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La nuova "political Economy" comparata, Prove d'esame di Sociologia

riassunto sulla seconda parte,fatto benedd

Tipologia: Prove d'esame

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Scarica La nuova "political Economy" comparata e più Prove d'esame in PDF di Sociologia solo su Docsity! 3. LA NUOVA “POLITICAL ECONOMY” COMPARATA Esauritosi il primo filone di studi sui paesi del Terzo Mondo, e dopo i grandi lavori di sociologia comparata sulle società più sviluppate, il concetto di modernizzazione è stato meno direttamente utilizzato nella teoria e nella ricerca sociale. Negli anni ’70 il quadro delle esperienze di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo si è fatto più variegato: in alcuni nuovi paesi (specie nel continente africano) le difficoltà sono continuate o addirittura aggravate ed in altri (America Latina ed Est Asiatico) invece si sono verificati processi rilevanti di sviluppo economico. Questa situazione ha orientato la ricerca in due direzioni: - si prende consapevolezza dei limiti sia della teoria della modernizzazione sia di quella della dipendenza perché non erano in grado di rendere conto della crescente differenziazione dei processi di cambiamento; - prende campo un nuovo approccio che è stato definito come nuova political economy comparata che cerca di capire i fenomeni di dinamismo, stagnazione e regressione, servendosi maggiormente di comparazioni tra un numero limitato di casi (alcuni studi hanno messo a confronto i paesi dell’Est asiatico, altri quelli dell’America Latina, ecc.). 3.1 Stato e sviluppo economico Se gli studi sulla modernizzazione ponevano l’attenzione prevalentemente sulla dimensione culturale (lo stato doveva solo creare le precondizioni per lo sviluppo del mercato) mentre l’approccio della dipendenza sulla dimensione economica (lo stato era debole rispetto agli interessi economici interni e internazionali), nella political economy il fuoco è posto sul ruolo dello stato, che deve negoziare e controllare i rapporti internazionali. Quali sono i fattori che influenzano l’efficacia dell’intervento statale? Sono due condizioni: - una buona macchina statale che possa contrattare con gli interessi esterni per indirizzare e guidare lo sviluppo industriale all’interno; che possa tenere sotto controllo gli interessi di settori particolari e potenziare le esportazioni; - la presenza di una leadership politica orientata allo sviluppo, largamente autonoma dagli interessi economici e sociali presenti nella società; - l’isolamento istituzionale delle élite statali dagli interessi privati che è importante affinché esse possano giocare un ruolo di indirizzo strategico dello sviluppo, senza subire i condizionamenti dei diversi settori. Nel complesso la political economy comparata si presenta come una nuova sintesi caratterizzata da una serie di elementi che ne distinguono l’approccio da quelli precedenti. I condizionamenti esterni variano nei diversi contesti (es. l’influenza americana, legata a problemi geopolitici nell’ambito del confronto con l’URSS, ha facilitato lo sviluppo di alcuni paesi asiatici, mentre ha avuto un ruolo meno quale prende forma la ripresa della sociologia economica a partire dagli anni ’70, la nuova sociologia economica, che studia le trasformazioni del modello di organizzazione produttiva “fordista” e l’emergenza di nuovi modelli flessibili. 1.ASCESA E DECLINO DELLO STATO SOCIALE KEYNESIANO Nella sua brillante ricostruzione, Shonfield (1965) faceva notare come l’intervento dello stato in campo economico e sociale del secondo dopoguerra veniva concepito come strumento per uscire da una situazione di forte depressione in un’ottica di breve periodo che considerava date le risorse, ma che successivamente ci si discosta da tale quadro in due direzioni: • - si diffonde il keynesismo della crescita, cioè il tentativo di usare l’intervento statale, e soprattutto la spesa pubblica, come strumento per sostenere lo sviluppo economico e non solo per curare le depressioni; • - si diffondono i programmi di welfare indipendentemente dal ciclo economico e dalla situazione occupazionale. È con riferimento a questi due fenomeni che si può parlare di stato sociale keynesiano intendendo un intervento pubblico che si allontana dalle concezioni originarie di Keynes e si realizza in forme più o meno estese nei paesi sviluppati dell’Occidente: l’idea di fondo è che la politica della domanda debba essere usata per favorire lo sviluppo nel tempo delle risorse produttive anche in presenza di piena occupazione mediante le selezione del credito mirata a far crescere gli investimenti in determinati settori, la formazione di grandi aziende capaci di forti economie di scala, l’intervento diretto di imprese pubbliche (+investimenti, + produzione e produttività, +sviluppo economico). Questa tendenza trova gli sviluppi più consistenti in paesi che adottano politiche dirigiste (Francia e Giappone) e che fanno largo uso dell’impresa pubblica (Italia). Si sono contrapposti due modelli: • - keynesismo debole: l’intervento pubblico si limita a stabilizzare il ciclo economico sostenendo la domanda nei momenti di recessione e raffreddandola in quelli di pieno utilizzo dei fattori produttivi; la spesa sociale è meno consistente (es. Stati Uniti fino agli anni ’70); • - keynesismo forte: l’impegno è più vincolante sul terreno della difesa della piena occupazione e della crescita economica che possa finanziare un incremento più consistente della spesa sociale (es. Svezia). Vi sono inoltre paesi che nei primi decenni postbellici sperimentano politiche di pianificazione dell’economia di tipo più dirigista (regolamentano e orientano i settori economici senza una crescita consistente della spesa in campo sociale) come la Francia ed il Giappone. 