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Sociologia dell'economia e delle organizzazioni, 9 cfu, Sintesi del corso di Sociologia Economica

Riassunto: Sociologia dell'economia e delle organizzazioni, 9 cfu

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 16/03/2021

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alessia-pasciuta 🇮🇹

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Scarica Sociologia dell'economia e delle organizzazioni, 9 cfu e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Economica solo su Docsity! I cambiamenti più recenti dei mercati e dell’economia nei paesi e sistemi capitalismo avanzato. Non dei paesi in via di sviluppo. 2. Karl Polani. La grande trasformazione In quest’opera si mette a confronto tre principi: reciprocità, lo scambio di mercato e la redistribuzione dei beni. La reciprocità viene studiata con riferimento ad alcuni abitanti di un’isola in uno studio antropologico. Le loro abitudini vengono definite come scambio di doni, mediante cui al termine del raccolto annuale le famiglie sono solite effettuare un dono ad un’altra famiglia. Il senso del dono è il prestigio sociale che si ottiene, la prassi è una logica determinata dai legami parentali. Non importa che lo scambio dei doni sia simmetrico, ma il comportamento è diffuso per cui ci sono aspettative sociali in modo positivo sulla la reciprocità del comportamento. La redistribuzione nelle società più semplici si fanno doni al capo della tribù, il quale redistribuirà sulla base del titolo e del prestigio (organizzazione amministrata) nella misura in cui esiste una forma di redistribuzione. Lo scambio di mercato si diffonde nei paesi avanzati ed è una transazione economica per la soddisfazione del fabbisogno (profitto). 1. L’eredità dei classici e i nuovi confini tra economia e sociologia La sociologia economica è quell’insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza fra fenomeni economici e sociali. Si tratta di comprendere in che modo l’economia influenzi la società e come questa influenzi l’organizzazione e il cambiamento dell’economia. Lo sviluppo economico rappresenta un tema di ricerca centrale per la sociologia economica. Le due definizioni di economia di Karl Polanyi: • In un primo senso possiamo definire l’economia come l’insieme delle attività svolte dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi. L’economia riguarda quindi il processo istituzionalizzato, cioè di interazione tra gli uomini e la natura per il soddisfacimento dei bisogni di una società. • In un secondo senso possiamo definire l’economia come l’attività che ha a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi. I soggetti perseguono i propri interessi individuali e ciò che condiziona l’interazione tra i essi sono le regole poste dal mercato, attraverso l’influenza che la domanda e l’offerta dei beni esercitano sui prezzi. L’attività economica è influenzata dalle istituzioni. Per istituzioni si intende un complesso di valori e di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantire il rispetto da parte dei singoli soggetti. Le istituzioni orientano e regolano le attività economiche attraverso il sistema economico. Secondo Sombart tre aspetti definiscono un sistema economico : • Lo spirito economico, l’insieme dei valori che orientano il comportamento dei soggetti economici • L’organizzazione economica il complesso di norme formali e informali che regolano le attività economiche • La tecnica riguarda le conoscenze tecniche e i procedimenti utilizzati per produrre beni e servizi e soddisfare i loro 1. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Marx Weber. Weber ha studiato l’origine del capitalismo. Esiste un’affinità tra etica protestante e spirito del capitalismo, che è il meccanismo culturale che consente la diffusione del capitalismo. Ci sono attori nel mercato economico, con una mentalità diversa dal periodo precapitalistico (spirito del capitalismo). Esiste un’affinità elettiva fra la religione calvinista (predestinazione, qualunque cosa faccia non si modifica il destino) e il capitalismo. C’è un’angoscia nel non sapere cosa lo aspetta nel calvinismo. Weber dice che per reagire a questa angoscia esistenziale e al precetto del lavoro un modello di comportamento per cui vi sono segni della propria elezione. Si diffondono modelli di comportamento coerenti con lo spirito del capitalismo per cui la ricerca del profitto è un dovere etico per cercare segni di un’eventuale predestinazione e l’impegno produttivo del capitale. 2. Karl Polanyi. La grande trasformazione In quest’opera individua e mette a confronto tre forme di integrazione dell’economia: • nel caso della reciprocità si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà condivisi nei riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù. Tali obblighi sono di solito legati alla prescrizione di una religione prevalente. Il flusso di doni e controdoni caratterizza l’economia di queste società primitive, nelle quali è la complessa rete di obblighi sociali reciproci a legare tra loro i membri. • la redistribuzione: quando al capo del villaggio o della tribù vengano consegnati determinati prodotti, questi vengono immagazzinati, conservati e successivamente redistribuiti. In questi casi si comincia a far uso della moneta. Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico. • lo scambio di mercato si caratterizza per tre forme diverse a seconda del tipo di rapporto tra le tre parti: lo scambio di doni, si verifica quando al termine del raccolto annuale le famiglie effettuano un dono ad un’altra famiglia. Il senso del dono in questo caso è il prestigio sociale che si ottiene. Non importa che lo scambio dei doni sia simmetrico, ma il comportamento è diffuso per cui ci sono aspettative sociali in modo positivo sulla reciprocità del comportamento. Nelle società più semplici si fanno doni al capo della tribù, il quale redistribuirà sulla base del titolo e del prestigio (organizzazione amministrata). Lo scambio amministrato è caratterizzato da transazioni controllate dal potere politico. Lo scambio di mercato si diffonde nei paesi avanzati per la soddisfazione del fabbisogno (profitto). Solo negli scambi di mercato si dà luogo al gioco di domanda e offerta, cosa che invece non avviene nella altre due situazioni (di doni, amm.). Nel corso dell'800, i mercati autoregolati, cioè i mercati che determinano i prezzi attraverso il gioco tra domanda e offerta, diventano lo strumento da cui dipende la produzione e distribuzione dei beni e servizi nei paesi più sviluppati. 2. La sociologia economica emerge alla fine dell’800 per riempire un vuoto lasciato dalla economia neoclassica. Nata agli inizi del XX secolo, presenta due momenti importanti: 1890-1920, ’70. Accanto a istituzioni economiche come il mercato, la proprietà privata, Smith considerava anche istituzioni non economiche come lo Stato. Con la rivoluzione marginalista degli anni ‘70 dell’800 lo studio dei fenomeni economici si concentra sullo studio delle leggi del mercato. Prende così forma l’economia neoclassica caratterizzata da una serie di elementi, che si distingueranno poi da quelli della sociologia economica: Economia neoclassica (1870) La concezione dell’economia L’attività economica è considerata come un processo di allocazione di risorse scarse da parte dei soggetti economici per soddisfare la loro utilità. In questo senso l’attività economica si identifica con l’economizzare. L’azione economica L’azione economica è influenzata da motivazioni utilitaristiche e si parla di visione atomistica dell’azione economica. I soggetti cercano di massimizzare il guadagno e il soddisfacimento delle loro preferenze di consumo. Le regole L’azione è influenzata da un nucleo limitato di regole che si identificano con l’esistenza di mercati di tipo concorrenziale. Si suppone che esista un elevato numero di acquirenti e venditori, che i soggetti siano pienamente informati circa le opportunità offerte dai mercati, in modo da poter realizzare il loro calcolo razionale per impiegare le risorse di cui dispongono. Il metodo di indagine L’azione economica viene indagata con un metodo analitico- deduttivo e normativo. Vengono elaborate teorie a elevata generalizzazione. (dal generale al particolare) Sociologia economica (inizi XX-1890,1920-1970) La concezione dell’economia L’economia di mercato è considerata come un fenomeno storico caratterizzato da un particolare contesto istituzionale, e per questo preferiscono parlare in generale di capitalismo. supponeva che tutti i risparmi si traducessero in investimenti, invece Keynes considera che la propensione a consumare diminuisce con il crescere del reddito: ciò vuol dire che aumenta nel tempo la quota del reddito risparmiato. L’analisi keynesiana dà fondamento all’interventismo dello stato come regolatore della domanda. Per raggiungere un equilibrio di piena occupazione non basta solo l'intervento dello stato sulla domanda, ma anche interventi redistributivi dello stato a favore dei gruppi più poveri della popolazione proprio al fine di stimolare la domanda. (L'economia keynesiana si basa sul breve periodo). La macroeconomia keynesiana si pone come guida del processo di sviluppo, specie nei paesi più avanzati. 