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Sociologia economica - Trigilia, Sintesi del corso di Sociologia Economica

Riassunti di Sociologia economica tratti dal manuale "Sociologia economica" di Trigilia, Vol 1 - 2002.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Sociologia economica - Trigilia e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Economica solo su Docsity! Riassunti di sociologia economica Simone Marino SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 2 Che cos’è la sociologia economica La sociologia economica è caratterizzata da un insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. Due definizioni di economia Le definizioni dei fenomeni economici non sono univoche. Esse riflettono giù punti di vista interpretativi diverse e, per cominciare a orientarci, possiamo però richiamare due definizioni che sono sufficientemente rappresentative e hanno importanti implicazioni sul modo di guardare ai rapporti tra economia e società. Esse ci sono suggerite da Karl Polanyi. • In un primo senso possiamo guardare all’economia come all’insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi. L’economia riguarda il processo istituzionalizzato – cioè guidato da regole tendenzialmente stabili – di interazione tra gli uomini e la natura per il soddisfacimento dei bisogni di una società. I bisogni non sono esclusivamente fisici. Possono essere anche culturali, scientifici o militari. Ma se il loro soddisfacimento richiede la produzione e la distribuzione di beni e servizi, cioè di mezzi materiali, viene chiamata in causa l’economia. • L’accento è qui posto sui fenomeni economici come sinonimi di «economizzare», cioè su attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impegno di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi. In questo quadro, le motivazioni dei soggetti che svolgono attività economiche sono ricondotte al perseguimento razionale degli interessi individuali, mentre regole che condizionano l’interazione tra soggetti sono quelle poste dal mercato, attraverso l’influenza che la domanda e l’offerta dei beni esercitano sui prezzi. La prima definizione di economia alla quale abbiamo accennato è più generale. Essa consente di valutare come il soddisfacimento dei bisogni e il comportamento economico possano assumere forme diverse, condizionate dal modo in cui è organizzata la società. Il soddisfacimento dei bisogni diventa più dipendente dal funzionamento di mercati «autoregolati», in cui l’allocazione delle risorse e la formazione dei prezzi sono condizionati dai rapporti tra domanda e offerta. Ad esempio, la ricompensa del lavoro individuale non è determinata né da norme tradizionali né dall’orientamento politico, come nel sistema feudale, ma dipende dal rapporto tra domanda e offerta di lavoro sul mercato. Gli assunti relativi al comportamento massimizzante degli individui e ai suoi effetti sull’andamento della domanda e dell’offerta nel mercato tendono a riflettere l’autonomizzazione dell’economia delle strutture sociali e politiche. Effettivamente, in contesti in cui prevalgono i mercati autoregolati, il soddisfacimento dei bisogni e le possibilità di vita individuali sono condizionati dall’impiego sul mercato delle risorse di cui si dispone. Le definizioni dei fenomeni economici che abbiamo richiamato non devono essere considerate come alternative. Rappresentano piuttosto due ottiche interpretative, due modi diversi di guardare all’economica da cui discendono vantaggi e limiti specifici di cui è bene essere consapevoli. La prospettiva più diffusa tra gli economisti ha consentito un notevole avanzamento delle conoscenze sui meccanismi autoregolativi dell’economica, cioè sull’influenza dei movimenti della domanda e dell’offerta sulla formazione dei prezzi e sull’allocazione delle risorse. Operando con pochi assunti semplici, relativi al comportamento utilitaristico degli attori, e considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha potuto sviluppare modelli teorici a elevata generalizzazione, anche attraverso l’applicazione del calcolo matematico. Su questa base ha anche affinato strumenti previsivi e normativi, ovvero criteri per orientare e guidare la scelta degli attori economici. Tuttavia, sul piano più specificatamente interpretativo, emergono difficoltà quanto occorre misurarsi con contesti in cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato, o addirittura nullo. È proprio su questo terreno che l’altra definizione presenta dei vantaggi. Essa apre infatti maggiormente allo studio dell’interazione tra economia e società. E per questo motivo sembra più adatta alla prospettiva con cui la sociologia economica, ma anche l’antropologia e la storia economica guardano all’economia; una prospettiva più volta a indagare i caratteri specifici dell’economia di un dato periodo storico o di determinati luoghi. Tuttavia, un elemento che accomuna molte discipline, e la distingue dall’economia, sembra individuabile in un’ottica che guarda all’attività economica come processo istituzionalizzato. Non si parte cioè dal singolo individuo isolato cui vengono imputate motivazioni utilitaristiche per poi ricostruirne gli effetti aggregati sul piano della produzione e distribuzione dei beni e servizi. Il fuoco è piuttosto sulle istituzioni che regolano le attività economiche. Per istituzioni si intende un complesso di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti. Le sanzioni possono essere positive, volte cioè a incoraggiare un determinato comportamento con l’approvazione o con incentivi materiali, oppure negative, tendenti a SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 5 • Redistribuzione: istituzioni politiche basate su sanzioni di tipo autoritario. Le norme sociali prevalenti possono prescrivere che al capo del villaggio o della tribù vengano consegnati determinati prodotti. Questi vengono immagazzinati, conservati e successivamente redistribuiti in occasioni cerimoniali particolari e secondo regole variabili, che implicano gradi diversi di disuguaglianza. La redistribuzione su vasta scala si accompagna all’affermarsi • di strutture politiche differenziate, di un «centro» che stabilisce diritti e doveri dei sudditi con riferimento all’economia. Si amplia il volume delle attività economiche. Si comincia a far uso della moneta. Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico. Anche in questo caso, quindi, non è possibile un’indagine sull’economia che prescinda dallo studio delle strutture politiche in cui le attività economiche sono incorporate; • Nel contesto europeo più che altrove, a partire dal Medioevo si viene costituendo uno spazio crescente e autonomo del mercato come strumento di organizzazione dell’attività economica. Per comprendere questo processo non bisogna però identificare tutti i tipi di scambio con lo scambio di mercato. Lo scambio è un modo relativamente pacifico per acquisire beni non immediatamente disponibili attraverso un rapporto bilaterale. A seconda del tipo di rapporto tra le parti, si possono individuare tre forme di scambio. Lo «scambio di doni» è tipico di una relazione di reciprocità regolata da norme condivise. Lo «scambio amministrato» è invece caratterizzato da transazioni rigorosamente controllate dal potere politico. In entrambe le situazioni citate, commercio e traffici non creano ragioni di scambio attraverso il mercato, ma le presuppongono sulla base di norme sociali o politiche. Il «tirare sul prezzo» non fa parte delle modalità tipiche di questi scambi. L’attività che vi si svolge non dà luogo alla fissazione di ragioni di scambio tra i beni attraverso il gioco di domande e offerta. Questa è invece la caratteristica specifica degli scambi di mercato in senso stretto. Nel corso dell’800, i «mercati autoregolati», cioè i mercati che determinano i prezzi attraverso il gioco tra domanda e offerta, diventano lo strumento primario da cui dipende la produzione e distribuzione di beni e servizi nei paesi più sviluppati. Il comportamento economico non è più condizionato da obblighi sociali o politici e risponde alla «speranza del guadagno» o al «timore della fame». L’ordinamento politico si limita a garantire dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione, mentre la possibilità di vita dei singoli dipendono in misura crescente dalla vendita delle risorse di cui dispongono sul mercato. Una determinata forma d’integrazione diventa prevalente quando essa organizza la parte principale delle attività di produzione e distribuzione. Tuttavia, nei sistemi economici concreti le diverse forme di combinano variamente. La prospettiva metodologia La sociologia economica emerge alla fine dell’800 come tentativo convergente di diversi autori di riempire un vuoto lasciato dall’economia neoclassica. Quando l’economia si era affermata come disciplina (Adam Smith), lo studio dei fenomeni economici non era isolato dal contesto sociale. Accanto a istituzioni economiche come il mercato, la proprietà privata e il lavoro salariato, Smith considerava istituzioni non economiche come lo stato, e ne valutava il ruolo tra le cause della «ricchezza tra le nazioni». Ma Smith era anche ben consapevole dell’importanza dei valori condivisi. L’esistenza e la riproduzione di tali principi non era però vista dal filosofo-economista Smith come una componente immutabile della natura, secondo un modello presente nell’ambito della tradizione filosofica precedente, ma come un prodotto sociale legato alle specifiche istituzioni di un paese. Sappiamo che negli sviluppi successivi l’economia si liberò progressivamente dai riferimenti ad aspetti culturali e istituzionali. Questo percorso raggiunse il suo culmine con la «rivoluzione marginalista» degli anni ’70 dell’800. Prende così forma un nuovo paradigma dell’economia caratterizzato da una serie di elementi chiaramente delineati. • La concezione dell’economia. L’attività economia è considerata come un processo di allocazione razionale di risorse scarse, impiegabili per finalità alternative, da parte di soggetti che cercano di ottenere il massimo dai mezzi di cui dispongono (lavoro, reddito) per soddisfare i loro obiettivi, sia di lavoro che di consumo, cioè la loro utilità. In questo senso l’attività economica si identifica con l’economizzare. • L’azione economia. L’azione è dunque motivata dal perseguimento razionale dell’interesse individuale, cioè di un insieme di preferenze di lavoro e di consumo. Nella sfera della produzione, i soggetti cercano di massimizzare il guadagno rispetto alla loro disponibilità di lavorare, e in quella del consumo cercano di massimizzare il soddisfacimento delle loro preferenze di consumo, concepite secondo un ordine di priorità stabile e coerente, impiegando le risorse di reddito di cui dispongono. Ne discende che, per quanto riguarda l’impiego di risorse l’azione economica è condizionata da motivazioni utilitaristiche. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 6 Quando alle origini delle preferenze di lavoro e di consumo, si suppone che questi si formino indipendentemente dall’influenza di altri soggetti. • Le regole. L’azione è influenzata da un nucleo limitato di regole che si identificano sostanzialmente con l’esistenza di mercati di tipo concorrenziali. Si suppone che esista un elevato numero di acquirenti e di venditori, che non ci siano restrizioni agli scambi e alla mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), che i soggetti che agiscono siano dotati di piena informazione circa le opportunità offerte dai mercati, in modo da poter realizzare il loro calcolo razionale per impegnare le risorse di cui dispongono. L’attenzione posta al mercato come istituzione economica non significa che non si tenga conto di altre istituzioni non economiche. In genere si considera l’esistenza di uno stato che non intralci il mercato con le sue regolamentazioni. • Il metodo di indagine. L’azione economica viene indagata con un metodo analitico-deduttivo e normativo. Si parte cioè dagli assunti pria chiariti circa le motivazioni atomistiche e utilitaristiche degli attori e se valutano le conseguenze, date certe condizioni prevalenti nelle regole, cioè essenzialmente nelle caratteristiche dei mercati. Il carattere normativo del metodo si riferisce al fatto che esso fornisce anche dei criteri guida per l’allocazione razionale delle risorse. Vediamo ora come la sociologia economica abbia sviluppato una prospettiva relativamente coerente e organica che si distingue da quella prevalente nell’economia dell’epoca. • La concezione dell’economia. Nel corso dell’800, la produzione, la distribuzione dei redditi e il consumo appaiono certamente influenzati, nei paesi più sviluppati, da tale processo. Si tratta di un effetto del diffondersi del mercato come principio di regolazione prevalente. Tuttavia, i sociologi economici sono tutti interessati a guardare all’economia di mercato come a un fenomeno storico caratterizzato da un particolare contesto istituzionale, e per questo preferiscono in genere parlare di capitalismo. Vogliono dunque attrezzarsi per distinguere tipi diversi di economia. • L’azione economica. L’azione orientata alla ricerca dei mezzi di sussistenza non è necessariamente costituita dall’allocazione razionale di risorse scarse. Il fatto che questo tipo di azione strumentale si andasse diffondendo in misura crescente con l’espandersi del mercato non giustificava agli occhi dei nostri autori che non si tenesse conto di azioni orientate da finalità diverse e, in secondo luogo, per quel che riguarda l’economia di mercato, che si trascurassero i condizionamenti sociali delle stesse azioni strumentali e quindi i margini di variabilità dei comportamenti economici. Viene messa in discussione l’idea che i fini dei singoli soggetti si formino in modo indipendente gli uni dagli altri. l’azione economica deve invece essere vista come azione sociale, nel senso che è sempre influenzata da aspettative relative al comportamento degli altri membri della società. Il conformarsi o meno ad esse si traduce in sanzioni di tipo positivo o negativo per i soggetti agenti. Parafrasando Weber, si può dire che tali aspettative prendono la forma di usi, costumi, norme o conflitti di interesse, cioè rapporti di potere. L’azione non può essere compressa senza il riferimento alle istituzioni che condizionano in modo sistematico la formazione dei fini. Questo permette anzitutto di distinguere tipi di azione economica che non sono orientati in misura rilevante da motivazioni utilitaristiche (ricerca del guadagno e soddisfazione dell’utilità), come nelle società primitive o in quelle caratterizzate da un’economia che precedono il predominio del mercato. Questa impostazione permette di affrontare il problema dei condizionamenti sociali della stessa azione strumentale e quindi della sua variabilità. La preoccupazione dei sociologi economici è spiegare in termini sociali l’azione economica evitando l’atomismo individualistico dell’economia neoclassica. • Le regole. L’azione degli attori deve essere per i sociologi economici più ampie e complesse di quelle degli economisti, che si limitano essenzialmente alle forme di mercato. Le istituzioni vengono identificate con concetti variamente denominati, ma con una valenza molto simile. la considerazione di fenomeni istituzionali diversi dal mercato si sviluppa in due direzioni. Da un lato vi è il riferimento a istituzioni economiche che si fondano su obbligazioni sociali condivise. La seconda direzione nella quale si allarga lo spettro dei fenomeni istituzionali diversi dal mercato riguarda regole fondate invece su sanzioni di tipo politico, cioè su norme che in ultima istanza chiamano in causa l’uso della forza, sia legittima, come nel caso dello Stato sia di fatto, come per le organizzazioni criminali. • Il metodo di indagine. Il metodo di indagine dell’azione economica e delle sue conseguenze in seguito dai sociologi economici classici sia diverso da quello affermatosi con la rivoluzione marginalista in economia. Al carattere analitico-deduttivo e normativo di quest’ultima si contrappone quello più induttivo, più basato sull’indagine storico-empirica, dei nostri autori. Anche questa prospettiva analitica ha come obiettivo la formulazione di modelli, di generalizzazioni che permettano di spiegare le conseguenze di determinate azioni economiche. I sociologi cercano di ricostruire attraverso l’indagine empirica i caratteri specifici dell’azione economica, vista come possibile espressione di motivazioni non utilitaristiche. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 7 Un serbatoio di ipotesi Il carattere storicamente orientato dei modelli di analisi fa sì che non si possano ricavare dai nostri autori generalizzazioni teoriche che vadano al di là di coordinate spaziali e temporali delimitate. Sarebbe sbagliato non cogliere una serie di ipotesi, convergenti e coerenti tra loro, che emergono dai lavori esaminati in precedenza. Si tratta di una componente essenziale dell’eredità dei classici che ha orientato la ricerca successiva Il mercato Conviene distinguere analiticamente due aspetti. Il primo si riferisce al processo di costruzione del mercato capitalistico e il secondo riguarda invece le condizioni del suo funzionamento. 1. Quanto alla prima questione, si può notare una differenza di fondo con l’impostazione degli economisti. Nel pensiero economico si ritiene in genere che le relazioni di mercato si diffondano per la loro efficienza rispetto ad altre modalità di organizzazione economica, cioè per la capacità di soddisfare le preferenze dei singoli a costi più bassi. Si tratta di una spiegazione che parte dai singoli soggetti piuttosto che dalle istituzioni che ne condizionano l’azione. Al centro della spiegazione dei sociologi economici vi è infatti la legittimità. Il mercato deve essere anzitutto socialmente accettato, ma questo è appunto un processo dagli esiti non scontati. Weber e Sombart si sforzano si mostrare la complessa serie di fattori culturali e istituzionali che rendono legittimi, incoraggiano e sostengono i rapporti di mercato: dalla religione allo Stato e al diritto, dalla città alla scienza moderna. Il processo è invece più contrastato in altri parti del mondo, dove cultura e istituzioni si oppongono e resistono al mercato. Una volta legittimate e incoraggiate le motivazioni utilitaristiche e individualistiche congruenti con il funzionamento del mercato; i vantaggi in termini di benessere economico e di accrescimento delle possibilità di scelta e di consumo individuabile rinforzano la diffusione dei rapporti di mercato. L’efficienza si affianca dunque alla legittimità. La tradizione sociologica resta più attenta a sottolineare due aspetti. Anzitutto, i vantaggi del mercato si manifestano in modo diseguale per i diversi gruppi sociali: i benefici della borghesia imprenditoriale che controlla i mezzi di produzione sono diversi da quelli di chi può vendere solo la sua forza lavoro. La sociologia economica è più interessata ai problemi dell’equità del mercato reale, mentre l’economia si concentra su quelli dell’efficienza, dando per scontato che un mercato pienamente concorrenziale risolverebbe anche problemi di equità. Per i sociologi i benefici non vanno interpretati solo in termini di maggiori possibilità di accesso materiale ai beni, ma anche con accresciuta libertà di scelta sia nell’impegno del proprio lavoro che nel consumo. Per gli economisti il mercato tende via via a ridurre lo spazio di altre istituzioni nella sfera delle attività economiche: dalla famiglia alla parentela e alle comunità locale, dalle corporazioni allo Stato. 2. Nella visione dell’economia neoclassica si suppone l’esistenza di individui ben informati capaci di calcolare il modo ottimale di soddisfare le loro preferenze. Questi agenti si muovono in un contesto di regole fatte dalla piena commerciabilità di tutti i beni e di tutti i fattori produttivi e dalla presenza di molti venditori e molti acquirenti. Il ruolo delle regole sociali o politiche è visto come un potenziale fattore di distorsione dell’allocazione razionale delle risorse, e quindi dell’efficienza. Il mercato funziona meglio quanto è maggiore è la libertà dei singoli dai condizionamenti sociali e politici; il mercato è, quindi, il luogo di separazione tra gli individui che non devono essere influenzati da fattori extraeconomici. La tradizione della sociologia economica ha sviluppato un quadro diverso. Gli individui non sono normalmente ben informati e capaci di calcolo razionale, e non si possono tutti considerare ugualmente affidabili dal punto di vista morale. La carenza di informazioni rende problematici gli scambi di mercato anche laddove essi siano ormai legittimati, cioè socialmente accettati. I mercati non sono sempre pienamente concorrenziali. Il mercato può funzionare meglio non quanto più gli individui siano tra loro separati e privi di influenze extraeconomiche, ma quando più ci siano istituzioni che vincolando il perseguimento dell’interesse individuale accrescano a legittimità, il grado di accettazione sociale dei rapporti di mercato. Se ne possono segnalare di due tipi. Anzitutto, istituzioni che generino e riproducano fiducia per via di interazioni personali, o invece istituzioni che generino fiducia in modo impersonale, attraverso l’esistenza di sanzioni giuridiche efficaci per chi viola i contratti. Il rilievo di queste firme istituzionali è legato al fatto che in condizioni di carenza di informazioni e con i rischi di inganno o frode, molti contratti e scambi di risorse che potrebbero portare vantaggi ai contraenti, e più in generale alla collettività, non si realizzerebbero; o si realizzerebbero in misura meno consistente di quello che sarebbe possibile. Se quelli che Durkheim chiamava gli elementi extraeconomiche generano fiducia, e se istituzioni impersonali come quelle giuridiche garantiscono efficacia ai contratti, il mercato può dispiegare meglio i suoi effetti in termini di efficienza. