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Sociologia della cultura di Wendy Griswold, Sintesi del corso di Sociologia Dei Processi Culturali

Riassunto dettagliato del libro nei suoi contenuti fondamentali

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 11/08/2019

giulia-lazzari-5
giulia-lazzari-5 🇮🇹

4.6

(13)

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Scarica Sociologia della cultura di Wendy Griswold e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! Sociologia della cultura Di Wendy Griswold CAPITOLO PRIMO: LA CULTURA E IL “DIAMANTE CULTURALE” 1. Definizioni: due modi di guardare la cultura Parlare di cultura da una parte e di società dall’altra significa fare una distinzione analitica tra due diversi aspetti dell’esperienza umana. Secondo un modo per concepire questa distinzione, la cultura designa l’aspetto espressivo dell’esistenza umana, mentre la società indica l’aspetto relazionale (e spesso pratico). Nel diciannovesimo secolo molti intellettuali europei affermarono l’esistenza di un’opposizione tra cultura e società o, nelle loro parole, tra cultura e civiltà. “Civiltà” indicava i progressi tecnologici della Rivoluzione industriale, allora ben visibili, e le trasformazioni sociali che accompagnarono l’industrializzazione. Opporre cultura a civiltà significava, dunque, protestare contro il pensiero illuminista, contro la credenza che il progresso fosse necessariamente benefico, contro gli aspetti detentori dell’industrializzazione e contro ciò che Marx chiamava il “rapporto monetario” del capitalismo in cui ogni cosa e ogni persona sembravano essere valutati su basi economiche. In questa dicotomia, gli effetti alienanti e disumanizzanti della civiltà umana erano contrapposti alle capacità benefiche e salvifiche della cultura. Ma come possiamo credere nel valore straordinario e salvifico della cultura senza cadere in un accentuato etnocentrismo? A questa domanda rispose Matthew Arnold, pedagogo e letterato inglese, il quale formulò una teoria universale del valore culturale, basandosi sull’osservazione e sulla critica del materialismo dell’Inghilterra vittoriana in un clima di industrializzazione e democrazia. Questa via della salvezza dell’umanità consiste nella cultura che, secondo Arnold, poteva rendere la società più umana restituendo “dolcezza e luce”, sinonimi di bellezza e saggezza. Esse, in quanto prodotti della cultura, derivavano: a. Dalla consapevolezza e dalla sensibilità nei confronti di ciò che di “meglio è stato pensato e conosciuto” nell’arte, nella letteratura, nella storia e nella filosofia. b. Da una “ragione giusta” (un’intelligenza aperta, flessibile, tollerante). Il pedagogo Arnold concepiva la cultura nei termini del suo potenziale educativo. Egli credeva che la cultura può essere l’agente umanizzante che modera le conseguenze più distruttive della modernizzazione. Come Arnold, anche lo scienziato Weber evidenziò la distanza della cultura dalla vita quotidiana nella società moderna e la capacità di influenzare il comportamento umano. Questo è il modo di concepire la cultura tradizionalmente associato al sapere umanistico. Dal punto di vista tradizionale delle discipline umanistiche: • Alcune culture e alcune opere culturali sono migliori di altre; la cultura ha a che fare con la perfezione. Cultura deriva dal latino colere, cioè coltivare, aver cura, lavorare la terra e per estensione rimanda alla coltivazione dell’animo umano. • Si teme che la cultura sia fragile, che possa essere “persa” o indebolita o estraniata dalla vita socioeconomica. La culutra deve essere attentamente preservata, attraverso le istituzioni educative. • Si attribuisce alla cultura un’aura di sacralità e ineffabilità, separandola dall’esistenza quotidiana. Nel corso del diciannovesimo secolo, le nuove discipline dell’antropologia e della sociologia si posero il problema definire il modo di pensar la cultura molto diverso da quello proposto da Matthew Arnold. Se da un lato la cultura è quanto di meglio è stato conosciuto e in questa veste la cultura è costituita prevalentemente da oggetti ideali selezionati (vedi la Divina Commedia di Dante Alighieri, in quanto sintesi del patrimonio intellettuale e culturale dell’Occidente presentato attraverso uno stie raffinatissimo). Dall’altro lato, invece, la cultura è intesa come un insieme complesso di una serie di elementi. Johann Gottfried Herder, reagì duramente contro il compiacimento etnocentrico della cultura europea della fine del diciottesimo secolo. Secondo Herder si doveva parlare di culture, non semplicemente di cultura, per l’ovvia ragione che le nazioni, e le comunità entro o tra le nazioni, avevano la propria, ugualmente meritevole cultura. Questa concezione della cultura come modi di vita di una determinata società fu introdotta nell’antropologia inglese da E.B. Tylor che bandì come superato l’intero dibattito culutra versus civiltà: La cultura, o civiltà, presa nel suo più ampio significato etnografico, è quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, i costumi e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società. L’essere parte di una società e acquisire una serie di competenze, conoscenze, modi di fare, orientamenti dell’agire, utensili è, per Tylor, cultura. Nel 1952 viene fatto un censimento da Kroeber e Kluckhohn delle definizioni di cultura: esistono almeno 160 definizioni diverse. Una tendenza recente è quella di ridurre le dimensioni del concetto di cultura e introdurre distinzioni in modo da precisare esattamente in cosa consista l’oggetto di analisi. Bisognerebbe distinguere tra cultura implicita o esplicita: le forme espressive esplicite da un lato e il fondamento implicito dell’azione dall’altro. Tuttavia, le due teorie sociali più influenti nel ventesimo secolo trovano che vi sia una congruenza molto pronunciata tra i termini di cultura e civiltà. Il funzionalismo, quella branca della teoria sociale che parte dall’assunto che un’istituzione sociale svolge alcune specifiche funzioni necessarie al benessere della collettività, identifica la cultura con i valori che orientano i livelli sociali, politici ed economici di un sistema sociale. Nella prospettiva funzionalista, perciò, esiste una congruenza tra culutra e società perché ogni incongruenza sarebbe disfunzionale. Anche i marxisti vedono una forte congruenza tra la struttura sociale e la cultura, ma invertono la direzione dell’influenza: dalla struttura sociale alla cultura e non viceversa. Sia il funzionalismo che il marxismo condividono ciò che potremmo chiamare “l’assunto della forte congruenza”. Per uscire dall’ambivalenza tra cultura e civiltà, i due fenomeni (cultura e società) vengono letti attraverso il concetto di significato (proposto delle scienze sociali). L’antropologo Clifford Geertz ha definito la cultura come un modello di significati, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. La posizione della scienza sociale: • Evita valutazioni e opta per il relativismo. • Parte dal presupposto di uno stretto legame tra cultura e società. • Enfatizza la persistenza, la durata della cultura, piuttosto che la sua fragilità. La cultura è vista più come un’attività che come qualcosa che richiede di essere conservata in un archivio. • Assume che la cultura può essere studiata empiricamente come ogni altra cosa. Le prospettive di entrambe le tradizioni verranno in un certo senso incorporate, cercando di raggiungere una comprensione sociologica della culutra. 