4.3. Parsons e i nuovi confini (‘30-‘70). – Il contributo di Parsons ha una grande influenza sulla questione della definizione dei confini tra economia e sociologia. Per quanto riguarda il rapporto tra economia e sociologia, Parsons individua il limite dell’economia neoclassica nell’esclusione dei fini dell’attore. Questi ultimi sono considerati come dati; non sono oggetto di indagine per l’economia neoclassica, la quale si concentra sul rapporto tra fini e mezzi. Secondo Parsons, la soluzione al classico problema hobbesiano dell’ordine sociale non sta tanto nella capacità del potere politico di controllare gli interessi individuali, ma sta nell’esistenza di un insieme di valori comuni che orientano l’azione. Le leggi economiche hanno un carattere normativo, indicano dei criteri di azione razionale date certe condizioni. Ma la loro validità empirica è legata al fatto che gli attori si comportino effettivamente secondo tali criteri per soddisfare i loro fini. Il che, secondo Parsons, è poco probabile nella realtà concreta. Per Parsons i tentativi di ridefinire l’economia, per fornire cioè una spiegazione teorica completa delle attività economiche concrete, sono raggruppabili in due filoni: ▪ Il primo è quello dell’empiricismo positivista, sviluppatosi maggiormente nel contesto anglosassone. In questo caso si lavora sui fattori che condizionano l’azione economica ovvero fattori biologici o psicologici. Più in generale questo filone sfocerà poi nel comportamentismo (behaviorism), cioè in approcci che tendono a svalutare il ruolo di fattori ideali (valori, norme) nel comportamento dell’attore. ▪ Il secondo filone è chiamato empiricismo storicista. Vi è attenzione ai fattori ideali e normativi, per esempio con il concetto di “spirito del popolo”. In definitiva Parsons respinge entrambe le soluzioni, in quanto esse riducono l’economia a una branca della sociologia applicata. Nell’opera La struttura dell’azione sociale egli concentra la sua attenzione sulle ricerche di Pareto, Durkheim e Weber, per essi: - l’economia si basa sul perseguimento razionale dell’interesse individuale - la sociologia è legata ai valori ultimi condivisi. Parsons combina le loro idee formulando la teoria volontaristica dell’azione, in cui l’azione dell’attore è influenzata, almeno in parte, da componenti normative (valori e norme). L’approccio di Parsons è struttural-funzionalista: si propone di individuare la struttura di fondo della società, mostrando le funzioni che le sue parti assolvono, (o approccio sistemico). Fondatore dello struttural-funzionalismo elaborò la teoria dei sistemi sociali, applicandola al caso dall'economia, secondo la quale la società è vista come un sistema di parti interdipendenti (strutture) che per conservarsi deve assolvere quattro funzioni fondamentali: - L’economia rappresenta la sfera di attività connessa con le funzioni di adattamento, per procurarsi le risorse per la riproduzione della società. - Essa interagisce con le strutture politiche (che svolgono la funzione di conseguimento dei fini), - con quelle che motivano gli individui trasmettendo valori e norme, cioè la famiglia, la religione, la scuola (funzione di latenza), - e con quelle che presiedono alla stratificazione sociale, alla distribuzione delle ricompense e alla prevenzione dei conflitti (funzione di integrazione). Ma nonostante sia interessante per definire l’interdipendenza tra sociologia ed economia, l’analisi rimane a un livello di elevata astrazione analitica. 2. La modernizzazione e lo sviluppo delle aree arretrate Nel secondo dopoguerra la sociologia economica si interessa alla formazione di molti stati indipendenti, che, in seguito al processo di decolonizzazione, devono affrontare problemi di crescita economica. Lo studio di questi paesi e aree arretrate contribuirà alla nascita di una nuova sociologia dello sviluppo, che sottolinea l’importanza dei fattori culturali e istituzionali nel processo di sviluppo, e non solo degli aiuti internazionali. È in questo quadro che prende forma la teoria della modernizzazione per la quale la modernità occidentale costituisce una sfida che spinge le società meno sviluppate al cambiamento sociale. Tuttavia, all'interno di questo indirizzo, vi sono diversi approcci seguiti. (TDM: visione ottimistica circa le possibilità di sviluppo; TDD: visione pessimistica circa le possibilità di sviluppo). ➢ Teoria della modernizzazione in senso stretto (anni 50-60): sottolinea l’importanza dei fattori socioculturali e politici propri dei paesi meno sviluppati che condizionano il cambiamento sociale. Vi è l’idea ottimistica che il cambiamento non potrà che avvicinare i paesi arretrati al modello di società di quelli sviluppati. Di fronte al divario crescente tra tali aspettative e le difficoltà incontrate nel percorso di sviluppo dai paesi del Terzo Mondo, si affermò un nuovo orientamento critico nei riguardi dell’approccio verso la modernizzazione. ➢ Teoria della dipendenza (elaborata con riferimento all'esperienza dei paesi dell’America Latina): Qui l’attenzione è posta sui condizionamenti economici esercitati dai paesi più sviluppati i quali influiscono sul cambiamento di quelli più arretrati. Tuttavia successivamente il quadro pessimistico di questo approccio non teneva conto della crescente diversità dei processi di modernizzazione dei paesi del Terzo Mondo. Un nuovo approccio si concentrò allora sui paesi dell’Est asiatico. ➢ Approccio della “political economy” comparata (’80): pone al centro dell’attenzione il ruolo delle istituzioni politiche nel processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi dell'Est asiatico e quelli dell’America Latina. 1. La teoria della modernizzazione. – Alcuni studi sulla teoria della modernizzazione, che si muovono nell’ambito della scienza politica, mettono più a fuoco gli aspetti e i problemi politici della modernizzazione; altri, più influenzati dalla psicologia sociale, insistono sul processo di formazione della personalità. 1.1. Approcci influenzati dallo struttural-funzionalismo. I primi studi sulla modernizzazione sono stati influenzati dalla scuola struttural-funzionalista, nel tentativo di delineare i tratti culturali e strutturali delle società tradizionali e moderne. Infatti è comune a tutti gli approcci l’idea che i paesi economicamente arretrati siano caratterizzati da un modello di società tradizionale, costituito da un sistema di elementi culturali e strutturali tra loro interdipendenti. Per questo motivo, la tradizione costituisce il primo ostacolo che è necessario superare per procedere sulla strada dello sviluppo economico e avvicinarsi al modello della società moderna occidentale. – La resistenza della tradizione si può presentare in varie forme: • la prevalenza di norme che fanno dipendere le relazioni economiche dall’ascrizione piuttosto che dal principio di prestazione, implica che i ruoli economici o la distribuzione dei beni e servizi, sono assegnati sulla base di criteri di appartenenza a un determinato gruppo piuttosto che sulla base della capacità di svolgere un certo compito. • La mancanza di specializzazione dei ruoli che limita la crescita della produttività nelle attività economiche. A questi aspetti che richiamano i concetti elaborati da Parsons, Levy contrappone all’orientamento tradizionalistico (dove l’azione sociale, e quella economica in particolare, si baseranno sul rispetto delle routine tradizionali) quello razionalistico tipico delle società moderne (dove l’azione sociale ed economica sono influenzate dagli sviluppi della scienza e quindi più aperte all’innovazione). I valori culturali tradizionali ostacolano lo sviluppo economico, quindi per avviare lo sviluppo è necessario che i modelli culturali e le strutture sociali si modernizzino avvicinandosi alle caratteristiche di razionalità, universalismo, tipiche delle società moderne dell’Occidente. Cosa dà avvio alla modernizzazione? • In generale si ritiene che ciò che dà avvio alla modernizzazione è la formazione di nuove élite intellettuali, politiche ed economiche che introducono innovazioni rispetto ai modelli tradizionali. • Hoselitz insiste maggiormente sulla crescita dell’imprenditorialità dal basso. Coloro che ricoprono una posizione marginale nella società, perché stranieri o immigrati, saranno più propensi all'innovazione sul piano economico e quindi avvieranno un processo di cambiamento del contesto sociale tradizionale. • Altri autori invece danno importanza al formarsi di nuove élite istruite che in contatto con le società moderne si mobilitano sul piano politico per modernizzare la società al fine di realizzare i livelli di benessere tipici delle società occidentali. • Altri autori per spiegare il cambiamento sociale nella modernizzazione si richiamano al concetto di differenziazione strutturale di Parsons e spostano l'attenzione dalle élite ai problemi strutturali che ne condizionano l’azione: ad es. il passaggio a strutture economiche più specializzate, consentendo di produrre in modo più efficiente. Questo passaggio comporta un indebolimento dei modelli culturali e delle strutture tradizionali, che porta a tensioni e resistenze. Più rapido è il processo di modernizzazione e più probabile è che si sviluppino situazioni conflittuali. • Alcuni studiosi della scienza politica, influenzati dallo struttural-funzionalismo hanno formulato il concetto di sviluppo politico, inteso come processo di differenziazione delle strutture. Vengono individuate una serie di sfide che il sistema deve affrontare nel corso della modernizzazione, che individuano inoltre i vari problemi dello sviluppo politico. La prima riguarda la costruzione dello stato; la seconda riguarda la costruzione della nazione e ha una connotazione culturale: si tratta di favorire il processo di formazione di un’identità nazionale; connesso a questo problema è quello della legittimazione delle nuove élite politiche che devono guidare la modernizzazione; infine la sfida della distribuzione si riferisce alla capacità del sistema politico di rispondere alle domande di maggiore uguaglianza sociale. 1.2. Approcci influenzati dalla psicologia sociale: La formazione della personalità moderna. – Nell’ambito della teoria della modernizzazione notevole peso ha avuto anche una serie di studi influenzati dalla psicologia sociale. Questi lavori condividono la distinzione tra la società tradizionale, quella moderna e quella in transizione. Essi si concentrano sui meccanismi attraverso i quali si forma una personalità moderna, considerata come un fattore essenziale che innesca il processo di cambiamento. ▪ Secondo Lerner il contatto con le società moderne occidentali stimola il cambiamento e spinge nuove élite a modernizzare. Si innesca così un processo uguale per tutti i continenti. Tale sequenza è caratterizzata dalla crescita dell’urbanizzazione, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, e quindi tende a formarsi una personalità mobile, caratterizzata dalla capacità di identificarsi con gli altri, e dal desiderio di essere simili a loro migliorando la propria posizione. Secondo Lerner la formazione di una personalità moderna è vista come un processo di socializzazione secondario. ▪ McClelland, afferma invece che lo sviluppo economico è condizionato dalla presenza in una società, di personalità con un forte bisogno di realizzazione. Per McClelland il bisogno di realizzazione è collegato al processo di socializzazione primaria, (che avviene nei primi anni di vita e coinvolge la famiglia) nel quale i genitori stimolano i figli, nella prima infanzia, ad essere autonomi e ad avere fiducia nelle proprie forze, provocando nei ragazzi un maggiore bisogno di realizzazione. ▪ Hagen pone l’attenzione sui processi di socializzazione primaria, evidenziando come, nel contesto tradizionale essi tendono a scoraggiare la formazione di una personalità innovativa e favoriscono una personalità autoritaria; mentre nei contesti moderni il bambino sviluppa un’ansietà creativa; una spinta a cercare di controllare razionalmente la realtà. Da questa spinta uscirà una personalità più aperta all’innovazione e all’imprenditorialità. ▪ Inkeles e Smith ritengono che la personalità moderna non si plasmi durante l'infanzia, ma è associata all’influenza che esercitano sui soggetti esperienze quali la partecipazione scolastica, l’occupazione nell’industria, l’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, la vita urbana. 