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 10 avviso, a uno spreco di risorse produttive che li porta a spendere il loro reddito in beni futili, scelti per il loro valore simbolico di segni di status. È evidente che le motivazioni di consumo legate al valore simbolico dei beni nella competizione per lo status, su cui insiste la sociologia economica, mettono in discussione l’elegante modello neoclassico. Esse implicano infatti una rigidità sociale del comportamento di consumo che può portare a reazioni in contrasto con il calcolo razionale dell’utilità. I consumatori in carne e ossa, oltre ad essere soggetti a pressioni sociali in cui si diceva, sono anche di solito poco informati e dispongono di risorse scarse per acquisire le conoscenze necessarie a valutare la qualità dei beni offerti. Questa situazione tende a essere consapevolmente sfruttata dalle imprese, le quali possono puntare ad accrescere il valore simbolico dei beni e a controllare attraverso le mode i comportamenti di consumo. La sociologia, insomma, mette in discussione l’assunto centrale dell’economia neoclassica: il principio della «sovranità del consumatore» dal quale dipende l’efficienza della macchina produttiva. Infatti, se non regge empiricamente l’ipotesi del consumatore con preferenze stabili e autonome, ben informato e capace di calcolare continuamente la sua utilità, viene anche meno il suo potere di disciplinare le imprese, premiando quelle più efficienti e punendo quelle che non lo sono. La sociologia economica non nega l’importanza potenziale di questo meccanismo nell’economia di mercato, ma lo problematizza e suggerisce che esso ha un peso variabile. Se infatti dall’astrazione analitica si passa alla realtà empirica, si può apprezzare che l’influenza positiva sull’efficienza sarà maggiore quando non vi è isolamento dei singoli soggetti. Questi mancherebbero comunque delle informazioni e delle capacità necessarie per orientarsi con competenza tra prezzi e qualità dei beni offerti. Al contrario, viene suggerito anche da questo punto di vista, che l’efficienza è costruita socialmente. Solo se ci sono istituzioni che migliorano le conoscenze condizionando anche il comportamento delle imprese, e che educano il consumatore, che lo inducono a organizzarsi e a diffondere modelli di consumo accettati in modo più consapevole, solo se c’è un’architettura istituzionale di questo tipo i consumatori possono scegliere meglio e quindi possono esercitare la loro influenza positiva sull’efficienza delle imprese. La stabilizzazione economica e sociale nel secondo dopoguerra Dobbiamo anzitutto accennare al contesto storico in cui matura la ridefinizione dei confini tra economia e sociologia. I primi tre decenni dopo la guerra, fino agli anni ’70, sono stati un periodo di straordinaria crescita economica. Un fattore che ebbe un peso rilevante su questo esito riguarda anzitutto la politica di aiuti americani all’Europa. Gli Stati Uniti cancellarono una parte consistente del debito degli alleati, ma avviarono anche, con il Piano Marshall, un rilevante flusso di aiuti finanziari verso i paesi europei. Anche per quel che riguarda la Germania, si evitò di ripetere gli errori commessi dopo la Prima guerra mondiale con l’imposizione di risarcimenti in pratica non sopportabili. La ricostruzione e la ripresa furono dunque favorite dalla politica di aiuti. La crescita della produzione poté valersi di una progressiva liberalizzazione degli scambi e quindi di un consistente incremento del commercio internazionale, oltre che dagli accordi per la stabilizzazione dei cambi. In questa cornice, la domanda di beni poté crescere notevolmente, trainata prima dalle esigenze della ricostruzione e dalla richiesta di generi di prima necessità, e poi sempre più dalla possibilità di soddisfare nuovi bisogni con l’utilizzo delle tecnologie moderne, per la produzione di massa di beni di consumo: dalle automobili ai nuovi elettrodomestici. D’altra parte, una notevole risorsa per lo sviluppo fu anche costituita, specie nei paesi europei, dall’esistenza di un’ampia offerta di lavoro proveniente dai settori a bassa produttività, e in particolare dall’agricoltura. Si trattava di forza lavoro a bassa qualificazione che poteva però essere utilizzata anche nelle industrie più moderne, perché l’utilizzo delle nuove tecnologie produttive e delle nuove forme di organizzazione del lavoro di tipo taylorista permetteva di dividere e semplificare le mansioni lavorative. Tuttavia, accanto al ruolo di queste variabili economiche, legate al basso costo del lavoro, e accanto allo sviluppo tecnologico, che ebbe un impulso notevole anche in relazione alle attività belliche, occorre considerare i mutamenti che intervengono nella regolazione istituzionale delle econome dei paesi più sviluppati. Da questo punto di vista prosegue e si consolida quella «grande trasformazione» che Polanyi aveva già intravisto come reazione alla crisi degli anni ’30. L’impetuoso sviluppo postbellico avvenne all’insegna di un crescente interventismo pubblico nell’economia e nella società e di una crescente burocratizzazione e organizzazione delle grandi imprese più moderne. Scrivendo alla metà degli anni ’60, Shonfield ci ha fornito, una delle più efficaci sintesi dei cambiamenti che hanno fatto di quello che egli chiama il «capitalismo moderno», un capitalismo più regolato, sia a livello macro che micro, allontanandolo ulteriormente dal capitalismo liberale della fine dell’800 e degli anni che precedono il primo conflitto mondiale. Possiamo servirci della sintesi di Shonfield per mettere in luce i principali mutamenti che caratterizzano il capitalismo regolato del secondo dopoguerra. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 11 Karl Marx La critica di Marx Marx critica gli economisti classici per l’incapacità di rendere adeguatamente conto del conflitto tra capitalisti e lavoratori che caratterizza l’economica capitalistica. Marx condivide la visione più pessimistica dello sviluppo. Egli sottolinea l’esistenza di vincoli sociali legati alle istituzioni fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione dei beni e la distribuzione del lavoro salariato come strumenti che regolano la produzione di beni e la distribuzione dei redditi. Alla visione armonica, tipica di Smith, per cui l’economica capitalistica in regime liberista avrebbe favorito insieme la crescita della ricchezza e la cooperazione tra classi sociali, Marc contrappone una visione dialettica, influenzata dalla filosofia idealistica tedesca. Il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi sociali. Ciò porta a una progressiva intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme di organizzazione economica. Lo storicismo insiste sulle differenze di classe che si accompagnano allo sviluppo economico. Marx propone di non separare l’indagine economica dal contesto istituzionale, e di storicizzare l’analisi dei fenomeni economici. Per Hegel la storia è un continuo divenire in cui, attraverso fasi diverse, si determina una progressiva realizzazione della ragione umana, considerata come un’entità sovraindividuale. Ciascun momento storico va analizzato nella sua totalità. Aspetti culturali, politici ed economici risultano infatti strettamente interconnessi. Ma mentre lo storicismo resta legato alla visione idealistica dello sviluppo storico, in cui l’evoluzione culturale condiziona l’organizzazione economica, Marx ribalta il rapporto tra aspetti culturali ed economico-sociali. Sono questi ultimi il vero motore dello sviluppo storico. Inoltre, rispetto agli storicisti, il suo intento è più teorico. Egli non si propone di mostrare una generica interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale. Vuole, piuttosto, formulare una teoria generale dello sviluppo storico, all’interno della quale la sua attenzione si concentra sulla società capitalistica e sulle sue trasformazioni, sulle sue «leggi di movimento». Idealismo tedesco, socialismo francese ed economica classica inglese confluiscono nel pensiero di Marc e si combinano in una miscela complessa e potente in cui non è possibile separare l’economia dalla sociologia ed entrambe da una teoria generale dello sviluppo storico. L’obiettivo di Marx non è né di sviluppare l’indagine economica in senso stretto, né di fondare una sociologia economica. Vuole piuttosto gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e aspetti istituzionali sono strettamente collegati e non sono separabili. In tal modo sarà anche possibile prevedere lo sviluppo storico e fondare scientificamente una guida per l’azione politica. Il motore del cambiamento non deve però essere cercato in fattori ideali ma in quelli economico-sociali, cioè nel modo in cui gli uomini organizzano la produzione e permettono quindi alla società di mantenersi nel tempo. Le condizioni economico-sociali prevalenti, i «modi di produzione», generano nel tempo le forze sociali (le classi) che li metteranno in discussione portando a forme di organizzazione economica e sociale diverse. La teoria dello sviluppo storico Per Marx non è possibile separare analisi economica e contesto istituzionale. Gli economisti classici erano consapevoli che produzione e distribuzione non avvengono nel vuoto, ma presuppongono determinate istituzioni che ne condizionano le specifiche modalità. Riconoscevano l’esistenza di tre classi sociali: capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. Il processo economico avviene in un contesto istituzionale caratterizzato dall’appropriazione privata del capitale e della terra e dalla formazione del lavoro salariato. Si tratta di condizioni che non erano presenti in economie precedenti. Marx colpevolizza però ai classici di considerare naturale la divisione di classe che regola le modalità di produzione dei beni e distribuzione dei redditi proprie dell’economia capitalistica, e quindi di non valutare adeguatamente le differenze storiche nelle forme di organizzazione economica. Come ha sottolineato Schumpeter, gli economisti classici erano consapevoli della storicità delle istituzioni, essi però erano orientati a considerare le istituzioni, e in particolare le divisioni di classe dell’economia capitalistica, come un dato scontato (e che comunque non erano interessati a mettere in discussione). All’interno di questo quadro sviluppavano la loro analisi strettamente economica. Più fondato è invece il rilievo di Marx circa la sottovalutazione del conflitto tra capitalisti e lavoratori. I classici non ritenevano che lo sviluppo dovese portare inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua volta generare un superamento dell’economia capitalistica. Per Smith, l sviluppo capitalistico avrebbe favorito la cooperazione e l’integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo, vincoli naturali legati alla dinamica demografica e alla scarsa disponibilità di terra avrebbero in sostanza contribuito a mantenere la classe operaia a livello di sussistenza. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 12 Marx insistendo sul ruolo delle istituzioni si pone due obiettivi: 1) Storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società diverse, a stadi differenti dello sviluppo storico, che meccanismi di passaggio da uno stadio all’altro; 2) Mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso imprime all’intera società. Prendiamo in considerazione il primo obiettivo. Non è possibili studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è sempre un processo sociale e non solo economico: «nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. esso producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre essi entrano gli uni e gli altri in determinati legami e rapporti e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali». Da questa premessa discendono una serie d conseguenze tra loro collegate. 1. I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, cioè i «rapporti sociali di produzione», costituiscono per Marx l’elemento essenziale dal quale bisogna partire nell’indagine su ogni forma di società. Essi fondano la divisione in classi, nel senso che i membri di una determinata società si dividono a seconda del modo in cui partecipano alla produzione. I rapporti di proprietà sono la forma giuridica dei rapporti di produzione. La distribuzione del prodotto, e quindi la disuguaglianza sociale, saranno condizionate dalla posizione di classe. Marx insiste sul fatto che la società capitalistica non può essere concepita secondo il modello individualistico-utilitaristico dell’economia classica. Essa non è costituita da un insieme di individui isolati, con pari opportunità, che si scambiano beni e servizi cercando si massimizzare il loro interesse. Questa visione contrattualistica è una falsa apparenza. Gli attori che scambiano su mercato non hanno pari opportunità, non sono su un piano di uguaglianza. Coloro che dispongono solo della propria capacità di lavoro sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi di produzione, cioè dai capitalisti. Lo scambio tra salario e lavoro è forzato e diseguale. L’ordine sociale si basa dunque sulla coercizione esercitata dalle classi dominanti. 2. I rapporti di produzione, e le relative classi, non variano accidentalmente. Essi corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle «forze produttive», cioè l’insieme dei «mezzi materiali di produzione» che includono le conoscenze scientifiche e tecniche, le forme di divisione del lavoro, ma anche la qualificazione culturale e professionale del lavoro. I rapporti di produzione corrispondenti a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive costituiscono la «struttura» della società. La struttura economica condiziona a sua volta l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico. L’insieme di questi aspetti rappresenta la «sovrastruttura» della società. L’ordine sociale si mantiene fino a quando lo sviluppo delle forze produttive non è ostacolato dal modo di produzione, con i suoi specifici rapporti e le sue classi. In questa situazione permane anche la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Marx sembra suggerire che finché la classe dominante svolge un ruolo economico di sostegno allo sviluppo delle forze produttive, l’ordine sociale non si mantiene solo sulla coercizione ma anche sul consenso. Il potere culturale, sociale e politico, derivante dal controllo dei mezzi di produzione, non incontra ostacoli e viene accettato dalle classi subalterne. 3. L’ordine sociale, e con esso la società o «formazione sociale» caratterizzata da un determinato modo di produzione, sono però destinati a cambiare. Vengono infatti messi in discussione quando lo sviluppo delle forze produttive non può più essere contenuto nel precedente modo di produzione e trova in esso dei vincoli crescenti. Un aspetto cruciale di questo processo è costituito dal formarsi di una nuova classe sociale, la cui crescita è sostenuta dallo sviluppo delle forze produttive. La nuova classe emergente lotta contro la vecchia classe dominante e i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel corso del conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Si diffondono nuove idee che criticano il vecchio ordine e la classe in esso dominante. Le stesse istituzioni politiche non riescono più a difendere adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione. Alla fine del processo un nuovo modo di produzione si afferma. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 15 Possiamo allora comprendere perché viene sopravvalutato il conflitto di classe. Ciò è dovuto a due motivi: al mancato realizzarsi di quelle previsioni pessimistiche sull’andamento dell’economia che Marx pensava di stabilire con la precisione delle scienze naturali; e insieme alla maggiore rilevanza delle determinazioni «sovrastrutturali» delle classi, cioè all’influenza autonoma di fattori socioculturali e politici. La capacità di riprodursi, anche se attraverso continui cambiamenti, dell’economia capitalistica, la sua capacità di creare a distribuire ricchezza, di assicurare mobilità sociale, non hanno portato alla polarizzazione prevista da Marx. Nello stesso tempo, le specificità culturali e politico-istituzionali dei vari paesi hanno inciso in profondità sulle modalità del conflitto di classe e quindi sui suoi effetti sullo sviluppo economico. La forte sottovalutazione del ruolo dello Stato, che riflette l’immagine del capitalismo liberale, impediva però a Marx di concepire questi sviluppi. Non lasciava spazio nel suo modello per quel crescente intervento dello Stato nell’economia e nella società che, senza modificare il carattere capitalistico dell’economia, ne avrebbe controllato le tensioni economiche e sociali. La sociologia prima della sociologia economica La sociologia come scienza autonoma nasce con una forte connotazione positivista. Essa postula cioè l’applicazione dello stesso metodo delle scienze naturali allo studio dei fenomeni sociali, al fine di ricavare leggi generali di funzionamento della società che abbiano una validità oggettiva. Da un lato, si fa più strada l’idea di condizionamenti sociali dell’attività economica. Puntando la propria attenzione sui caratteri distintivi della società moderna rispetto a quella tradizionale, la sociologia relativizza e storicizza i caratteri delle attività economiche su cui l’economia fondava la sua analisi. Dall’altro lato la tensione verso una teoria generale, verso una scienza sintetica della società, finisce per scoraggiare l’emancipazione della sociologia economica come ambito di studio specifico e relativamente autonomo. Questo sforzo per delineare un campo di indagine autonomo, che non entri in rotta di collisione con gli economisti, ma che anzi si concili con la loro prospettiva, è ben specificato da Spencer. Nelle sue opere egli cerca di conciliare una spiegazione individualistica del comportamento umano con l’idea dei condizionamenti sociali dell’azione, tipica della prospettiva sociologica. La società appariva come il risultato del libero accordo tra individui guidati dalla ragione. Spencer non rifiuta questa prospettiva, ma la relativizza. Egli sostiene che effettivamente, nella moderna società industriale, i rapporti sociali si basano sulla cooperazione volontaria e non su quella coatta, determinata dal potere politico, come nella società militare. Egli è imposta agli individui dalla società stessa, come effetto delle sue leggi di evoluzione. Per il sociologo Spencer, il comportamento è socialmente condizionato: idee e sentimenti sono influenzati dalle esigenze del conflitto esterno, con atre società, si attenuano, e crescono invece quelle di sostentamento interno, le attività industriali diventano più importanti di quelle militari. Per Spencer la società deve essere considerata come un organismo, costituito da un insieme di parti tra loro interdipendenti. La sua sociologia è guidata dall’analogia tra fenomeni biologici e sociali. La visione organicistica porta a considerare la società come un tutto, e a cercarne la legge di evoluzione generale, in parallelo con quanto avviene nello studio degli organismi viventi. Tale legge è individuata da Spencer bella progressiva differenziazione strutturale e specializzazione funzionale. Come ogni organismo vivente, la società tende a crescere di dimensioni e ciò spinge alle formazioni di strutture separate e specializzate per l’assolvimento più efficiente dei compiti necessari alla sua sopravvivenza nell’ambiente. Nelle società primitive le funzioni economiche e quelle politiche e militare sono scarsamente differenziate da quelle familiari, nel corso della evoluzione emergono strutture specializzate, si sviluppa la divisione del lavoro, si formano classi differenziate. Le società che rispondono meglio alle sfide dell’ambiente fisico e sociale si affermano a spese delle altre, che invece decadono. La visione organicista tratta la società come un sistema e cerca di mettere soprattutto in evidenza gli elementi comuni a tutte le società e alla loro evoluzione. La sociologia si legittima piuttosto, rispetto all’economia e alla storia, per il suo carattere generalizzante, laddove connotato essenziale della sociologia economica è la spiegazione della diversità nello spazio e nel tempo delle attività economiche. Con Auguste Comte viene espressa perla prima volta la necessità di uno studio scientifico della società, che Comte chiama sociologia «per poter designare con un unico nome quella parte complementare della filosofia naturale si riferisce allo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie ai fenomeni sociali». Comte vuole mostrare che le possibilità di introdurre cambiamenti nella società non sono senza limiti, ma dipendono dalla conoscenza delle sue leggi di funzionamento naturale e dalla capacità di agire in sintonia con esse. Ciò lo spinge verso una posizione rigidamente positivista: occorre applicare allo studio della società lo stesso metodo positivo delle scienze della natura, e ricercare le leggi generali che ne spiegano l’ordine (statica sociale) e il cambiamento (dinamica sociale). Solo nella fase storica più recente è possibile porsi questo obiettivo, perché le conoscenze umane seguono una lege di sviluppo basata su tre SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 16 stadi: teologico, metafisico e positivo. A ciascuno stadio dell’evoluzione intellettuale corrisponde una determinata forma di organizzazione sociale. In biologia come in sociologia non è possibile spiegare una singola parte senza far riferimento al tutti in cui è inserita, non è possibile analizzare la religione, l’economia o la politica se non partendo dai caratteri generali della società in cui tali attività si esplicano, e dal suo stadio di sviluppo storico. Il positivismo si accompagna a una visione organicista della società, l’organicismo di Comte è anti-individualistico. Di conseguenza, i rapporti con il pensiero economico tendono a essere più difficili e conflittuali. Pe Spencer idee e sentimenti sono selezionati dalle esigenze funzionali; per Comte, invece la società si basa sul «sentimento della solidarietà comune» su un sistema di valori condiviso. Max Weber Le prime ricerche sulla società tedesca Max Weber nasce nel 1864 da una famiglia della borghesia tedesca. La sua formazione fu influenzata dallo storicismo allora imperante nella cultura e nell’università tedesca. Questi studi sono rilevanti perché essi cominciano a prendere corpo le idee di Weber sulle origini del capitalismo. Si pongono cioè le basi per il passaggio da un’indagine a livello microsociologico, più centrata sull’esperienza tedesca, alla prospettiva di ricerca macrosociologica che caratterizzerà i lavori successivi sul capitalismo occidentale. Studiando la situazione dell’agricoltura nella Germania orientale, Weber rimase colpito dalla tendenza dei lavoratori impegnati nelle tenute dei grandi proprietari (Junker) a lasciare la condizione di contadini fissi, legati più stabilmente all’azienda, per quella di salariati, o addirittura a emigrare. Questo orientamento, infatti, non era spiegabile con motivazioni strettamente economiche. In genere le condizioni dei contadini fissi erano migliori di quelle della manodopera salariata stagionale; così come coloro che emigravano non venivano in prevalenza dalle aree dove la manodopera era sovrabbondante e i salari più bassi. I lavoratori agricoli volevano piuttosto liberarsi dai pesanti rapporti di dipendenza nei riguardi degli Junker, nonostante la perdita di sicurezza economica che ciò comportava nell’immediato. Anche il comportamento degli operatori di borsa tedeschi non è comprensibile in termini strettamente utilitaristici, secondo gli schemi della teoria economica. In questo caso è il confronto tra la situazione tedesca e quelle inglese a orientare verso questa conclusione. Sia gli operatori inglesi sia quelli tedeschi desiderano ovviamente guadagnare il più possibile, giocando sui differenziali dei prezzi. Tuttavia, il comportamento degli inglesi è istituzionalizzato da un ordinamento particolare, tale da ostacolare le degenerazioni della speculazione che il mercato borsistico rende possibili. in Gran Bretagna le borse sono infatti del club riservato ai soli commercianti di professione. Si tratta di istituzioni autogestite che decidono autonomamente i criteri di ammissione. I posti si tramandano, e se si acquistano è necessaria una consistente cauzione: la borsa è dunque un’«aristocrazia del denaro». Questo avviene invece in Germania, dove il quadro istituzionale, e i valori degli operatori che ne sono influenzati, sono diversi e più esposti ai rischi di comportamenti non corretti. Paradossalmente, è l’accesso più ristretto al ceto dei commercianti di borsa che favorisce la situazione inglese, mentre in quella tedesca l’accesso è meno regolamentato e la borsa si avvicina di più a un mercato libero. Le ricerche di sociologia economica condotte da Weber nella prima metà degli anni ’90 sollevano dunque importanti interrogativi teorici, e attirano già l’attenzione sul ruolo cruciale di condizioni non economiche di natura culturale e istituzionale per comprendere il comportamento economico. Studiando la società tedesca egli era stato colpito dal problema delle differenze territoriali dello sviluppo economico: quelle interne alla Germania, ma anche tra Germania e altri paesi, specie anglosassoni. Possiamo ipotizzare che proprio in relazione con le prime ricerche Weber abbia maturato quell’interesse per il problema macrosociologico delle origini del capitalismo che lo impegnerà negli anni successivi. Il problema che Weber affronta più estesamente è costituito dalle differenze di sviluppo interne alla Germania. Andando verso sud e verso ovest predomina la piccola proprietà contadina appoderata e le coltivazioni sono più diversificate; andando invece verso est, e specie verso nordest, prevalgono le grandi proprietà fondiarie e le coltivazioni estensive di grano, barbabietole, patate. Come si può spiegare questa differenza? Secondo Weber, occorre guardare alle trasformazioni intervenute all’inizio dell’800. Quando furono formalmente aboliti gli obblighi feudali, si affermarono due percorsi distinti. Nel sud e nell’ovest la terra finì in gran parte nelle mani dei contadini, mentre nell’est rimase ai proprietari fondiari che cominciarono a gestire le tenute con lavoro libero. Ma a ben vedere questo diverso esito era stato preparato da un lungo percorso precedente che ha origine del Medioevo. È a partire da quell’epoca che nel sudovest si diedero le condizioni per il rafforzamento dei contadini, mentre nell’est ciò non accadde. I signori del sudovest preferirono trasformarsi in redditieri, esigendo rendite per l’affitto dei terreni, e vari tipi di tasse sui traffici locali. Quelli dell’est, invece, si impregnarono direttamente nella coltivazione dei fondi. Per Weber il ruolo della città nello sviluppo economico è fondamentale. La presenza molto più debole del tessuto urbano dell’est, rispetto alla trama più fitta che caratterizza il sud e l’ovest, ha