1.1 La crescita dei sistemi di protezione sociale Ciò che caratterizza particolarmente lo stato sociale keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. I primi interventi nel campo della protezione sociale risalgono alla fine dell’800 ma è nel secondo dopoguerra che in fenomeno cresce. La letteratura si è impegnata a spiegare tale tendenza alla crescita dei programmi di protezione ed alcune analisi, dei primi anni ’60, sottolineano come la domanda proveniente dalle classi sociali subalterne avesse portato al graduale riconoscimento dei diritti civili, di quelli politici e infine di quelli sociali. La protezione di rischi per malattie, infortuni, vecchiaia, disoccupazione, e la richiesta di un accesso equo alle istituzioni educative, viene sempre più rivendicata come un aspetto fondante dei “diritti di cittadinanza”. Bendix, attraverso l’analisi comparata, mostra l’importanza del grado di apertura del sistema politico come fattore che influisce sugli esiti delle nuove domande (es. il caso inglese ci fa vedere come un sistema politico aperto ha incanalato le nuove richieste gradualmente senza mettere in discussione le istituzioni democratiche). Un altro tipo di spiegazioni si muovono all’interno della teoria neomarxista dello stato (O’Connor, Habermas 1973) che pongono l’accento sulle esigenze funzionali di riproduzione del capitalismo (lo stato incrementa i programmi di protezione sociale per sostenere l’accumulazione ed il mantenimento del consenso). Il difetto di questi due tipi di spiegazioni è di muoversi ad un livello molto generale e quindi di non valutare le differenze rilevanti che vi sono tra i diversi paesi nella spesa sensibilmente i tassi di crescita della produzione; cresce la disoccupazione. Entra in crisi l’egemonia teorica e pratica del keynesismo palesemente in difficoltà di fronte alla contemporanea presenza di elevata inflazione e disoccupazione (in questi anni si conia il termine stagflazione, cioè stagnazione + inflazione); viene quindi stimolata una ripresa dell’analisi istituzionale dell’economia. Nel secondo dopoguerra la politica di regolazione dell’economia si era allontanata dalle idee originarie di Keynes: - per Keynes l’intervento dello stato doveva limitarsi ad impedire le fasi di depressione delle attività economiche (e non che la politica attiva della domanda potesse diventare uno strumento per pilotare la crescita economica); - la politica della domanda doveva essere svolta da élite burocratiche competenti e votate all’interesse pubblico (ma nelle democrazie occidentali il controllo della spesa pubblica diventò presto uno strumento cruciale per la classe politica allo scopo di favorire e riprodurre il consenso; le scelte erano influenzate da valutazioni politiche piuttosto che tecniche; - a livello microeconomico il mercato avrebbe dovuto continuare a regolare il mercato dei prodotti e quello del lavoro (invece in situazione di piena occupazione e di forti politiche di protezione sociale che riducevano la dipendenza dalle chances di vita dei singoli dalla loro posizione di mercato offrendo servizi e redditi attraverso la redistribuzione politica). La situazione di piena occupazione aveva fatto crescere l’impiego di manodopera immigrata che matura nuove domande sul piano retributivo e su quello del riconoscimento sociale e politico. Inoltre riprese il conflitto industriale in quanto i sindacati traggono vantaggio dalla situazione di piena occupazione chiedendo salari più alti ed alimentando così l’inflazione. La spesa sociale (protezione dei rischi connessi a malattie, infortuni, vecchiaia, disoccupazione) entra sempre più a far parte dei criteri di legittimazione delle democrazie capitalistiche moderne per cui resta difficile attuare una sua riduzione. Gli effetti perversi dello stato sociale keynesiano cominciarono a manifestarsi in modo più marcato alla fine degli anni ’60, ma furono rinforzati da una serie di altri fattori: - dal processo di saturazione del mercato dei beni della produzione di massa e dal contemporaneo intensificarsi della concorrenza proveniente dai nuovi paesi industriali (che sfruttavano il loro più basso costo del lavoro come vantaggio competitivo per le loro esportazioni verso il mondo sviluppato); - dall’impennata dei prezzi petroliferi (dovuta ai paesi arabi produttori che nel 1973 organizzarono un cartello per regolare le esportazioni di petrolio e per fa salire sensibilmente il prezzo) e dall’abbandono dei cambi fissi con la connessa svalutazione del dollaro (nel 1971 gli Stati Uniti, afflitti da un deficit crescente della bilancia dei pagamenti, furono costretti a sospendere la convertibilità del dollaro in oro e a svalutare il dollaro; si passa dal sistema di cambi fissi a uno di cambi fluttuanti con la conseguente instabilità e incertezza in cui si vennero a trovare le imprese della produzione di massa che erano cresciute all’insegna della stabilità del mercato internazionale sotto l’egida degli Stati Uniti). 