1.3. Gli stadi di sviluppo e la convergenza. – Rostow (Gli stati dello sviluppo economico) elabora una sequenza degli stadi di sviluppo, più dettagliata e completa di quelle diffuse che distinguono tra società tradizionale, di transizione e moderna, indicando cinque stadi: la società tradizionale, le precondizioni per il decollo, il decollo economico, la spinta verso la maturità e la fase degli elevati consumi di massa. Particolarmente interessante è la fase delle precondizioni per il decollo industriale, centrale per il processo di sviluppo. Rostow sottolinea che per avviare questa fase è necessaria l’intrusione delle società moderne in quelle arretrate. Tale intrusione, che può avvenire direttamente, per occupazione militare, o indirettamente attraverso una dei diversi interessi particolari, ma anche di connettersi alle élite politiche in modo da lavorare insieme. Inoltre, quando si creano legami sociali personali tra soggetti pubblici e privati si forma capitale sociale il quale rappresenta una risorsa importante per lo sviluppo. 2) L’imprenditorialità “dal basso” nel capitalismo asiatico. Nel caso della ricerca sul capitalismo asiatico e sul Giappone l'attenzione si sposta più sui rapporti tra stato e società. Hamilton compara il percorso di sviluppo giapponese e quello cinese: • Il percorso giapponese si basa su un modello di capitalismo guidato dall’alto dallo stato sulla base di stretti rapporti con i rappresentanti delle imprese. Questo modello è ispirato a quello occidentale. Con la creazione di grandi gruppi di imprese, che comprendevano banche e attività manifatturiere, i giapponesi si allontanarono dal modello delle piccole imprese familiari a carattere artigianale. • Il percorso cinese è diverso. Le trasformazioni non sono guidate dall’alto dallo stato, ma si producono attraverso la crescita di imprese familiari. La crescita avviene con la creazione di piccole e medie imprese guidate da familiari o amici. Il modello di capitalismo cinese dell’imprenditorialità dal basso, basato su imprese familiari e reti, si specializza nella produzione a basso costo di prodotti di consumo. (L’attenzione è posta sui fattori socio-culturali e sui fattori di domanda esterni) L’analisi comparata dei percorsi dei paesi ex comunisti insiste sul ruolo dello stato e sul tipo di rapporto che si stabilisce tra stato e società. 3) La transizione dei paesi postcomunisti verso l’economia di mercato. Un importante cambiamento riguarda i paesi che fino alla fine degli anni ’80 sono stati guidati da regimi comunisti, in Europa e in Asia. Le politiche economiche nazionali riconoscono e valorizzano le reti di imprese basate su reti di relazioni fiduciarie. Altre ricerche si concentrano sui rapporti tra stato e società nei processi di transizione all’economia di mercato dei paesi ex comunisti. Altre ricerche raggruppano le diverse traiettorie intraprese dai paesi postcomunisti verso l'economia di mercato, in tre idealtipi di percorsi verso il capitalismo: dall’esterno, dall’alto, dal basso. • Capitalismo dall’esterno (il caso dell'Europa dell’Est, Repub. Ceca, Polonia e Ungheria): l’introduzione dell’economia di mercato avviene prevalentemente attraverso il ruolo degli investimenti esteri e l’acquisizione di imprese da parte delle multinazionali. Tecnici e manager puntano al ridimensionamento del ruolo dello stato. Le vecchie imprese statali vengono ristrutturate e guidate da tecnici e manager locali. La transizione verso l'economia di mercato dà luogo a un capitalismo liberale. • Capitalismo dall’alto (Russia, Ucraina, Romania, Serbia): la società è più debole e si forma un’alleanza tra postcomunisti e tecnici e manager delle imprese statali. Le classi dirigenti si impossessano delle imprese statali e delle attività economiche più importanti, trasformandole in imprese private. Il risultato complessivo è un impoverimento dei lavoratori e forte crescita dell’economia sommersa e della criminalità. La transizione verso l'economia di mercato dà luogo a un capitalismo politico. • Una terza traiettoria verso l’economia di mercato è il capitalismo dal basso (Cina): In questo contesto siamo in presenza di un regime comunista. Si tratta dunque di una transizione che non dà luogo a un capitalismo liberale, come nel caso del capitalismo dall’esterno, né a un capitalismo politico, come nel caso del capitalismo dall’alto, ma a un capitalismo ibrido (imprese statali e private). La spinta principale all’introduzione di un’economia di mercato è venuta da un’imprenditorialità dal basso, legata alla famiglia e alle reti parentali e comunitarie. A partire dalla fine degli anni ’80 in seguito ad una rivoluzione si ebbe il ridimensionamento del controllo statale dell'economia e l'apertura al mercato internazionale. !!! Nel complesso, la political economy comparata caratterizzata da una serie di elementi che lo distinguono dagli approcci precedenti e lo rendono più ricco teoricamente e più fecondo nell’analisi dello sviluppo dei paesi e delle aree arretrate: o I fattori culturali e istituzionali condizionano il processo politico ma non è possibile predeterminare gli esiti e le conseguenze. o Su di essi incide l’interazione che si stabilisce tra gli attori sociali e politici o Dalla political economy comparata viene fuori una varietà dei processi di modernizzazione sul piano storico-empirico. o Se il processo di industrializzazione consegue risultati consistenti essi sono associati a strutture statali più efficaci. o In una fase iniziale, tra gli anni ’80 e ’90, la political economy comparata ha posto soprattutto l’attenzione sul ruolo dello stato, sulla sua capacità di agire come promotore dello sviluppo, e sui fattori interni che lo influenzano (relativa autonomia delle élite politiche dagli interessi; burocrazia competente, selezionata su base meritocratiche). o Nella fase successiva vi è stata un’evoluzione verso l’analisi dei rapporti tra stato e società, ovvero una maggiore attenzione sui fattori esterni allo stato che ne condizionano l’azione. 3. Lo stato sociale keynesiano e la “political economy” comparata Nel corso del secondo dopoguerra, a causa della grande crescita postbellica e della ridefinizione dei confini tra economia e sociologia, vi fu una diffusione dello stato sociale keynesiano. (1) Questo modello, che aveva come strumenti l’intervento dello stato nell’economia e nel sociale, va in crisi a partire dagli anni ’70, perché poco adatto a fornire un’interpretazione adeguata delle difficoltà che investono le economie dei paesi più industrializzati, con la contemporanea crescita di inflazione e disoccupazione (stagflazione). (1.2) 1) Ascesa e declino dello Stato Sociale keynesiano, cioè del modello di regolazione economica e sociale che è associato al grande sviluppo postbellico dei paesi occidentali. 1. 2) Si sviluppa l'approccio della Political Economy comparata per spiegare le difficoltà (inflazione) che si manifestano negli anni 70. - Sistemi di rappresentanza degli interessi e neocorporativismo. (2). 3) Negli anni successivi, le trasformazioni dell'economia rimettono in discussione il successo di questo modello di regolazione in Europa, mentre si affermano le nuove tendenze neoliberiste, (4) specie nei paesi anglosassoni. In Europa occidentale persiste tuttavia un modello di regolazione che conserva più spazio per il Welfare e le relazioni industriali. 1.1 Stato Sociale keynesiano e le politiche di welfare. (Bendix teoria neomarxista dello Stato) 1.2 Negli anni 70 il keynesismo è messo in difficoltà dalla staglazione. 1.3 La spiegazione dell'inflazione i due approcci di Political Economy 2. Pluralismo e neocorporativismo: sistema di rappresentanza degli interessi (organizzazioni degli interessi e decisione politica, la logica dello scambio politico, La variabilità degli assetti neocorporativi e le sue cause 3. 1. Ascesa e declino dello Stato Sociale keynesiano. – Per stato sociale keynesiano (il modello di regolazione economica e sociale associato al grande sviluppo postbellico dei paesi occidentali) si intende un crescente intervento dello stato in campo economico e sociale, che si realizza nei paesi sviluppati dell'Occidente nel secondo dopoguerra e che si allontana dalle concezioni di Keynes riguardo l’intervento pubblico. Le politiche di Keynes erano state concepite come strumento per favorire la fuoriuscita dell’economia da una situazione di depressione (quindi solo in un’ottica di breve periodo). Esso si basa invece sull’adattamento della teoria di Keynes, quindi l’idea di fondo è che la politica della domanda debba essere usata non solo per evitare le recessioni, ma anche per favorire lo sviluppo nel tempo delle risorse produttive (ottica di lungo periodo). Con riferimento a questi due fenomeni si può parlare di stato sociale keynesiano: ➢ Il tentativo di utilizzare l’intervento statale e la spesa pubblica, come strumento per sostenere lo sviluppo economico, e non solo per curare le depressioni. ➢ La diffusione dei programmi di welfare Per quel che riguarda le politiche di sostegno della domanda emergono delle differenze. Per esempio si è contrapposto un modello di keynesismo debole a uno di keynesismo forte. a) Nel keynesismo debole, (USA negli anni 70) l’intervento pubblico, si limita a stabilizzare il ciclo economico sostenendo la domanda nei momenti di recessione e rafforzandola in quelli di pieno utilizzo dei fattori produttivi. Le politiche economiche si avvicinano al tipo stop and go, quindi si alternano manovre espansive e recessive. La spesa sociale non ha in genere una crescita consistente. b) Il keynesismo forte (Svezia, paesi scandinavi) è invece impegnato nella difesa della piena occupazione e della crescita economica ma anche sulla diffusione del welfare, in modo da poter finanziare un incremento più consistente della spesa sociale. 