conseguenze di SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 17 lunga durata per i sentieri di sviluppo. È inoltre da notare che il rilievo della città non è dovuto soltanto agli stimoli che ne derivano per il mercato agricolo, ma ancor prima all’influenza da essa esercitata su un fattore chiave per lo sviluppo: l’imprenditorialità. Le considerazioni di Weber contengono un’implicazione teorica molto importante. Se si vogliono comprendere le differenze di sviluppo tra varie aree, non ci si può limitare a prendere in esame la dotazione di risorse naturali o il capitale disponibile, trattando come invariante l’attitudine imprenditoriale, ovvero la capacità dei soggetti di combinare efficacemente le risorse. A questa prospettiva più tipica dell’economia, e anche del marxismo, Weber contrappone quella della sociologia economica: l’attività imprenditoriale in questo caso non è considerata una costante, ma una variabile che dipende dal contesto istituzionale in cui i soggetti sono inseriti. Ne consegue che, come abbiamo già visto per il lavoro e per la finanza, anche la produzione è essenziale un appropriato quadro istituzionale. Solo se esso sostiene la crescita dell’imprenditorialità si può generale lo sviluppo economico. La scoperta dell’imprenditorialità nell’ambito del suo percorso di ricerca sulla società tedesca spinge dunque Weber a porsi il problema microsociologico delle origini dello sviluppo capitalistico e delle due differenziazioni territoriali, che lo impegnerà a fondo negli anni successivi. La formazione dell’imprenditorialità La tesi di Weber è che occorre guardare all’influenza della religione protestante sulla diffusione di un’etica economica che alimenta, a sua volta, «lo spirito del capitalismo». Con gli studi sul protestantesimo egli chiarisce meglio attraverso quali meccanismi culturali e istituzionali il contesto urbano favorisca la formazione delle motivazioni di un’imprenditorialità specificatamente capitalistica. Lo spirito del capitalismo Per comprendere le novità introdotte dallo spirito del capitalismo è necessario definire meglio l’orientamento economico tradizionalistico. Esso appare contraddistinto da due aspetti principali: • Anzitutto, come si è appena detto, il profitto non è pienamente giustificato dal punto di vista etico, ma è tollerato. Per questo motivo la sua ricerca avviene prevalentemente nei rapporti con gli estranei alla famiglia e alla comunità locale e con gli estranei. • In secondo luogo, l’acquisitività si manifesta nel commercio, nella guerra, nella pirateria, e in genere in un «capitalismo d’avventura», ma non investe invece la sfera di produzione, che resta governata da routine tradizionali. Per quel che riguarda quest’ultimo aspetto, Weber chiarisce poi che esso si può perpetuare anche laddove si sia già determinata una trasformazione dell’organizzazione produttiva in direzione capitalistica; ovvero laddove vi siano già imprenditori privati che investono il capitale nella produzione di beni a scopo di guadagno, impegnando lavoro salariato. Lo spirito del capitalismo si differenzia per profondi mutamenti che investono entrambe le dimensioni che abbiamo considerato. • La ricerca del profitto, invece di essere svincolata da norme etiche, o di essere comunque tollerata, diventa non solo giustificata ma addirittura sollecitata sul piano etico. Inoltre, non solo l’impegno nel lavoro come «professione» diventa un dovere etico, ma esso si accompagna alla condanna di ogni «godimento spensierato», di ogni finalità edonistica nell’impegno dei guadagni. Il profitto deve essere fatto fruttare reinvestendo il capitale in attività produttive e non impiegandolo solo per accrescere il patrimonio familiare; • Questo orientamento si collega alla penetrazione progressiva della ricerca del profitto, basata sul calcolo razionale del rendimento del capitale, nella sfera della produzione. Se prima l’acquisitività non vincolata eticamente nel commercio con gli estranei e nel capitalismo d’avventura, sempre di più essa si manifesta ora nell’organizzazione razionale del processo produttivo. In tal modo non solo viene rotta la staticità dell’economia tradizionale, volta al soddisfacimento dei bisogni attraverso una produzione prevalentemente per l’autoconsumo, ma viene rivoluzionata la stessa sfera della produzione per il mercato operata da imprenditori privati con l’impiego di capitale. Il tradizionalismo prima descritto di questi imprenditori, e dei loro lavoratori, viene travolto da una nuova imprenditorialità fortemente motivata a combinare in modo più efficiente i fattori produttivi. Questi «nuovi imprenditori» modificano i prodotti, i metodi di produzione, i rapporti con i fornitori e con il mercato, alla ricerca del massimo profitto. Essi vengono dal basso, non dispongono di molto capitale, ma solo di quantità limitate di denaro, spesso prestate dai parenti. Weber conclude che «la ricerca delle forze motrici dell’espansione del capitalismo moderno non è in primo luogo una ricerca sull’origine delle riserve di denaro da impiegare capitalisticamente, ma è soprattutto una ricerca sullo sviluppo dello spirito del capitalismo». SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 20 Le condizioni del capitalismo moderno Le condizioni che Weber considera sono condizioni specificatamente occidentali: le vicende belliche, le conquiste coloniali e l’afflusso di metalli preziosi, la domanda di beni di lusso delle corti, le condizioni geografiche favorevoli. Le prime e più importanti condizioni, specificatamente occidentali, sono di due tipi. Quelle culturali riguardano l’influenza dell’etica economica di origine religiosa sulla formazione dell’imprenditorialità; quelle istituzionali fanno invece riferimento soprattutto a tre fattori: la città occidentale, lo Stato razionale e la scienza razionale. È da notare che tanto la variabile culturale quanto quelle istituzionali sono in ultima istanza condizionale da fattori di tipo religioso, in particolare dal ruolo della profezia etica per il processo di razionalizzazione occidentale. Questa influenza del capitalismo moderno sia direttamente, tramite la formazione dell’etica economica, sia indirettamente attraverso il contributo che essa dà all’emergere delle condizioni istituzionali, le quali acquisiscono però un rilievo e un’autonomia causale specifica per lo sviluppo capitalistico, non riducibili dunque a quelli della religione. - l’etica economica Soffermiamoci anzitutto sulle condizioni culturali, che sono centrate sull’etica economica. Questo aspetto è quello sul quale Weber aveva inizialmente lavorato nei suoi studi sul protestantesimo, mettendo in luce i rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo. In primo luogo, può confermare e sottolineare il ruolo causale dell’etica economica per lo sviluppo capitalistico occidentale, mostrando come le religioni non cristiane prevalenti altrove avessero alimentato un orientamento economico sfavorevole al capitalismo moderno. In secondo luogo, attenua il pero attribuito all’idea di predestinazione rispetto a quella di vocazione-professione, e soprattutto enfatizza maggiormente il ruolo delle sette protestanti. Inoltre, più in generale, accanto al contributo dato dal cristianesimo al processo di demagizzazione e alla razionalizzazione della condotta di vista, Weber accentua l’importanza della tradizione religiosa occidentale per il superamento del dualismo tra etica dei virtuosi e delle masse, che si affermerà in forma radicale con il protestantesimo. Tutte le etiche economiche sono state a lungo caratterizzate dal tradizionalismo, cioè dal rispetto per le pratiche produttive e commerciali tramandatesi nel tempo. Qualora si creda che il mondo sia dominato da potenze sovrannaturali, qualsiasi innovazione è scoraggiata dal timore di una reazione degli spiriti. Questa situazione cominciò a mutare con il superamento delle società primitive frammentate e l’emergere delle religioni mondiali in grandi imperi burocratici, o in città-Stato e in piccoli Stati. Una conseguenza fondamentale di questo cambiamento è la separazione tra mondo naturale e soprannaturale. Il destino individuale non è più affidato al capriccio degli spiriti che occorre propiziarsi con pratiche magiche, ma esso appare ora come condizionato dalla capacità degli uomini di conformarsi ai precetti morali imposti dalle divinità che vivono nel mondo soprannaturale. Le grandi religioni hanno due importanti conseguenze. Anzitutto, contribuiscono alla riduzione dell’influenza della magia (demagizzazione) e quindi pongono i presupposti per una spiegazione razionale del mondo naturale sulla quale potrà crescere la scienza e la tecnica. In secondo luogo, esse sono più universalistiche delle religioni primitive a connotazione magica. Ciascuno di tali raggruppamenti aveva le proprie divinità. Le grandi religioni universali tendono invece al monopolio del rapporto con le divinità; hanno quindi una pretesa universalistica che viene potenzialmente ad allargare l’area della solidarietà sociale rispetto alla frammentazione dei culti precedenti. Dal punto di vista economico ciò ha importanti implicazioni perché incide sulle possibilità di superamento del dualismo etico. Con il calvinismo, viene eliminato l’uso di mezzi magici per l’acquisizione della grazia. Il processo di demagizzazione giunge a compimento. - La città occidentale La città occidentale ha per Weber una caratteristica peculiare che si manifesta già nella polis greca, ma che si ritrova nella sua forma più netta nel comune dell’Europa medievale. Si afferma uno specifico diritto di cittadinanza in base al quale i membri della città, come singoli individui, dispongono di propri tribunali e di proprie autorità politiche, e partecipano in qualche forma alla scelta dei titolari di tali organi. La città, pur essendo normalmente anche sede di commercio e di industria, è sempre rimasta politicamente dipendente da un signore fondiario o da un principe detentore del potere politico. I suoi abitanti non hanno mai goduto di un diritto specifico in quando cittadini. I motivi di questa specificità della città occidentale sono anzitutto di natura politica. Essi sono legati al carattere rivoluzionario che assume in origine il tipo ideale della formazione della città. Alla base vi è un’associazione giurata alla volta alla conquista del potere politico. Questo processo ha a sua volta due cause principali che distinguono l’esperienza occidentale. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 21 • La prima occidentale ha una connotazione militare di associazione di difesa costituita da tutti coloro che sono in grado di potare le armi e di provvedere al loro addestramento ed equipaggiamento per le attività belliche. • Il secondo fattore che ha favorito la formazione della città occidentale è di natura religiosa. Il cristianesimo ha portato al superamento del dualismo etico che caratterizza le esperienze di altre parti del mondo. La possibilità che si costituisca un’unione per la fondazione della città, che nasca uno specifico diritto di cittadinanza, e anche che si sviluppino forme di cooperazione economica non tradizionali, richiede che vengano abbattute quelle barriere alle relazioni sociali, dominanti quando gli abitanti della città sono appartenenti a tribù, stirpi o caste caratterizzate da culti diversi. • Il primo contributo rilevante della città ai presupposti del capitalismo riguarda l’allargamento del mercato; ciò avviene inizialmente attraverso lo sviluppo del commercio. Così dalla necessità di ridurre i rischi del commercio a lunga distanza nasce la forma di associazione che caratterizza la commenda, ma questo spinge anche verso una razionalizzazione delle tecniche contabili e favorisce la separazione tra patrimonio familiare e patrimonio dell’impresa. Questi elementi facilitano, a loro volta, il calcolo capitalistico. • La borghesia cittadina, commerciale e artigianale, che così di sviluppa entra in conflitto con l’organizzazione economica originaria delle campagne basata sulla signoria fondiaria, con servitù dei contadini e produzione prevalentemente orientata all’economica domestica di autoconsumo. Il conflitto ha origine anzitutto nel fatto che la borghesia cittadina «aveva un tornaconto a indebolire o disgregare la signoria feudale». Vi è un interesse dei gruppi urbani più abbienti a investire il loro capitale in proprietà agricole, anche per motivi di prestigio, e quindi un interesse a liberale la terra dai vincoli feudali rendendola commerciabile. In un contesto economico stimolato dalle attività e dai traffici promossi dalle città, i signori fondiari sono più spinti a cogliere le opportunità che si aprono nel mercato e quindi tendono a razionalizzare le loro aziende in direzione capitalistica. Ciò può portare a un processo di espropriazione dei contadini, come nel caso classi dell’Inghilterra, o a un loro sfruttamento più intensivo fino all’abolizione degli obblighi feudali, come in Prussia o Russia. Quando si sviluppa l’economia monetaria, di fronte alle difficoltà di riscossione dei tributi, in Oriente la burocrazia civile o militare può a volte anche assumere un carattere feudale, può cioè avere in appalto la riscossione dei tributi e può ricevere la signoria fondiaria su un certo territorio. Ma in questi casi si tratta di un feudalesimo di servizio, che ha scopi principalmente fiscali e in principio può essere revocato dal sovrano, nei riguardi del quale il beneficiario resta dipendente. Manca in particolare la natura specificatamente contrattuale che caratterizza invece il feudalesimo occidentale. Durkheim Mercato e forme anormali di divisione del lavoro Émile Durkheim è l’autore che insieme a Max Weber ha più contribuito a fondare la prospettiva sociologica come disciplina autonoma. Tuttavia, a differenza di Weber, Durkheim riteneva che lo studio della società dovesse seguire l’esempio delle scienze naturali muovendosi alla ricerca di leggi generali dei fenomeni sociali. Weber era convinto che la sociologia non potesse comunque dare un fondamento scientifico alle scelte morali, Durkheim si mosse, sin dai primi sviluppi del suo lavoro, con l’obiettivo di porre le bassi per una «scienza della morale». È proprio da uno studio rigoroso dei «fatti morali» e dell’influenza che su di essi esercitano le forme specifiche di organizzazione della società che egli si propone di trarre dei criteri di orientamento per l’azione. Il problema dell’ordine sociale è quindi centrale per il sociologo francese. Ciò lo porta a scontrarsi, sin dall’inizio del suo percorso di ricerca, con l’utilitarismo individualistico, nel tentativo di mettere in luce l’influenza delle istituzioni sul comportamento individuale, anche su quello economico. Questa prospettiva avvicina Durkheim alle posizioni critiche della sociologia tedesca dei riguardi dell’economia. Un primo contributo rilevante alla sociologia economica viene dunque dalla critica alla teoria istituzionalista. Dal punto di vista sostantivo l’apporto più importante riguarda invece gli effetti socialmente destabilizzanti che l’organizzazione delle attività economiche nella società moderna può avere a causa delle «forme anormali di divisione del lavoro». Gli interessi del sociologo francese dopo lo studio sulla divisione del lavoro si allargano però ad altri temi, con l’intento di fondare la sociologia come disciplina generale volta ad indagare i diversi aspetti del comportamento per mezzo del metodo scientifico e dell’indagine empirica. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 22 La critica all’utilitarismo e la fondazione di una teoria istituzionalista Non è possibile, secondo Durkheim, studiare in astratto i fenomeni economici prescindendo dal contesto storico in cui sono inseriti. Il comportamento economico concreto degli individui è influenzato da norme e regole morali che mutano al mutare della società. Questi fattori istituzionali influenzano lo sviluppo economico e ne sono a loro volta influenzati. Durkheim riconosce peraltro un importante merito agli economisti: quello di avere visto per primi che la società, come la natura, è influenzata da leggi sue proprie che vanno studiate con metodo scientifico. La vita collettiva non può più essere ingenuamente spiegata con la volontà politica dei sovrani o richiamandosi ai voleri di qualche divinità. In tal modo gli economisti hanno anche preparato il campo per lo sviluppo della sociologia. Tuttavia, nel momento in cui presentano le leggi economiche essi cadono in un grave fraintendimento: quello appunto di prescindere dalla reale influenza delle istituzioni sociali sull’economia. «L’economia politica perse così tutti i benefici del suo punto di partenza: essa restò una scienza astratta e deduttiva, occupata non tanto a osservare la realtà quanto a costruire un ideale più o meno desiderabile». Ma da cosa dipende l’errore degli economisti? Bisogna guardare in direzione di quell’individualismo utilitaristico che ne orienta la prospettiva d’analisi. Nella visione dell’utilitarismo la società è costituita da un insieme di individui che entrano in relazioni scelte volontariamente e guardate esclusivamente dalla ricerca dell’interesse individuale. Tali rapporti si mantengono stabili fino a quando persiste l’interesse originario che le aveva attivate. Insomma, i rapporti contrattuali sono il paradigma dei rapporti sociali e le istituzioni sono il rutto di un accordo tra individui guidati dal perseguimento razionale dei propri interessi. Durkheim sviluppa sostanzialmente due ordini di critiche nei riguardi di questa impostazione del problema dell’ordine sociale. a) Le cause non individualistiche della divisione del lavoro In primo luogo, il sociologo francese mette in discussione il fatto che si possa dedurre la società dall’individuo: «la vita collettiva non è nata dalla vita individuale; al contrario, la seconda è nata dalla prima». L’individualismo è un fenomeno che si sviluppa solo di recente e in termini graduali, è una caratteristica della società moderna. L’individualismo è pertanto il frutto dell’evoluzione stessa della società e delle sue mutate esigenze, che vanno specificatamente indagate, come Durkheim si proporrà di fare. D’altra parte, l’influenza della società non è visibile soltanto nella storia della specie umana, ma anche in quella dei singoli individui, esaminando il ruolo dell’educazione. Per comprendere il comportamento individuale, anche in campo economico, non ci si può limitare alla psicologia o alla biologia, ma occorre studiare le cause sociali che influiscono sull’azione, bisogna dunque prendere in esame le istituzioni. «Si può chiamare istituzione ogni credenza e ogni forma di condotta istituita dalla collettività; la sociologia può venire allora definita come la scienza delle istituzioni, della loro genesi e del loro funzionamento». Durkheim sviluppa la sua critica all’utilitarismo e si concentra sulle origini e sulle conseguenze della crescita della divisione del lavoro. Egli vuole mostrare come anche una società basata sull’elevata differenziazione delle attività e dei ruoli non possa fare a meno di istituzioni di natura non contrattuale, di regole morali condivise. • Secondo la spiegazione tradizionale, diffusa tra gli economisti, la divisione del lavoro di svilupperebbe per «cause esclusivamente individuali e psicologiche», ovvero perché essa aumenterebbe i vantaggi goduti dai singoli consentendo un maggior benessere economico. Per Durkheim questa argomentazione è errata soprattutto perché i vantaggi in termini di maggiore produttività e di benessere, che effettivamente si verificano con una più alta divisione del lavoro, non potevano essere facilmente anticipati e compresi dai singoli individui, spingendoli così a specializzarsi. Occorre guardarsi dal considerare gli effetti di un determinato fenomeno sociale come le cause che lo hanno originariamente prodotto. • La causa della divisione del lavoro va allora ricercata in una direzione diversa, non individualistica. Occorre esaminare i cambiamenti che intervengono nella «morfologia» della società, cioè nella distribuzione della popolazione e nella quantità e qualità dei rapporti sociali. Essi si riflettono nelle forme che assume la «solidarietà», determinata dall’insieme delle norme morali condivise che legano tra loro gli uomini e ne regolano i rapporti. La spiegazione di Durkheim si basa dunque sull’analisi dei meccanismi che determinano il passaggio da un tipo ideale di società «semplice», caratterizzata dalla SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 25 Senonché questi ideali che tendono a diffondersi tra tutti i membri della società entrano in contrasto con un insieme di regole, che spesso sono il frutto di una frase precedente della società, le quali ne limitano la piena attuazione. Si genera così una prima forma di divisione coercitiva del lavoro, che discende dal fatto che l’assegnazione dei singoli ai compiti specializzati finisce per essere imposta piuttosto che scelta «infatti, se l’istituzione delle classi o delle caste dà origine talvolta a dolorosi dissensi invece di produrre solidarietà, ciò accade perché la distribuzione delle funzioni sociali sulle quali riposa, non corrisponde, o meglio non corrisponde più, alla distribuzione dei talenti naturali». Esempi di regole (giuridiche e morali) che producono effetti di questo tipo si possono riscontrare nel diritto ereditario, che altera la concorrenza tra gli individui per assumere determinati ruoli sulla base delle loro capacità. • Veniamo ora alla seconda forma di divisione coercitiva del lavoro. In questo caso di tratta delle ricompense da assegnare ai compiti divisi. Perché una società basata sulla divisione del lavoro generi solidarietà è anche necessario che tali ricompense tendano a corrispondere alla effettiva utilità per la società dei servizi prestati. Dove prevale un’elevata divisione del lavoro, e le attività economiche si basano sugli scambi di mercato, ciò richiede che venga preso in esame il modo in cui si forma il valore di scambio – in particolare quello dei servizi lavorativi – per accertare se esso corrisponda al «valore sociale» che ne discende. Ma come si può misurare il valore sociale? La risposta di Durkheim non è molto chiara. Egli non sembra rendersi ben conto di toccare un punto che è stato al centro di una complessa controversia in economia: quella sulla teoria del valore. La risposta sembra comunque alludere genericamente all’impostazione della teoria neoclassica della distribuzione del reddito, secondo la quale, in condizioni di mercato concorrenziale, il compenso dei fattori produttivi, tra cui il lavoro, viene ad essere determinato del contributo da essi dato al valore della produzione. Ma a Durkheim preme soprattutto di segnalare che il valore così assegnato alle diverse attività lavorative, attraverso il mercato, può essere alterato dall’«influenza di fattori anormali». In sostanza, si potrebbe dire che Durkheim non contesta alla teoria economica il fatto che in linea di principio il mercato possa essere uno strumento efficace per stabilire la corrispondenza tra valore di scambio di un bene, o anche del lavoro, e utilità sociale. Tuttavia, egli vuole attirare l’attenzione sul fatto che gli scambi di mercato, anche quando assumono la forma di contratti liberamente e volontariamente sottoscritti, dal punto di vista formale, possono nascondere uno squilibrio di potere tra i contraenti che porta ad allontanare la ricompensa dell’effettiva utilità sociale e impedisce ai meccanismi di mercato di stabilire un’effettiva equivalenza tra i due fenomeni. «Se una classe della società è obbligata per vivere a fare accettare a qualsiasi prezzo i suoi servizi, mentre un’altra piò farne a meno grazie alle risorse di cui dispone, e che tuttavia non sono necessariamente dovute ad una superiorità sociale, la seconda impone ingiustamente la sua legge alla prima. In altri termini non possono esservi ricchi e poveri di nascita senza che vi siano contratti ingiusti». Corporazioni e socialismo Per concludere la nostra analisi del contributo di Durkheim alla sociologia economia conviene ora soffermarsi su due aspetti. La prima questione riguarda i rimedi ai quali egli pensava per far fronte ai problemi sociali posti dalla divisione del lavoro. In secondo luogo, cercheremo di chiarire i rapporti tra tale prospettiva e quella di Marx e del socialismo non marxista. Durkheim non entra nei dettagli dei possibili interventi per far fronte alle forme anormali di