2. Connessioni: i legami tra cultura e società La cultura si riferisce al lato espressivo della vita umana - comportamenti, oggetti e idee che possono essere visti come esprimenti o rappresentanti qualcos’altro. Questa definizione vale sia per la cultura implicita sia per la cultura esplicita. La Griswold propone di definire la cultura come una struttura di significati incorporata in simboli. Geertz, e Weber prima di lui, assumono che la cultura implica il significato: pertanto, possiamo parlare di una comunità nei termini della sua cultura o nei termini della sua struttura sociale. Per conoscere la comunità il sociologo le deve comprendere entrambe. La Griswold definisce la cultura come il lato espressivo della vita umana (domanda d’esame). Tale definizione introduce due concetti: il concetto di oggetto culturale e di diamante culturale. Un oggetto culturale può definirsi un significato condiviso incorporato in una forma, è un’espressione significativa che è udibile, visibile, tangibile o che può essere articolata. Lo status di oggetto culturale è il risultato di una decisione analitica che noi compiamo in quanto osservatori, non è qualcosa di intrinseco all’oggetto stesso. Parliamo di oggetto culturale in quanto analisi di una qualche parte del più ampio sistema che chiamiamo cultura. Specificare un oggetto culturale, quindi, significa analizzarlo come fosse un universo autoreferenziale che possiede una struttura e un significato all’in terno di una più ampia definizione sociologica che ha come fine comprendere la cultura. La Griswold fa un esempio di oggetto culturale: il pane, un oggetto della cultura materiale che ha subito varie modificazioni di significato. Negli anni ‘60 nei paesi anglosassoni si era affermato un nuovo tipo di pane al quale venivano aggiunti dei particolari nutrienti ed era molto apprezzato dai consumatori (Wonder bread, il pane bianco in cassetta): ciò rappresentava il progresso dell’Occidente. Con la contestazione degli anni ’60, l’uso del Wonder bread è caduto in disgrazia: negli anni ’60 si è iniziato a contestare le istituzioni sociali considerate castranti la libertà d’azione, d’espressione degli individui. Si è affermato il consumo del pane integrale, del pane nero, il pane prettamente popolare, Stando alla dialettica hegeliana, la società nella quale noi viviamo è il risultato di un processo in cui c’è una situazione iniziale che è la tesi caratterizzata da una società naturale che concorre alla vita della famiglia. A questa situazione si contrappone un modo diverso, caratterizzato nell’epoca moderna dal mercato, un insieme di relazioni nelle quali gli uomini competono per raggiungere i propri obbiettivi e realizzare i propri interessi. A questa ambivalenza si affianca, si impone una situatone di sintesi in cui gli individui vivono le loro relazioni in modo tale da raggiungere nella sfera pubblica una sintesi, un accordo tra gli interessi particolari della famiglia perseguiti attraverso uno stile cooperativo e gli interessi singoli, privati dei cittadini che competono nel mercato; la sintesi è costituita dallo stato etico che impone una sorta di cooperazione nazionale per realizzare una comunità nazionale. Questa sintesi diventa la nuova tesi, genera conflitti e così via: in questo modo Hegel spiega il cambiamento delle cose e il procedere della storia attraverso tappe in una serie di rivoluzioni. Marx si rifà a Hegel e al suo idealismo dialettico, ma si discosta da lui dal punto di vista politico perché rifiuta il suo conservatorismo e dal punto di vista filosofico perché rifiuta l’idealismo. Ribalta l’idealismo nel materialismo (se l’idealismo dà precedenza all’ideale materiale, il materialismo inverte la relazione) e lo fa sulla scorta dei suoi studi nella sinistra hegeliana, riferendosi ai lavori di Feuerbach. Feuerbach prende le mosse da una prospettiva di Hegel secondo la quale il reale, la realtà è una sorta di risultato, di emanazione del divino; Hegel parla di una sorta di inveramento dello spirito, un processo che materializza lo spirito, inteso come una sorta di entità sovrannaturale, non necessariamente una divinità nel senso canonico. Feuerbach fa una sorta di critica di religione, dice che la realtà non è un rispecchiamento dello spirito. È, piuttosto, il contrario, è la divinità che è un prodotto illusorio del reale, l’esistente viene prima del pensiero, il quale viene dall’essere. Marx fa propria questa prospettiva di Feuerbach utilizzando un approccio critico dei fenomeni umani e sociali, per lo studio dei quali bisogna concentrarsi sull’analisi degli aspetti materiali, non ideali. Se per Hegel lo sviluppo dell’umanità è frutto dell’alienazione di Dio da se stesso, cioè lo spirito si aliena da se stesso e si incarna nella realtà, per Feuerbach, invece, Dio esiste nella misura in cui l’uomo è alienato da se stesso e ha bisogno di proiettare le sue facoltà più elevate, ma alienate sulla divinità. La filosofia per Feuerbach ha il compito di aiutare l’uomo a recuperare questo suo io alienato, svolgendo una critica alla religione. Il punto di partenza di ogni analisi è sempre l’homo faber (l’uomo produttore), gli uomini che lavorano per sostenersi attraverso la produzione e la riproduzione. La teoria sociale di Marx sostiene che per fare scienza delle cose umane e sociali bisogna analizzare la società a partire dalle basi materiali, l’unico riferimento empirico di cui dispone lo scienziato sociale e tale studio è possibile se si osserva la distribuzione della proprietà o meno delle basi materiali tra i membri della società. Le basi materiali sono i mezzi di produzione della società. La struttura della società è costituita dalle forze di produzione e i rapporti di produzione. Quindi, le basi materiali della società sono date dalle forze di produzione (i mezzi di produzione, le conoscenze tecniche e scientifiche, gli individui che lavorano e costituiscono la forza lavoro) e dai rapporti di produzione, che sono le relazioni che si stabiliscono tra gli individui nella sfera della produzione e trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di proprietà, forma ideologica con cui si giustifica la proprietà o meno delle basi materiali. Tutte le altre strutture sociali (cultura, religione, diritto, economia…) sono delle sovrastrutture, hanno la funzione di conservare nel tempo l’iniqua distribuzione dei mezzi di produzione