1.1. La crescita dei sistemi di protezione sociale. – Ciò che caratterizza lo stato sociale keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. (Programmi/sistemi di protezione sociale) Con il graduale riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali a seguito della domanda proveniente dalle classi subalterne, vengono sempre più rivendicati i diritti di cittadinanza, quali la protezione dai rischi per le malattie, vecchiaia, disoccupazione. - Bendix insiste sulle richieste delle classi inferiori di riconoscimento politico e sociale. Egli mostra come il grado di apertura del sistema politico sia un fattore che influisce sugli esiti delle nuove domande: quando il sistema politico è più aperto alle nuove richieste esse si sviluppano gradualmente. L’opposto avviene dove le classi dominanti e la tradizione ostacolano il riconoscimento dei nuovi diritti delle classi subalterne. - La teoria neomarxista dello stato afferma che la crescita dei programmi di protezione sociale ha la funzione di aumentare e mantenere il consenso popolare, Tuttavia il processo dall'evoluzione del welfare è differente nei regimi di tipo autoritario e in quelli parlamentari: • Nei regimi di tipo autoritario (Germania di Bismarck), i programmi di protezione sociale si affermano come reazione delle élite conservatrici che, sfidate dalle nuove forze, cercano di accrescere la loro legittimazione. • Nei regimi parlamentari, più aperti alla rappresentanza dei nuovi gruppi sociali, il processo è più ritardato, anche per le resistenze spesso dei partiti del movimento operaio, che spesso vedono con sospetto l’estensione dell’intervento statale. Titmuss (’74) e Andersen (’90) hanno identificato tre modelli (o idealtipi) principali di welfare: Istituzionale-redistributivo Residuale Remunerativo Questo modello copre i principali rischi per l’intera popolazione nazionale sulla base del riconoscimento del diritto di cittadinanza Questo modello copre una fascia limitata di popolazione che si trova in condizioni di indigenza e bisogno, per rischi che non sono coperti dal mercato, dalla famiglia o da forme di azione volontaria. Questo modello copre i principali rischi si basa non su un diritto di cittadinanza ma sull'appartenenza a una categoria socio-professionale I programmi pubblici forniscono benefici uniformi per tutti i cittadini, quindi su base universalistica I programmi sono molto selettivi e l’impegno di spesa resta più modesto, quindi i benefici hanno un valore marginale I benefici sono più differenziati in relazione alla posizione occupazionale Comporta un finanziamento per via prevalentemente fiscale, cioè legato alla posizione lavorativa Comporta un finanziamento fiscale Il finanziamento si basa sui contributi , e sono quindi più deboli le finalità redistributive A questo modello si avvicinano i paesi del Nord Europa, come Svezia, Norvegia e Danimarca, e ad esso si ispirava la riorganizzazione del sistema inglese subito dopo la guerra, sulla base del rapporto Beveridge L’esempio più tipico di questo modello è il caso degli USA, dove il Welfare si espande negli anni ‘30 con il New Deal e poi negli anni ‘60, in un contesto influenzato dall’ideologia liberale. Altri paesi che si avvicinano a questo modello liberale sono il Canada, l’Austria e la Gran Bretagna Questo modello è riscontrabile nell'esperienza dei paesi europei continentali come la Germania, la Francia, il Belgio, l'Italia, la Spagna, ed il Portogallo Sistema di rappresentanza Neocorporativismo Pluralismo piccolo numero di grandi associazioni elevato numero di piccole associazioni rappresentano interessi di ampi settori economici e categorie professionali (industria nel complesso) rappresentano interessi specifici e settoriali (industria meccanica) potere di rappresentanza più centralizzato e sono presenti strutture di vertice con un elevato potere potere di rappresentanza poco centralizzato e mancano, o sono deboli, strutture di vertice Elevato grado di concentrazione (monopolio) in quanto mancano alternative, perché non ci sono molte organizzazioni in concorrenza tra di loro Basso grado di concentrazione (monopolio) in quanto le piccole associazioni competono tra loro per conquistare l’adesione dei singoli soggetti Processo di decisione politica Neocorporativismo Pluralismo Le grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi sono spesso direttamente coinvolte nel processo di decisione politica. Le organizzazioni di rappresentanza degli interessi sono meno direttamente coinvolte nel processo di decisione politica. I meccanismi di decisione e attuazione delle politiche si basano sulla concertazione (accordo fra le diverse organizzazioni) Le organizzazioni degli interessi influenzano i partiti politici con attività di lobbying, (politica di pressione) cercando di incidere sulle decisioni che li riguardano NEOCORPORATIVISMO: modello di regolazione politica dell’economia nel quale grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano insieme alle autorità pubbliche al processo di decisione e attuazione di importanti politiche economiche e sociali. Nel caso del neocorporativismo l’adesione alle organizzazioni di rappresentanza resta volontaria e il rapporto tra queste e le autorità pubbliche è di interdipendenza. 2.2. La logica dello scambio politico – Per quanto riguarda gli effetti della piena occupazione, un ruolo importante è giocato dalle organizzazioni dei lavoratori. Il contributo di Pizzorno riguarda lo scambio politico, cioè una situazione in cui il governo fornisce beni (leggi, norme) in cambio di consenso. Per moderare le domande dei sindacati non basta l’offerta da parte dei governi di un maggiore coinvolgimento nelle politiche economiche e sociali, ma sono necessarie altre due condizioni: • La centralizzazione del potere di rappresentanza dei rappresentanti delle organizzazioni che possono imporre una moderazione delle domande da parte dei rappresentati. • Una situazione di bassa concorrenza da parte delle organizzazioni rivali. Nel processo di regolazione neocorporativo i governi, integrando le organizzazioni dei lavoratori nel processo di decisione politica, scambiano potere politico con consenso e controllo sociale. Il ruolo della cultura politica è importante. Governi di sinistra, con la presenza di partiti socialisti, sono in genere più sensibili al contesto del mondo del lavoro e dei sindacati. Un aspetto del modello neocorporativo negli anni 70 è costituito dalla più bassa conflittualità. 2.3. La variabilità degli assetti neocorporativi e le sue cause – La variabilità del modello neocorporativo ha dato vita a diverse tipologie: neocorporativismo con organizzazioni dei lavoratori forti neocorporativismo con organizzazioni del lavoro più deboli neocorporativismo instabile Sindacati forti Sindacati più deboli Sindacati forti con elevato grado di monopolio della rappresentanza e di centralizzazione del potere, e organizzazioni imprenditoriali forti e centralizzate con basso grado di monopolio della rappresentanza ma con un elevato grado di centralizzazione così come le organizzazioni imprenditoriali ridotta capacità di coordinamento centrale della rappresentanza. Le organizzazioni sindacali limitano la conflittualità. Le organizzazioni sindacali limitano la conflittualità. paesi scandinavi (Svezia, Norvegia, Danimarca) Olanda, Belgio, Svizzera (anni ’70: UK, Italia) ➢ Quando non si realizza il tentativo dei governi di cercare l'accordo con i sindacati per controllare la conflittualità e le rivendicazioni salariali, si dà luogo a un neocorporativismo instabile. 3. Il decreto tra mercato e accordo. – Un terzo tipo di regolazione di political economy comparata, diverso da quello neocorporativo e da quello pluralista è: il decreto. Situazione caratterizzata da un’elevata autonomia dei governi dalla pressione degli interessi. I sindacati deboli sono esclusi dal processo di decisione politica, fondamentale è il rapporto tra stato e industrie. Risultati dal punto di vista economico: livello relativamente basso di inflazione, bassa disoccupazione ed elevati tassi di crescita. Le situazioni vicine al decreto si distinguono dai modelli neocorporativi perché l’intervento dello stato si concentra su politiche regolative in campo economico, più che redistributive in campo sociale. Rispetto al pluralismo, con elevata inflazione, vi è una maggiore capacità di controllo dell’inflazione, ma anche uno stato interventista. Il modello neocorporativo, viene definito come accordo, e quello del pluralismo radicale, come mercato. Tre dimensioni danno forma ai tre idealtipi di regolazione: DIMENSIONI MERCATO DECRETO ACCORDO Forza della classe operaia debole debole forte Sistema politico Polity pluralistica Polity divisa Polity organizzata Egemonia ideologico-normativa Società civile Stato Stato sociale *La dimensione ideologica si riferisce alle aspettative dei cittadini nei riguardi dell’intervento pubblico e ai criteri di legittimazione dell’intervento dello stato. Modello del mercato: attenzione posta sulla società civile. L’attenzione è posta sul tentativo di uscire dalle difficoltà dell’economia americana negli anni ‘70 attraverso l’esperimento neoliberale, piuttosto che con il neocorporativismo. Secondo diversi contributi il progetto neoliberale di riduzione dell’intervento dello stato e di riallargamento della sfera del mercato, intensificava lo scontro distributivo tra i diversi gruppi sociali con il rischio di un ulteriore declino economico. 3.1. Principi e sistemi di regolazione – Il neocorporativismo degli anni ’70 ha aggiunto una quarta forme di regolazione dell’economia alle tre tradizionali della sociologia economica: ➢ Lo scambio di mercato sulla base di prezzi, con le istituzioni dei mercati autoregolati ➢ La solidarietà, sulla base di obbligazioni condivise, con una vasta gamma di istituzioni (famiglia, parentela) ➢ La redistribuzione che si basa su regole formali, con le istituzioni politiche 4°: Riflettendo sull'esperienza del neocorporativismo, Schmitter e Streeck aggiungono a questo quadro la concertazione come forma di regolazione e le associazioni di tipo neocorporativo come istituzioni che la sostengono. La concertazione neocorporativa è vicina alla redistribuzione di Polanyi, per il rilievo che hanno decisioni e interventi politici nella produzione e distribuzione del reddito, però questa forma di regolazione coinvolge le organizzazioni degli interessi alle quali vengono delegate funzioni pubbliche. Quindi si può considerare la concertazione neocorporativa come una variante moderna della redistribuzione. Ciascuna economia non si basa mai soltanto su un'unica forma di regolazione, dunque è opportuno distinguere tra: PRINCIPI o le FORME DI REGOLAZIONE: riguardano le regole secondo le quali: le risorse vengono combinate nel processo produttivo, il reddito prodotto viene distribuito, i conflitti vengono controllati. SISTEMA DI REGOLAZIONE: si riferisce alla specifica combinazione e integrazione tra le diverse forme di regolazione di una determinata economia. Questo concetto è equivalente a quello di sistema economico, inteso come una modalità di regolazione istituzionale di una determinata economia. Ciascuno dei tre sistemi di regolazione (accordo, mercato e decreto) è caratterizzato non solo da una forma regolativa prevalente, ma anche da una diversa combinazione e integrazione delle altre. 