specializzazione delle funzioni economiche. Di fronte a questa situazione è necessaria una nuova regolamentazione, anzitutto giuridica, ma anche morale, delle attività economiche che definisca i diritti e i doveri dei datori di lavoro e dei lavoratori, la «qualità del lavoro» e la «giusta remunerazione». L’intervento non dovrebbe inoltre essere limitato a incidere su occupazione o salati, ma anche sulla quantità della produzione e sulle modalità per evitare frodi e inganni nei rapporti tra venditori e compratori. Tuttavia, Durkheim, più che soffermarsi sulle direzioni specifiche che queste misure dovrebbero assumere, e sui rapporti con il funzionamento del mercato, concentra invece la sua attenzione sui soggetti istituzionali che dovrebbero realizzarlo. Lo Stato dovrebbe fissare alcuni principi generali che verrebbero poi adattati alle esigenze specifiche dei diversi settori di attività delle corporazioni: • Si tratta di istituzioni che riprendendo e adattando alle nuove esigenze il modello medievale, sono costituite da rappresentati dei datori di lavoro e dei lavoratori di ogni settore. Questi diversi soggetti SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 26 sarebbero dotati di proprie rappresentanze ed esprimerebbero poi una rappresentanza congiunta di secondo grado. Durkheim concepiva le corporazioni non come associazioni volontarie, ma come «istituzioni pubbliche» a carattere obbligatorio, organizzate in modo gerarchico sul territorio; le corporazioni dovevano a suo avviso stimolare la formazione di legami morali tra i soggetti coinvolti in determinate attività, dovevano promuovere attivamente la solidarietà organica, e questo compito non poteva essere efficacemente svolto dallo Stato. Nel valutare la proposta di Durkheim colpisce anzitutto la fiducia sicuramente eccessiva che ripose nelle corporazioni. Egli non si rese ben conto che problemi come la regolazione del ciclo economico, del conflitto tra capitale e lavoro, e più in generale delle diseguaglianze sociali, si sarebbero dimostrati di ben difficile soluzione, e certamente al di là della portata di uno strumento come le corporazioni. Ma soprattutto manca la percezione che la forma specifica prefigurata per queste istituzioni ne avrebbe potuto fare uno strumento di regimi autoritari o totalitari per cercare di controllare dall’alto la società, come mostra l’esperienza del fascismo o del nazismo tra le due guerre, o anche esperienze successive, per esempio in America Latina. L’analisi di Durkheim anticipa alcune importanti tendenze che stavano per manifestarsi nelle società più sviluppate dell’Occidente, ossia il passaggio da un sistema politico liberale ad un tipo pluralista, caratterizzato dal peso crescente di gruppi di interesse organizzati (associazioni sindacali, imprenditoriali, di categoria) nel processo politico. A partire dalla Prima guerra mondiale questo processo si sarebbe intensificato, portando in alcuni casi verso quelle forme di «corporativismo autoritario» e «dall’alto» cui prima si accennava, mentre in altri si ponevano invece le basi per un «corporativismo societario» o «dal basso». • In che misura la regolazione del mercato che Durkheim prefigura si avvicina a una prospettiva socialista? Durkheim non si misurò mai sistematicamente nei suoi lavori con il pensiero di Marx. È vero che entrambi gli autori riconoscono che la divisione del lavoro è un fattore che contribuisce notevolmente all’aumento della produttività del lavoro e alla crescita della ricchezza. Per entrambi il fenomeno ha chiaramente dei risvolti negativi simili. Si determina una crescita della diseguaglianza tra capitalismi e lavoratori, che Marx definiva come alienazione dei lavoratori del loro prodotto e Durkheim come divisione anomica e coercitiva. E si manifesta una parcellazione e dequalificazione del lavoro operaio, che Marx definiva come alienazione del processo lavorativo e Durkheim ancora come una forma di divisione anomica. Ma a questo punto cominciano le divergenze. Esse si manifestano in particolare su due aspetti. Anzitutto, Marx riteneva che lo sviluppo ulteriore della divisone del lavoro avrebbe inevitabilmente aggravato le diverse forme di alienazione, innescando un conflitto sociale sempre più dirompente che alla fine avrebbe travolto le stesse istituzioni capitalistiche. Per Durkheim, invece, il disordine sociale e la crescita della conflittualità sono dei fenomeni transitori, non dovuti alla divisione del lavoro in quanto tale, ma all’assenza o alla carenza di regole istituzionali. Di conseguenza, egli riteneva che le società sviluppate non potessero fare a meno della divisione del lavoro, pena la regressione e l’incapacità di soddisfare la quantità e la qualità dei bisogni individuali in esse presenti. In questo senso la specializzazione è anche un dovere morale che occorre perseguire perché corrisponde alle esigenze funzionali della società moderna, anche se e sue forme concrete devono essere adeguatamente regolate. Egli cerca di distinguere la dottrina del comunismo dalle idee del socialismo. La prima è apparsa più volte nel corso della storia e assume sempre un carattere utopistico. L’idea di fondo è che «la ricchezza è nociva e occorre estrometterla dalla società». Di conseguenza i sostenitori di questa prospettiva si pongono tutti l’obiettivo di limitare fortemente la divisione del lavoro e di mettere in comune il prodotto del lavoro. Si tratta insomma di una specie di impossibile ritorno alla società primitiva. Ben diverso è il caso del socialismo, nel cui alveo Durkheim colloca lo stesso Marx, senza cogliere il contrasto di fondo di cui si è prima detto. Il socialismo è un fenomeno tipicamente moderno; presuppone la crescita della divisione del lavoro ed esprime l’obiettivo di porre rimedio ai problemi sociali che questo fenomeno ha prodotto tra la fine del ‘700 e il secolo successivo. In sostanza il socialismo non vuole limitare la divisione del lavoro e ridurre la ricchezza, ma si pone l’obiettivo di sfruttare al massimo la divisione del lavoro per rendere possibile un maggior grado di soddisfacimento dei bisogni da parte di tutti gli individui e per controllare quindi le diseguaglianze. Ciò richiede una maggiore regolamentazione delle attività economiche da parte dello Stato: «si definisce socialista ogni dottrina che afferma il collegamento di tutte le funzioni economiche, o di alcune di esse che sono attualmente indipendenti, ai centri direttivi e coscienti della società». Durkheim è chiaramente attratto da questa prospettiva di maggior istituzionalizzazione della divisione del lavoro, che viene incontro ai problemi da lui sollevati, e non mete in discussione il ruolo della specializzazione come dovere morale da perseguire in quanto rispondente alle esigenze della società moderna. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 27 Durkheim è certamente più vicino alla prospettiva socialista ma se ne distanzia perché è convinto che il socialismo trascuri la dimensione morale. La sua visione delle caratteristiche psicofisiche fondamentali dell’individuo esclude nettamente che si possa realizzare un’efficace limitazione dei bisogni, dei desideri, degli «appetiti», senza un intervento di forze che si impongano dall’esterno. Secondo Durkheim era necessario limitare il ruolo del mercato per valorizzare appieno il potenziale integrativo della divisine del lavoro. Tuttavia, egli era convinto che non fossero sufficienti nuove regole istituzionali di tipo esclusivamente economico. La stabilità delle attività economiche non dipendeva soltanto dalle ricompense economiche, ma da requisiti non economici: da criteri di valutazione condivisi, relativi ai rapporti tra prestazione e ricompense per i diversi compiti specializzati. Nelle società moderne, basate sul valore dell’individuo, tali criteri dovevano necessariamente ispirarsi a principi meritocratici. Di conseguenza, la mera sostituzione del capitalismo liberale con un capitalismo più organizzato, o con qualche forma di socialismo basata sul controllo statale, non sarebbe stata di per sé sufficiente a risolvere i problemi posti dalla divisione del lavoro. Polanyi Dominio del mercato e autodifesa della società Karl Polanyi non si può considerare in senso stretto come un sociologo economico. Egli si mosse tra la storia economica, l’antropologia e la sociologia della vita economica, in un percorso complesso e originale che riflette molteplici esperienze culturali. L’economia come processo istituzionale Pur con le specificità del suo percorso e dei suoi interessi, anche Polanyi è un istituzionalista. Istituzionalismo vuol dire anzitutto per Polanyi che l’azione economica non è comprensibile in ermini individualistici, ma è influenzata dalle istituzioni sociali. Anch’egli critica dunque l’idea dell’«uomo economico», caratterizzato da una propensione psicologica individuale al baratto, allo scambio e al commercio. «Aristotele aveva ragione: l’uomo è un essere sociale, non economico. Più che a salvaguardare il suo interesse individuale per l’acquisizione di possessi materiali, egli mira al consenso sociale, allo status sociale, ai vantaggi sociali». Le economie primitive non sarebbero comprensibili se si attribuissero ai loro protagonisti motivazioni utilitaristiche. Esse funzionano sulla base di complesse reti di obbligazioni condivise che motivano il comportamento individuale. Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia di mercato, il perseguimento del guadagno è diventato rilevante. Ciò è avvenuto perché l’economia ha cominciato a essere sempre più regolata dal mercato, cioè da un’istituzione che favorisce e incentiva un’azione economica improntata alla ricerca del guadagno. Dunque, l’idea di Adam Smith di una propensione naturale dell’uomo al commercio, da cui doveva nascere il concetto di «uomo economico», era il frutto di un fraintendimento della storia economica del passato, ma anticipava un sistema economico in cui «la razza umana era spinta in tutte le sue attività economiche, se non addirittura in tutte le sue intraprese politiche, intellettuali e spirituali». Per Polanyi l’indagine economica non può essere separata dal contesto storico. Non è possibile, se non su un piano astratto e analitico, formulare leggi economiche generali. Nella realtà storico-empirica esistono «tipi di economie», «sistemi economici» in cui le attività di produzione, distribuzione e scambio di beni, senza le quali la società non potrebbe sussistere, sono regolate da particolari istituzioni che si modificano storicamente. Polanyi individua tra principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e scambio di beni, che egli chiama «forme di integrazione» dell’economica: reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato. • Quando prevale la reciprocità, come nelle economie primitive, beni e servizi vengono prodotti e scambiati sulla base di aspettative di ricevere altri beni o servizi secondo modalità e tempi fissati da norme sociali condivise. Tali norme di reciprocità si fondano su specifiche istituzioni che le sostengono e sanzionano in varie forme coloro che non le rispettano. • Già nelle economie primitive, ma più spesso nelle società più evolute dell’antichità con dimensioni territoriali e unità politiche più ampie, alla reciprocità si affianca la redistribuzione, fino a diventare via via la forma di integrazione prevalente. In questo caso i beni vengono prodotti e allocati sulla base di norme che stabiliscono le modalità delle prestazioni lavorative, l’entità delle risorse che devono essere trasferite a un capo politico il quale a sua voltale redistribuisce ai membri della società secondo determinate regole. Si possono quindi avere meccanismi di redistribuzione più egualitari e altri invece che comportano più forti diseguaglianze tra i gruppi sociali. Dal punto di vista delle istituzioni che SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 30 merci ma di «merci fittizie»; tuttavia, trattarle come tali, come è richiesto dal sistema economico basato sui mercati autoregolati, porta a conseguenze distruttive per la società. «Per quanto riguarda lavoro, terra e moneta un tale postulano non piò essere sostenuto; permettere la meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli essere umani e del loro ambiente naturale e perfino nella quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società». Per quel che riguarda anzitutto il lavoro, Polanyi sottolinea come la sua riduzione a merce, il cui lavoro è fissato dalla domanda e dall’offerta sul mercato, ha pesati conseguenze sulle condizioni di vita di masse crescenti di popolazione. Il processo di formazione del mercato del lavoro si accompagna alla progressiva distruzione delle forme di protezione tradizionale, sia quelle legate alle strutture della parentela, del vicinato, della professione, che quelle direttamente dipendenti dal potere politico. In tal modo gli individui e le loro famiglie furono sradicati dal contesto ambientale e sociale in cui vivevano e costretti a spostarsi per ricercare occasioni di lavoro. Le loro condizioni di vita vennero a dipendere esclusivamente dagli alti e bassi del mercato. Con il mercato del lavoro si creò anche una miseria moderna, fino ad allora sconosciuta alle società tradizionali, dove la sussistenza era sempre stata garantita dal modo in cui le istituzioni sociali e politiche incorporavano e regolavano l’economia. D’altra parte, conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal punto di vista della natura. La piena commercializzazione del fattore terra e l’abolizione di restrizioni istituzionali al commercio dei beni agricoli, volte a protegger forme di autoconsumo e di sussistenza a livello sociale, determinò crescenti sconvolgimenti sia nelle aree più sviluppate dell’Occidente che in quelli dei continenti più arretrati, sottoposte ai regimi coloniali. Il libero scambio dei prodotti, accompagnato dal miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli, specie nel continente europeo, resto inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne alla ricerca di un lavoro e si determinò la «distruzione della società rurale». Ma con essa cominciò ad essere messa e repentaglio anche la natura, per le conseguenze dirompenti sull’ambiente. Infine, Polanyi nota che la stessa riduzione della moneta a merce acquistata e venduta sul mercato determina conseguenze sociali dirompenti. Nel sistema dei mercati autoregolati, la monera diventa un mezzo di scambio legato all’oro (base aurea). In questo modo venivano a essere incoraggiati gli scambi internazionali perché si garantiva la stabilità del cambio, ma crescevano i rischi per l’economia interna. Infatti, se per esempio si fosse verificato una crescita delle impostazioni, ciò avrebbe comportato un deflusso di oro e quindi una riduzione della quantità di moneta circolante in un paese. Da qui una diminuzione della moneta disponibile per i pagamenti interni e quindi un calo delle vendite che colpiva le attività produttive e generava disoccupazione. Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità di funzionamento dell’economia. È proprio per questo che cominciano a manifestarsi delle reazioni, dei meccanismi di «autodifesa della società». Per quel che riguarda il lavoro, la reazione a livello sociale si esprime con lo sviluppo del movimento operaio, la crescita delle organizzazioni sindacali e dei partiti socialisti. In forme diverse nei vari paesi, ciò si accompagna a una nuova legislazione del campo sociale e del lavoro, che ha l’obiettivo di limitare la dipendenza delle condizioni di vita delle possibilità offerte dalla mera vendita della forza lavoro sul mercato. Ma accanto al protezionismo del lavoro si manifesta anche, specie nell’Europa continentale, quello agrario. Di fronte alla crisi delle strutture agrarie tradizionali, sfida e dalla penetrazione del mercato e dell’accresciuta concorrenza, crescono le pressioni per una legislazione che limiti l’esposizione al mercato. Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversi sulla società e sull’economia di mercato. Dal lato della società, attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi dal mercato, ma dal lato dell’economia genera vincoli crescenti che intralciano il funzionamento del mercato autoregolati nel campo dei fattori produttivi. Si riduce la flessibilità e cresce il costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitano gli scambi commerciali. Così, l’aumento del costo della vita, legato al protezionismo agrario che fa salire il prezzo dei beni alimentare per i consumatori nazionali, alimenta le rivendicazioni salariali degli operai, e ciò spinge gli industriali a chiedere nuovi dazi e protezioni anche per il loro settore. L’effetto complessivo che ne discende, nota Polanyi, è un restringimento del commercio e degli scambi internazionali, che limita le possibilità di smercio dei beni proprio nel momento in cui il progresso delle tecniche aumenta la produttività delle imprese. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 31 «Le tariffe di importazione di un paese ostacolavano le esportazioni di un altro e l’obbligavano a cercare mercati in regioni politicamente non protette. L’imperialismo e una semiconsapevole preparazione all’autarchia rappresentavano la tendenza di potenze che si trovavano sempre più dipendenti da un sistema economico mondiale sempre meno sicuro». Le cause della crisi sono quindi sociali e politiche. È il nuovo protezionismo istituzionale innescato dall’autodifesa della società che irrigidisce e alla fine blocca il funzionamento dei mercati. Questa lettura della crisi economica, che evidentemente allontana Polanyi da Marx, lo spinge anche a intravedere dei tratti comuni nelle nuove dorme di regolazione dell’economia che si vanno affermando sulle ceneri del capitalismo liberale. Joseph Schumpeter Declino della borghesia e politiche anticapitalistiche Joseph Schumpeter concepì lo studio dei fenomeni economici in modo originale, ponendosi al di fuori degli schemi convenzionali. Per Schumpeter, il cambiamento economico deve essere posto al centro dell’indagine. Tale prospettiva lo spinge inevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni. Economia e sociologia economica Al problema della definizione dei confini tra economia e sociologia economica egli sottolinea come nell’ambito della scienza economia ogni contrapposizione tra approccio storico e approccio teorico è sbagliata. Occorre invece distinguere tra teoria economica, storia economica e sociologia economia. Ciascuna di queste prospettive d’indagine ha una sua legittimità e una sua utilità, ma bisogna evitare di confonderle usandole insieme in modo non sorvegliato. Tuttavia, l’economista teorico deve conoscere anche gli strumenti delle altre discipline, ai quali vanno inoltre aggiunti quelli della statistica, perché non è possibile passare dai modelli analitici astratti all’indagine sulla realtà sociale senza una conoscenza della storia e del ruolo delle istituzioni. Schumpeter sottolinea che per analizzare le attività economiche concrete occorre tenere conto della loro collocazione nel processo storico. Da qui l’importanza della storia economica, perché per il suo tramite è possibile comprendere come i fatti economici e quelli non economici si combinino tra loro nell’esperienza concreta, e come tale combinazione cambi nel tempo. D’altra parte, l’importanza che assumono i fattori non economici, cioè gli aspetti istituzionali, nel condizionare le attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio fa sì che si debba anche prendere in considerazione il contributo della sociologia economica. Per Schumpeter, l’economia scientifica comprende «il complesso delle tecniche storiche, statistiche e teoriche insieme coi risultati che esse aiutano a ottenere». Imprenditorialità e sviluppo economico Il punto di partenza dell’analisi del giovane Schumpeter si individua chiaramente nell’insoddisfazione peri limiti della prospettiva economia tradizionale, giudicata incapace di uscire da una visione statica dell’equilibrio economico. Essa, infatti, non è in grado di spiegare la discontinuità nel modo tradizionale di produrre, non riesce a cogliere le rivoluzioni produttive. La crescita è dunque distinta dallo sviluppo, per il quale gli strumenti dell’economia tradizionale, volti allo studio dell’allocazione di risorse date, non funzionano. La crescita è un fenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti, il secondo implica invece una discontinuità. Lo sviluppo è caratterizzato dall’«introduzione di nuove combinazioni». La novità può riguardare cinque dimensioni: la creazione di prodotti, l’introduzione di metodi di produzione, l’apertura di mercati, la scoperta di fonti di approvvigionamento di materie prime o semilavorati, la riorganizzazione di un’industria. Egli riconosce che la discontinuità rispetto alla routine del «flusso circolare», cioè di un’economia che si perpetua senza un’alterazione sostanziale dei modi di produrre e dei rapporti tra consumatori e produttori, può derivare da motivi extraeconomici, come la crescita della popolazione, o da improvvisi rivolgimenti sociali e politici. Il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato «al fatto che taluni individui, scavalcando l’esperienza economica e la routine sperimentata e abituale, riconoscono e attuano nuove possibilità entro i rapporti dati della vita economica». Chi sono allora questi individui? E quale ruolo giocano nel processo economico? Lo sviluppo è il risultato dell’azione degli imprenditori. Essi introducono nuove combinazioni dei mezzi di produzione, realizzano un’innovazione in una o più delle dimensioni prima indicate, che riguardano i prodotti, i metodi di produzione e i mercati. Non basta differenziare il capitalista, come proprietario dei mezzi di produzione o del capitale, e l’imprenditore come dirigente di un’impresa che può non esserne proprietario. Occorre distinguere meglio nell’ambito delle attività di direzione e gestione delle imprese SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 32 (cioè il management) tra quelle che hanno un carattere di routine e quelle che portano all’innovazione, a «realizzare cose nuove». È a queste ultime che va collegato il senso specifico il concetto di imprenditore. Da quest’impostazione discendono una serie di conseguenze. • Anzitutto, l’imprenditore può essere il classico uomo d’affari autonomo, ma può anche essere un lavoratore dipendente, cioè un manager; • Non è necessario un rapporto continuativo con una singola impresa; • Gli imprenditori non appartengono a una specifica classe sociale. Per effetto della loro attività possono conseguire un successo economico che li trasforma in proprietari dei mezzi di produzione o del capitale, cioè li fa diventare «capitalisti». Schumpeter sottolinea dunque il legame tra credito e innovazione. Egli è però ben consapevole che anche la moltiplicazione di potere d’acquisto dei mezzi di produzione non sarebbe sufficiente per la realizzazione effettiva dell’innovazione se non ci fossero delle risorse non economiche che consentono di utilizzare concretamente il capitale a fini di sviluppo. Si tratta di particolari qualità di leadership che non sono ugualmente diffuse tra i membri di una determinata società, ma sono invece rare e concentrate in alcuni individui particolari. Anche da questo punto di vista la prospettiva di Schumpeter si allontana da quella della teoria economica tradizionale. Quest’ultima tende infatti a vedere nell’imprenditore un soggetto capace di calcolo razionale in modo da allocare le risorse per rispondere ai vincoli posti dal mercato. Tale visione appare plausibile allo studioso austriaco, a solo nell’ambito di un’economia routinaria, che non esce dai canali tradizionali e ben consolidati. Se si esce dalle condizioni dell’economia stazionaria, le cose cambiano sensibilmente e si richiedono qualità particolare non riducibili al tradizionale calcolo razionale. Le cose cambiano, dunque, quando si realizza un’innovazione. In questo caso è anzitutto necessario misurarsi con carenze di informazioni, con condizioni di maggiore incertezza di quando si opera in un contesto di operazioni tradizionali, ormai ben consolidate. In secondo luogo, bisogna combattere e vincere le resistenze che vengono dall’interno stesso del soggetto che deve innovare, cioè dai suoi schemi mentali già consolidati, che possono essere un ostacolo. Infine, occorre superare le resistenze dell’ambiente sociale. Ci possono essere «impedimenti giuridici e politici» che ostacolano l’innovazione, così come la disapprovazione sociale per pratiche che fuoriescono dai canali della tradizione può costruire un ostacolo potente da superare, specie nelle società meno sviluppate. Anche in quelle in cui l’economia di mercato si è già consolidata ci sono comunque resistenze legate a vari fattori: i gruppi minacciati dall’innovazione, le difficoltà di trovare la cooperazione necessarie o di convincere i consumatori a cambiare prodotti. I diversi tipi di ostacoli prima ricordati fanno sì che l’innovazione non possa essere praticata da tutti i soggetti economici, ma richiede qualità specifiche di leadership che sono poco diffuse. Lo studioso austriaco chiarisce ancor meglio i legami dell’imprenditore-innovatore con un particolare retroterra sociale e istituzionale. Vengono così distinti quattro tipi. Nella fase inziale dell’economia di mercato, prevale la figura del padrone di fabbrica che unisce insieme i compiti amministrativi, tecnici, commerciali. Egli è anche proprietario dei mezzi di produzione, pur se di solito la proprietà è una conseguenza della capacità di innovazione. D’altra parte, in questo contesto istituzionale, i nuovi imprenditori possono più spesso provenire dalle famiglie imprenditoriali già consolidatesi. Viceversa, in una fase più evoluta del capitalismo, con la separazione tra proprietà e gestione, l’imprenditore può assumere due sembianze diverse: quella del capitano d’industria, proprietario del capitale azionario, che innova operando soprattutto attraverso il controllo finanziario sulle aziende; oppure quella del manager di formazione tecnica, distaccato dagli interessi capitalistici e spinto a innovare dal suo orientamento alla buona prestazione professionale. Infine, emerge la figura specifica dell’imprenditore puro, il fondatore d’imprese, che intrattiene con esse solo rapporti temporanei. Può sopravvivere il capitalismo? Secondo Schumpeter, in accordo in Marx, il capitalismo non sarebbe sopravvissuto, ma non per fattori di natura economica, bensì per le reazioni culturali e sociali che il suo funzionamento provocava. Ci concentreremo dunque sulle trasformazioni del capitalismo. L’argomento si articola logicamente in due parti. Anzitutto, lo studioso austriaco vuole mostrare come dal punto di vista economico il capitalismo liberale, basato sul ruolo preminente del mercato, potrebbe continuare ad assicurare dinamismo e sviluppo. L’attenzione si sposta quindi sui fattori culturali e istituzionali, per mostrare che il cambiamento di questi elementi, indotto dallo stesso sviluppo del capitalismo, è in realtà il principale responsabile del destino dell’economia di mercato. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 35 I cambiamenti dell’economia e la «rivoluzione keynesiana» Per interpretare l’evoluzione della sociologia nel secondo dopoguerra dobbiamo considerare quel che riguarda gli sviluppi interni all’economia e alla sociologia che influiscono sulla ridefinizione dei loro confini. Un primo mutamento importante riguarda l’indagine economica. La sociologia economia della fase originaria si era misurata con l’economia neoclassica, la quale aveva lasciato largamente sguarnito il terreno dell’indagine storico-empirica sui concreti sviluppi dei sistemi economici. Nella teoria neoclassica tradizionale erano prese in considerazione due strutture ideali di mercato: quella di concorrenza perfetta e quella monopolistica. Queste configurazioni apparivano tuttavia poco adatte a descrivere la realtà concreta dei mercati. Da qui l’interesse, che si manifesta nei primi anni ’30, per delle forme di mercato definite come «concorrenza imperfetta». Alcuni autori mettono in discussione, da punti di vista diversi, l’idea di mercati concorrenziali nei quali vengono trattati beni omogenei. Tale caratteristica dei beni permette infatti il funzionamento di mercati concorrenziali perfetti, basati sull’ipotesi che i consumatori reagiscano nello stesso modo a differenze di prezzo dei beni prodotti, spostandosi tutti verso i beni a più basso costo. Nella realtà empirica le cose vanno però difficilmente in questo modo. A prescindere dai problemi di informazione, i consumatori non necessariamente rispondano in modo analogo a differenze di prezzo nei prodotti, perché nel loro comportamento di consumo tengono conto di vari fattori tra cui la localizzazione del venditore e i costi di trasporto, ma anche le garanzie sul piano della qualità o le facilitazioni nelle condizioni di vendita. Da qui il concetto di concorrenza monopolistica per descrivere le forme di mercato prevalenti nella realtà empirica. È evidente come questi studi abbiano importanti implicazioni sia per gli assunti teorici che per gli interventi di politica economia tradizionalmente associati all’economia neoclassica. Basti riflettere sul fatto che nelle condizioni di concorrenza delineate dai nuovi studi per cogliere meglio la realtà empirica, i vantaggi per il consumatore si riducono. Infatti, la concorrenza monopolistica fa sì che si possano pagare prezzi più alti rispetto a quelli di concorrenza, perché le imprese riescono esercitare un controllo sui prezzi attraverso la differenziazione del prodotto. D’altra parte, è anche difficile per nuove aziende entrare nel mercato. Vengono quindi messi in discussione i tradizionali principi della sovranità del consumatore e dell’efficienza dei mercati concorrenziali, e si apre il terreno per una ridefinizione degli strumenti di regolazione politica dei marcati che possano ridurre questi problemi. Ma il «ponte verso la realtà» che ha certo avuto più influenza sul piano teorico e pratico, nel quarantennio che va dalla fine degli anni ’30 ai primi anni ’70, è costituito dall’opera dell’economista inglese John Keynes, una caratteristica curiosa della cosiddetta rivoluzione keynesiana è quella di essere stata anticipata di fatto dalle politiche economiche concrete di molti governi. In effetti, la necessità di misurarsi con gli effetti drammatici della Grande Depressione degli anni ’30 aveva spinto a rompere con l’ortodossia economica, che confidava nei meccanismi di riaggiustamento automatico dei mercati. E così, in contesti tanto diversi come per esempio l’America del New Deal di Roosevelt, la Germania nazista di Hitler furono sperimentati rimedi contro la disoccupazione che ruotavano intorno alla spesa statale per opere pubbliche, sussidi di disoccupazione, nuove forme di protezione sociale. Insomma, lo Stato aveva di fatto assunto un ruolo più interventista e più attivo in campo economico, contravvenendo alle prescrizioni della teoria economia tradizionale. Lo stesso Keynes aveva condiviso e sostenuto le nuove idee e le nuove pratiche politiche. Tuttavia, il suo ruolo fu decisivo nel dare a questi esperimenti una solida formazione teorica, usando il linguaggio e gli strumenti della scienza economica, che egli ben conosceva come economista. Secondo Keynes, «molti dei maggiori mali economici del nostro tempo sono frutto del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza». Sono queste le cause principali delle difficoltà che possono limitare il pieno impiego delle risorse produttive e causare la disoccupazione. Ed è proprio per far pronte al problema cruciale degli effetti negativi dell’incertezza che si deve prevedere un ruolo più rilevante dello Stato nella regolazione delle attività economiche. L’esempio fondamentale che Keynes fa, a questo proposito, è quello del rapporto tra risparmi e investimenti. Queste convinzioni, che l’economista inglese aveva maturato anche in relazione con la sua intensa attività pubblicistica e di consulenza a organismi governativi, troveranno una sistemazione teorica più rigorosa nella Teoria generale. Con questo lavoro Keynes sposta il fuoco dell’indagine economica dal livello micro a quello macro. Mentre l’economia neoclassica si interrogava intorno alla formazione dei prezzi dei beni e alla distribuzione dei redditi, l’attenzione si concentra ora sui fattori che influiscono sul livello della produzione e dell’occupazione, dato un certo stock di risorse di capitale, di lavoro e di tecnologia. Si noterà, dunque, che Keynes si muove in un quadro statico e di breve periodo. Si tratta dell’assunto che l’offerta crea sempre la sua domanda: quale che sia il volume della produzione, il valore della domanda sarà uguale a quello dei beni prodotti. Ci potranno essere, naturalmente, squilibri momentanei tra domanda e offerta, ma la concorrenza si incaricherà di riallocare le risorse in modo da garantire il loro pieno impiego. Misurandosi con i problemi economici e occupazionali posti dalla Grande Depressione, e con l’evidente difficoltà di riaggiustamento degli squilibri che incontravano i mercati autoregolati, Keynes si convinse che fosse necessario mettere in discussione questo assunto centrale della teoria tradizionale. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 36 Per seguire il ragionamento sviluppato da Keynes occorre tenere presente che, tecnicamente, la domanda può essere vista come risultante di due componenti: la parte di reddito spesa in consumi a quella che viene investita. Quest’ultima deriva a sua volta dal reddito risparmiato. La teoria tradizionale supponeva che i risparmi si traducessero interamente da investimenti. Il meccanismo che assicurava questo esito era il tasso di interesse. A tassi elevati corrispondono minori investimenti e viceversa. Il punto di attacco di Keynes riguarda proprio l’uguaglianza tra risparmi e investimenti. In realtà, essa non può esser data per scontata ex ante per diversi motivi. Anzitutto, occorre considerare che la propensione a consumare diminuisce con il crescere del reddito. Ciò vuol dire che aumenta nel tempo la quota del reddito risparmiato. D’altra parte, anche in presenza di un basso tasso di interesse, non necessariamente si avranno maggiori investimenti che utilizzino tutti i risparmi possibili. Ciò è dovuto al fatto che le decisioni di investimento sono prese dagli imprenditori non solo in funzione del tasso di interesse, ma soprattutto delle aspettative sui rendimenti futuri dell’investimento. Se queste ultime sono negative, se cioè gli imprenditori non prevedono un aumento delle vendite e prezzi tali da garantire i profitti, non investiranno anche in presenza di bassi tassi di interesse. Da qui la possibilità reale di un utilizzo delle risorse disponibili più basso di quello che sarebbe necessario per assicurare la piena occupazione. Infine, è da considerare che, anche ammesso che i lavoratori siano disponibili ad accettare una riduzione dei salari, ciò non sarebbe necessariamente vantaggioso per la ripresa delle attività economiche, come riteneva la teoria tradizionale, perché avrebbe influito negativamente sulla domanda di consumo e avrebbe quindi rafforzato le aspettative sfavorevoli degli imprenditori. È da notare che Keynes, pur riconoscendo che i salari tendono a essere rigidi, perché i lavoratori e le organizzazioni sindacali si oppongono a riduzioni delle retribuzioni anche in situazioni di crisi economica, non fonda la sua analisi su questo aspetto. In tal caso egli non avrebbe infatti innovato rispetto alla teoria tradizionale, che vedeva nella rigidità dei salari una causa istituzionale cruciale del mancato raggiungimento della piena occupazione. L’economista inglese vuole piuttosto dimostrare che, anche in presenza di una flessibilità dei salari, si può determinare una disoccupazione involontaria. Questo ragionamento spingeva Keynes a considerare che i rimedi che la teoria tradizionale suggeriva in caso di depressione poteva in realtà determinare un equilibrio di sotto-occupazione, una sorta di trappola nella quale il sistema economico rischiava di avvitarsi senza un intervento dello Stato. L’attore pubblico poteva contribuire in maniera decisiva a risolvere il problema controllando il credito e abbassando il tasso di interesse, ma sarebbe soprattutto dovuto intervenire in quelle situazioni in cui le aspettative imprenditoriali, legate al fondamentale fattore dell’incertezza, non erano tali da assicurare a piena traduzione dei risparmi in investimenti. È evidente come questa impostazione modifichi radicalmente la concezione dei rapporti tra Stato e mercato ereditata dalla teoria economica tradizionale. Mentre quest’ultima dava una giustificazione teorica al liberismo, l’analisi keynesiana dà fondamento all’interventismo dello Stato come regolatore della domanda. Dal punto di vista della politica economica ne discendono alcune indicazioni che per un verso legittimano ciò che vari governi avevano di fatto già sperimentato per far fronte ai problemi della Grande Depressione, e per un altro rappresentano una guida per le azioni future che sarebbe poi stata ulteriormente affinata dagli economisti keynesiani. In proposito sono da ricordare alcuni aspetti delle nuove politiche economiche. Il primo è costituito dal «deficit spending», cioè dalla spesa pubblica in disavanzo. In effetti, nel quadro keynesiano, la spesa pubblica è tanto più efficace quanto più tende a stimolare una domanda aggiuntiva. Il problema non è infatti quello di far crescere la capacità produttiva, ma appunto di aumentare la domanda attraverso un maggior reddito. Vi è infine un’altra questione di grande rilievo per i suoi legami con l’azione dei governi, specie nel dopoguerra. Nel quadro keynesiano, la propensione a consumare diminuisce con il crescere dei redditi. Essa sarà quindi minore nei gruppi sociali più ricchi. La possibilità di raggiungere un equilibrio di piena occupazione è allora legata non solo all’intervento dello Stato sulla domanda, ma anche alla possibilità di far crescere i consumi. Ciò significa che possono essere giustificati, in contrasto con la teoria tradizionale, anche interventi redistributivi dello Stato a favorire dei gruppi più poveri della popolazione proprio al fine di stimolare la domanda. Il nuovo quadro keynesiano aveva tutti gli ingredienti per diventare un potente strumento di riordinamento dell’indagine economica, ma anche del ruolo dello Stato nell’economia e nella società secondo quelle linee che abbiamo già richiamato. I due aspetti sono ovviamente collegati. L’economia keynesiana si basa sul breve periodo e considera data la capacità produttiva. Ben presto, però, economisti influenzati dalle nuove idee cominciarono a esplorarne le implicazioni in termini dinamici e a porsi il problema della crescita economica. Tra i primi e più noti va ricordato il modello Harrod-Domar, dal nome dei due economisti che lavorando indipendentemente arrivarono a formulazioni simili. I modelli macroeconomici cercano di stimare a quale condizione può essere mantenuto nel tempo l’equilibrio tra domanda effettiva e aumento della capacità produttiva, date certe condizioni come la propensione al risparmio e la produttività del capitale investito. In tal modo vengono forniti elementi conoscitivi per le decisioni delle autorità pubbliche. In particolare. È da notare come con la predisposizione di questi SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 37 strumenti si possano guidare le scelte dei governi non solo per raggiungere il pieno impiego di risorse esistenti, ma anche per determinare gli obiettivi di crescita economica nel tempo. La nuova political economy Si sviluppa negli anni ’70 una crescente letteratura sulle origini dell’inflazione, si cerca di integrare nella spiegazione del fenomeno dei fattori di natura istituzionale. Si possono distinguere due filoni di tipo neoistituzionale. In entrambi i casi si parla di nuova political economy. I due approcci si distinguono perché entrambi considerano l’azione dei governi e dei protagonisti delle relazioni industriali non come un dato esogeno, ma come un fattore centrale che deve essere spiegato. 1. Filone neoutilitarista: • La causa dell’inflazione far riferimento all’offerta di moneta e cioè all’incapacità dei governi a resistere alle pressioni politiche per un’espansione della spesa (nei confronti delle imprese e dei sindacati), che alimenta una spirale inflazionistica che si autoalimenta; 2. filone istituzionalista: • La causa dell’inflazione fa riferimento alla domanda sociale dei beni. La sua crescita è il risultato di un conflitto distributivo, in un contesto in cui le diseguaglianze sono sempre più delegittimate e la rappresentanze degli interesse sociali hanno acquistato più potere; • L’inflazione, pertanto, è la conseguenza dell’incapacità del sistema di rappresentanza a gerarchizzare le diverse domande e a tenere sotto controllo l conflitto distributivo tra i diversi gruppi. La nuova political economy comparata. In questa teoria l’attenzione è posta sul ruolo dello stato e, i rapporti con l’esterno sono considerati opportunità e vincoli. La capacità d far prevalere gli aspetti più favorevoli allo sviluppo dipende dal ruolo dello stato. I fattori che influenzano l’efficacia dell’intervento statale sono due: una buona macchina statale efficacie ed efficiente e una leadership politica orientata allo sviluppo. Nel complesso la political economy comparata si presenta come una nuova sintesi caratterizzata da una serie di elementi che ne distinguono l’approccio da quelli precedenti. I condizionamenti esterni variano nei diversi contesti e sono mediati dalla capacità strategica dello stato che dipende dal formarsi di coalizioni di interessi economici e sociali che favoriscono o meno l’autonomia delle élite politiche; da tradizioni culturali che garantiscono la legittimazione della leadership; e da tradizioni istituzionali che influiscono sull’efficienza della macchina statale. Fattori culturali e istituzionali condizionano il processo politico ma non è possibile predeterminare le conseguenze. Su di essi incide l’interazione tra gli attori sociali e politici sulla base dei condizionamenti interni e internazionali. Con la caduta del muro di Berlino si sono innescate diverse trasformazioni per quanto riguarda i diritti proprietari e di cittadinanza. Si considerano i network di imprese, basati su reti di relazioni fiduciarie, risorse fondamentale per i processi di ristrutturazione. L’attenzione ai rapporti tra stato e società nei paesi ex comunisti ha alimentato una ricerca di tre idealtipi di percorsi verso il capitalismo: 1. dall’esterno, l’’introduzione dell’economia di mercato avviene attraverso investimenti esteri e l’acquisizione di imprese da parte di multinazionali. Con un’economia dinamica anche se fortemente dipendente dal capitale straniero. (est Europa) 2. Dall’alto: le classi dirigenti si impossessano delle imprese statali trasformandole in attività private. Non si instaura un’economia di mercato ma si fa strada un capitalismo politico. Le difficoltà economiche delle imprese le rendono dipendenti dall’aiuto statale che aumenta la tassazione (Russia) 3. Dal basso: dà luogo ad un capitalismo ibrido, mix dei precedenti. La spinta per l’economia di mercato è venuta da un’imprenditorialità delle piccole imprese. Economia dinamica e lo stato svolge un ruolo importante nella produzione di infrastrutture e capitale umano. (Cina) Dalla political economy comparata viene dunque un’importante conferma della varietà dei processi di modernizzazione sul piano storico – empirico. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 40 così ridotto a esecutore di gesti ripetitivi e rapidi tipici della produzione in serie, divenne in un certo senso servitore piuttosto che utilizzatore della macchina. • Fu così introdotto il cottimo differenziale che consisteva in un sistema redistributivo calcolato e diversificato sulla base della qualità del lavoro svolto. Il cottimo contribuì a migliorare i salari, ma al tempo stesso condusse ad accelerare ulteriormente i ritmi di lavoro e talvolta a creare un ambiente di esasperata competizione tra i lavoratori stessi. La razionalizzazione produttiva ebbe come conseguenze il notevole aumento della quantità di beni prodotti e la diminuzione del loro prezzo. Questo aspetto, unito al miglioramento salariale derivante dal cottimo, creò nuove condizioni di mercato. Alla produzione di massa fece seguito il consumo di massa: grazie anche alla diminuzione dei costi di trasporto e a tecnologie considerevolmente le qualità della vita nei paesi industrializzati: l’alimentazione divenne più ricca e variata, le condizioni igieniche più sicure. Inoltre, la società fu spinta a omologarsi nei gusti e nelle scelte, a perdere l’identità e la particolarità delle comunità ristrette. L’industria, infatti, non trovava ostacoli alla sua espansione se non nella sua medesima capacità di produrre. Ma anche l’esiguo potere d’acquisto dei redditi delle masse popolari di inizio secolo rappresentava un ostacolo. L’industria fordista lo superò erogando salari relativamente alti e introducendo un servizio sanitario e di prevenzione delle fabbriche, uno per ogni livelli di inquadramento, che riduceva i costi per la salute di operai e impiegati, tecnici e dirigenti. I lavoratori si trasformavano da produttori in “consumatori” del loro stesso prodotto: infatti producevano una merce e percepivano un salario adeguato per comprarla. Le merci prodotte venivano vendute a sempre minor prezzo in forza dell’automazione e della produzione in serie, mettendo così in condizione i “produttori-consumatori” di acquistarne sempre di più. Il modello produttivo fordista identificava i diritti dei cittadini con le esigenze del mercato: veniva riconosciuto il diritto di cittadinanza solo a coloro che erano collocati all’interno del mondo produttivo, in funzione della loro capacità di produrre. Nella filosofia fordista la produzione produce il mercato, ossia la fabbrica produce ciò che si “deve” comprare, genera in consumi, e con i consumi le mode, i costumi, le abitudini, i modi di vivere e pensare, e con essi le pseudo e le vere culture. E in effetti le fabbriche non producono quello che i consumatori desiderano comperare, ma i consumatori comprano quello che le fabbriche decidono di produrre. Si può affermare quindi che la fabbrica produce la società. Dunque, la fabbrica è luogo centrale di decisioni strategiche: vi si decide cosa produrre, quanto produrre, con quali tempi e con quali modi. La tradizionale figura del padrone della fabbrica, che con gli operai aveva un rapporto personale e diretto, era sostituita da quella stratta e lontana della società per azioni, in cui uomini sconosciuti e lontani disponevano delle sorte dei dipendenti. La conseguenza di ciò fu che spesso l’intero agglomerato urbano divenne una sorta di appendice della fabbrica: nacquero le “one company town”, città gravitanti intorno alla sua fabbrica più importante della quale dipendeva interamente la maggior parte della popolazione. Per cui il fordismo ha un modello di organizzazione economica che si basa su grandi imprese. Le loro caratteristiche sono: • Interazione verticale (inclusione di diverse fasi produttive, di servizi di ricerca e sviluppo, fino alla distribuzione e al controllo delle fonti di approvvigionamento di materie prima); • Separazione tra proprietà e management. • Produzione di massa di beni standardizzati prodotti in grande quantità con macchine specializzate; • Organizzazione del lavoro tayloristica (divisione del lavoro in compiti semplici e ripetitivi); • Separazione tra ideazione-progettazione ed esecuzione; • Manodopera poco qualificata. Importanti per gestire un’industria di stampo fordista sono la proprietà e la gestione dell’impresa legata ai rapporti con la finanza (ruolo della borsa e delle banche). Inoltre, è fondamentale l’organizzazione del lavoro e il ruolo dello Stato. Caratteri comuni: • il requisito della stabilità (mercati, forza lavoro, organizzazione); • il ruolo dello Stato sociale (politiche di redistribuzione, sostegno alle imprese e di stabilizzazione); • Relazioni industriali (contrattazione collettiva e istituzionalizzazione). Fordismo e post-fordismo vengono assunti dalla letteratura socioeconomica non come descrizione di una particolare filosofia produttiva, ma come paradigmi di un sistema economico globale. Infatti, se per fordismo intendiamo un sistema di produzione centralizzato e parcellizzato, basato sulla catena di montaggio, è bene sapere che solo in pochi Stati e per brevi periodi la forza lavoro industriale ha superato SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 41 il 40% del totale e che mai più del 20-25& di essa ha lavorato alla catena di montaggio. La fabbrica fordista non era la norma nemmeno quando c’era il fordismo. Le imprese