legittimandola, dipingendola come giusta. Tale legittimazione viene definita da Marx una ideologia della realtà. Secondo Marx le scienze sociali dovrebbero criticare la sovrastruttura e far vedere che tutte le strutture simboliche della società, la cultura, dipendono dalla struttura (teoria del riflesso). L’obbiettivo dell’approccio critico è quello di svelare il fatto che i simboli della nostra società dipendono dalle basi materiali (l’arte e i suoi concetti sono così perché servono a legittimare la distribuzione della proprietà o meno delle basi materiali, dei mezzi di produzione e per riprodurre nel tempo le disuguaglianze sociali, conservando nel tempo tale distribuzione). La critica sociale deve dimostrare che tutte le forme dell’ideologia sono forme di mistificazione della realtà e non una descrizione adeguata della realtà. Con Marx la cultura è letta come mera sovrastruttura della società. La cultura è inevitabilmente determinata dalla vita materiale di una società e dai connessi antagonismi di classe. È un esempio della teoria del riflesso e la tesi di Marx è che la società è fatta dalla struttura, dalle basi materiali. La cultura dipinge di senso e di significati, per certi versi anche ingannevoli, la reale distribuzione dei mezzi di produzione, permettendo la nascita e legittimando in questo modo le disuguaglianze sociali. Poiché gli oggetti culturali aumentano o ostacolano la comprensione delle relazioni sociali, essi sono potenzialmente tra le “armi della critica” invocate da Marx e possono facilitare il movimento storico verso la rivoluzione socialista. Un gruppo particolarmente influente di pensatori che applicarono l’analisi culturale di Marx fu quello della Scuola di Francoforte: gli esponenti di questa scuola di pensiero avanzarono una nuova teoria critica, che organizzava l’analisi culturale empirica in funzione dell’obbiettivo di una riforma sociale. Essi criticavano i prodotti culturali di massa per essere divenuti semplici merci, che scoraggiavano la protesta sociale riconciliando i consumatori con la loro esistenza. In generale, la teoria di Marx fornisce una visione dicotomica e conflittuale della società: questo perché per Marx la storia procede dinamicamente in seguito a una serie di conflitti tra chi detiene e chi non detiene il potere fino ad arrivare al comunismo. 4. Cultura e significato nella sociologia funzionalista Il funzionalismo è un modo di intendere la teoria del riflesso che vede la cultura un riflesso della struttura dal momento che: • L’idea che “la cultura riflette la società (o la struttura sociale)” fornisce un modello della connessione tra cultura e società e suggerisce la direzione principale della relazione di influenza. • Questo modello permette che si utilizzi la cultura come testimonianza sociale. L’essenza del funzionalismo è che le società umane, per conservarsi, esprimono bisogni concreti, e le istituzioni sociali sorgono per soddisfare questi bisogni. Questa visione è una visione funzionale, non conflittuale (come la visione marxista), tutto concorre al buon funzionamento della società, non a generare delle divisioni che servono a favorire qualcuno e ad alienare qualcun altro: una società sana esiste in uno stato di equilibrio o di bilanciamento in cui le istituzioni sono adattate una all’altra per soddisfare i bisogni della società. Le incapacità di adattamento, che tutte le società provano in qualche modo, vengono descritte come disfunzionali. Consegue da questo ragionamento che ogni livello sociale - la cultura, la politica, l’economia, l’ordine sociale - fornisce input e riceve output da ogni livello. Ogni livello è adattato a, o riflette, ogni altro livello. Così la cultura riflette la società proprio come la società riflette la cultura. Tuttavia, questa semplice visione funzionalista della teoria del riflesso assume che gli esseri umani siano passivi e senza interessi propri; inoltre, questo modello non dà posto all’influenza indipendente delle organizzazioni di produzione della cultura (come le case discografiche, le gallerie carte, le orchestre sinfoniche, le gerarchie ecclesiastiche, ecc.). Il modello puro dello specchio, in cui la struttura sociale e la cultura si adattano l’uno all’altra e soddisfano reciprocamente propri bisogni funzionali, sembra un po’ difficile da accettare. Esistono comunque anche modelli del riflesso funzionalisti più complessi, che risolvono alcune delle obiezioni avanzate prima. C’è un modo diverso di intendere la teoria del riflesso nella versione funzionalista, non come rispecchiamento della struttura, della società negli elementi della cultura, ma il riflesso come “riflessione su”. A seguito di un processo di riflessione sui soggetti, è la cultura che cambia il modo d’agire dei soggetti e di conseguenza può arrivare a cambiare la struttura della società. Attraverso la cultura gli esseri umani possono riflettere sulla propria esperienza sociale e individuale. 5. Culutra e significato nella sociologia weberiana Max Weber è un liberale tedesco che fa una sociologia, sociologia che si contrappone a quella marxista, nonostante conosca Marx. La sua sociologia rientra nella teoria del riflesso, ma sostiene la tesi opposta, cioè che la struttura sociale può essere determinata dalla cultura (non sempre), cioè è possibile anche il contrario di ciò che dice la versione funzionalista e la versione marxista della teoria del riflesso. Weber non pensava che la cultura semplicemente causasse la struttura sociale. Egli sapeva che l’influenza operava in entrambi i sensi, e nei suoi scritti sulla religione e la vita economica non mancò di sottolineare che stava analizzando “un lato solo” della relazione causale e non affermando che la religione fosse la causa del capitalismo. Egli cercò di individuare correlazioni tra credenze religiose da un lato e agire partico ed etica dall’altro al fine di capire come un movimento religioso potesse avere influenzato la cultura materiale. Nella sua opera (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) Weber desiderava analizzare non tanto il sistema economico capitalista occidentale di per sé, ma l’ascesa del capitalismo borghese con la sua organizzazione razionale del lavoro libero. La parte di catena causale che egli desiderava esplorare era relativa a come uno spirito o un’etica economica - carattere distintivo della borghesia - riflettessero un insieme di idee religiose: qual era il “retroterra di idee” che trasformò l’attività diretta al profitto in una vocazione moralmente segnata? Secondo Weber, se si analizzano i dati empirici, è possibile notare che per lo più le imprese capitaliste, così come le conosciamo noi oggi, sono nate in aree di tradizione cristiana protestante: questo è dato dal fatto che la religione protestante è una confessione cristiana che ha una particolare visione della vocazione e della predestinazione. A differenza del cattolicesimo, la concezione della vocazione