1.3 Le spiegazioni dell’inflazione e le due “political economy” Negli anni ’70 si sviluppa una crescente letteratura sulle origini dell’inflazione che assume la denominazione di nuova politica economy (studia il comportamento dei governi, sindacati e imprese nelle relazioni industriali ed il loro effetto sull’inflazione; li tratta come fattori non esogeni ma centrali per spiegare il fenomeno) e si distingue in due filoni di tipo neoistituzionale: - la political economy delle teorie neoutilitarie: come la teoria delle scelte pubbliche e il “ciclo politico- elettorale (in concomitanza delle scadenze elettorali i politici in carica per essere rieletti aumentano la spesa o riducono le tasse). Samuel Brittan (1978) tenta di fornire un’interpretazione delle tendenze di più lungo periodo alla crescita dell’inflazione (vi è uno scarto temporale tra gli effetti espansivi sull’economia e il manifestarsi dell’inflazione e questo gioca a favore dei politici che attuano politiche espansive per farsi rieleggere; la memoria degli elettori è corta e non capiscono che la sociologia e la scienza politica dei decenni precedenti). La riflessione sul neocorporativismo fu avviata da Philippe Schmitter (1974) che si concentrava sulla dimensione relativa all’organizzazione degli interessi, mentre un lavoro di Gerhard Lehmbruch (1977) guardava al processo di decisione politica. La vasta letteratura successiva ha poi approfondito le relazioni di interdipendenza tra i due aspetti. Analizziamo le due dimensioni: - organizzazione degli interessi può essere un sistema pluralistico caratterizzato da un numero di associazioni volontarie di piccole dimensioni, che competono tra loro per conquistare l’adesione dei singoli soggetti, ed esprimono in genere una rappresentanza di interessi specifici e settoriali (esempio quelli delle imprese o dei lavoratori di natura settoriale, meccanica, tessile, ecc.). Queste organizzazioni sono poco collegate tra loro ed hanno una debole capacità di coordinamento degli interessi rappresentati sia a livello di settore che ancor più tra settori diversi (perché mancano per esempio le confederazioni nazionali); oppure può essere un sistema neocorporativo caratterizzato da un piccolo numero di grandi associazioni di rappresentanza che raccolgono gli appartenenti ad ampi settori economici e categorie professionali (es. l’industria nel suo complesso o l’agricoltura); una sorta di monopolio o oligopolio di fatto della rappresentanza. L’adesione è formalmente volontaria, ma in pratica mancano alternative, sia perché non ci sono molte organizzazioni in concorrenza tra loro, sia perché il monopolio o l’oligopolio possono essere rafforzati dal riconoscimento dello stato che delega delle funzioni pubbliche (es. nella gestione di determinate politiche del lavoro alle organizzazioni in questione); questo è un incentivo per i potenziali membri ad associarsi per ottenere alcuni benefici pubblici. In questo modello vi sono quindi organizzazioni di vertice che detengono un elevato potere di contrattazione con le altre strutture di rappresentanza e con gli organismi pubblici, in particolare con il governo centrale; - il rapporto tra gruppi di interesse e governi nel processo di decisione politica: il sistema pluralistico si caratterizza per un’elevata concorrenza tra le organizzazioni degli interessi che influenzano i partiti politici, le correnti di partito, singoli parlamentari, con attività di lobbying, cioè con una politica di pressione che cerca di incidere sulle decisioni che li riguardano (le organizzazioni degli interessi sono meno direttamente coinvolti nel processo di attuazione delle politiche); il sistema neocorporativo è associato invece a meccanismi di decisione e attuazione delle politiche basati sulla concertazione tra le grandi organizzazioni di rappresentanza (degli imprenditori e dei lavoratori), il governo e gli altri attori pubblici, nella definizione delle politiche in campo economico e sociale e sono spesso direttamente coinvolte anche nella gestione degli interventi, specie nel campo delle politiche del lavoro e della formazione, o nelle politiche sociali. Dobbiamo ora valutare per quali motivi un sistema di rappresentanza di tipo neocorporativo e un processo di decisione politica basato sulla concertazione possano favorire un più efficace controllo delle tensioni economiche e sociali. Iniziamo a specificare meglio alcuni concetti. Per neocorporativismo si intende un modello di regolazione politica dell’economia nel quale grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma concertata, al processo di decisione e attuazione di importanti politiche economiche e sociali (si distingue dal corporativismo che abbiamo visto nelle esperienze dei regimi autoritari che serviva per imporre scelte sostanzialmente definite dall’alto da parte dei governi autoritari). Nel neocorporativismo il processo di costruzione delle organizzazioni avviene “dal basso”, per effetto della capacità della leadership di trovare consenso nella base associativa, anche se a un certo punto tale costruzione può essere più o meno rafforzata dal riconoscimento e dal sostegno pubblico. 