fordiste costituiscono il settore più visibile e ad alta produttività dei limiti alla loro estensione: • Tecnologici (richiedono elevati investimenti); • Di mercato (richiedono mercati ampi e stabili). Persiste una domanda di beni non standardizzati prodotti in serie limitata che viene soddisfatta da piccole imprese organizzate in modo diverso (organizzazione del lavoro meno parcellizzata, manodopera specializzata, macchine più flessibili). • Macchine utensili • Beni di alta qualità • Beni a domanda instabile Crisi del fordismo I principali fattori che hanno portato alla cosiddetta crisi del fordismo sono l’aumento del costo del petrolio, materia prima delle industrie, e l’abbandono del regime dei cambi fissi. Inoltre anche la saturazione del mercato dei beni di massa (nuovi stili di vita e modelli di consumo, indotti anche dalle politiche delle imprese) e la concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione. La crescita della conflittualità operaia, gigantismo industriale ed eccesso di complessità organizzativa e introduzione di tecnologie elettroniche in grado di abbassare i costi per produzione non standardizzate di elevata qualità in serie limitata. Lo Stato Sociale Concetti fondamentali L’analisi delle politiche pubbliche è lo studio di come, perché e con quali effetti i diversi sistemi politici perseguono certi corsi di azione per risolvere problemi di rilevanza collettiva. L’analisi delle politiche sociali è allora lo studio di un sottoinsieme di corsi di azione, volti a risolvere problemi e a raggiungere obiettivi di natura «sociale»: problemi e obiettivi che hanno a che fare, in senso lato, con il benessere (Welfare) dei cittadini. In primo luogo, le politiche sociali sono corsi di azione volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità considerate particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere in qualche modo «garantite» dall’autorità dello Stato. Nelle contemporanee democrazie queste norme. Standard e regole sono incorporate nella nozione di cittadinanza sociale. Essere cittadino vuol dire infatti godere non solo di diritti civili e politici, ma anche di specifici diritti sociali, che tipicamente si configurano come diritti-spettanze: questi diritti danno titolo a ottenere risorse e/o fruire di opportunità che sorreggono le condizioni di vita. La cittadinanza sociale contribuisce così alla concreta realizzazione dei grandi ideali normativi della tradizione occidentale moderna: libertà, uguaglianza, solidarietà, sicurezza. In secondo luogo, le politiche sociali sono corsi di azione volti a organizzare concretamente la produzione e distribuzione di queste risorse e opportunità. Gli enti pubblici e i funzionari statali non sono naturalmente gli unici attori delle politiche sociali. Come tutte le politiche pubbliche, anche le politiche sociali sono corsi di azione dei quali si incontrano e interagiscono una pluralità di attori pubblici e non pubblici. Lo Stato può inoltre incidere sulla distribuzione di risorse e opportunità e dunque sulle condizioni di vita dei cittadini non solo attraverso erogazioni dirette, ma anche in maniera diretta, disciplinando l’operato di soggetti non pubblici. Soprattutto in Europa l’apparato statale svolge però un ruolo di primo piano come fornitore diretto di servizi e prestazioni a finalità sociale. Oltre alla nozione di «benessere», due altre nozioni hanno un ruolo importante per la caratterizzazione delle politiche sociali: la nozione di «bisogno» e quella di «rischio»: • La nozione di bisogno connota una carenza, la mancanza di qualcosa di importante e al tempo stesso un oggetto, un bene mancante oppure necessario per sopperire o rimediare alla mancanza; • La nozione di rischio connota invece l’esposizione a determinate eventualità che possono accadere e che, quando si verificano, producono effetti negativi e generano dei bisogni. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 42 Bisogni e rischi costituiscono «sfide» per le condizioni di vita degli individui; a entrambi si può far fronte ricorrendo a risorse e opportunità connesse alla sfera del mercato, alla sfera della famiglia e quella delle cosiddette associazioni intermedie. Con quest’ultima espressione si fa riferimento non solo alle comunità informali come il vicinato o il quartiere di residenza, ma anche a gruppi organizzati come le associazioni di categoria soprattutto ai soggetti del cosiddetto «terzo settore», ossia le organizzazioni di «volontariato» che operano senza fini di lucro. Nel corso del tempo lo Stato ha però assunto un ruolo sempre più rilevante nel garantire la tutela dei principali rischi e bisogni. Le politiche sociali hanno come primo e fondamentale obiettivo quello di definire le norme, gli standard di valutazione e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità fra i cittadini. Queste norme, standard e regole riguardano principalmente il paniere di bisogni e di rischi meritevoli di ricevere una garanzia di tutela da parte dello Stato, data la loro rilevanza per le condizioni di vita. Le politiche sociali forniscono protezione sociale ai cittadini rispetto a panieri codificati di rischi e bisogni che riflettono le caratteristiche di una data società. Il quadrilatero costituito da Stato, famiglia, mercato (del lavoro) e mondo associativo è a volte denominato il «diamante del Welfare». Il sistema di relazioni formali e informali fra le quattro punte del diamante è a sua volta denominato «regime di Welfare» o anche «Welfare mix». Perciò lo Stato svolte tuttavia un ruolo predominante e sovraordinato all’interno del diamante: da un lato esso è infatti il «contenitore» di tutti i processi di produzione di benessere, formali e informali, pubblici e non pubblici; dall’altro, lo Stato è il «regolatore sovrano» di questi processi. Le politiche sociali più importanti sono: le politiche pensionistiche, le politiche sanitarie, le politiche del lavoro e le politiche di assistenza sociale. Esse rispondono a rischi e bisogni diversi. • Le politiche pensionistiche riguardano essenzialmente il rischio della vecchiaia, e in articolare la perdita di capacità lavorativa, e dunque di sicurezza economia, che caratterizza l’età anziana. Oltre alla vecchiaia, le politiche pensionistiche coprono anche il rischio di invalidità e il rischio di morte in presenza di familiari «superstiti». • Le politiche sanitarie riguardano il rischio di malattia e in particolare i bisogni sanitari a esso connesso. • Le politiche del lavoro rispondono essenzialmente al rischio di restare disoccupati. Esse mirano però anche a regolare il mercato del lavoro e a promuovere l’incontro fra domanda e offerta, in modo da prevenire per quanto possibile l’emergenza della disoccupazione. • Le politiche di assistenza sociale hanno per oggetto un ventaglio più sfumato di rischi e bisogni: dalla perdita dell’autosufficienza personale alla povertà economica, dalla difficoltà di accesso all’abitazione ai «carichi familiari», ossia la presenza di persone deboli all’interno dell’unità domestica. Possiamo dire che queste politiche sono volte a garantire l’«inclusione sociale», ossia l’ancoramento di individui a famiglie al tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse e opportunità. All’interno della spesa sociale le politiche pensionistiche sono quelle di gran lunga più consistenti sotto il profilo quantitativo; seguono le politiche sanitarie, quelle per il lavoro e infine quelle di assistenza. Nelle democrazie contemporanee, le politiche sociali costituiscono un sistema relativamente integrato di politiche pubbliche: hanno caratteristiche comuni sono spesso collegate fra loro sul piano organizzativo e finanziario, sono percepite dai cittadini come facenti parte di un insieme più o meno coerenti di corsi di azione volti a garantire loro protezione sociale, a tutelare e promuovere il loro benessere, per il tramite di diritti-spettanze e di interventi diretti dello Stato. Nel dibattito politico e accademico, l’insieme delle politiche sociali è spesso denotato con l’espressione di stato di benessere o Welfare State. • Il Welfare State è anzitutto un insieme di politiche pubbliche, ossia di corsi di azione che poggiano sull’autorità di trasformazioni economiche sociali e politico-istituzionali che le scienze sociali hanno definito «processo di modernizzazione». Tale processo ha interessato, in tempi e con ritmi variabili, le società europee a partire dal XIX secolo, trasformando la loro struttura produttiva e occupazionale, i loro modelli di organizzazione sociale, i loro sistemi politici e amministrativi. In buona misura, il Welfare State è nato proprio come risposta alla nuova configurazione di rischi e bisogni originata dalle dinamiche di modernizzazione. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 45 degli anni Ottanta e Novanta, anche su pressione della crisi economica originatesi nel decennio precedente. 3. La terza premessa era costituita dalla stabilità dell’istituto familiare, nonché dalla tradizionale divisione del lavoro tra i due generi, per cui gli uomini erano essenzialmente responsabili di una produzione «coperta» dalle assicurazioni sociali e le donne da una riproduzione a «carico». Gli anni Settanta rappresentano un decennio di svolta anche causati dai crescenti tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro nonché della più generale ridefinizione dei rapport di genere e dei diritti delle donne, con conseguenti ripercussioni sulla stabilità dei matrimoni e delle famiglie. 4. La quarta premessa era costituita da strutture demografiche relativamente equilibrate nella loro composizione interna. A partire, di nuovo, dalla metà degli anni Settanta, è diventato invece chiaro che il declino della fertilità iniziato pochi anni prima era una tendenza ormai strutturale e di lungo periodo. L’invecchiamento della popolazione che ne è conseguito ha profondamente alterato gli equilibri demografici sottostanti al Welfare State, aggravando i già acuti problemi di ordine finanziario. Alle tensioni demografiche di natura endogena si sono poi aggiunte anche tensioni di natura esogena, connesse al crescente afflusso di immigrati dai paesi meno sviluppati. 5. La quinta premessa era di ordine socioculturale: entrambi i modelli di Stato sociale presumevano aspirazioni morigerate e stabili da parte dei loro beneficiari, ossia congrue rispetto ai profili attuariali della propria categoria oppure limitate a livelli di adeguatezza «minima». 6. Infine, la sesta premessa su cui poggiavano gli assetti del Welfare edificati durante gli anni d’oro era la solidità e la centralità dello Stato-nazione come bacino di riferimento sia ai fini della redistribuzione sia ai fini della giurisdizione. Le dinamiche dell’interdipendenza economica e dell’integrazione politica interna o addirittura sovranazionale hanno tuttavia gradualmente eroso anche questa premessa nel corso degli ultimi trent’anni, soprattutto nell’area europea. Crisi del Welfare Si guarda a tre dimensioni: crisi fiscale, crisi di legittimazione e crisi di funzionamento. per crisi di legittimazione si intende l’indisponibilità del popolo a farsi carico del benessere comune. Vecchie premesse (continuo crisi del Welfare) Non c'è più un’economia in crescita diminuisce L occupazioni industriale, prima le famiglie erano più stabili e c'erano meno divorzi, la struttura demografica in equilibrio, aspettative morigerate e stabili e solidità e centralità dello Stato Nazionale. Questo causò delle trasformazioni come: rallentamento dello sviluppo, restrizione della base contributiva, invecchiamento della popolazione e migrazioni, aspettative crescenti e internazionalizzazione economica perdita di capacità di governo dello Stato Nazione. La ricalibratura del Welfare State Il dibattito sulla crisi e riforma del Welfare State ha cercato a lungo un termine attraverso cui interpretare la direzione del cambiamento istituzionale. Inizialmente hanno prevalso i termini «negativi», come tagli oppure ridimensionamento. Successivamente hanno cominciato a essere utilizzati termini più neutrali sotto il profilo sia descrittivo sia valutativo: ad esempio modernizzazione, riconfigurazione, ristrutturazione. Vari autori hanno proposto il termine ricalibratura. Con questa espressione si vuole connotare un processo di cambiamento istituzionale caratterizzato da: • La presenza di un insieme di vincoli, di natura sia esogena che endogene, che condiziona le scelte dei decisori politici; • L’interdipendenza fra eventuali scelte espansive o migliorative e scelte restrittive o sottrattive, in conseguenza dei vincoli; • Uno spostamento deliberato dall’enfasi posta sui diversi strumento e obiettivi delle politiche sociali: sia all’interno di ciascuna politica sia fra diverse politiche. Il concetto di «ricalibratura» può a sua volta essere articolato in alcune sottodimensioni: • La ricalibratura funzionale concerne i rischi in risposta ai qual i sistemi di Welfare si sono sviluppati nel corso del tempo e si riferisce a quegli interventi volti a bilanciare le diverse funzioni di protezione sociale; • La ricalibratura distributiva riguarda i gruppi sociali e si riferisce a quegli interventi che mirano a ribilanciare in grado di protezione sociale delle categorie ipergarantite; SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 46 • La ricalibratura normativa si riferisce invece a norme o valori e denota quelle iniziative di natura simbolica che forniscono argomentazioni e «buone ragioni» per trasformare lo status quo in quanto inefficiente. Inefficace e iniquo. Due modelli di Welfare Nella prima metà del XX secolo erano individuati due modelli di Welfare State: il modello universalistico e quello occupazionale. Il principale criterio di distinzione fra questi due modelli è il «formato di copertura»: ossia le regole di accesso e affiliazione ai principali schermi di protezione sociale, in particolare quelli pensionistici e quelli sanitari: nel principio universalistico (adottato dai persi angloscandinavi) gli schemi di protezione sociale coprono tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro protezione lavorativa; nel modello occupazionale (adottato dalla grande maggioranza dei paesi europeo- continentali) gli schemi di protezione sociale sono invece rivolti ai lavoratori, che vengono coperti da una pluralità di schemi occupazionali, con regole diverse gli uni dagli altri. La scelta del formato di copertura è stata storicamente molto importante in quanto ha definito i confini interni del Welfare State, gli ambiti di condivisione dei rischi sociali e dunque il raggio della solidarietà e della redistribuzione. I modelli universalistici hanno creato un unico grande bacino di solidarietà e redistribuzione, corrispondente all’intera comunità politica. I modelli occupazionali hanno invece assecondato le tradizionali demarcazioni tra settori produttivi, e gerarchie occupazionali, frammentando la comunità politica in tante diverse collettività redistributive. La scelta del chi includere nei nuovi schemi pubblici di protezione in merito a quanto e come proteggere. Essa infatti ha sollecitato i vari gruppi sociali a definire i propri interessi e a posizionarsi gli uni nei confronti degli altri di fronte ai nuovi scenari di redistribuzione, valutando le implicazioni sia economiche sia politiche delle varie possibili soluzioni. I tre regimi Secondo Esping-Andersen durante il lungo periodo espansivo del «capitalismo keynesiano» si sono consolidati tre diversi regimi di Welfare: quello liberale, quello conservatore-corporativo e quello socialdemocratico. Con l’espressione regime di Welfare, Esping-Andersen fa riferimento non solo al contenuto delle politiche sociali dello Stato, ma all’intero sistema di interrelazioni fra queste e il mercato del lavoro, da un lato, e la famiglia, dall’altro. In quale misura le politiche sociali hanno offerte ai lavoratori risorse e opportunità per contrastare la loro dipendenza dal mercato del lavoro? E in quale misura queste politiche sono riuscite a creare una «comunità di eguali» di fronte a rischi e bisogni sociali, azzerando le differenze di reddito e di classe? Queste sono per Esping-Andersen le due domande più importanti da porre se siamo interessati a cogliere gli outcomes, gli esiti di un regime di Welfare sul piano delle condizioni di vita. Sul piano analitico, le due domande indentificano due diverse dimensioni di variazione: • La dimensione della demercificazione: Esping-Andersen utilizza questo termine per connotare il grado in cui gli individui situati all’interno di un dato regime di Welfare possono liberamente astenersi della prestazione lavorativa, senza rischiare il posto di lavora, perdite significative di reddito o in generale di benessere; • La dimensione della destratificazione: con questo termina Esping-Andersen connota invece il grado in cui la conformazione delle prestazioni sociali dello Stato attutisce (fino, al limite, ad annullare) i differenziali di status occupazionali o di classe sociale. Regime liberale • Predominanza di misure di assistenza basate sulla prova di mezzi; • Schemi di assicurazione sociale relativamente circoscritti e con formule di prestazioni poco generose; • Destinatari principali: bisognosi, «poveri», lavoratori a basso reddito; • Il Welfare State incoraggia il ricorso al mercato: in modo passivo (minima interferenza e regolazione, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro) o in modo attivo (incentivi per il ricorso a schemi assicurativi non statali); • Demercificazione bassa: forte dipendenza degli individui/lavoratori dal mercato; • Destratificazione bassa: dualismo fra il «Welfare dei poveri» e il «Welfare dei ricchi»; • Casi emblematici: USA, Canada, Australia, Regno Unito. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 47 Regime conservatore-corporativo • Predominanza di schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale; • Formule di computo collegate ai contributi e/o alle redistribuzioni; • Destinatari principali: i lavoratori adulti maschi capofamiglia; • Enfasi sulla «sussidiarietà» degli interventi pubblici: lo Stato interviene solo nella misura in cui i bisogni non trovano risposta a livello individuale, familiare o di associazioni intermedie; • Demercificazione medio-bassa: la dipendenza dal mercato è attenuata ma non annullata; • Destratificazione medio-bassa: il Welfare tende a preservare le differenze di status e classe, nonché la segregazione di genere; • Casi emblematici: Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi. Regime socialdemocratico • Predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale con alti standard di prestazione; • Formule di computo: generose ma non prevalentemente a somma fissa, con finanziamento fiscale; • Destinatari: tutti i cittadini; • Il Welfare State mira a marginalizzare l’importanza del mercato come fonte di risposta ai bisogni e ai rischi sociali; • Demercificazione alta: la dipendenza dal mercato è molto attenuata; • Destratificazione alta: uguaglianza di trattamento per tutti i cittadini; «tutti beneficiano, tutti dipendono, tutti si sentono in dovere di contribuire». • Casi emblematici: Svezia, Danimarca, Norvegia. Regime liberale, regime conservatore-corporativo e regime socialdemocratico. il regime liberale ha una predominanza di misure di assistenza basate sulla prova dei mezzi, schemi di assicurazione sociale relativamente circoscritti e con formule di prestazioni poco generose, i destinatari principali sono i bisognosi poveri o lavoratori a basso reddito. il Welfare State incoraggia il ricorso al mercato in modo passivo o in modo attivo. la demercificazione è bassa ovvero forte dipendenza dei lavoratori del mercato. la destratificazione bassa: dualismo fra il Welfare dei poveri e Welfare dei ricchi. I casi emblematici sono: stati uniti, Canada, Australia e Regno Unito. Il regime conservatore corporativo ha una predominanza di schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale, formule di Compito collegate ai contributi e alle retribuzioni, i destinatari principali sono i lavoratori adulti maschi capofamiglia e la demercificazione è media, cioè, la dipendenza dal mercato è attenuata ma non Annullata. la destratificazione medio-bassa: il Welfare tende a preservare le differenze di status e classe nonché la segregazione di genere. i paesi emblematici sono Germania Austria Francia e Paesi Bassi. Infine, abbiamo il regime socialdemocratico che ha una predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale con alti standard di prestazione, formule di computo generose ma prevalentemente a Somma fissa, con finanziamento fiscale. i destinatari sono tutti i cittadini e il Welfare State mira a marginalizzare l'importanza del mercato come fonte di risposte ai bisogni ai rischi sociali. la demercificazione è alta: la dipendenza dal mercato è molto attenuata. la destratificazione alta: Uguaglianza di trattamento per tutti i cittadini, tutti si sentono in dovere di contribuire. i casi emblematici sono invece, Svezia, Danimarca e Norvegia. Il Welfare italiano Sotto il profilo della spesa pubblica erogata per le politiche sociali, il Welfare State italiano non appare significativamente deviante rispetto agli standard europei (l’Italia spende per il Welfare il 26% del PIL, come Finlandia, Regno Unito e Grecia, poco meno della percentuale UE). La particolarità italiana sta in una distorsione funzionale che si caratterizza nella distribuzione interna della spesa (dati in % al PIL) Bisogna notare che Esping-Andersen non ha considerato, nella sua caratterizzazione dei tre regimi, l’offerta e la conformazione dei Servizi Sanitari. In Italia vi è una distorsione distributiva, ovvero all’ interno delle varie funzioni di spesa vi è un netto divario di protezione fra diverse categorie occupazionali; (famiglia/minori 4,2%, disoccupazione1,8%, malattia e disabilità 30,7%, vecchiaia e superstiti 59,1%, abitazioni ed esclusione sociale 0,3%). Vi è una doppia distorsione: la prima è funzionale cioè l’iperprotezione del rischio “vecchiaia e superstiti” a SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 50 Oltre a quelli elencati, altri motivi che hanno mandato via via in crisi questo modello sono legati alla maggiore domanda di beni di maggiore qualità nei paesi ricchi, vuoi per l’aumento dei redditi, vuoi per il formarsi di nuovi gruppi sociali istruiti che sviluppano nuovi stili di vita e modelli di consumo. Ciò contrae ulteriormente lo spazio per il mercato dei beni di massa tradizionali (la domanda è sempre più sostitutiva che aggiuntiva). Un secondo elemento favorisce e incentiva il tentativo di spostarsi verso una produzione più diversificata e di qualità è dato dall’introduzione delle nuove tecnologie elettroniche (calcolatori, macchine a controllo numerico) che permettono di programmare il macchinario in modo da poterlo utilizzare per compiti e prodotti diversi. Ciò consente un sensibile abbassamento dei costi della produzione flessibile, per cui diventa possibile produrre beni non standardizzati di elevata qualità, in serie limitate, a costi più bassi. In tal modo è possibile vendere beni di elevata qualità, prodotti in quantità limitate e soggetti a rapido cambiamento, per i quali i consumatori sono disponibili a pagare prezzi più elevati, sfuggendo anche alla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro in produzioni di massa, più semplici e di bassa qualità. Naturalmente, questo non vuoi dire che la produzione di massa e il modello fordista siano abbandonati dalle imprese dei paesi più sviluppati. Da questo punto di vista sono da prendere in considerazione due tendenze che possono variamente combinarsi tra loro; l’uso delle nuove tecnologie per riadattare il modello fordista e la spinta alla multinazionalizzazione (per cui le grandi imprese della produzione di massa, investendo direttamente all’estero e specie nei paesi in via di sviluppo, cercano di ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi più avanzati: un mercato in crescita e condizioni di più basso costo del lavoro). In conclusione, possiamo dunque rilevare che, specie a partire dagli anni ’70, si è assistito a un processo di diversificazione e pluralizzazione dei modelli produttivi. Su questo fenomeno influisce in misura significativa il contesto istituzionale nel quale le imprese operano: per comprendere i motivi per cui alcuni paesi o alcune regioni si sono riadattati più rapidamente e più efficacemente non basta dunque guardare al livello macroeconomico