di Martin Lutero - la professione particolare a cui Dio “ha chiamato” ogni uomo e ogni donna - concedeva una giustificazione morale all’attività mondana. La Provvidenza ha assegnato un posto a ogni persona nel disegno divino, e un lavoro specifico da fare. L’idea di vocazione potrebbe incoraggiare i protestanti più fedeli a lavorare duramente, ma non li spingerebbe a cercare senza posa profitti senza fermarsi a godere dei propri risultati. Questo modello di azione derivava da un altro elemento della teologia protestante, quello della predestinazione. Così come teorizzata da Calvino, la predestinazione è la credenza che, agli inizi del tempo, Dio ha destinato tutti gli individui o al cielo o all’inferno; non c’era nulla che gli uomini potessero fare per cambiare i loro destini. Secondo Calvino, Dio è insondabile e i suoi decreti incomprensibili. Egli ha deciso tutto, e ci si deve fidare della sua giustizia senza fare domande. Una situazione come questa può gettare le anime in una sorta di ansia per via dell’incertezza circa il proprio destino. Questa situazione di ansia soggettiva (analisi del processo di elaborazione del senso degli individui) ha portato il clero a sviluppare due suggerimenti: un consenso sul fatto che bisogna suggerire ai fedeli protestanti l’idea che non si deve dubitare della magnanimità di Dio e della propria salvezza (sarebbe un indizio alla predestinazione della dannazione); inoltre, bisogna operare nella propria vita per dare gloria a Dio, con il proprio lavoro. I protestanti potevano, quindi, sostenere la loro convinzione di salvezza attraverso le buone opere, l’autocontrollo e l’attività finalizzata. Un simile modello di comportamento aveva due conseguenze: • Accresceva il capitale di quanti lo praticavano (tutti quei guadagni non spesi erano a disposizione per investimenti). • Sviluppava un atteggiamento verso il lavoro duro pensato come una “buona cosa” in se stessa, che era estranea all’assunto tradizionale che concepiva il lavoro come mezzo per un fine. La Griswold dice che la teoria del riflesso di Weber può essere descritta secondo la metafora dello scambio: sostanzialmente, gli imprenditori protestanti sono stati degli scambisti culturali, hanno liberamente e intenzionalmente deviato lo stile della loro attività lavorativa, la quale, da lì in poi, ha seguito la direzione verso cui gli imprenditori protestanti anno deviato lo stile di vita. L’elaborazione del senso funziona come chi gestisce uno scambio e può modificare il percorso, la struttura della società, la quale si impone agli individui. La teoria del riflesso è intesa come una modificazione della struttura sociale innescata da una modificazione del senso, dei simboli, della cultura, la quale opera un cambiamento della struttura. 6. Sistemi di significato o cassetta degli attrezzi? Due sono le critiche generali mosse all’approccio weberiano a culutra e significato. La prima è che è troppo soggettivo l’approccio di Weber alla culutra chiede ai sociologi di entrare nella testa delle persone: si dovrebbe pensare alla cultura come comportamento osservabile invece che come un sistema soggettivo di creazione di significato. La seconda critica è che benché una tale visione della cultura sembri prevedere regole per il comportamento chiare e semplici, l’osservazione mostra che le persone si comportano in modi contradditori, che dicono una cosa e ne fanno un’altra, e che non sono guidati dalla propria cultura come ha suggerito Weber. Ann Swidler sostiene che le culture assomigliano più a cassette degli attrezzi che a scambisti ferroviari, nel senso che esse contengono fondamenti logici che sottendono varie linee d’azione cui far riferimento in diversi contesti, senza che tali fondamenti siano interamente coerenti (gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno spinto molti a riconsiderare il ruolo che i sistemi culturali di significato giocano nel dirigere il comportamento). 7. Significato, modernità e scontro di culture Samuel Huntington sostiene che a partire dalla fine della guerra fredda, le linee di divisione nel mondo contemporaneo sono diventate più culturali che economiche o politiche. Vi sono varie civiltà, radicate in culture religiose diverse che interpretano il mondo assai diversamente. Queste differenti interpretazioni producono inevitabilmente conflitti di significato fondamentali. Particolarmente problematico è lo scarto tra le credenze, i fini e i valori delle zone islamiche che vanno dall’Indonesia al Marocco da un lato e l’Occidente (Europa e Nord America) dall’altro. Nel ventunesimo secolo le rivendicazioni dei particolarismi religiosi e etnici restano forti. Esse rivelano un fenomeno più generale: il fallimento sperimentato dalla modernità nel conseguimento delle sue mete di umanesimo illuminato. Sin dall’Illuminismo settecentesco, il pensiero sociale occidentale ha considerato l’età moderna come assolutamente differente da ogni altra che l’aveva preceduta. La modernità era vista come lo stadio dell’evoluzione sociale caratterizzato dalla ragione e dall’applicazione razionale dell’ingegnosità umana alla natura. primo luogo, gli oggetti culturali da cui siamo partiti non sono semplicemente creati da un individuo di genio o ispirati da Dio. Essi sono prodotti da individui che si relazionano ad altri individui. In secondo luogo, nei loro prodotti culturali, le persone rappresentano le loro esperienze (di lavoro, di gioia, di paura e di amore). 2. La produzione collettiva della cultura L’applicazione della prospettiva durkheimiana costituisce ciò che chiamiamo l’approccio della produzione collettiva ai significati culturali. La teoria della produzione collettiva ha due facce: una comprende le interazioni tra gli individui e il modo in cui queste stesse interazioni generano cultura. Questa versione della teoria della produzione collettiva ha le sue radici in quella branca della psicologia sociale che è nota come interazionismo simbolico. Il secondo tipo di ricerca sulla produzione collettiva presta meno attenzione alle interazioni e più all’organizzazione dei produttori e dei consumatori culturali (includendo qui le industrie culturali, i meccanismi della distribuzione e i mercati per i prodotti culturali). La maggior parte degli approcci sociologici assume i fenomeni sociali (ad esempio le norme, le istituzioni ed i ruoli) come già dati. È l’idea della cultura come trasmissione di un insieme di simboli che la tradizione ha selezionato e che vengono riprodotti nel tempo. La sociologia studia i fatti sociali come se fossero già dati, mentre l’interazionismo simbolico è dubbioso rispetto a questo modo di studiare la sociologia. L’interazionismo simbolico cerca di vedere come vengono costruite le norme, i ruoli, la stessa identità dell’individuo. nella vita quotidiana. Il sé dell’uomo è creata dall’interazione sociale. Una delle radici intellettuali dell’interazionismo simbolico è la teoria dell’io