4. Neoliberismo e nuovi patti sociali – Nei primi anni ’80 prendono forma importanti mutamenti. Due sfide spingono a sperimentare soluzioni nuove: • controllare l’inflazione mettendo sotto controllo la spesa sociale e i salari • difendere l’occupazione e sostenere l’innovazione a fronte dell’accresciuta concorrenza dei paesi emergenti. ➢ In paesi come gli USA e il UK la soluzione che appare più indicata per controllare la disoccupazione, ridurre l’inflazione e rilanciare lo sviluppo, (per uscire dalle difficoltà economiche e sociali degli anni ’70), sembra essere la svolta liberista (anni 80): ridurre il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, ed il sistema di welfare rilanciando il mercato e ridimensionando l’intervento pubblico nell’economia. In questi paesi manca l’accordo tra organizzazioni di rappresentanza degli interessi ed il governo. ➢ Nei paesi dell’Europa continentale l’accordo tra governo e organizzazioni di rappresentanza degli interessi permette il controllo dell’inflazione e lo sviluppo. Un modello dove le grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano alla definizione e attuazione delle politiche pubbliche. La Francia, ad esempio, rimane caratterizzata da organizzazioni di rappresentanza molto deboli e frammentate e da relazioni industriali fortemente conflittuali. Spagna e Italia, continuano ad essere caratterizzate dall’alternarsi tra concertazione e conflittualità delle relazioni industriali. Vi sono dunque traiettorie differenziate tra i vari paesi europei. ➢ Nei paesi dell’Europa continentale e scandinava si verificano due importanti cambiamenti: si manifesta il declino della contrattazione centralizzata, ed emergono forme di contrattazione decentrata. In secondo luogo si afferma un nuovo tipo di patto sociale. I nuovi patti si focalizzano da un lato sul tentativo di ridurre la disoccupazione attraverso l’aumento della flessibilità del lavoro, e dall'altro sulla riorganizzazione dei sistemi di welfare per ridurre la spesa sociale. 4.1. Declino della contrattazione centralizzata e decentramento – Il modello di produzione fordista basato sulle grandi imprese subisce forti pressioni (la saturazione dei mercati e la crescente concorrenza, su questi stessi mercati, dei paesi di nuova industrializzazione con un più basso costo del lavoro). Si avvia così un processo di riorganizzazione delle strutture produttive: si ha così il declino delle vecchie forme di contrattazione centralizzata e si diffonde la contrattazione decentrata: che permette di affrontare con minori costi i problemi posti dalla trasformazione del fordismo e facilita l’intesa tra le varie parti coinvolte. Negli anni ’80 la diminuzione della classe operaia di grande fabbrica e l’incremento di lavoratori più qualificati, indeboliscono i sindacati, sindacati più deboli hanno minor influenza sulle scelte degli imprenditori e dei governi. Per quanto riguarda i governi, soprattutto per gli assetti di tipo neocorporativo, diventa essenziale limitare le spese sociali a causa dal peso crescente del sistema di protezione sociale. Ovunque si registra un aumento dei costi pubblici legato a vari fattori: • Forte invecchiamento della popolazione, che rende sempre più onerosa la spesa pensionistica, e che aumenta anche i costi dei servizi sociali e assistenziali, sempre più richiesti • Il miglioramento delle tecniche di prevenzione e cura delle malattie • La maggiore domanda di protezione dei nuovi lavoratori flessibili (part-time, tempo determinato) 4.2. I nuovi patti sociali – A partire dagli anni ’80 viene meno quel complesso equilibrio socioeconomico del fordismo e dello stato sociale keynesiano. I nuovi patti sociali hanno in genere come obiettivo la promozione della competitività e della coesione sociale attraverso soluzioni mirate da un lato ad aumentare la flessibilità nel lavoro, e dall'altro a introdurre nuove forme di protezione sociale per ridurre i rischi per i lavoratori più flessibili. Nel caso italiano, l’ampia flessibilizzazione dei rapporti di lavoro ha continuato ad appoggiarsi sul ruolo della famiglia nell’offerta di servizi privati. Si rafforza così il modello di welfare familista. 4. La crisi del fordismo e i modelli produttivi flessibili Negli anni ’70 si manifesta la crisi del modello produttivo “fordista” basato sulle grandi imprese della produzione di massa. Mentre negli studi di orientamento macro il fuoco era posto sul sistema di rappresentanza degli interessi, sulla composizione dei governi, sulla struttura e l’efficienza degli apparati pubblici, in altri studi vengono maggiormente in evidenza i fattori istituzionali che influenzano i processi di innovazione e di adattamento a condizioni di mercato 2.1. Piccole imprese e distretti industriali In diversi paesi si registra la presenza dei sistemi locali di piccole e medie imprese (clusters) e dei distretti industriali, concentrati in alcune regioni. I settori produttivi possono essere tradizionali (tessile, abbigliamento, calzature, ecc.) o moderni (metalmeccanica, elettronica, informatica, ecc.). Perché si parli di distretti industriali devono esserci due requisiti: a) il processo produttivo è divisibile in fasi diverse, tecnicamente separabili, in modo da consentire la specializzazione delle piccole imprese per fasi o componenti. b) deve trattarsi di produzione soggette a elevata variabilità quantitativa e qualitativa della domanda, che richiedono forme di organizzazione flessibile. Sistemi locali di piccole imprese (clusters) Distretti industriali • sono localizzate piccole e medie imprese • sono localizzate molte imprese di piccola dimensione • specializzate in uno o più settori produttivi • ciascuna si specializza in un determinato settore • esse collaborano poco tra loro nel processo produttivo • esse collaborano molto nel processo produttivo • molte aziende accedono ai mercati finali • poche aziende accedono al mercato finale Mercato finale: dove le imprese acquisiscono gli ordini e vendono i prodotti Distretti industriali= specializzazione settoriale e integrazione tra le piccole imprese molto elevate. I beni sono realizzati con complesse reti di subfornitori prevalentemente localizzati nella stessa area. In questo senso si può parlare anche di reti di piccola impresa. Il fenomeno dei distretti industriali ha suscitato particolare interesse in Italia per la sua diffusione. Ma comunque tendenze simili sono state segnalate anche in alcune regioni tedesche, in Danimarca, in Svezia, Francia e Spagna. ➢ I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Con particolare riferimento all’Italia, vediamo che nel corso degli anni ’70 si nota una forte crescita delle piccole e medie imprese concentrata nelle regioni del centro e del nordest. Quest’area verrà definita come Terza Italia, per distinguerla dal nordovest, cioè dalle zone della prima industrializzazione, e dal sud dove il processo di industrializzazione era rimasto molto limitato. Le piccole imprese sono concentrate in sistemi locali, cioè in aree urbane di dimensioni ridotte (100mila ab.), formate da uno o più comuni vicini. In questi sistemi locali quando la specializzazione settoriale e l’integrazione tra le piccole imprese sono molto elevate si formano i “distretti industriali”. In un distretto sono dunque localizzate molte imprese di piccola dimensione, ciascuna delle quali si specializza in una particolare fase o nella produzione di una particolare componente del processo produttivo. Solo poche aziende hanno però rapporti diretti con il mercato finale. Le ricerche sui distretti hanno evidenziato due aspetti principali, a cui Marshall si riferisce parlando di un’atmosfera industriale: • la capacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti del mercato che si basa sull’uso delle nuove tecnologie e soprattutto sui rapporti di cooperazione • la capacità di innovare e migliorare la qualità dei beni prodotti, sostenuta dall’esistenza di economie esterne alle singole aziende ma interne all’area in cui esse sono localizzate: si tratta della disponibilità di manodopera e di collaboratori specializzati, di servizi e infrastrutture, ma anche di fattori immateriali che influiscono sulla produttività. Nell'ambito del contesto istituzionale distinguiamo tra fattori cognitivi e normativi. Le risorse cognitive che si formano nel tempo portano a un sapere contestuale, cioè a un linguaggio condiviso che consente di adattare agli specifici problemi produttivi il sapere codificato delle conoscenze scientifico-tecniche. Oltre queste componenti cognitive, ve ne sono altre di tipo normativo, che riguardano la cooperazione all’interno delle aziende, e tra le diverse imprese. Le risorse cognitive e normative sono importanti per le origini dello sviluppo di tipo distrettuale, ma anche per la sua riproduzione nel tempo. I fattori istituzionali che sono fondamentali per lo sviluppo dei distretti sono 3: (si riscontrano nel centro e nel nord est) • una rete di piccoli e medi centri nei quali vi erano tradizioni artigianali e commerciali diffuse; dalle quali in genere risalgono le risorse di imprenditorialità per le piccole imprese. • Esistenza di rapporti di produzione in agricoltura prima dell’industrializzazione, specie la presenza della famiglia nelle campagne, che ha sostenuto la formazione di un’offerta di lavoro flessibile, a costi ridotti. • forte presenza di tradizioni legate al movimento cattolico e a quello socialista e comunista, che hanno contribuito a rafforzare un tessuto fiduciario molto importante per lo sviluppo della piccola impresa. A loro volta, gli enti locali hanno garantito quei servizi sociali che hanno favorito la flessibilità del lavoro e hanno fornito alcuni servizi e infrastrutture essenziali per lo sviluppo economico. SUBCULTURE POLITICHR L’attività dei distretti dipende dalla capacità di produrre beni collettivi che ciascuna unità produttiva non è in grado di realizzare da sola, ma dai quali dipende lo sviluppo complessivo. Infine per quel che riguarda il mondo del lavoro la produzione dei distretti richiede un’elevata flessibilità interna, in termini di orari e straordinari, ma anche di disponibilità a svolgere compiti diversi. ➢ DISTRETTI E ISTITUZIONI A partire dagli anni ’70 il fenomeno dello sviluppo delle piccole imprese e