2.3 La variabilità degli assetti neocorporativi e le sue cause Si è ben presto fatta strada l’idea che il neocorporativismo debba essere considerato come uno specifico modello di regolazione istituzionale che non si sviluppa necessariamente in tutte le economie capitalistiche, e può anche manifestarsi con gradi di intensità e di stabilità variabili, e con conseguenze diverse. Alcuni contributi hanno sottolineato tale variabilità proponendo delle 1) la forza delle organizzazioni sindacali: esse devono avere un livello di sussistenza tale da poter mettere in discussione, con il conflitto, il controllo degli imprenditori sul mercato del lavoro e sull’organizzazione del lavoro nelle imprese; 2) il monopolio della rappresentanza e la centralizzazione del potere di rappresentanza: sindacati forti ma incapaci di coordinare e controllare le rivendicazioni della base, o di coordinarsi tra loro quando vi sono più organizzazioni, non favoriscono l’istituzionalizzazione di stabili forme di scambio neocorporativo; 3) la presenza nei governi di partiti di sinistra: questi ultimi sono in genere più favorevoli a mettere in gioco benefici politici, soprattutto nel campo delle politiche sociali e del lavoro, per facilitare la concertazione (non è da trascurare il fatto che anche partiti di centro-destra, specie con forti componenti cattoliche, possono a loro volta valersi della concertazione, soprattutto quando essa è già avviata e può risultare costoso rinunciarvi). Importante è anche l’efficienza delle strutture amministrative, perché è evidente che affinché lo scambio neocorporativo possa funzionare è necessario che gli apparati dello stato, al centro e alla periferia, siano in grado di fornire in modo rapido ed efficiente quelle prestazioni che garantiscono i benefici politici e l’incremento del “salario sociale” (il caso italiano è un buon esempio di come le strutture amministrative inefficienti abbiano spesso reso più difficile lo scambio politico); 4) il grado di radicamento culturale e istituzionale del liberalismo: al liberalismo economico si accompagna dal punto vista culturale e istituzionale il liberalismo politico. Così come viene guardata con sospetto ogni forma di organizzazione degli interessi nel mercato economico, per il timore che questo possa rendere meno efficiente il funzionamento del mercato, la stessa tendenza vale nel campo politico, per il timore che i peso degli interessi particolari possa distorcere la formazione degli interessi collettivi affidata al parlamento. Quanto più forte e radicata è l’ideologia liberale, tanto maggiore sarà allora la diffidenza nei riguardi della rappresentanza di quegli interessi particolari che crescono con il processo di industrializzazione nelle classi alte e nel mondo del lavoro (tale diffidenza la si può riscontrare nell’esperienza storica dei paesi anglosassoni e in quella francese dopo la Rivoluzione; in Europa settentrionale invece le deboli élite liberali hanno permesso la persistenza e la valorizzazione delle tradizioni e delle istituzioni di rappresentanza corporativa degli interessi; in Europa meridionale le deboli élite liberali sono state sfidate dal dominio della Chiesa cattolica che si opponeva fortemente alla costruzione dello stato liberale ed egemonizzata le strutture corporative preindustriali). 2.4 Le tendenze più recenti Nei primi anni ’80 molti protagonisti degli studi sul neocorporativismo erano convinti che “questo fosse il percorso che presto o tardi i vari capitalismi nazionali avrebbero finito per seguire, se avessero voluto rispettare i diritti fondamentali dei cittadini connessi all’organizzazione degli interessi, sia gli imperativi funzionali di garantire la pace sociale ed espandere l’accumulazione”. Eppure proprio in quegli anni stavano prendendo forma importanti mutamenti. Da un lato, paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna cercano di uscire dalle difficoltà economiche e sociali degli anni ’70 con un esperimento neoliberale di rilancio del mercato e di ridimensionamento dell’intervento pubblico. Dall’altro, anche nei paesi tradizionalmente vicini a forme forti o deboli di neocorporativismo e di concertazione si verifica un importante cambiamento: si manifesta una tendenza generalizzata al declino della contrattazione centralizzata e crescono invece forme di concertazione, formale e informale, a livello più decentrato, sia aziendale e settoriale che territoriale. Questo è dovuto a due fattori: - la trasformazione dell’organizzazione produttiva a livello micro: si assiste alla saturazione dei mercati per la produzione di massa ed alla crescente concorrenza su questi mercati dei paesi di nuova industrializzazione con più basso costo del lavoro oltre che alla rottura del sistema di cambi fissi ed all’impennata dei prezzi del petrolio. Il modello fordista entra in crisi per cui le imprese cercano di acquisire maggiore flessibilità per far fronte a mercati più instabili e variabili (le produzioni più semplici ma ad elevata intensità di lavoro tendono a spostarsi verso i paesi in via di sviluppo mentre nelle economie più avanzate cresce il peso dei servizi, come ricerca, finanza, servizi legali, marketing e pubblicità. La riorganizzazione porta alla rapida diminuzione della classe operaia di grande fabbrica e all’incremento di fasce di lavoratori a più elevata risultati in termini di controllo dell’inflazione e della disoccupazione (Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Austria, paesi scandinavi). Questi stessi paesi, ma anche altri come l’Italia nei quali il neocorporativismo centralizzato era rimasto