specchio, io riflesso di Charles Horton Cooley. Secondo Cooley, un’interazione contempla tre fasi: • Il sé immagina la relazione di un altro alla sua apparenza. • Il sé immagina il giudizio di un’altra persona alla sua azione. • Il sé ha una reazione emotiva - di orgoglio o di vergogna - a questo giudizio. Naturalmente non tutta la competenza sociale si costituisce attraverso l’interazione a due. George Herbert Mead ha notato come il bambino in fase di sviluppo dapprima impara ad assumere il ruolo di un’altra persona. È questo lo stadio del “gioco libero” (play); il bambino gioca ad essere un insegnante o gioca con un amico immaginario. Successivamente avviene lo stadio più complicato del “gioco con regole” (game), dove il bambino impara ad assumere e a tenere in conto una varietà di altri ruoli. Infine, il bambino impara a tenere in conto la risposta dell’altro “generalizzato” che è il termine che Mead usa per intendere la società con cui l’individuo interagisce sempre implicitamente. L’interazionismo simbolico suggerisce che l’interazione umana crea cultura, come il corroboree di Durkheim creava la religione totemica (la Griswold cita il caso del fumo di marijuana a pagina 85: se il neofita completa tutti i processi di interazione, apprendendo come fumare, cosa provare e di cosa godere, egli sarà stato socializzato al fumo della marijuana e potrà procedere nella sua identificazione con la subcultura del fumo). L’identità è un concetto chiave nell’approccio dell’interazionismo simbolico. L’identità o il senso del sé viene prodotta dalle interazioni con gli altri e richiede la conferma degli altri; il sé cerca di proiettare un certo insieme di significati su coloro con cui interagisce, e a sua vota cerca di interpretare i significati costruiti dai partner nell’interazione. Goffman analizza questo processo impiegando le metafore delle performance teatrali: quando interagisce, il sé è un attore che recita un ruolo davanti a un pubblico. Se la performance ha successo, il sé vede confermata una certa identità sa nei confronti del partner sia verso se stesso. Un esempio eccellente è quello dei vagabondi (pagine 86 e 87): in tutte le loro sfaccettature e sfumature di significato, i vagabondi si impegnano in una gestione delle impressioni nelle loro interazioni in modo da controllare i significati che essi offrono agli altri. Gli esseri umani hanno una serie di bisogni strutturati gerarchicamente; essi esigono alcune cose per sopravvivere e solo dopo che questi bisogni sono stati soddisfatti si prendono il lusso di preoccuparsi dei significati, delle identità o delle rappresentazioni simboliche (i vagabondi, che possono non sapere da dove arriverà il loro prossimo pasto, dove dormiranno la notte, sono abili manipolatori di parole e simboli, e usano la cultura per recitare le loro performance sociali e rendere il loro mondi significativo per se stessi e per gli altri. Sebbene i vagabondi debbano costruirsi la propria culutra e identità con poche risorse e pochi precedenti, la maggior parte delle interazioni che trasmettono cultura e formano l’identità si richiamano alla storia conosciuta e condivisa dalla comunità. L’altro generalizzato è normalmente concreto, ha caratteristiche specifiche, sta in mondi sociali più stabili, cosicché gli oggetti culturali che funzionano come rappresentazioni collettive non devono essere costruiti sul momento. I mondi dei fumatori di marijuana, dei vagabondi potrebbero essere chiamati subculture. La subcultura è definita dalla Griswold in questo modo: Se le relazioni reciproche in un gruppo sociale sono sufficientemente forti da resistere alle influenze dell’altro generalizzato societario, il gruppo diventa una subcultura. Una subcultura: • Esiste entro un più ampio sistema culturale e ha contatti con la cultura esterna, condivide alcuni tratti essenziali della cultura dominante, ma si distingue da questa e talvolta le si contrappone. • Entro il suo dominio, funziona un potente insieme di simboli, significati, norme comportamentali che sono vincolanti per i membri della subcultura. • Si basa su differenze di classe, etnia, età, o geografiche. • È un sottoinsieme di oggetti culturali, sia materiali che immateriali, elaborato o utilizzato tipicamente da un dato settore, o segmento, o strato o gruppo della società (vedi la subcultura Hippie). • Perché si possa parlare di subcultura ci deve essere un sistema di interazioni a livello micro-sociale. Le subculture sono prodotte da persone che interagiscono. Fine, per esempio, ha studiato come i membri delle squadre di baseball della Little League producessero subculture temporanee. All’interno di questo gruppo della Little League si elaborano concetti, simboli, immagini tipici del gruppo, generati dall’interazione di quel gruppo, i cui significati sono noti solo ai loro membri (una squadra, per esempio, chiamava un pessimo lancio fuori campo con l’espressione “home run alla polacca”). Queste espressioni e simboli condivisi sono oggetti, proprietà culturali esclusive di un determinato gruppo, hanno senso solo in un determinato gruppo e servono al gruppo per creare un senso di appartenenza e una distinzione tra il gruppo stesso e i loro membri appartenenti, e gli altri individui. Questi oggetti culturali danno vita all’idiocultura. L’idiocultura è la cultura del subgruppo, ricca di implicazioni e vivacizzata da simboli ed espressioni note solo ai membri del gruppo, e utilizzati per separare questi dagli estranei. Le subculture creano significato, producendo oggetti culturali che sono significativi per il membro del gruppo e incomprensibili per gli estranei. Non tutti gli eventi, comunque, possono venire trasformati in oggetto culturale. Affinché un simbolo o un’espressione entrino a far parte dell’idiocultura, devono basarsi su informazioni note, devono essere funzionali e facilmente utilizzabili, devono essere appropriati e devono essere utilizzati ripetutamente. 