e al ruolo dello stato, ma occorre prendere in considerazione l’interazione tra imprese e ambiente sociale nel quale sono inserite. Ed è proprio su questo terreno che si sviluppa una ripresa della sociologia economica anche a livello micro, che analizza in particolare i rapporti tra contesto istituzionale e nuovi modelli produttivi flessibili. Modelli produttivi flessibili e contesto istituzionale I primi ad affrontare in maniera organica il modello della specializzazione flessibile, in contrapposizione a quello fordista della produzione di massa sono stati Piore e Sabel, nel 1984. Alla produzione di beni standardizzati di massa, fatta con macchine specializzate e manodopera semi-qualificata, viene contrapposta la specializzazione flessibile, caratterizzata dalla produzione di beni non standardizzati con macchine utilizzabili per modelli diversi, realizzati con manodopera più qualificata. L’accento è posto in particolare sulle nuove tecnologie elettroniche che riducono, come abbiamo già notato, il costo della produzione flessibile e diversificata. La specializzazione flessibile coinvolge anche le grandi imprese in trasformazione, specie in paesi come la Germania e il Giappone, anche se le maggiori possibilità che questo processo apre sono per le imprese più piccole. Si possono individuare tre aspetti che gli studi successivi, contribuiranno a mettere meglio a fuoco: 1. Il primo riguarda la possibile persistenza della produzione di massa nei termini prima ricordati del neofordismo; 2. Il secondo aspetto si riferisce alle forme di specializzazione flessibile praticate dalle grandi imprese, oltre che dalle piccole, con la loro trasformazione interna e la maggiore apertura a rapporti di collaborazione con imprese esterne; 3. Il terzo, infine, ha a che fare con l’analisi più approfondita e dettagliata dei fattori istituzionali che consentono le forme di cooperazione tra management e lavoratori e quelle tra le imprese, necessarie per l’emergenza e il funzionamento dei modelli flessibili a elevata capacità innovativa, buone condizioni di lavoro e alti salari. Piccole imprese e distretti industriali II fenomeno dei distretti di piccole e medie imprese, concentrati in alcune regioni, è stato riscontrato in diversi paesi. In qualche caso si trattava di aree già caratterizzate da strutture produttive di questo tipo, che vengono però coinvolte in una fase di forte dinamismo, in altri emergono invece delle nuove concentrazioni di aziende e specializzazioni produttive. Indipendentemente dal settore («tradizionale» o «moderno»), perché si parli di distretti industriali devono esserci due requisiti essenziali: • È necessario che il processo produttivo sia divisibile in fasi diverse, tecnicamente separabili, in modo da consentire la specializzazione delle piccole imprese per fasi o componenti; SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 51 • Si tratta di produzioni soggette a elevata variabilità quantitativa e qualitativa della domanda, che richiede forme di organizzazione flessibile. Particolare interesse ha suscitato il fenomeno in Italia, data la sua diffusione, anche se tendenze simili sono state segnalate anche in alcune regioni tedesche (es. Baden-Württemberg), in Svezia, in alcune zone del Giappone, della Francia, della Spagna, o anche in aree degli Stati Uniti (es. Silicon Valley in California). I distretti industriali in Italia Nel corso degli anni 70 si nota una forte crescita delle piccole imprese, particolarmente concentrata nelle regioni del centro e del nordest. Quest’area verrà definita come Terza Italia, per distinguerla dal nordovest, cioè dalle zone della prima industrializzazione e delle grandi imprese, e dal sud dove il processo di industrializzazione era rimasto fortemente limitato. Queste piccole imprese presentano la particolarità di essere concentrate in sistemi locali di uno o più comuni vicini (e popolazione generalmente < 100 mila ab.). In questi sistemi locali vi è un mercato del lavoro integrato, e un certo grado di specializzazione settoriale. Quando la specializzazione settoriale e l’integrazione tra le piccole imprese sono molto elevate e danno luogo a una divisione specialistica del lavoro, si formano i «distretti industriali». In un distretto sono dunque localizzate molte imprese di piccola dimensione, ciascuna delle quali si specializza in una particolare fase o nella produzione di una particolare componente del processo produttivo. Solo un numero ridotto di aziende ha però rapporti diretti con il mercato finale, e sono quelle che ricevono gli ordini, decidono la quantità e la qualità dei beni da produrre e ne affidano la realizzazione concreta ai produttori di fase, coordinando l’intero processo. L’indagine sui distretti ha contribuito, in particolare, a evidenziarne due aspetti peculiari: • La capacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti del mercato si basa non solo sull’uso delle nuove tecnologie da parte delle singole aziende, ma soprattutto sui rapporti di cooperazione; • La capacità di innovare e migliorare la qualità dei beni prodotti è sostenuta dall’esistenza di economie esterne alle singole aziende ma interne all’area in cui esse sono localizzate: manodopera e collaboratori specializzati, servizi e infrastrutture, ma anche fattori immateriali che influiscono sulla produttività che Marshall chiama «atmosfera industriale», che si caratterizza per la circolazione e diffusione rapida di conoscenze e informazioni. Un aspetto importante di questo fenomeno è proprio quello costituito dalla disponibilità di risorse cognitive che si formano nel tempo e portano a «conoscenze tacite» o a un «sapere contestuale», cioè a un saper fare diffuso, a un linguaggio condiviso che consente di adattare agli specifici problemi produttivi il «sapere codificato» delle conoscenze scientifico-tecniche. Accanto a queste componenti cognitive, ve ne sono altre di tipo normativo, quali la COOPERAZIONE all’interno delle aziende, e tra le diverse imprese. Quanto alle origini, tre fattori istituzionali sono cruciali per lo sviluppo dell’economia diffusa e dei distretti: • Una rete di piccoli e medi centri nei quali vi erano tradizioni artigianali e commerciali diffuse, dalle quali sono venute in larga misura le risorse di imprenditorialità per le piccole imprese (in molti casi è stato importante il ruolo di buone scuole tecniche locali); • Esistenza di rapporti di produzione in agricoltura prima dell’industrializzazione, che ha sostenuto la formazione originaria di un’offerta di lavoro flessibile, a costi ridotti, e con conoscenze e motivazioni congruenti con lo sviluppo di piccola impresa; • Forte presenza nelle aree in questione di tradizioni e istituzioni politiche locali legate al movimento cattolico e quello socialista e comunista, che hanno anzitutto contribuito a rafforzare un tessuto fiduciario molto importante per lo sviluppo di piccola impresa e, in secondo luogo, hanno influenzato le relazioni industriali e l’attività dei governi locali. Il modello di relazioni industriali ha così ottenuto un carattere cooperativo e localistico. Gli enti locali, a loro volta, hanno garantito quei servizi sociali che hanno favorito la flessibilità del lavoro, e hanno spesso fornito alcuni servizi e infrastrutture essenziali per lo sviluppo. Questo quadro culturale e istituzionale è importante anche per comprenderne la logica di funzionamento. Anzitutto, è evidente che la produzione richiede un elevato grado di cooperazione tra le imprese e tra imprenditori e lavoratori all’interno delle unità produttive. Per quel che riguarda per esempio la subfornitura, esiste certo un’elevata concorrenzialità all’interno delle singole fasi produttive, ma questa è mitigata da meccanismi di cooperazione per cui il committente o il subfornitore non massimizzano l’utilità a breve termine. Ciò consente vantaggi reciproci a medio e lungo termine. Queste forme di cooperazione, SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 52 che integrano i meccanismi concorrenziali, si fondano quindi su un tessuto fiduciario sostenuto dagli elementi culturali e istituzionali prima ricordati. Forme di cooperazione sono presenti anche nel mercato del lavoro: la produzione dei distretti richiede, infatti, un’elevata flessibilità interna, in termini di orari e straordinari, ma anche di disponibilità a svolgere compiti diversi e a contribuire alla qualità della produzione, o un’elevata mobilità del lavoro tra le imprese. Col tempo, è cresciuta anche una specifica forma di regolazione politica del mercato del lavoro, per cui sia le relazioni industriali che l’azione dei governi locali hanno favorito l’accettazione sociale del modello di sviluppo attraverso meccanismi di redistribuzione del reddito prodotto, che si affiancano a quelli di reciprocità, legati alla famiglia e alle reti parentali. In questo senso la costruzione sociale del mercato è un aspetto cruciale del successo dei distretti nella specializzazione flessibile. Distretti e istituzioni I principali tratti comuni ricavabili dalle ricerche sui vari paesi hanno evidenziato che i distretti industriali orientati alla produzione flessibile sono legati a specifiche risorse cognitive e normative. In particolare, si possono sottolineare gli aspetti seguenti. 1. Per quel che riguarda gli aspetti cognitivi, ci sono due ordini di fattori ce influiscono e da altre e sulla formazione dell’imprenditorialità: • Importanti tradizioni artigianali precedenti, alimentate anche da buone scuole tecniche e da altre istituzioni formative; • Vicinanza di istituzioni di ricerca pubbliche o private (legate anche a grandi imprese) e in particolare dalla presenza di importanti università che sviluppano intensi scambi con le imprese. 2. Una capacità di cooperazione e la disponibilità di un tessuto fiduciario, in genere influenzate da identità locali distinte (politiche o di tipo etnico) che si riproducono nel tempo; 3. Importanza delle risorse cognitive e normative non solo per lo sviluppo di tipo distrettuale, ma anche per la sua riproduzione nel tempo; 4. Un’elevata capacità di cooperazione e anche un coinvolgimento crescente per migliorare la qualità da parte dei lavoratori, che dà loro forti motivazioni a mettersi in proprio o, in alternativa, un’elevata flessibilità più contrattata e compensata. Possiamo dunque concludere che il successo nell’adattamento dei distretti industriali alle sfide esterne deriva principalmente dalla capacità degli attori locali di continuare a interagire efficacemente per trovare nuove soluzioni, per produrre nuovi beni collettivi da cui dipende il benessere della società locale. La trasformazione delle grandi imprese Come i distretti industriali, anche le grandi imprese, hanno cominciato a trasformarsi sperimentando modelli di produzione flessibile. Sebbene questo processo non si diffonda ovunque e con le stesse caratteristiche, è possibile identificare alcuni tratti idealtipici del nuovo modello. Il punto di partenza è costituito dalla crescente instabilità e frammentazione dei mercati: mancando la prevedibilità che era un requisito essenziale del modello fordista, l’investimento in macchinari specializzati diventa rischioso per i rapidi cambiamenti della domanda e l’obsolescenza dei prodotti; si comincia dunque a sperimentare una riorganizzazione per offrire più prodotti e per modificarli rapidamente in funzione di ciò che verrà domandato dal mercato. 1. Per le grandi imprese che vogliono sopravvivere si fa strada la necessità di ridurre la separazione tra concezione ed esecuzione dei prodotti (tipica del fordismo), che rende la produzione di nuovi beni lenta, elaborata, e rigida. Si sperimentano così forme di decentramento dell’autorità, con unità operative più vicine agli stimoli del mercato ed in grado di operare rapidamente, e strutture centrali (più snelle) lasciate alle sole decisioni strategiche. Dal punto di vista finanziario, la grande impresa, spesso multinazionale, si trasforma in una holding che controlla altre società specializzate nei diversi prodotti; 2. Cambia l’organizzazione interna, e in particolare quella del lavoro, e rimettendo in discussione i modelli tayloristi. La possibilità di produrre beni differenziati in serie brevi, con aggiustamenti continui rispetto alla domanda, porta alla necessità di eliminare risorse ridondanti. Si cerca dunque di ridurre gli scarti, i tempi morti e l’accumulo di scorte, sincronizzando il più possibile la produzione alla domanda proveniente dal mercato. Ciò richiede, al contrario di quella fordistataylorista, una più attiva collaborazione e un maggior coinvolgimento della manodopera, che, per poter impiegare macchinari meno specializzati e polivalenti, devono essere più qualificati ed in grado di svolgere mansioni diverse, anche lavorando in gruppi che si compongono e scompongono a seconda delle esigenze produttive; SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 55 di render conto dello spazio crescente di forme di organizzazione intermedie tra il mercato e la gerarchia; • Infine, al crescere ulteriore della specificità delle risorse, e quindi del carattere idiosincratico degli investimenti, che non sono destinabili ad altri usi, la gerarchia appare come la soluzione più efficiente per limitare i costi di transazione. Sia la razionalità limitata che l’opportunismo rimandano a più ampi orientamenti cognitivi e normativi degli attori che non sono dati, ma variabili: sono una costruzione sociale. Il concetto sociologico di capacità imprenditoriale esprime anche la variabilità della razionalità limitata in campo economico, e lo stesso opportunismo è condizionato, nelle sue espressioni concrete, dalla presa che hanno in un determinato contesto istituzioni sociali e politiche che possono limitarne o rafforzarne la diffusione. Un altro aspetto problematico dello schema analitico riguarda la spiegazione delle istituzioni. Questa prospettiva pone due problemi. Da un alto, trascura l’influenza dei fattori culturali e politici, e delle reti sociali, sulle origini dei modelli di organizzazione economica che si affermano nei vati contesti; dall’altro, tende a sottovalutare la persistenza di assetti organizzativi anche meno efficienti, che possono ugualmente riprodursi proprio per i legati con il contesto istituzionale. La nuova sociologia economica Nella nuova sociologia economica confluiscono approcci diversi, tra i quali distingueremo in particolare quello centrato sulle reti sociali e quello che si può definire più specificatamente come neoistituzionalismo sociologico. È opportuno sottolineare ciò che li unisce e insieme li distingue dal neoistituzionalismo economico. In proposito possiamo fare riferimento a due aspetti tra loro collegati: la teoria dell’azione, e le conseguenze che ne discendono per la spiegazione della varietà delle forme di organizzazione economica. • Quanto al primo aspetto, gli studi in questione condividono una teoria dell’azione che è tipica della sociologia economica: essi vedono cioè l’azione come socialmente orientata e criticano l’atonismo e l’utilitarismo che resta prevalente nell’economica istituzionale. Tuttavia, riprendendo una distinzione proposta da Marx Granovetter, si può dire che la critica della nuova sociologia economica non va soltanto alla concezione iposocializzata dall’attore propria dell’economia, ma anche a quella ipersocializzata presente nella sociologia. La nuova sociologia economica tende a sviluppare una teoria dell’azione più costruttivista, che risente molto delle critiche all’approccio di Parsons avanzate dall’etnometodologia e dalla fenomenologia. L’approccio strutturale sottolinea maggiormente la collocazione dei soggetti nelle reti sociali, come fattore che condiziona l’interazione e gli orientamenti; il neoistituzionalismo dà invece più peso alle componenti cognitive e normative della cultura che si producono e riproducono nell’interazione sociale. • Entrambe le posizioni condividono però la critica all’economia istituzionale per quel che riguarda le origini delle varie forme di organizzazione economica. Queste ultime risentono del radicamento sociale dell’azione economica. Per i sostenitori dell’approccio strutturale, ciò significa che non è possibile comprendere l’organizzazione economica senza collegarla all’influenza autonoma esercitata dalle reti in cui i soggetti sono inseriti; per i neoistituzionalisti bisogna fare invece riferimento all’embeddedbess cognitiva e normativa dell’azione, e quindi al ruolo autonomo della cultura. L’approccio strutturale e le reti sociali Per gli autori riconducibili all’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata e non può essere spiegata soltanto sulla base di motivazioni individuali. Il radicamento sociale è visto in termini strutturali perché si assume che l’azione sia fondamentalmente influenzata dalla collocazione dei singoli soggetti nelle reti di relazioni sociali in cui sono coinvolti. Reti stabili di relazioni sociali costituiscono appunto delle strutture che è necessario ricostruire per valutarne gli effetti sul comportamento economico (contributo di Granovetter). Il punto di partenza di Granovetter è la già ricordata critica alla teoria dell’azione prevalente in economia. Williamson, e la nuova economia istituzionale in genere, hanno una visione iposocializzata dell’attore. Si sottolinea il peso dell’opportunismo, ma si pensa che esso possa essere tenuto sotto controllo da istituzioni efficienti, che hanno appunto lo scopo di minimizzare i costi di transazione. Secondo Granovetter, esse tendono a trascurare il meccanismo principale attraverso il quale viene tenuto sotto controllo l’opportunismo e limitata la disonestà: «la nozione di “embeddedness” sottolinea il ruolo delle relazioni personali concrete e delle strutture di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione». SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 56 Per comprendere meglio le implicazioni di questa posizione sul piano sostantivo, è utile vedere in che modo viene in concreto criticato lo schema analitico di Williamson. Secondo Granovetter, esso manifesta la tendenza a sopravvalutare le capacità della gerarchia e dell’impresa di gestire transazioni complesse, e a sottovalutare invece quelle del mercato. In realtà, l’evidenza empirica mostra che anche transazioni complesse e potenzialmente rischiose possono essere condotte attraverso il mercato, se esistono delle reti di relazioni fiduciarie che legano le imprese coinvolte e quindi abbassano autonomamente i costi di transazione. All’apposto, transazioni che si svolgono in mercati concorrenziali tendono ad assumere spesso un carattere stabile e ripetuto perché si radicano in reti di relazioni personali tra fornitori e clienti. Non è detto che poi la gerarchia interna riesca sempre a funzionare se vengono a mancare quelle relazioni sociali che generano fiducia e un clima di cooperazione all’interno dell’impresa. Il ricorso al mercato, alla gerarchia o a forme intermedie sarà dunque autonomamente influenzato dall’esistenza e dai caratteri delle reti sociali. Questa prospettiva permette di evitare i rischi di una spiegazione forzata funzionalista in termini di efficienza delle istituzioni economiche. Non è detto infatti che soluzioni efficienti a problemi di costi di transazione emergano autonomamente. L’adattamento istituzionale sarà mediato dal ruolo delle reti di relazioni sociali, che possono essere più o meno presenti e possono favorire o meno determinate soluzioni. In questa ricerca il sociologo americano non solo mostra l’importanza dei contatti informali come strumento per trovare lavoro, ma attira anche l’attenzione sulla «forza dei legami deboli». Viene cioè ipotizzato che i soggetti inseriti in reti di relazioni sociali deboli abbiano più possibilità di accesso a un numero maggiore e più diversificato di informazioni rispetto a quelle ottenibili attraverso legami «forti», cioè i rapporti con familiari, parenti, amici intimi. I conoscenti hanno infatti maggiori probabilità di essere inseriti in cerchie sociali diverse da quelle dei soggetti in cerca di lavoro, e quindi possono mettere in comunicazione questi ultimi con ambienti più diversificati. Una linea di ricerca diversa è stata sviluppata da Ronald Burt a partire dall’idea dei «buchi strutturali». In un determinato campo di attività ci possono essere reti interpersonali non comunicanti tra loro, dalla cui integrazione è possibile trarre determinati vantaggi. Me lo stesso vale per altri tipi di organizzazione. La separazione tra queste reti diverse di relazioni configura un «buco strutturale». I soggetti che per la loro posizione tra network separati sono in grado di metterli in comunicazione agiscono come intermediari (brokers) e traggono benefici personali qualora siano in grado di cogliere questa opportunità. In particolare, la carriera di questi soggetti ne risente positivamente in termini di valutazione, di promozioni, di retribuzioni. La tesi di Burt sottolinea la possibilità di un comportamento più strategico e attivo da parte di soggetti che sono in condizione di colmare buchi strutturali: imprenditori delle reti. Più limitato al dibattito teorico è stato il contributo dell’approccio strutturale allo sviluppo di una «sociologia dei mercati». L’idea di fondo è che la rete di relazioni tra imprese che operano in un determinato mercato sia più importante per comprendere il loro comportamento rispetto all’assunto dei tradizionali modelli economici di imprese isolate e indipendenti le une dalle altre, che reagiscono alla domanda proveniente dai consumatori. Alcuni di questi studi si riferiscono al problema dei mercati di «concorrenza imperfetta» o «monopolistica» studiati dall’economica sulla scia degli iniziali contributi di Chamberlin. In questo quadro, la differenziazione del prodotto è una strategia che le imprese adottano per sottarsi alla concorrenza segmentando il mercato. Un altro filone che ha avuto una certa diffusione, specie negli Stati Uniti, riguarda il tentativo delle imprese di aggirare o tenere sotto controllo la concorrenza sviluppando reti di relazioni tra loro, che non riguardano soltanto forme di controllo del capitale e partecipazioni azionarie, ma anche la presenza incrociata di propri rappresentanti negli organismi dirigenziali, in particolare nei consigli di amministrazione. Reti sociali, innovazione e finanza Un approfondimento particolare meritano le ricerche ispirate dall’approccio strutturale sul tema della performance delle imprese e dell’innovazione e su quello delle attività finanziarie. Un tema che ha avuto rilevanti sviluppi riguarda gli attori individuali e quelli collettivi – in particolare le imprese – impegnati sul terreno dell’innovazione. L’innovazione assume un rilievo crescente in settori considerati più tradizionali, al fine di migliorare la qualità e introdurre nuovi prodotti. Questa strategia appare sempre più obbligata per i paesi maggiormente sviluppati, per far fronte alla concorrenza dei paesi emergenti con più bassi costi. La forma organizzativa a rete è dunque strettamente legata alle possibilità di accrescimento delle conoscenze, al rapido apprendimento necessario all’innovazione. È importante una distinzione tra invenzione e innovazione. «L’invenzione è la prima concretizzazione dell’idea di un nuovo prodotto o processo, mentre l’innovazione è il primo tentativo di tradurla in pratica». Ci sono invenzioni che non si traducono in innovazione, o lo diventano dopo molto tempo. Ciò è dovuto al fatto che l’innovazione concreta richiede risorse specifiche di conoscenza, capacità organizzative, rapporti con il mercato, finanziamenti. La figura dell’inventore e quella dell’innovatore devono pertanto essere anche tenute distinte. Nel primo capitalismo, entrambe le figure erano di solito rappresentate dai singoli individui. Si SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 57 ricorderà come per Schumpeter si identificasse con l’imprenditore capace di introdurre nuovi prodotti o processi produttivi, ma anche nuovi mercato o nuove forme di organizzazione dell’impresa e fonti di approvvigionamento. In quella fase storica, inventore e imprenditore potevano a volte coincidere: l’inventore diventava imprenditore. Nel periodo successivo, sia l’invenzione che l’innovazione tendono a spersonalizzarsi maggiormente e si istituzionalizzano, da un lato, nei team di ricerca come struttura specializzata dell’impresa e, dall’altro, nella direzione manageriale. Ciò non vuol dire però che le figure di inventori