dei distretti è stato segnalato anche in altri contesti: in vari paesi europei, negli USA, in Giappone. I distretti industriali orientati alla produzione flessibile sono legati a specifiche risorse cognitive e normative: ✔ Aspetti cognitivi: due fattori influiscono sulle conoscenze: le tradizioni artigianali precedenti, (come in Italia) alimentate da buone scuole tecniche o altre istituzioni. La presenza di istituzioni di ricerca pubbliche o private, e di università. ✔ Per quanto riguarda la dimensione normativa, la capacità di cooperazione e la disponibilità di un tessuto fiduciario sono risorse fondamentali, influenzate da identità locali che in alcuni casi hanno matrice religiosa, politica o etnica. ✔ Per quanto riguarda le conoscenze, le istituzioni e servizi hanno lo scopo di facilitare la comunicazione tra il sapere contestuale locale e le conoscenze scientifiche e tecniche in continua evoluzione. ✔ Per quanto riguarda le risorse normative e la regolazione dei rapporti di lavoro, la flessibilità richiede un’elevata capacità di cooperazione e anche un coinvolgimento da parte dei lavoratori. ➢ I cambiamenti dei distretti industriali Il modello di organizzazione produttiva dei distretti industriali è soggetto al cambiamento e a nuove sfide che il processo di globalizzazione pone ad essi. La globalizzazione si accompagna a un incremento delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli asiatici, verso i paesi più industrializzati. Questa sfida, avvertita dai distretti industriali italiani, è stata aggravata da specifiche difficoltà: le inefficienze dei servizi privati e pubblici e il peso del debito pubblico e della pressione fiscale. Si è spesso parlato così di un declino dei distretti del made in Italy. Nei distretti in molti casi si sono avviati dei processi di riaggiustamento: in vari distretti si sono affermate “imprese leader” di medie dimensioni che hanno riorganizzato la produzione: sono stati maggiormente integrati i subfornitori locali per innalzare la qualità. Alcune fasi produttive, o la realizzazione di alcune componenti, prima localizzate all’interno, sono state esternalizzate per ragioni di costo. Le imprese leader mantengono però le fasi cruciali a più elevato valore aggiunto (ricerca, design, concezione di nuovi prodotti, il coordinamento della rete produttiva e la distribuzione nel mercato). Più che di declino dei distretti industriali, si può parlare nel caso dell’Italia di una trasformazione del modello distrettuale. Si intravede un passaggio dal distretto come rete di piccole imprese al distretto come sistema localizzato di medie imprese-rete, che coordinano subfornitori locali ed esterni. Distretti industriali e clusters di piccole e medie imprese sono segnalati come fenomeni emergenti nei paesi in via di sviluppo, specie nel capitalismo asiatico di influenza cinese, ma anche in India e in America Latina. 2.2. Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Tra i modelli postfordisti, particolare attenzione riceve la formazione di sistemi locali dell’innovazione. Essi sono prevalentemente localizzati nei paesi avanzati, e sono caratterizzati dalla concentrazione in un particolare territorio di imprese di piccole e medie dimensioni specializzate in settori ad alta tecnologia, legati ai progressi tecnico-scientifici. Si parla di “distretti high tech ”. Ma non è facile definire l’industria high tech con precisione. In genere tra i nuovi settori ad alta tecnologia vi sono l’industria aerospaziale, quella chimica e farmaceutica, le biotecnologie, le attività legate all’informazione e alla comunicazione, le produzioni di software. I requisiti necessari affinché si sviluppi un sistema locale di piccole e medie imprese sono tre: • la divisibilità del processo produttivo • l’incertezza delle traiettorie tecnologiche, cioè il fatto che gli esiti di alcune nuove tecnologie sono diversi e ancora non ben delineati • condizioni di elevata variabilità del mercato che richiedono una continua ricombinazione flessibile dei fattori produttivi Dunque non tutta l’industria high tech dà vita a sistemi locali di piccole e medie imprese. Tuttavia ciò non significa che non vi sia innovazione nei distretti industriali più tradizionali, ma le innovazioni sono meno direttamente collegate ai continui progressi scientifici. Per comprendere la concentrazione territoriale di piccole e medie imprese in alcuni settori high tech si devono considerare le economie esterne materiali e immateriali, e il tipo di beni collettivi che vengono prodotti. Tali economie esterne sono però in parte diverse da quelle più tipiche dei distretti industriali. I beni collettivi riguardano: 1) l’accesso alla ricerca e le possibilità di collegamento con strutture scientifiche e universitarie (università, centri di ricerca indipendenti pubblici e privati, e le strutture di ricerca e sviluppo) è fondamentale sia per il continuo aggiornamento tecnologico, sia per la disponibilità nell’area di personale altamente qualificato. Si formano così le cosiddette “comunità professionali”. Per quel che riguarda l’aggiornamento tecnologico, sono particolarmente importanti le joint ventures (contratti) tra le imprese, o gruppi di imprese e le istituzioni di ricerca. 2) la disponibilità di fornitori specializzati di beni e servizi per le imprese. 3) un terzo tipo di beni collettivi locali è legato alla qualità del contesto legata alla capacità dei soggetti istituzionali locali di produrre beni collettivi attraverso processi di cooperazione. 2.3. La trasformazione delle grandi imprese In seguito alla trasformazione delle grandi imprese, anch'esse hanno cominciato, come i distretti industriali, a sperimentare modelli di produzione flessibile. Mancando la prevedibilità, requisito fondamentale del modello fordista, si comincia a sperimentare una riorganizzazione per produrre i prodotti rapidamente in funzione di ciò che verrà domandato dal mercato. I tratti tipici del nuovo modello sono: 1. Le grandi imprese riducono la separazione tra concezione ed esecuzione dei prodotti (tipica del fordismo): che rende la produzione lenta ed elaborata. Si sperimentano forme di decentramento dell’autorità, così le strutture centrali si occupano solo delle decisioni strategiche. 2. Cambia l’organizzazione interna e del lavoro: per produrre beni differenziati in funzione di una domanda variabile, bisogna ridurre scarti, tempi morti, accumulo di scorte, sincronizzando il più possibile la produzione alla domanda proveniente dal mercato (pratica del “just in time” nel contesto giapponese). Ciò richiede, al contrario di quella fordista taylorista, maggiore partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori. 3. La grande impresa potenzia la collaborazione con i subfornitori per la produzione di parti complementari, e si concentra di più sullo sviluppo di alcune tecnologie chiave, sul design e sull’assemblaggio complessivo del prodotto finale. 4. Le imprese investono nella formazione professionale di lavoratori, che permette il rapido ed efficace adattamento a nuove produzioni. I distretti possono essere considerati come reti di piccole e medie imprese, che tendono a formalizzarsi maggiormente nel tempo, mentre la grande azienda si trasforma in impresa-rete, fondata su un estesa collaborazione tra aziende, che rompe l’integrazione verticale del modello fordista. Le reti permettono di potenziare la velocità di aggiustamento rispetto al mercato. La cooperazione rende le imprese più dipendenti dall’ambiente sociale nel quale sono inserite. Il modello fordista, al contrario, potenziata al massimo l’autonomia dall’ambiente esterno. In base ala frequenza delle transazioni e alla specificità delle risorse vengono selezionati diversi meccanismi di governo: 1. Per le transazioni occasionali o ricorrenti a bassa specificità delle risorse (es. acquisto ricorrente di prodotti standardizzati), tende a prevalere lo scambio di mercato. 2. Per le transazioni occasionali a più elevata specificità (es. acquisto di macchine speciali) si farà ricorso al mercato, ma per ridurre i costi di transazione ci si vale dell’assistenza di terze parti in qualità di mediatori (es. liberi professionisti). 3. Per le transazioni frequenti a più elevata specificità, si afferma un “governo bilaterale” che si affida ad accordi di lunga durata, joint ventures, ecc. 4. Al crescere ulteriormente della specificità delle risorse, la gerarchia appare come la soluzione più efficiente per limitare i costi di transazione. 2. La nuova sociologia economica Nella nuova sociologia economica confluiscono approcci diversi, tra i quali quello sulle reti sociali e quello del neoistituzionalismo sociologico. Possiamo fare riferimento a due aspetti: • La teoria dell’azione, tipica della sociologia economica, i cui studi vedono l’azione come socialmente orientata. Secondo Granovetter la nuova sociologia economica critica la concezione iposocializzata dell’attore, propria dell’economia, e anche la concezione ipersocializzata presente nella sociologia di Parsons. Strutturalismo Neoistituzionalismo sottolinea la posizione dei soggetti nelle reti sociali dà rilievo alle componenti cognitive e normative della cultura • Le varietà delle forme di organizzazione economica le quali risentono del radicamento sociale dell'azione economica (embeddedness). Strutturalismo Neoistituzionalismo non si può comprendere l’organizzazione economica senza collegarla all’influenza esercitata dalle reti sociali in cui i soggetti sono inseriti bisogna fare riferimento all’embeddedness dell’azione, ovvero al ruolo della cultura. 2.1. L’approccio strutturale e le reti sociali – Per l’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata. Esso sottolinea l’influenza delle reti sociali sul comportamento economico in ambiti diversi. Williamson, e in generale la nuova economia istituzionale, hanno una visione iposocializzata dell’attore, si pensa che l'opportunismo possa essere tenuto sotto controllo da istituzioni efficienti in modo da minimizzare i costi di transazione. Altri economisti riconoscono l’importanza della fiducia per lo svolgimento delle attività economiche, essi si richiamano a una teoria ipersocializzata dell’attore, simile a quella della sociologia parsonsiana. Essa però tende a trascurare il meccanismo attraverso il quale viene tenuto sotto controllo l’opportunismo. Granovetter introduce il concetto di embeddedness, (radicamento delle attività economiche nella società) il quale sottolinea il ruolo delle relazioni personali e delle strutture (o network) che generano fiducia e scoraggiano la prevaricazione. Egli distingue poi tra legami forti e deboli, rimarcando l’importanza dei legami deboli, nel rafforzamento delle reti fiduciarie, ad esempio tra clienti e fornitori. 