3. Innovazioni culturali e cambiamento sociale Nella relazione tra subcultura e cultura dominante si possono creare diverse posizioni: la subcultura può in alcuni casi riprodurre la cultura dominante, cioè può essere in sintonia con gli elementi essenziali della cultura dominante, oppure sfidarla, ma a volte esse nascono per cambiarla. Sebbene si tratti di un caso relativamente raro - la maggior parte delle subculture vuole essere lasciata in pace - molti movimenti sociali nascono come subculture. La Cina offre un buon esempio di come una subcultura separatista possa tramutarsi un movimento per il mutamento sociale rivoluzionario. Quella che diviene nota come la rivolta dei Boxer nel 1900 ebbe inizio come subcultura di giovani contadini, i Boxer dello Spirito, nell’ultima fase della dinastia Qing. Nel 1898 la terribile carestia provocata dalla piena del Fiume Giallo si combinò con un crescente antioccidentalismo sviluppatosi in relazione alle attività imperialiste e missionarie allora in forte sviluppo fino a formare i Boxer in un movimento nazionalista militare, i Boxer Uniti nella Giustizia. Analizzando le subculture, la Griswold arriva a fare un’analisi anche delle dinamiche culturali. Le subculture possono essere degli agenti del cambiamento (come quelle che cercano di modificare la cultura dominante). Sulle modificazioni della cultura, la Griswold presenta il concetto di ritardo culturale, concetto proposto da Ogburn. Egli sosteneva che i sociologi dovevano distinguere tra “culutra materiale” e “culutra adattiva”. La culutra materiale è proprio ciò che suona come tale. Quando questa culutra materiale cambia, quella non materiale, che comprende pratiche, costumi e istituzioni sociali, deve cambiare come risposta. La cultura adattiva è quella parte di cultura non materiale che si adegua alle condizioni materiali. Ci vuole sempre un po’ perché questo adattamento si realizzi compiutamente, e questo scarto è il “ritardo culturale”. Questa teoria di Ogburn in base alla quale c’è un ritardo nel processo di adattamento delle basi materiali di una società e la cultura non materiale ricorda la teoria del riflesso nella variante marxiana. Per Marx la società è costituita dalle basi materiali e le dimensioni culturali della vita sociale non sono altro che un rispecchiamento, un modo per riprodurre nel tempo le basi materiali della società. Ma quello di Marx e quello di Ogburn non sono gli unici modi di intendere la relazione tra mondo sociale e oggetto culturale: ci sono tanti casi in cui è la dimensione della cultura non materiale a modificarsi a prescindere dalla cultura materiale e dalle relative modificazioni. In certi casi, come nel caso di Weber, è la stessa cultura non materiale a dettare le modifiche della cultura materiale. Per un altro esempio, si consideri il cambiamento su scala mondiale del consumo di sigarette: né un cambiamento materiale (non c’è stata scarsità di tabacco) né una scoperta materiale (da tempo si conoscono i pericoli che il fumo provoca alla salute) hanno prodotto il rapido declino del fumo nelle classi medie americane e (più tardi) europee. Il cambiamento di atteggiamento verso il fumo si ebbe quando la popolosa generazione nata dopo la seconda guerra mondiale prese a interessarsi alla salute e al benessere. L’idea che la cultura necessariamente segua il cambiamento materiale va anche contro la nostra esperienza del mutamento culturale improvviso. Bisogna capire questa innovazione culturale, in cui la culutra sembra dirigere, e non seguire, il cambiamento sociale, o ancora dove il mutamento culturale sembra non mostrare alcuna relazione diretta con i cambiamenti in atto nella società generale. L’approccio della produzione collettiva alla cultura suggerisce che, sebbene le innovazioni possano realizzarsi casualmente e in forme non prevedibili, alcuni elementi costanti appaiono evidenti: • Determinati periodi sono più favorevoli di altri alla produzione di innovazione. • Anche le innovazioni seguono alcune convenzioni. • Alcune innovazioni hanno più probabilità di altre di istituzionalizzarsi. Solo a certe condizioni le vecchie regole, culturali e sociale, non sembrano più applicabili. Si crea un vuoto morale, e in questa situazione la gente cerca nuove linee di condotta, nuovi significati con cui orientarsi nella vita. L’incapacità di trovare questi significati porta all’esperienza dell’anomia, del disorientamento che Durkheim attribuiva al rapido mutamento sociale. L’innovazione culturale - la produzione di nuovi significati - emerge come risposta all’incipiente anomia. Essa riorienta gli individui e dà ad essa sostegno alle nuove circostanze. Per quanto alcuni periodi sembrino esibire più cambiamento culturale di altri, la seconda premessa dell’approccio della produzione collettiva all’innovazione è che le innovazioni culturali possono non essere così eccezionalmente nuove come sembrano a prima vista. I creatori culturali reagiscono tipicamente a convenzioni, piuttosto che ignorarle. I creatori di cultura possono anche produrre qualcosa di nuovo, ma no tutte questa innovazioni si consolideranno. Lo abbiamo visto nello studio di Fine sulla Little League: un nuovo simbolo o soprannome scomparirà a meno che non vi siano condizioni che gli consentono di affermarsi, di essere usato, funzionale, adatto e ripetutamente espresso. CAPITOLO QUARTO: PRODUZIONE DISTRIBUZIONE E RICEZIONE DI CULTURA 1. La produzione della cultura Come la cultura - e gli oggetti culturali che compongono una culutra - vengono prodotti? Quale impatto hanno i mezzi e i processi di produzione sugli stessi oggetti culturali? Questo tipo di analisi è scaturito dalla sociologia industriale e dall’organizzazione nel corso degli anni Settanta, quando i sociologi che si occupano di sociologia dell’industria, dell’analisi dei sistemi e dell’analisi economica dell’impresa cominciarono ad applicare i propri modelli alla produzione culturale. Hirsch ha elaborato un utile modello chiamato “sistema dell’industria culturale”, espressione che descrive, in altre parole, l’insieme di organizzazioni che producono articoli culturali di massa (dischi, libri, filma a basso costo). Secondo Hirsch questi oggetti culturali condividono alcune caratteristiche: • L’incertezza della domanda: chi produce oggetti culturali su vasta scala è costretto a porsi il problema della domanda di tali oggetti, a chiedersi a chi e a quanti serviranno tali oggetti. • La tecnologia con cui vengono prodotti gli oggetti culturali è diventata sempre più economica nel corso del tempo. • C’è una eccedenza di aspiranti creatori culturali. Bourdieu ha tracciato una mappa del sistema di rapporti tra il capitale economico e quello culturale. Sebbene il capitale economico possa essere sostenuto, aumentato o svalutato da forme di capitale non economico, i tipi di capitale non economico facilmente negoziabile possono variare da luogo a luogo. Sembra, dunque, chiaro che la ricezione di diversi tipi di oggetto culturale è spesso stratificata per classe sociale e che la gente può consapevolmente o inconsciamente utilizzare la cultura per difendere i propri vantaggi sociali o per superare gli svantaggi. Hans Robert Jauss, critico letterario tedesco, ha offerto ai sociologi una chiave di lettura utile per comprendere la ricezione culturale. Egli sottolinea l’idea che il ricevente ha un ruolo attivo nell’interpretazione e nell’utilizzo degli oggetti culturali, ruolo che, però è condizionato dal contesto culturale e dalle esperienze precedenti (è influenzato dal capitale culturale). La teoria della ricezione di Jauss consente di connettere l’aspetto sociale e quello culturale presenti nel processo di costruzione del significato. Per esempio, in uno studio di come i lettori (recensori di libri e critici letterari) provenienti da tre località diverse interpretavano i romanzi dello scrittore George Lamming, la Griswold osservò che pubblici differenti interpretano gli stessi libri in modi molto diversi. I lettori dell’India occidentale dissero che il romanzo autobiografico di Lemming “In the Castle of My Skin” parlava delle ambiguità dell’identità; i lettori inglesi dissero che esso trattava di come un giovane, ogni giovane, giunge alla maturità; i lettori americani dissero che il suo tema era la razza. Dati i loro diversi orizzonti di aspettative, e data la complessità e l’ambiguità del romanzo, tre correlati ma distinti insiemi di significati emersero dalle tre categorie di ricevitori. Il concetto di “orizzonte di aspettative” ci aiuta a comprendere come un oggetto culturale possa venire interpretato da persone con esperienze e conoscenze sociali e culturali diverse. Esso suggerisce, inoltre, che ogni evento può essere trasformato in un oggetto culturale attribuendogli significato. L’attenzione prestata alle diverse interpretazioni che si costruiscono di uno stesso oggetto culturale può rivelare la presenza di assunti sociali fortemente radicati. 