instabile, sperimentano negli anni ’80 forme di micro o di mesoconcertazione, a livello di azienda di settore o di territorio. L’esistenza di una infrastruttura istituzionale favorevole alla concertazione costituisce una risorsa per affrontare, con minori costi per tutte le parti coinvolte, i difficili problemi posti dalla trasformazione del fordismo in direzione di modelli organizzativi più basati sulla flessibilità e la qualità (problemi di gestione degli esuberi, mobilità dei lavoratori, formazione e riqualificazione). In questo quadro si può comprendere l’importanza crescente di forme di micro e mesoconcertazione (la cooperazione tra gli attori si sposta dal livello macroeconomico a quello micro). Una ricerca sul caso italiano mostra come queste forme più decentrate di concertazione presentano due caratteristiche: - il loro carattere più disaggregato e meno visibile rispetto alla contrattazione centralizzata puòfacilitare l’intesa tra le varie parti coinvolte perché si riducono le esigenze di mediazione tra interessi divergenti sia delle imprese che dei lavoratori - la prima caratteristica può però creare delle contraddizioni con il controllo del quadro macroeconomico, che è invece al centro della concertazione tradizionale. Le intese raggiunte alla periferia, o nell’ambito dei settori, possono infatti comportare un aggravio degli oneri in termini di spesa per le istituzioni pubbliche (come mostra il fenomeno della cassa integrazione, ampiamente usato in Italia per favorire la ristrutturazione consensuale delle grandi imprese). Come vedremo più avanti, gli stessi vincoli macroeconomici posti dal processo di costruzione dell’unione monetaria europea hanno in molti casi stimolato una ripresa della macroconcertazione propri per affrontare i problemi della moderazione salariale e del controllo dell’inflazione, della disoccupazione e della riorganizzazione dello stato sociale. 3. LA VARIETA’ DEI SISTEMI DI REGOLAZIONE Un aspetto importante che emerge dalla political economy comparata degli anni ’70 riguarda un terzo tipo di regolazione, diverso sia da quello neocorporativo che da quello pluralista. Esso risulta di particolare interesse perché mostra una possibilità di regolazione istituzionale che ottiene buoni risultati sotto il profilo economico, pur senza rientrare nel modello corporativo (i riferimenti principali sono la Francia e il Giappone). 3.2 Principi e sistemi di regolazione Sappiamo che è possibile distinguere tre forme di regolazione con le relative istituzioni: - scambio di mercato sulla base di prezzi con le istituzioni dei mercati autoregolati; - la solidarietà sulla base di obbligazioni condivise (reciprocità di Polanyi) con una vasta gamma di istituzioni (famiglia, parentela, comunità locale; nelle società moderne anche movimenti o associazioni volontarie); - l’autorità: che si basa sulla coercizione dello stato (redistribuzione di Polanyi) o a livello micro con l’impresa come organizzazione gerarchica. Schmitter e Streeck (1985), riflettendo sull’esperienza del neocorporativismo, propongono di aggiungere la concertazione come forma di regolazione e le associazioni di tipo neocorporativo come istituzioni che la sostengono. Può essere accettata questa proposta? Per i due sociologi siccome i “patti” delle organizzazioni degli interessi acquistano rilievo rispetto alle norme prodotte dallo stato, si può considerare la concertazione neocorporativa come una variante moderna della redistribuzione. C’è da ricordare che ciascuna economia concreta non si baserà mai soltanto su un’unica forma di regolazione (già sottolineato da Polanyi e dagli altri classici della sociologia economica a partire da Sombart) per cui è opportuno distinguere anche tra principi o forme di regolazione e sistemi di regolazione. I principio le forme di regolazione riguardano le regole secondo le quali le diverse risorse vengono combinate nel processo produttivo, il reddito strumenti di interpretazione della varietà delle forme di organizzazione e di governo dei processi produttivi ibride che si formano accanto all’impresa come le joint ventures, le alleanze, i rapporti di subfornitura (dibattito teorico). Dal lato dell’economia si fa strada un neoistituzionalismo che ridefinisce la teoria dell’azione tradizionalmente utilizzata dagli economisti, dal lato sociologico prende forma una nuova sociologia economica a livello micro che lega maggiormente l’emergenza e il funzionamento delle diverse forme istituzionali a fattori culturali, rapporti fiduciari, reti di relazioni sociali. Infine, prenderemo in considerazione un insieme di studi che sviluppano la tradizione di indagine della sociologia economica sui comportamenti di consumo, non soltanto come espressione di una ricerca di status (secondo Veblen), ma come processo di costruzione attiva di un’identità che coinvolge gli stili di vita e i consumi. 1. CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Nel corso del ‘900 si è affermato un modello di organizzazione economica definito fordista o fordista-taylorista che ha raggiunto l’apice del suo sviluppo soprattutto nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale che si basa su grandi imprese le cui caratteristiche principali sono: 1) imprese verticalmente integrate: includono al loro interno diverse fasi produttive che prima erano svolte da aziende distinte, dal controllo delle materie prime per garantirsi gli input necessari alla produzione, alla distribuzione dei prodotti ai clienti; 2) produzione di massa: mediante lo sfruttamento della tecnologia e quindi l’utilizzo di macchine specializzate di sfruttano le economie di scala producendo beni standardizzati in grande quantità ed a bassi costi unitari; 3) manodopera scarsamente qualificata e organizzazione del lavoro tayloristica: il lavoro è diviso in compiti semplici e ripetitivi che limitano l’autonomia degli operai. L’impresa funziona come una grande organizzazione burocratica basata sul controllo gerarchico. Vi è una separazione tra proprietà dell’impresa ed il ruolo del manager che deve dirigere l’attività produttiva. I fattori che hanno favorito lo sviluppo di queste imprese sono stati la diffusione dell’elettricità come fonte di energia a basso costo facilmente distribuibile (che alimenta il mercato di massa) ed il miglioramento dei mezzi di trasporto e di comunicazione (che favorisce il flusso delle merci). Non bisogna però immaginare che il modello si affermi uniformemente in tutti i settori produttivi e che si diffonda con la stessa intensità e gli stessi tempi in tutti i paesi industrializzati: - vi sono settori con domanda di beni non standardizzati che porta al persistere di imprese di dimensioni piccole e medie nel campo delle macchine utensili e delle macchine speciali (prodotti ad elevata qualità, prodotti che variano notevolmente a causa della moda come nel tessile, nell’abbigliamento, nel mobilio); - vi sono settori con domanda più instabile dovuta a variazioni cicliche in cui di sviluppa una forma di “decentramento di capacità” attraverso rapporti di subfornitura e i beni vengono commercializzati dalla grandi aziende. Anche il risparmio sul costo del lavoro favorisce il decentramento produttivo. Il fordismo quindi può convivere con la presenza di settori in cui vi è elevata presenza di imprese piccole e medie a gestione più tradizionale (imprenditorialità personale, macchinari utilizzabili per produzioni multiple, organizzazione del lavoro non tayloristica, manodopera più qualificata e più vicina all’operaio di mestiere); - il mercato nazionale può essere più o meno favorevole alla produzione di massa per motivi che hanno a che fare con la differenziazione dei gusti e degli stili di vita e quindi con i caratteri della stratificazione sociale e della cultura nazionale. Il fordismo è nato in America dove vi era un grande mercato nazionale precocemente unificato dalle infrastrutture di comunicazione e in particolare dalle ferrovie. Gli Stati Uniti, come paese di grande immigrazione, non segnato dalle differenziazioni sociali tipiche dell’esperienza europea, avevano una popolazione in crescita molto più incline al consumo di beni standardizzati. Tale manodopera immigrata aveva una bassa qualificazione per cui era più facilmente impiegabile in metodi di produzione come quelli fordisti-tayloristi. In Europa il fordismo arriverà più tardi per le ragioni appena esposte, presenza di imprese di piccole dimensioni spesso integrate in quelli che Marshall chiamò i distretti industriali. Nonostante queste differenze, il fordismo presenta nei diversi paesi alcuni tratti simili: massa. Questo non vuol dire che la produzione di massa e il modello fordista siano abbandonati dalle imprese dei paesi più sviluppati; c’è chi si muove verso la produzione flessibile ma c’è chi cerca di ridefinire il modello fordista ed occupare gli spazi che rimangono per la produzione di massa sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Vi sono due tendenze che possono variamente combinarsi tra loro: • - l’uso delle nuove tecnologie per riadattare il modello fordista: si tratta di strategie di adattamento neofordiste definite anche come produzione flessibile di massa che consiste nell’incrementare le varianti di un prodotto senza abbandonare il modello che prevede la separazione tra concezione ed esecuzione e un’organizzazione rigida del lavoro. Si introducono anche nuove tecnologie (macchine automatiche come i robot). Si parla anche di neotaylorismo informatizzato; • - l’utilizzo della multinazionalizzazione: le imprese della produzione di massa investendo direttamente all’estero e specie nei paesi in via di sviluppo cercano di ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi più avanzati (un mercato in crescita e condizioni di più basso costo del lavoro). 2. MODELLI PRODUTTIVI FLESSIBILI E CONTESTO ISTITUZIONALE Un particolare contributo allo studio di questo cambiamento lo dobbiamo a Michael Piore e Charles Sabel (1984) che introducono il modello della specializzazione flessibile contrapponendolo quello fordista e che sottolineano anche successivamente tre aspetti da mettere meglio a fuoco: • - la possibile persistenza della produzione di massa nei termini prima ricordati del neofordismo; • - le forme di specializzazione flessibile praticate dalle grandi imprese, oltre che dalle piccole, con la loro trasformazione interna e la maggiore apertura a rapporti di collaborazione con imprese esterne; • - l’analisi più approfondita e dettagliata dei fattori istituzionali che consentono le forme di cooperazione tra management e lavoratori, quelle tra le imprese, e le buone condizioni di lavoro e gli alti salari. Vedremo dapprima il fenomeno delle piccole imprese e dei distretti industriali, poi i modelli più legati alla trasformazione delle grandi imprese, infine l’altra faccia della flessibilità che può portare forme di organizzazione con bassi salari e condizioni sfavorevoli per la manodopera che tendono a sfociare nell’economia informale. 