2.2. Reti sociali, innovazione e finanza – Un tema importante riguarda gli attori individuali e collettivi (imprese) impegnati nel terreno dell’innovazione. Occorre però distinguere tra invenzione e innovazione. INVENZIONE: è la prima concretizzazione dell’idea di un nuovo prodotto o processo INNOVAZIONE: è il primo tentativo di tradurre l’idea in pratica. Inoltre la figura dell’inventore e quella dell’innovatore devono essere tenute distinte. Nel primo capitalismo la figura dell’inventore e dell’innovatore a volte coincidevano ed erano rappresentate da singoli individui, mentre nel periodo successivo tendono a essere distinte e ad istituzionalizzarsi nei team di ricerca come struttura specializzata dell’impresa e nella direzione manageriale. Sul piano delle attività economiche le reti sociali possono portare ad esiti diversi. In alcuni casi la fiducia può limitare l’opportunismo e favorire la cooperazione, e può migliorare la performance delle imprese e favorire l'innovazione. Secondo Granovetter invece gli individui marginali, proprio per questa caratteristica di maggior isolamento, possono concepire più facilmente idee nuove. Egli quindi sottolinea il ruolo della marginalità sociale nella formazione dell’imprenditorialità rispetto alle reti costituite da legami forti. Uzzi invece mostra l’importanza di legami sociali forti (embedded) per il rendimento delle imprese, mettendo in rilievo il ruolo della componente fiduciaria. I legami forti aumentano la fiducia e rendono possibile lo scambio di informazioni complesse o riservate. Il mix di collaborazioni consolidate con elementi nuovi arricchiscono le esperienze del team. Per quanto riguarda le attività finanziarie, un primo studio riguarda le opzioni sui titoli, ovvero si tratta di un contratto che dà all’acquirente il diritto, ma non lo obbliga, di comprare o vendere, a un prezzo stabilito e a una data futura, titoli relativi a un’attività reale o finanziaria (prodotti finanziari derivati, il cui valore deriva dal valore di mercato di altri beni). Per ridurre l’incertezza sul valore dei titoli e per limitare i rischi di opportunismo, i traders tendono a formare delle reti all’interno delle quali circola maggiore fiducia e si sviluppa un monitoraggio continuo sulle condizioni di affidabilità. Alcuni studi hanno messo in luce tre prodotti finanziari: le obbligazioni, le azioni, i futures (contratti derivati che obbligano ad acquistare un determinato prodotto ad una certa data e a un prezzo prefissato). L’indagine è condotta negli USA della fina degli anni ’70 e dei primi anni ’90. Il punto di partenza sono i comportamenti opportunistici he le transazioni di questi prodotti finanziari offrono agli operatori. Gli operatori possono manipolare le informazioni e orientare le scelte dei clien ti. Nel campo della finanzia si è formato un “mercato elettronico globale” nel quale si spostano rapidissimamente ogni giorno ingenti capitali con una forte componente speculativa. Tuttavia questo processo si accompagna alla concentrazione di elementi di coordinamento del mercato in pochi grandi centri finanziari (New York, Londra, Tokyo, Parigi, Francoforte). La trasformazione di questo importante segmento della finanza in mercato digitalizzato, dove le contrattazioni di acquisto e vendita avvengono tramite computer, non ha certo eliminato i problemi di opportunismo. 2.3. Il capitale sociale L’uso del concetto di “capitale sociale” si collega ai problemi dello sviluppo e si manifesta a partire dagli anni ’60, introdotto dal sociologo francese Bourdieu. Ma con Coleman che il termine si diffonde. Il CAPITALE SOCIALE l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (es. lavoratore o imprenditore) o un soggetto collettivo (pubblico o privato) dispone in un determinato momento. Coleman dimostra come il capitale sociale abbia le caratteristiche di un bene collettivo. Per dare una spiegazione del fenomeno occorre fare riferimento oltre ai fattori culturali anche a quelli politici nei processi di sviluppo. 2.4. Il neoistituzionalismo sociologico I neoistituzionalisti mettono in evidenza il ruolo dei fattori culturali, i quali definiscono gli interessi e le modalità attraverso le quali essi vengono perseguiti. Strutturalisti Neoistituzionalisti Le reti condizionano il perseguimento razionale degli interessi da parte dei soggetti. I fattori culturali definiscono gli interessi stessi e condizionano il loro perseguimento. Questa posizione critica la nuova economia istituzionale e prende le distanze dalla teoria ipersocializzata dell’attore di derivazione parsonsiana, ma tale critica si accompagna a una ridefinizione del ruolo della cultura e non ad una svalutazione di essa, come avviene per gli strutturalisti. Il contributo di Powell e Di Maggio sull’isomorfismo è volto a spiegare l’omogeneità dei modelli all’interno di un determinato “campo organizzativo”. Quest’ultimo è costituito dall’insieme degli attori rilevanti in un certo campo di attività. Il concetto di isomorfismo indica quindi i processi attraverso i quali organizzazioni dello stesso tipo (università, ospedali) tendono ad assomigliare sempre più tra loro adottando strutture, strategie e processi simili. L'isomorfismo competitivo prevale nei settori aperti alla concorrenza del mercato, mentre l’isomorfismo istituzionale agisce lontano dal mercato concorrenziale. In base alle modalità con cui si sviluppa, si possono distinguere tra tipi di isomorfismo: • L’isomorfismo coercitivo, la regolamentazione pubblica (dall’antitrust, alle norme sul lavoro e la sicurezza) può comportare dei vincoli che obbligano ad assumere modelli simili • L’isomorfismo normativo è legato al ruolo delle università e delle scuole specializzate nella formazione di manager, o anche alle agenzie di consulenza • L’isomorfismo mimetico si applica nei settori nei quali le unità organizzative sono piccole e dispongono di risorse limitate per valutare le soluzioni più efficienti 3. Cultura e consumi Sia nell' approccio strutturalista che in quello neo istituzionalista, non ha invece ricevuto particolare attenzione il tema dei consumi. Negli ultimi decenni un filone di ricerca ha messo soprattutto in luce l'influenza dei fattori culturali sui comportamenti di consumo. La tradizione della sociologia economica si differenza dall’approccio economico di tipo neoclsasico perché sottolinea l’influenza dei fattori socio-culturali nella formazione delle preferenze, e nelle modalità con le quali i soggetti cercano di soddisfarle. Particolare rilievo è dato al valore simbolico dei beni, che sono scelti e consumati per il significato che essi assumono in relazione ad altri membri della società con i quali si interagisce. Il consumo è visto come una componente essenziale dei processi di identificazione con alcuni gruppi sociali e, contemporaneamente, di differenziazione da altri gruppi. Rispetto a questa tradizione gli sviluppi più recenti: • da un lato prendono le distanze dal modello che lega il consumo alla competizione per lo status sociale, • dall’altro lato attribuiscono un ruolo più attivo ai consumatori nel definire autonomamente le proprie scelte, e nel contrastare gli stimoli ai condizionamenti provenienti dal mercato, anche attraverso i media. Per mettere in luce queste tendenze può essere utile distinguere tra: • L’approccio neodifferenziazionista che sottolinea il ruolo della competizione per lo status nei comportamenti di consumo. Nelle società contemporanee i consumatori hanno l’illusione di scegliere liberamente tra i modelli di consumo, ma in realtà sono fortemente condizionati dal sistema dei media che li impone. L’approccio di Bourdieu per il quale è l’appartenenza a un medesimo gruppo sociale che favorisce la formazione di un insieme di orientamenti che si manifestano nei consumi come strumento essenziale di differenziazione sociale di status. In entrambi gli approcci i singoli soggetti non dispongono di margini di autonomia nella scheda dei consumi. Nel primo caso, sono in media a definire gli standard per la competizione di status, nell’altro sono i gruppi sociali di appartenenza. • Un approccio più vicino al neoistituzionalismo: collega i consumi al ruolo autonomo dei fattori culturali. In questo approccio i soggetti hanno un ruolo più attivo: gli oggetti che sono scelti servono per costruire l’identità delle persone, per dare un senso alla loro esperienza e per comunicare con gli altri, non necessariamente per competere. Il consumatore ha quindi dei margini di autonomia rispetto ai condizionamenti del mercato della moda. Un aspetto, quest'ultimo, particolarmente sottolineato da Miller, per il quale i consumatori possono mettere in atto strategie attive, basate su esperienze che permettono di contrapporsi ai condizionamenti della cultura dei consumi di massa e di contrastare la mercificazione dei rapporti sociali. 6. La globalizzazione e la diversità dei capitalismi Nel corso degli anni ’70 il problema principale che le economie dei paesi sviluppati dovevano affrontare era costituito dall’inflazione. A partire dagli anni ’80 i confini delle imprese si aprono sempre di più, orientata verso i mercati internazionali. Cresce dunque il fenomeno della globalizzazione dell’economia, agli inizi degli anni ’90. Economie coordinate di mercato : il ruolo del mercato è più limitato rispetto a quello dello stato, delle associazioni, ma anche di forme di solidarietà a base comunitaria. (Europa centrosettentrionale: Germania, Austria, Svizzera, Olanda, paesi scandinavi.) analizzati, ma tanti altri che hanno a che fare con i fattori umani e fattori ambientali. I fattori umani riguardano l’opportunismo individuale e la razionalità limitata. La razionalità limitata è stata formulato dal sociologo Simon, il quale pensava che ci sono dei limiti nella razionalità umana che si limita ad ottenere delle soluzioni soddisfacenti. Simon non fuoriesce dai confini dell’utilitarismo, quindi la razionalità limitata si introduce una maggiore concretezza. Williamson assume l’idea di Simon della razionalità limitata, immaginando gli attori influenzati da fattori umani e ambientali. Questi fattori umani sono invariabili, costanti, fissi. I fattori ambientali sono considerati in un primo momento come l’incertezza, il rischio. Uno dei fattori del fattore ambientale è la numerosità dei competitori. Nel calcolo della convenienza la numerosità di competitori implica il fatto che il livello dell’opportunismo sarà limitato, così il costo di transazione tenderà a scendere. Un altro