4. La libertà di interpretazione culturale Nel momento in cui gli esseri umani hanno esperienza di oggetti culturali, essi reagiscono, costruiscono interpretazioni, elaborano significati. Inoltre, gruppi diversi possono costruire significati in qualche modo diversi a partire dallo stesso oggetto culturale. Ma quanta libertà hanno le persone nell’operare questa costruzione di senso? Teoricamente, possono esserci due risposte antitetiche: • Si possono costruire qualunque significato (i ricevitori sono forti/gli oggetti culturali sono deboli). • Si deve sottostare ai significati che sono intrinseci all’oggetto culturale (gli oggetti culturali sono forti/i ricevitori sono deboli). Ad un estremo abbiamo libertà illimitata: si può fare ciò che si vuole con gli oggetti culturali che si ricevono. Questa concezione nega autonomia agli stessi oggetti culturali. Essa assume che non vi siano distinzioni, che non vi siano rappresentazioni culturali migliori o peggiori, più ricche o più povere, ispirate o deprimenti, elevate e infime, ma che vi siano solo tipi di persone diverse che fanno esperienza di oggetti culturali attribuendo ad essi significati differenti. Il significato diventa così in assoluto una funzione della mente del ricevente. Tale posizione nega alla culutra il ruolo di rappresentazione collettiva. All’estremo opposto, l’altra posizione sostiene che i ricevitori non hanno virtualmente alcuna libertà di interpretazione. Chi ignora le convenzioni di un determinato oggetto culturale non può capirlo, gli estranei ad una cultura non possono intenderla: esiste un significato. Anche se un creatore di cultura può puntare su una particolare interpretazione o reazione ad un’opera, la nostra esperienza ci dice che la gente differisce enormemente nelle sue risposte ad un dato oggetto culturale. La prima, la teoria della “cultura popolare”, concepisce la gente on come priva di potere nei confronti di una cultura che opprime, ma come attivamente produttrice e manipolatrice di significati. A seconda, la teoria della culutra di massa, propende verso il lato della culutra forte/ricevitori deboli, suggerendo che gli oggetti culturali possono sostanzialmente schiacciare i loro impotenti ricevitori. La cultura di massa Nella concezione dei teorici della cultura di massa l’industria culturale acquista connotati lusinghieri. L’industria culturale viene concepita come la tecnologia per produrre intrattenimento di massa su scala fino a quel momento impensabile. Un simile intrattenimento si basa su un minimo comune denominatore di gusto, che enfatizza l’aspetto relativo allo spettacolo su quello morale o intellettuale, allo scopo di catturare una porzione di mercato che sia la più grande possibile. I produttori della cultura di massa rendono i loro ricevitori apatici e intorpiditi. La “culutra popolare” Il termine popolare ha preso a significare la cultura della gente, gente in quanto persone comuni, la maggioranza diversa dall’élite - da qui l’opposizione spesso sentita tra culutra alta e culutra “popolare“. Quest’ultima comprende chiaramente i prodotti della cultura di massa come gli spettatori televisivi, le riviste a grande diffusione, e le mode fugaci. La culutra popolare è il sistema di significati a disposizione della gente comune. La rivalutazione della cultura popolare è avvenuta in due modi: entrambi questi approcci presuppongono una concezione del pubblico che è ben diversa dalla passività. Nel primo gli studiosi hanno analizzato la cultura popolare alla ricerca di significati nascosti, significati che erano accessibili ai loro ricevitori ma che restavano ignoti agli accademici e ad altre élite sdegnose. Nella seconda forma di rivalutazione della cultura popolare, il ricevitore è visto non solo come un soggetto che decodifica significati ai quali i ricevitori d’élite si sono sottratti, ma anche capace di costruire attivamente significati sovversivi. Gli oggetti della cultura di massa possono anche essere patriarcali o rappresentare le “idee della classe dominante”, come dice la teoria, ma la gente, non per questo si trova ad accettare i significati imposti come se arrivassero dall’esterno. Osservando queste due teorie rispetto al diamante culturale, nel modello della culutra di massa gli oggetti culturali impongono i propri significati (semplici o sensazionali) sui loro pubblici, ma nel modello della cultura popolare il pubblico crea i propri significati. CAPITOLO QUINTO: LA COSTRUZIONE CULTURALE DEI PROBLEMI SOCIALI I problemi sociali sono costruzioni. L’essenza dell’approccio costruttivista è che i problemi sociali potenziali non sono fatti oggettivi, ma sono invece produttori di significati. È solo quando una situazione ha significato per uno specifico gruppo di persone, e questo significato è negativo, che essa può essere definita come un problema sociale. In altre parole, un problema sociale è un oggetto culturale. Esso è prodotto da agenti specifici (“fabbricanti di questioni”, claims-makers o attori significativi legittimati a sollevare problemi socialmente rilevanti). La costruzione di un problema sociale dipende dalla precedente costruzione di un’identità collettiva. 