2.1 Piccole imprese e distretti industriali diversi esempi di distretti di piccola impresa sono stati segnalati dalle ricerche condotte in vari paesi (Sabel 1988) ma particolare interesse ha suscitato il fenomeno in Italia, data la sua diffusione, che ha permesso l’elaborazione del concetto di distretto proprio nel contesto italiano. • I distretti industriali in Italia Nel corso degli anni ’70 si nota una forte crescita delle piccole imprese, particolarmente concentrata nelle regioni del centro (Marche, Toscana) e del Nordest (Veneto) che vengono denominate Terza Italia per distinguerle dal Nordovest (zone della prima industrializzazione e delle grandi imprese) e dal sud dove il processo di industrializzazione era rimasto fortemente limitato. Le piccole imprese sono concentrate in sistemi locali (aree urbane di dimensioni ridotte, in genere non superiori ai 100.000 abitanti, fatte di uno o più comuni vicini) con un mercato del lavoro integrato e un certo grado di specializzazione settoriale: i settori presenti sono quelli tradizionali (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, ceramica, ecc.) ma non mancano quelli più moderni (meccanica e macchinari). Si parla quindi di distretti industriali (concetto ripreso da Marshall) quando siamo in presenza di specializzazione settoriale e integrazione tra piccole imprese che danno luogo a una divisione specialistica del lavoro. In un distretto ciascuna piccola impresa si specializza in una particolare fase o nella produzione di una particolare componente del processo produttivo e solo un numero più ridotto di aziende ha però rapporti diretti con il mercato finale; esse ricevono gli ordini e decidono le quantità e le qualità di beni da produrre coordinando l’intero processo. La capacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti del mercato si basa: - sui rapporti di cooperazione e non solo sull’uso delle nuove tecnologie da parte delle singole aziende; e comunitario ed alle relazioni industriali di tipo cooperativo prima ricordate. La costruzione sociale del mercato è un aspetto cruciale del successo dei distratti nella specializzazione flessibile. • Distretti e istituzioni Il caso italiano ha avuto un ruolo di particolare rilievo nella letteratura sullo sviluppo delle piccole imprese e dei distretti ma tale fenomeno in questione è stato segnalato anche in contesti diversi: in vari paesi europei, negli Stati Uniti, in Giappone. Diversi contributi hanno cercato di mettere in evidenza i principali tratti comuni ricavabili dalle ricerche sui vari paesi come segue: 1) gli aspetti cognitivi che influiscono sulle conoscenze e sulla formazione dell’imprenditorialità come le tradizioni artigianali precedenti e le buone scuole tecniche (in Italia) o la vicinanza di istituzioni di ricerca pubbliche o private legate a grandi imprese o alla presenza di importanti università che sviluppano intensi scambi con le imprese (la Silicon Valley vicino a San Francisco specializzata nella produzione di semiconduttori; il Baden- Wurttemberg in Germania); 2) la dimensione normativa: la capacità di cooperazione e la disponibilità di un tessuto fiduciario sono risorse cruciali che possono avere una matrice religiosa o politica o ancora di tipo etnico. Il radicamento territoriale consente interazioni più dirette e forme di circolazione delle informazioni e di monitoraggio dei comportamenti che alimentano la fiducia e consentono di isolare rapidamente e di sanzionare con meccanismi di esclusione coloro che si allontanano dalle aspettative condivise; 3) l’esistenza di istituzioni e servizi che permettano la riproduzione nel tempo delle risorse cognitive e normative (centri per la diffusione della tecnologia, per la formazione imprenditoriale e del lavoro, conoscenze dei mercati, promozione delle esportazioni, ecc.; 4) per quanto riguarda i tipi di regolazione del lavoro possiamo trovare due situazioni tipiche: condizioni salariali e di lavoro che possono essere anche sfavorevoli ma che si accompagnano a elevate possibilità di mettersi in proprio da parte dei lavoratori dipendenti oppure relazioni industriali più istituzionalizzate ma a carattere cooperativo che spingono verso forme di flessibilità più contrattata e compensata (es. Italia). Il successo nell’adattamento alle sfide esterne non è dato una volta per tutte ma deriva dalla capacità degli attori locali di continuare a interagire efficacemente per trovare nove soluzioni, per produrre nuovi beni collettivi da cui dipende il benessere della società locale. 