tipi di testi. La musica per esempio è più facilmente soggetta alla contaminazione irreversibile, in quanto si tratta di un testo allografico, in cui è impossibile distinguere fra esecuzione originale e falsa. Se guardiamo uno spot con la Gioconda, non per questo ci rovineremo la fruizione futura di tale testo, in quanto la pittura ha comunque una PAGE 36 forma riconoscibile. Questo invece non avviene per la musica. In realtà, anche nel caso della musica, l’ibridazione non dev’essere per forza irreversibile: ciò dipende dalla bravura dei pubblicitari nell’associare per sempre quel pezzo a quell’oggetto pubblicizzato. Nel caso dell’ibridazione, è come se il Lettore Modello del testo originario si mescoli al Lettore Modello dello spot, creando un nuovo campo di significazioni che legherà i due in modo più o meno irreversibile. PAGE 36 3) Arte Elettronica e Multimediale Gli artisti sempre più spesso si confrontano con le infinite possibilità espressive dei nuovi codici messi a disposizione dalle tecnologie interattive, come nel caso delle foglie reali di una piante che, se toccate, causano la crescita di un’intera foresta virtuale. Tuttavia la vera sfida che l’arte multimediale implica, non riguarda i materiali utilizzati, ma rappresenta il ripensamento di ciò che noi definiamo “arte”, “artista” e “consumatore”. Cosa cambia nel rapporto fra artista e consumatore quando il consumo diventa un’esperienza interattiva? Secondo Abruzzese, l’esperienza artistica interattiva certifica la morte definitiva dell’autore. la cooperazione interpretativa diventa cooperazione fattuale: il consumatore non partecipa alla costruzione del testo solo durante la fase del consumo, ma prima. La creatività del consumatore diviene fondamentale, partecipa attivamente nella costruzione del testo interattivo, e ciò avviene perché è lo stesso autore a chiederglielo: ciò che cambia è che adesso l’autore sa quanto sia importante la partecipazione attiva del fruitore, e lo stimola a far ciò attraverso la tecnologia stessa che ha creato l’opera. Quindi si tratta di una partecipazione creativa diretta, come se un autore ci chiedesse di aiutarlo a scrivere un libro. Potremmo dire che si tratta di una morte volontaria, anche se i ruoli di autore e fruitore vanno sempre ben distinti. 4) Dal Museo Reale a quello Virtuale Una delle applicazioni più rilevanti delle nuove tecnologie interattive riguarda i musei virtuali on-line, che permettono la navigazione in un ambiente virtuale che riproduce appunto il museo in questione. Purtroppo gran parte dei musei on-line sono pensati e progettati come versioni imperfette dei musei reali: si avvalgono sì delle potenzialità della rete per far conoscere al mondo il loro patrimonio, ma la tecnologia non diventa spunto per pensare ad un’idea di museo del tutto nuova, innovativa. La vera sfida consisterebbe nel passare dalla riproduzione alla produzione: pensare quindi poetiche espositive completamente nuove, pensate direttamente per un museo virtuale, e collezioni di oggetti on-line in grado di sviluppare nuovi artefatti mentali. Si pensi per esempio alla possibilità di studiare un oggetto in tutti i suoi particolari, senza essere limitati fisicamente dalla teca. O alla possibilità di esporre virtualmente un oggetto che non può essere esposto fisicamente a causa della sua fragilità. Ma questa nuova forma di museo implicherebbe anche molti interrogativi: oggi una mostra museale è limitata e circoscritta dall’edificio stesso, di conseguenza la sua poetica si deve adattare all’istituzione-museo. Una mostra online diventerebbe invece talmente ampia, talmente libera che imporrebbe agli allestitori di chiarire il perché di tantissime scelte che prima non avrebbero potuto compiere in libertà, quindi di chiarire poetiche espositive molto più complesse del normale. Un altro interrogativo riguarda come la fruizione online di un museo cambi l’esperienza di fruizione che invece avviene nel mondo reale. Anche qui siamo di fronte ad una sorta di ibridazione: un individuo che si abitua a visitare musei online, poi quando torna nei musei reali si aspetta di provare le stesse emozioni. Emozioni che non saranno più le stesse, visti i limiti dei musei reali. PAGE 36
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