1. La costruzione di un’identità collettiva Anche l’identità può essere vista o come oggettiva o come costruita. La riflessione più recente ha enfatizzato la visione costruttivista, che concepisce le identità non tanto come date e stabili, ma come malleabili, fluide, soggette all’interpretazione. Alberto Melucci ha affermato come l’identità collettiva non sia una condizione, ma un processo: L’identità collettiva è una definizione interattiva e condivisa prodotta da diversi individui interagenti interessati all’orientamento del loro agire così come al campo di opportunità e vincoli in cui tale agire avviene. Il processo di costruzione, mantenimento e alterazione di una identità collettiva fornisce agli attori la base per formare le proprie aspettative e calcolare costi e benefici del loro agire. La formazione dell’identità collettiva è un processo delicato e richiede investimenti continui. Quando incomincia a somigliare a forme più istituzionalizzate di azione sociale, l’identità collettiva può cristallizzarsi in forme organizzative […]. In forme meno istituzionalizzate d’azione assomiglia più da vicino a un processo che deve essere continuamente attivato perché l’azione sia possibile. Da questa definizione emerge il legame con i problemi e i movimenti sociali. Quando un’identità collettiva viene attivata, produce un modo di pensare condiviso, una mente sociale, che considererà certe situazioni come problematiche e bisognose di intervento. Questa attivazione cognitiva può portare all’azione. L’etnia e la razza sono costrutti artificiali, il prodotto di contingenze storiche. Allo stesso tempo, esse esercitano un’enorme influenza motivazionale, instillando fiere lealtà e altrettanto fiere amicizie. Gli stati e i gruppi sociali eterogenei (come le comunità, le scuole, le organizzazioni) sono così obbligate a trovare modi per riconoscere e perfino celebrare la diversità culturale costruendo al contempo una culutra comune, di cui i diversi gruppi etnici o razziali sono subculture, che rivendichi con successo la lealtà fondamentale di ogni cittadino. Non è un compito semplice ed è reso ancora più complicato dai costumi locali e dai pregiudizi. Quindi la razza e l’etnia - come tutte le forme di identità collettiva - sono costruzioni, non dati. Nello stesso tempo, dobbiamo riconoscere che queste particolari costruzioni (e altri elementi basilari per la comunità collettiva, come il genere e la religione) creano potenti “noi” che influenzano il nostro pensiero e comportamento in molti modi. Uno di questi modi è che le persone che sollevano questioni circa un problema sociale proveranno a raggiungere le persone attraverso le loro identità collettive (dicendo ad esempio: “Tu, come donna latinoamericana o nera o cattolica, dovresti interessarti a questo”). 2. La costruzione di un problema sociale Tutti riconosciamo che alcuni oggetti culturali servono a focalizzare l’attenzione sui problemi sociali. ma se la cultura può attirare l’attenzione sui problemi sociali, può essa talvolta anche creare il problema? E se è così, quale potrebbe essere il ruolo della cultura nella soluzione di questi problemi che essa ha contribuito a identificare? Abbiamo visto che la cultura impone significati ad un universo altrimenti caotico e casuale. I sistemi culturali trasformano eventi e oggetti in oggetti culturali con significati specifici ad ogni cultura. Se è così, possiamo verificare come certi fenomeni del mondo sociale sono resi significativi, trasformati in oggetti culturali e, più specificamente, in problemi sociali. tale problema viene letto in un orizzonte di aspettative, interpretato, di cui si assume ci sia un autore e visto come qualcosa da superare. La creazione di un oggetto culturale, innanzitutto, è simile alla creazione di un evento, che l’antropologo Sahlins descrive come il rapporto tra un accadimento e una struttura, un rapporto creato dall’interpretazione. Sembra che per creare un oggetto culturale e poi definirlo come problema sociale esso debba essere articolato con un insieme di idee e istituzioni tra loro intersecantesi (vedi esempi di problemi sociali negli Stati Uniti e in Nigeria, fatti dalla Griswold a pagina 153-154). I problemi sociali tendono a esprimere un comodo adattamento alle idee e alle istituzioni della società in cui essi si sviluppano. Per questa ragione, i problemi pubblici sono generalmente costruiti in un modo e non in altri ugualmente possibili. Se i problemi sociali sono culturalmente definiti, è ragionevole attendersi che essi aumentino e calino in popolarità nel corso del tempo. Hilgartner e Bosk hanno cercato di identificare cosa spieghi “il sorgere e il declino dei problemi sociali”, cominciando da cosa viene identificato come problema sociale. Questi autori immaginano un’arena pubblica in cui ha luogo una competizione tra le situazioni che potenzialmente possono etichettarsi come problemi sociali. Questa competizione si realizza in due forme: • Nella definizione o nell’inquadramento dello stesso problema. • Nella cattura dell’attenzione delle istituzioni - il governo, i media, le fondazioni - le cui risorse o “capacità di azione” sono limitate. Quelle situazioni che vengono selezionate come problemi sociali sono fenomeni che hanno caratteristiche specifiche: esse sono o possono essere drammatizzate; trattano temi mitici profondamente radicati nella cultura; e sono politicamente vitali, spesso perché collegati a potenti gruppi di interesse. I vincitori di questa competizione vincono lo statuto di problemi sociali ampiamente riconosciuti. La carriera dell’AIDS (vedi esempio citato dalla Griswold a pagina 156) offre un chiaro esempio di come i valori e i temi culturali plasmino (o impediscano) la definizione stessa di problema sociale. anche questo è un oggetto culturale, con qualcuno che lo produce o lo crea (in quanto problema sociale), qualcuno che costituisce il suo pubblico o audience, ed una rete di significati che gli interpreti usano per connetterlo al mondo sociale. Non tutti i problemi sociali sorgono con la relativa velocità dell’AIDS, comunque. Alcuni, come la povertà o il crimine, sono sempre presenti, ma crescono o calano in termini di attenzione pubblica. Altri sono accosciati a cambiamenti strutturali di lungo periodo. Ma perché qualcuno si muovi a risolvere il problema sociale o perché esso generi un movimento sociale, il problema (come oggetto culturale) deve connettersi a un pubblico (come ricevitore) in modo tale che alcuni dei ricevitori siano spinti all’azione. 3. La costruzione di un movimento sociale Anche se un determinato pubblico accetta che una certa cosa è un problema sociale, questo fatto di per sé non significa che qualcuno si mobiliterà per fare qualcosa. I movimenti sociali richiedono che le persone siano motivate a riconoscere che esiste un problema, ad accettare la possibilità che venga risolto e a considerare una certa linea d’azione come adatta a produrre questo risultato. Per collegare un pubblico a un problema occorre formulare il problema in modo tale che il pubblico accetti la sua rilevanza. Questo è normalmente concepito come un problema di framing. Secondo il sociologo Erving Goffman, un frame è uno schema interpretativo che permette alle persone di dare un senso a ciò che esperiscono. I problemi sociali sono, quindi, oggetti culturali esattamente in questo senso. Tracciare i legami tra i problemi, i loro creatori, i loro destinatari e i loro mondi sociali aiuta a identificare quelle soluzioni che potrebbero andare bene, quelle che probabilmente non saranno possibili, e quelle che non sono state ancora immaginate per come il problema è stato costruito.
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