2.2 La trasformazione delle grandi imprese. Dopo la scoperta dei distretti industriali l’indagine si è estesa anche alla trasformazione delle grandi imprese verso modelli di produzione flessibile. L’esperienza di paesi come la Germania ed il Giappone è importante perché è stata più diffusa e più anticipata. Il punto di partenza di tale processo è costituito dalla crescente instabilità e frammentazione dei mercati che riduce la prevedibilità che era il requisito essenziale del modello fordista e la possibilità di elevati investimenti in macchinari specializzati che rischiano di non essere ripagati per i rapidi cambiamenti della domanda e l’obsolescenza dei prodotti. Le imprese dunque puntano su vari cambiamenti: - decentramento dell’autorità in modo da avvicinare le unità operative agli stimoli del mercato. Le unità centrali diventano più snelle e si occupano solo delle decisioni strategiche. Si smantellano i laboratori centrali di ricerca creando delle strutture simili a livello delle unità operative in modo da avvicinare concezione ed esecuzione. Le unità operative diventano come delle aziende semiautonome che presidiano determinate produzioni mentre dal punto di vista finanziario la grande impresa, spesso multinazionale, si trasforma in una holding che controlla le società specializzate nei diversi prodotti; - cambiamento dell’organizzazione del lavoro: vengono messi in discussione i modelli tayloristi a favore del just in time (riduzione degli scarti, dei tempi morti, delle scorte), di un’elevata collaborazione della manodopera che diventa più qualificata ed abituata ad operare in squadra; non è soltanto tecnologico ma anche un nuovo modello organizzativo a rete: i distretti possono essere visti come reti di piccole e medie imprese mentre la grande azienda si trasforma in impresa-rete. Le reti funzionano come sistemi di apprendimento, cioè come insiemi di relazioni formali e informali che potenziano le capacità di rapido aggiustamento rispetto al mercato. Nell’impresa gerarchica fordista decide i propri obiettivi produttivi e li impone al mercato; nel nuovo sistema invece è il mercato, diventato instabile e frammentato, che impone processi di aggiustamento più rapidi e costosi. Le reti permetto di potenziare la velocità di aggiustamento e le capacità di apprendimento, e insieme di ridurre i costi dei nuovi prodotti, distribuendoli su un più ampio ventaglio di soggetti e abbassando quindi i rischi. La centralità che assume la capacità di cooperazione nei modelli flessibili rende le imprese, grandi e piccole, che vogliono perseguirli più dipendenti dall’ambiente sociale nel quale sono inserite. 2. L’ECONOMIA INFORMALE Possiamo definire l’economia informale come l’insieme di attività di produzione e distribuzione di beni e servizi che sfuggono in tutto o in parte alla contabilità nazionale. Possiamo valutare l’economia informale sulla base di tre dimensioni: i metodi di produzione di beni e servizi; il tipo di beni e servizi prodotti; l’orientamento al mercato degli stessi: 1) economia informale nascosta: produzione con metodi contrari alla legge (lavoro non registrato o evasione fiscale) di beni leciti e rivolti al mercato; 2) economia informale criminale: produzione con metodi contrari alla legge di beni illegali rivolti al mercato; 3) economia informale domestica-comunitaria: produzione con metodi legali di beni leciti ma non rivolti al mercato (per autoconsumo familiare o della comunità). Perché la distinzione regga è necessario che ci sia un’economia formale definita da regole giuridiche precise e applicate che delimitano e organizzano le attività economiche per il mercato. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 l’attenzione della sociologia economica è andata in misura crescente alla diffusione dell’economia informale, specie nei paesi sviluppati. In assenza di informazioni e misurazioni precise è difficile dire con precisione se e in che misura le attività dell’economia informale siano cresciute negli ultimi decenni. Si parla dell’ipotesi che i problemi e le trasformazioni della produzione di massa abbiano alimentato l’economia informale come forma di adattamento dei lavoratori alle accresciute difficoltà occupazionali (ma anche mediante il doppio lavoro) ma ciò può essere dovuto anche alle difficoltà dei sistemi di welfare che non riesce più a soddisfare la richiesta di nuovi bisogni sociali per cui si incrementano l’autoproduzione familiare o comunitaria di beni e servizi per sopperire alla carenza della copertura pubblica (es. prestazioni di cura ad anziani, bambini, malati, portatori di handicap); altro fattore può essere l’elevato costo dei servizi finali offerti sul mercato per la manutenzione o riparazione di beni come la casa o le attrezzature più diffuse tra le famiglie come gli elettrodomestici. Le logiche che alimentano l’economia informale sono diverse ma tutte accomunate dal ricorso a forme di reciprocità come modalità regolative prevalenti. Oltre alle condizioni di carattere generale un ruolo cruciale per la diffusione dell’economia è giocato dal contesto istituzionale: - le reti di relazioni fiduciarie sono essenziali perché i rapporti delle imprese con gli acquirenti finali, con le altre imprese, con i lavoratori, presuppongono un elevato grado di fiducia (in assenza di contratti legali non si può chiedere l’intervento pubblico in caso di violazione del patto); - il radicamento territoriale è un aspetto essenziale di queste forme di economia perché è sul territorio che si possono sviluppare meglio quelle reti di relazioni e di conoscenze che permettono la mobilitazione delle risorse ed anche il monitoraggio dei soggetti coinvolti e le sanzioni di esclusione a carico di coloro che rompono i legami fiduciari (ciò avviene in quartieri di grandi metropoli moderne come New York, San Francisco, Miami e molte altre città caratterizzate da comunità etniche e da gruppi di immigrazione a forte coesione interna; ma avviene anche in aree più arretrate come nel
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