aspetto è la specificità delle risorse, che implica il fatto che in assenza o scarsità di macchinari specifici il livello di opportunismo si abbassa. Non variano i fattori umani, ma nelle situazioni che si possono determinare i fattori ambientali sono determinanti e variabili. Il mercato e la gerarchia prevarranno come risultati dell’intenzionalità razionale degli attori che sono però orientati alla massimizzazione della loro utilità. Nell’accordo tra le parti ognuno cerca di raggiungere il perseguimento dei propri obiettivi. Nei distretti di piccolo-medie imprese la teoria di Williamson può essere applicata in questi contesti. Essa ha avuto diverse critiche. Il primo punto in cui Trigidia critica Williamson con la sua teoria dei costi delle transazioni e la variabilità dei fattori ambientali. In altri contesti gli imprenditori difficilmente si baseranno su interessi opportunisti, piuttosto su una maggiore fiducia in contesti di coesione e aggregazione (distretti del nord Italia), mentre in contesti meridionali si parlerà di opportunismo per fattori umani, propri della persona. Trigidia quindi muove una critica la teoria dell’azione, secondo una logica più istituzionale. L’altra critica del Trigidia riguarda il ruolo delle istituzioni, ovvero l’idea che le istituzioni siano la conseguenza di una teoria contrattuale secondo Williamson, ma possono essere l’effetto di altri fattori come per esempio i fattori culturali, politici o le reti sociali. Gerarchizzare non elimina i costi di transizione, in realtà ci sono costi che abbiamo elencato di uso del mercato ma anche il costo del personale che gestiscono degli stipendi, del controllo dell’orario, delle performance del lavoro, delle selezioni del personale. Questi ultimi sono indipendenti dai costi di transazione, legato all’uso della gerarchia. Si tratta di costi che si aggiungono ai costi tradizionali che determina la struttura dei costi di transazione. Granovette è un autorevole studioso sociologo e opera delle critica molto rilevanti alla teoria dei costi di transazione da una prospettiva strutturale. Innanzitutto Granovette critica Williamson per il fatto che la sua idea di azione sociale riferita a un individuo che è un atomo, animato cioè solo dalle sue animazioni naturali che sono connaturate senza alcun elemento influenzante. Questo uomo risponde alla visione iposocializzata dell’azione agisce come in una bolla di vetro, senza alcuna interferenza. Granovette dice che questa visione non aiuta a capire i fenomeni reali, d’altra parte egli è abbastanza critico nei confronti degli economisti che spiegano le azioni attraverso il ricorso alla fiducia. Se mi rivolgo ad una persona nel rapporto gerarchia-mercato mi baso sulla fiducia che può calmierare o meno i costi di transazione, che nulla ha a che vedere con i fattori ambientali. Ma in questo caso questo comportamento fiducioso si basa su aspetti culturali, da norme che i vari attori interiorizzano attraverso i processi di socializzazione (distretti delle imprese settentrionali). In un contesto dove c’è una cultura orientata alla fiducia, la socializzazione è un processo continuo attraverso cui le persone, gli attori sociali sono esposti alla cultura prevalente della società. Perché questo si determini si distingue la socializzazione primaria e secondaria. Gli istituti della socializzazione primaria sono la famiglia, la scuola e in quella secondaria le amicizie. Il difetto di questo processo è l’assenza di una scelta personale, siamo nell’ambito di un determinismo sociale delle istituzioni e delle norme più diffuse. Mentre secondo Williamson nessuno influenza l’azione individuale, quella di Granovette è una visione di ipersocializzazione. Paradossalmente la visione iposocializzata e iposocializzata ricadono sullo stesso errore: nessuno spazio per le reti sociali su cui Granovette concentra le sue riflessioni. Secondo Granovette lo spazio delle decisioni, della libertà individuali sono determinate dalle reti sociali, ovvero l’insieme delle persone con cui abbiamo contatti o legami intensi o meno. Il radicamento delle reti sociali in un individuo è fondamentale e l’analisi dell’economia e della società saranno sempre strettamente collegate. Da questo punto di vista Granovette adotta un concetto che Polani aveva adottato, a differenza del quale però anche lo scambio di mercato è fortemente legato alla struttura sociale, alle reti sociali. Secondo Granovette l’approccio dell’iposocializzazione da cui parte Williamson lo porta ad avere dei difetti, ovvero a pensare che le istituzioni, che nascono come istituti efficienti per regolare le transazione, possono anche non essere efficienti. Williamson era portato da questi errori teorici di base a sopravvalutare la gerarchia come istituzione efficiente per gestire transazioni complesse. Tanto il mercato quanto la gerarchia possono garantire maggiore o minore efficienza a seconda della struttura, dai legami delle reti sociali. ESEMPI DI RICERCHE CHE GRANOVETTE HA FATTO: 1. MERCATO DEL LAVORO, “getting a job”, in questa ricerca degli anni ’70 si occupa di vedere come le persone trovano un lavoro, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Prende a campione un vasto numero di individui e studia il modo in cui hanno trovato il lavoro che svolgono. I risultati dimostrano che il modo più diffuso attraverso il quale le persone hanno trovato lavoro sono le relazioni informali (il c.d. passaparola). Però c’è una struttura particolarmente adatta per trovare il lavoro che è quella che si basa sui legami deboli. Studiando i legami attivati e mobilitati, lui distingue i legami forti e i legami deboli. LEGAMI FORTI= saranno i legami con le persone che conosco da sempre, che frequento assiduamente e con un legame affettivo intenso LEGAMI DEBOLI= persone conosciute da poco, che vediamo raramente e tendenzialmente non abbiamo un vissuto affettivo intenso (c.d. conoscenti) Granovette dice che anche se il legame forte è quello caratterizzato da una maggiore motivazione di trovare lavoro, tuttavia il posto di lavoro si trova più facilmente attraverso i legami deboli. Ciò è causato dal fatto che i legami forti tendono a collegare persone con la stessa estrazione socio-economica e accomunano persone che frequentano gli stessi ambienti, hanno le stesse esperienze e informazioni, mentre i legami deboli possono essere un veicolo più efficiente di informazioni non ridondanti. 2. SILICON VALLEY, negli anni del miracolo economico alcuni tecnici e ingegneri si sono arricchiti all’interno di aziende ad alta tecnologia. Negli anni successivi per capitalizzare queste risorse hanno deciso di finanziare altre imprese nuove, smettendo di fare i tecnici e divenendo dei finanziatori. Siccome erano ingegneri e manager che conoscevano il mondo delle imprese, entrano nei consigli di amministrazione delle imprese che finanziano perché hanno legami di conoscenze con le altre imprese e competenze acquisite in passato. Competenze e conoscenze relazionali creano una rete interaziendale e intersettoriale. Questa specifica struttura relazionale ha reso famosa e competitiva la Silicon Valley. Questi due esempi danno concretezza alla teoria di Granovette e danno evidenza al modo in cui le reti di relazioni si connettono a livello macro. Si è sviluppata un tipo di analisi, la network analysis, con cui si studia la densità dei legami e le caratteristiche delle dimensioni dei legami. Ci sono tre principi di interconnessione che spiegano la connessione tra micro e macro: 1. ASPETTO NORMATIVO: Tanto più le reti saranno dense e tendenzialmente caratterizzate da legami forti, tanto più forte è il legame di fiducia che intercorre tra gli individui 2. ASPETTO COGNITIVO: Tanto più le reti saranno caratterizzate da legami forti di tipo omofili tanto minore sarà la capacità di trasmettere le informazioni 3. ASPETTO DEL POTERE NEGOZIALE: Tanto più le reti sono caratterizzate da buchi strutturali tanto maggiore sarà il potere che si può stabilire tra le imprese di persone o imprese. Sulla questione del potere, i buchi strutturali dipende dalla capacità delle persone di collegare i network che avranno maggiore potere LA TEORIA DEL CAPITALE SOCIALE La teoria del capitale sociale non ha un significato univoco, ma sostanzialmente si parla di capitale sociale con due prospettive e approcci differenti: 1. Lo studioso Robert Pattnam ha pubblicato un libro molto criticato, in cui parla di capitale sociale e con cui ha dato vita a questo filone di ricerca (La tradizione civica delle regioni italiane). Pattnam decide di venire in Italia per studiare il rendimento delle regioni, perché c’è una cornice amministrativa-organizzativa uguale ma un rendimento diverso. Attraverso una serie di indicatori analizza l’efficienza burocratico- amministrativa nella parte di organizzazione politica e di qualità dei servizi. Trova che il rendimento delle regioni italiane è molto diverse, che funzionano in due modi differenti: ● Le regioni del Nord Italia hanno elevati rendimenti ● Le regioni del Sud Italia hanno bassi rendimenti Per ogni regione ricostruisce un indice di quattro variabili di civicness per definire il capitale sociale, avendo in mente l’idea di un Sud particolarmente clientelare mentre il Nord è più civico. C’è un legame tra rendimento delle regioni, capitale sociale e grado di sviluppo economico. Alla base della prima e della terza componente c’è il capitale sociale, questa cultura civica nel primo medioevo c’è stata una biforcazione per cui al nord vi è stata l’esperienza dei comuni mentre al sud vi erano le invasioni straniere. Una spiegazione culturalista come quella di Pattnam presenta dei problemi. In questa ricerca viene definito incivico il sud Italia in cui manca la fiducia e la mancata collaborazione, in cui manca il meccanismo di raccordo di micro e macro e di riproduzione dei secoli. In questa idea di capitale sociale l’accezione è quella di una dotazione culturale di un territorio positiva. 2. Altri teorici hanno rifondato una nuova accezione di capitale sociale, che poggia molto sul lavoro di Granovette e delle reti sociali. Infatti, il capitale sociale è visto come un insieme di relazioni che possono essere mobilitate dall’attore che ne è coinvolto. In questa accezione l’idea di capitale sociale è un’idea neutra, la presenza di capitale sociale non prefigura sviluppo economico. È quindi aperto ad esiti economici differenti. In questa visione quando si fa riferimento alla fiducia, è il portato di un insieme di reti diffuse che poi hanno degli esiti per la fiducia e di collaborazione.
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