e innovatori individuali scompaiono. La crescita dello spazio di imprese di piccole dimensioni si accompagna – anche in settori innovativi - a inventori individuali che a volte si trasformano in imprenditori per sfruttare commercialmente le loro invenzioni. Nell’ambito dell’approccio strutturale, l’attenzione è posta sulla collocazione nelle reti dell’attore individuale che agisce nell’impresa, o dell’impresa in quanto tale come attore collettivo; si guarda cioè al tipo di relazioni che l’innovatore, o l’impresa che innova, intrattengono con altri soggetti, e alle conseguenze per il processo innovativo. Le caratteristiche delle reti in cui sono inserite consente alle imprese un miglior accesso a conoscenze e ad altre risorse che accrescono il potenziale innovativo. Le imprese tendono a collocarsi in territori con una specifica specializzazione produttiva, si valgono cioè in misura significativa di «reti corte», che si combinano variamente con «reti lunghe» di tipo extraterritoriale. Le imprese che sviluppano buone capacità a gestire tali relazioni acquisiscono rapidamente una posizione centrale nelle reti. Via via che cresce l’esperienza nel gestire efficacemente tali rapporti, le imprese acquisiscono più visibilità, attraggono nuove collaborazioni con competenze diverse e migliorano la loro performance. In particolare, migliorano le capacità di ricevere finanziamenti e si rafforza la leadership complessiva nel settore. Ma quel è il motore di questo circolo virtuoso? Powell e collaboratori lo identificano in una strategia interna all’impresa che porta a investire nella «capacità di assorbimento» delle conoscenze e delle risorse mutuate dall’estero. Una prospettiva in parte diversa nel valutare l’impatto delle reti sull’innovazione è quella proposta da Ronald Burt. Questo autore aveva già attirato l’attenzione sul ruolo dei buchi strutturali, e sulle migliori performance in termini di carriera dei manager capaci di collegare reti diverse, portatrici di informazioni ed esperienze rilevanti ma separate tra loro. Continuando a lavorare in questa prospettiva, Burt cerca di approfondire i motivi di questo fenomeno. La risposta è indicata nel contributo all’innovazione che i manager che fanno da ponte tra reti diverse riescono a dare. In altre parole, le imprese che hanno al loro interno manager capaci di individuare e colmare buchi strutturali sono potenzialmente in grado di accrescere l’innovazione. Questa azione di collegamento, di arbitraggio, o di «import-export» - come la chiama anche Burt – produce «buone idee». Il collegamento può riguardare reti separate ma interne all’impresa, o anche reti interne ed esterne. La prospettiva avanzata da Burt è interessante e si distingue da quella di Powell non solo nell’individuazione del meccanismo specifico che collega reti e innovazione, ma anche per la prevedibilità e programmabilità ex ante di tale meccanismo. In entrambi i casi vi è un valore per l’innovazione che deriva dai collegamenti, dalle reti. Tuttavia, mentre per Powell si può investire strategicamente sulle «capacità di assorbimento» interno delle conoscenze per accrescere l’impatto delle reti sull’innovazione, nell’ottica di Burt ciò potrebbe non bastare. Non è detto infatti che tale investimento produca automaticamente maggiori capacità di intuizione strategica di alcuni soggetti dell’impresa per ricombinare creativamente le risorse offerte da reti diverse. Divergente dalle precedenti è una terza ipotesi, prospettata da Granovetter. Riportata al tema dell’innovazione, questa ipotesi attira l’attenzione sul ruolo della marginalità rispetto alle reti costituite da legami forti, nelle quali circolano informazioni e idee ridondanti e consolidate. Granovetter ha messo in evidenza la «forza dei legami deboli» nello studio del mercato del lavoro. Estendendo questa prospettiva al tema dell’innovazione, egli attira l’attenzione sul ruolo si individui marginali rispetto alle reti consolidate, che proprio per questa caratteristica di maggior isolamento possono concepire più facilmente idee nuove. Più in generale, Granovetter sottolinea come la radicalità dell’innovazione possa essere correlata alla marginalità di chi la introduce, proprio perché le sue idee sono meno influenzate da quelle prevalenti. Un altro contributo interessante sul ruolo delle reti per l’attività delle imprese è offerto dalle ricerche condotte da Uzzi. In questo caso, l’attenzione è posta sulle diverse modalità con le quali le imprese combinano, nella loro attività, rapporti con altri attori più di mercato – basati sul calcolo a breve dei costi più bassi o dei guadagni più alti – cioè, radicati in legami interpersonali forti, non solo di tipo economico. Uzzi mostra l’importanza di legami sociali forti per il rendimento delle imprese, mettendo in rilievo il ruolo della componente fiduciaria. Il maggior grado di fiducia che lega i soggetti della rete radicata favorisce la circolazione di informazioni, specie quella di natura tacita, legate a conoscenze specifiche non facilmente codificabili e trasmettibili. Al crescere dell’uso di tali legami aumenta la performance. Tuttavia, oltre un certo livello di radicamento in rapporti sociali forti la performance diminuisce. La spiegazione si richiama alle ipotesi formulate da Granovetter su legami forti e deboli. I legami forti aumentano la fiducia e rendono possibile lo scambio di informazioni complesse o riservate. Uzzi conclude che un bilancio equilibrato da rapporti radicati e rapporti di mero mercato giova alle performance delle imprese. I rapporti di mercato, SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 60 A questo punto interviene dunque un’ulteriore condizione importante per la valorizzazione delle reti sociali nello sviluppo locale: il mercato. Una volta avviato un principio di sviluppo locale, la pressione della concorrenza di mercato limita continuamente le possibili conseguenze negative del particolarismo, muovendosi su due fronti. Anzitutto, tende a sanzionare comportamenti poco efficienti. In secondo luogo, il mercato manda dei segnali che sollecitano ad aggiornare e ridefinire il capitale sociale. Certe caratteristiche della rete sociale possono funzionare bene in una fase di sviluppo, ma possono costituire un vincolo in una fase successiva e richiedono quindi un cambiamento. Naturalmente, il mercato manda dei segnali, ma non garantisce che nuove soluzioni appropriate emergano. Ciò dipende dall’autonomia degli attori locali nell’interpretare la situazione e nel porvi rimedio. Queste osservazioni suggeriscono dunque che il rapporto tra capitale sociale e sviluppo sociale è complesso e mutevole nel tempo, e non è riducibile all’impatto positivo di una cultura favorevole alla cooperazione. Cruciale è il ruolo della politica bel mediare il rapporto tra reti e mercato. L’idea del bilanciamento tra elementi moderni e reti di relazioni sociali tradizionali come chiave per lo sviluppo economico piò anche aiutarci a leggere meglio le esperienze di sviluppo regionale degli ultimi decenni. Si è parlato a questo proposito del particolarismo sociale, o delle strutture sociali tradizionali, come risorse per lo sviluppo, ribaltando un assunto classico della teoria della modernizzazione. Ma a ben vedere le cose sono più complesse. È la combinazione tra questi fenomeni e una politica relativamente modernizzata e autonoma dalla società civile a fare la differenza. Il neoistituzionalismo sociologico La posizione dei neoistituzionalisti, nell’ambito della nuova sociologia economica, si differenzia da quella degli strutturalisti perché essi vogliono invece mettere in evidenza il ruolo autonomo dei fattori culturali. Per i neoistituzionalisti i fattori cultural contribuiscono a definire gli interessi stessi e le modalità attraverso le quali essi vengono perseguiti. Accanto a quella strutturale vanno quindi considerate l’embeddedness cognitiva, culturale, e anche quella politica. La teoria dell’azione dei neoistituzionalisti è più ampia e ha un carattere multidimensionale. Il neo istituzionalismo è fortemente influenzato dalla svolta a livello micro realizzarsi in sociologia, ma anche dagli sviluppi della psicologia cognitiva. Ciò porta a enfatizzare la dimensione cognitiva delle istituzioni rispetto a quella normativa. Viene messo dunque in evidenza il ruolo di regole routinarie, largamente dare per scontate, nell’orientare il comportamento; schemi interpretati e repertori di azione condivisi che aiutano a definire l’identità e gli interessi individuali, oltre che le modalità per perseguirli, cioè le regole «regolative». Di fronte alla carenza di informazioni e ai rischi delle transazioni, non è possibile seguire una rigorosa scelta razionale delle soluzioni più efficienti. I soggetti individuali e collettivi si affidano allora non solo alle reti, ma alle soluzioni che sono considerate più appropriate e legittime nell’ambiente nel quale si collocano le loro interazioni sociali. Per questo motivo i neoistituzionalisti sono particolarmente interessati a spiegare le aree di omogeneità nelle forme di organizzazione economica, e i meccanismi sociali che le influenzano. Una buona esemplificazione delle conseguenze sul piano applicativo dell’approccio dei neoistituzionalisti è costituita dal contributo di Powell sull’«isomorfismo», volto a spiegare l’omogeneità dei modelli all’interno di un determinato «campo organizzativo». Quest’ultimo è costituito dall’insieme degli attori rilevanti in un certo campo di attività. Con riferimento all’economica esso si estende non solo alle imprese che competono in un determinato settore, ma anche a quelle che forniscono servizi, alle strutture pubbliche, alle organizzazioni sindacali e di categoria. Nei settori aperti alla concorrenza di mercato, prevale un isomorfismo competitivo; tuttavia, anche in questi settori, e a maggior ragione in quelli più distanti dal mercato di concorrenza, agisce un isomorfismo istituzionale. • La prima forma, e più ovvia, di isomorfismo istituzionale è quella «coercitiva». La regolamentazione pubblica può comportare dei vincoli che obbligano ad assumere modelli simili; ma anche le relazioni industriali possono agire in questa direzione. Un’influenza coercitiva viene pure esercitata da organizzazioni forti verso altre da essere dipendenti. • L’isomorfismo normativo è invece legato al ruolo delle università e delle scuole specialistiche nella formazione dei manager, o anche alle agenzie di consulenza. I manager, sia attraverso la loro mobilità di carriera, sia per mezzo delle loro reti di interazione, diffondono idee e standard professionali di comportamento che assumono un’elevata legittimità e vengono quindi più facilmente seguiti dalle imprese. • Di grande rilievo è l’isomorfismo mimetico, specie in settori nei quali le unità organizzative sono piccole e dispongono di risorse limitate per valutare le soluzioni più efficienti. In questo caso è probabile che per ridurre l’incertezza vengono seguiti i modelli che appaiono più appropriati e sono quindi più legittimati del campo organizzativo. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 61 La globalizzazione e la diversità dei capitalismi La globalizzazione è definita come intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali che crescono più rapidamente dell'economia mondiale nel suo complesso, producendo tendenzialmente una maggiore interdipendenza delle economie nazionali. Le cause sono: la Liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti internazionali di capitali, Deregulation dei sistemi economici, Accelerazione del progresso tecnologico, soprattutto nel campo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, Dissoluzione del blocco sovietico. Introduzione Gli studiosi si sono interessati a due tipi di economie: «le economie coordinate di mercato» e «economie non coordinate di mercato». Il primo modello è quello di un capitalismo più organizzato, del tipo tedesco o giapponese. Il secondo modello è sostanzialmente il capitalismo di tipo anglosassone. In un primo momento gli studiosi attenzionarono i vantaggi della prima economia, ma negli ultimi anni vi è stata una ripresa dell’economia britannica e americana, perché si affida maggiormente al mercato e si adatta meglio alla nuova economia. Infatti, recentemente è nata la necessità di guardare le economie a livello mondiale facendo i conti con il fenomeno della Globalizzazione. I due capitalismi Nel corso degli anni ’70 il problema principale era l’inflazione, nel caso dei sistemi di tipo pluralista che si affidavano al mercato, come gli Stati Uniti e il Regno unito, il controllo dell’inflazione sarebbe stato più difficile e si sarebbe accompagnato a livelli più elevati di disoccupazione fino ai primi anni ’80. Una volta che riportata sotto controllo l’inflazione, l’attenzione si sposta verso un altro aspetto che sembra condizionare sempre di più lo sviluppo economico dei diversi paesi: la capacità di innovazione delle imprese. Per questa strada la political economy comparata tende a incontrarsi con i risultati degli studi sulle trasformazioni del fordismo e i nuovi modelli flessibili. A partire dagli anni ‘80, poi, i confini delle economie si aprono sempre più, e l’economia di una nazione è maggiormente influenzata da quella delle altre. Una quota crescente della produzione è orientata verso i mercati internazionali, e il reddito di un paese diventa più dipendente dalla capacità delle sue imprese di vincere la concorrenza delle importazioni nei mercati interni e di competere con successo su quelli esteri. L’ insieme di questi cambiamenti è associato al fenomeno della crescente globalizzazione dell’economia, È in questo quadro che, agli inizi degli anni ‘90, una serie di studi cercano di mettere a fuoco la diversità di reazione dei capitalismi nazionali alle nuove sfide dell’ambiente. In uno dei primi lavori sulla capacità di adattamento delle economie nazionali al nuovo contesto di integrazione internazionale, David Soskice parte dai limiti del modello neocorporativo per interpretare la nuova situazione. Il problema cruciale non è più soltanto il controllo dell’inflazione, ma la bilancia dei pagamenti. Ciò richiede di non fissare soltanto l’attenzione sulle istituzioni che permettono di contenere i salari, cioè sulle relazioni industriali a livello centrale, come nel modello neocorporativo, da sole non più sufficienti a sostenere l’occupazione. Quest’ultima dipende ora maggiormente dalla capacità delle imprese di innovare, e di mantenere e accrescere quote del mercato internazionale. Ciò a sua volta richiede un particolare contesto istituzionale che favorisca lo spostamento verso produzioni flessibili e di qualità, atte a ridurre la competizione di prezzo che viene dai paesi in via di sviluppo, con bassi costi del lavoro. La variabile dipendente – il problema al centro dell’indagine – non è quindi più il grado di controllo dell’inflazione e della disoccupazione, ma la capacità di innovazione delle imprese, da cui dipende la penetrazione nel mercato interno e internazionale e quindi, in misura crescente, il reddito e l’occupazione di un determinato paese. Di conseguenza, cambia anche il quadro dei fattori causali, che si estende alle istituzioni che condizionano l’innovazione delle imprese a livello micro: la finanza, i meccanismi di governo delle imprese, il ruolo del management, la regolazione dei rapporti di lavoro, la formazione della manodopera e i servizi alle imprese. È proprio la diversità dell’ambiente istituzionale che porta a modelli di capitalismo nazionale differenti rispetto alle loro capacità di adattamento al mercato internazionale. SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 62 La capacità di innovazione delle imprese Soskice individua cinque condizioni essenziali dalle quali dipende la capacità delle imprese dei paesi più sviluppati di spostarsi verso una produzione flessibile di qualità, in modo da evitare la competizione di prezzo legata al costo del lavoro: 1. Una gestione manageriale orientata a lungo termine (l’innovazione è, infatti, un processo rischioso, che richiede tempo e investimenti a resa non immediata); 2. Elevate competenze professionali – non solo nel management, ma anche nella manodopera – in continuo aggiornamento, dal momento che il miglioramento della qualità dei beni è legato all’innovazione di processo e di prodotto; 3. La capacità di cooperazione tra management e lavoratori, con il superamento delle gerarchie rigide del fordismo e il coinvolgimento attivo dei lavoratori nella realizzazione degli obiettivi aziendali; 4. Un’elevata capacità di cooperazione con i clienti e con i sub–fornitori, che permette di scambiare informazioni e costruire reti fiduciarie che favoriscono l’innovazione, in una situazione in cui i costi per la messa a punto di nuovi prodotti sono elevati e la loro resa sul mercato diventa più breve; 5. Un contenimento salariale rispetto alla crescita della produttività. Le condizioni sopra elencate non si determinano però per la sola volontà del management delle imprese, ma sono favorite o ostacolate dall’ambiente istituzionale esterno alle imprese. Relativamente alle istituzioni, sono, in particolare, da tenere presenti due aspetti due aspetti: • L’origine non solo contrattuale delle istituzioni. Queste ultime si formano sulla base di una comune matrice culturale formatasi in una storia di lunga durata (sono, quindi, path dependency)., che rende il patrimonio istituzionale ereditato dal passato non facilmente plasmabile; • La complementarietà istituzionale. si ipotizza che la presenza di determinate istituzioni tenda a collegarsi sistemicamente ad altre. La complementarietà istituzionale fa emergere dei tipi di capitalismo che prendono forma a livello nazionale. • Il contesto istituzionale nazionale. Ciò non vuoi dire che la dimensione subnazionale – in particolare quella regionale – non possa essere anche importante: essa tende a diventare anche più rilevante con i modelli di organizzazione flessibile (e lo sviluppo dei distretti industriali nelle regioni italiane del centro-nordest è un esempio particolarmente evidente). Le condizioni istituzionali della competitività Relativamente all’influenza di diversi contesti istituzionali sulle condizioni che favoriscono l’innovazione delle imprese, la situazione dei paesi più sviluppati può essere ricondotta a due modelli idealtipici: • Le «economie coordinate di mercato», caratterizzate da un sistema di regolazione in cui il ruolo del mercato è più limitato rispetto a quello dello stato, delle associazioni, ma anche di forme di solidarietà a base comunitaria (es. paesi dell’Europa continentale centro–settentrionale). • Le «economie non coordinate di mercato», nelle quali il ruolo di regolazione del mercato resta invece più ampio (comprendono i paesi anglosassoni, es. Stati Uniti e Gran Bretagna). Di questi due modelli, quello che pare abbia offerto un ambiente istituzionale più favorevole all’innovazione per le imprese sia stato il primo, di cui costituiscono un esempio i capitalismi della Germania e del Giappone degli anni ‘80. Per analizzare il modo in cui le economie coordinate di mercato favoriscono l’innovazione occorre analizzare diverse dimensioni della regolazione istituzionale. 1. Un primo aspetto riguarda la finanza e l’assetto proprietario delle imprese ed è legato alla gestione manageriale a lungo termine. Nelle economie non coordinate le esigenze di finanziamento delle imprese sono soddisfatte prevalentemente attraverso il reperimento di capitale sul mercato azionario; le imprese, a loro volta, sono quotate in borsa, per cui la proprietà del capitale è condivisa da un insieme di attori diversi (privati, esponenti delle famiglie che detenevano la proprietà originaria…) non vincolati a un rapporto a lungo termine con l’impresa. La decisione di tenere o vendere le azioni possedute dipende, infatti, più da valutazioni sulla loro redditività a breve, o da eventuali offerte di acquisizione. Tutto ciò scoraggia il management dal puntare su investimenti a resa più rischiosa e dilazionata nel tempo, e quindi ostacola l’innovazione. I dirigenti sono inoltre più propensi a garantire una redditività a breve, anche con attività di tipo finanziario, per il rischio elevato di acquisizioni ostili dell’impresa in caso di perdita di SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 65 centralmente non consente quel grado di riduzione del costo del lavoro e quella flessibilità in entrata e in uscita tali da facilitare l’occupazione nei servizi privati. Per ovviare a questo problema nei paesi scandinavi si è puntato ad allargare l’occupazione, specie femminile, nel welfare pubblico, mentre nei paesi europei ci si è mossi verso un sistema di protezione sociale di tipo «conservatore-corporativo», basato sui trasferimenti a favore degli occupati (che però ha creato una crescente difficoltà per coloro che sono in cerca di occupazione, in parte tutelati attraverso forme di redistribuzione familiare). Entrambe le strategie fanno però lievitare spesa pubblica e pressione fiscale e contributiva, e per questo possono influire negativamente sugli investimenti e sulla creazione di nuova occupazione. Nel complesso, gli elementi esposti non sono dunque tali da ribaltare le conclusioni alle quali era giunto il neoistituzionalismo nell’analisi della varietà dei capitalismi. Il capitalismo anglosassone non sembra al momento esibire né una netta superiorità economica (se si guarda alla competitività e non solo all’occupazione), né tanto meno una capacità di ridurre le disuguaglianze sociali. Al contrario, queste ultime tendono a crescere in concomitanza con la ripresa economica. Sicuramente, però, i segni di dinamismo sul piano economico e occupazionale portano a correggere una certa visione unilaterale della letteratura istituzionalista, la quale arrivava a sostenere che «un’economia potesse essere competitiva solo con il sostegno di una politica benevolente e di una società coesa». Il caso americano, in particolare, mostra come la competitività possa essere compatibile con elevati livelli di disuguaglianza sociale. Il dibattito sulla varietà dei capitalismi Negli anni 2000 il dibattito sulla varietà dei capitalismi si è arricchito di nuovi contributi. Possiamo individuare 3 direzioni principali. Si è sviluppato un confronto sulle difficoltà del modello di Hall e Soskice riguardo alcuni casi nazionali che non si possono definire né alle economie liberali né a quelle coordinate. In questa chiave sono state anche proposte altre tipologie di capitalismi. Questo problema ha sollevato interrogativi teorici riguardo ai risultati migliori in termini di crescita economica sono dati dai sistemi istituzionali più integrati o invece da quelli più eterogenei. Quest’ ultimo aspetto si ricollega alla questione più generale della spinta alla convergenza, con la riduzione delle distanze tra i diversi tipi di capitalismo. Lo schema basato su economie liberali e coordinate lascia alcuni casi nazionali in una posizione più ambigua. Tra questi paesi vi sono quelli dell’Europa mediterranea: Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia. Alcune caratteristiche che sembrano accomunare tali paesi in un capitalismo mediterraneo sono: la presenza storica di un esteso interventismo dello stato nell’ economia (anche con imprese statali), che si è accompagnata a forme di coordinamento non di mercato nel finanziamento delle imprese (ruolo debole della borsa) e a meccanismi di controllo della proprietà delle aziende anch’ essi poco aperti al mercato (controllo familiare o di gruppi ristretti). Allo stesso tempo, questi paesi mediterranei presentano da una parte un settore occupazionale fortemente protetto (grandi imprese, pubblico impiego), ma da altra parte un’ampia parte di lavoro è regolata dal mercato e da processi di liberalizzazione (piccole imprese, servizi privati). Inoltre, i livelli di protezione sociale sono più ridotti che nel welfare continentale, più forte è il ruolo affidato alla famiglia ma soprattutto alla donna per quanto riguarda la cura dell’infanzia, dei malati, degli anziani. In tal modo entra l’idea di “tipi misti”. Robert Hanckè, Martin Rhodes e Mark Thatcher si concentrano in varietà di capitalismo “intermedie” che rimanevano marginali nel modello di Hall e Soskice. Nel lavoro di Hanckè, Rhodes e Thatcher si concentrano su economie di mercato emergenti, dedicando attenzioni ad altre tipologie di capitalismo. Una tipologia riguarda i possibili ruoli ricoperti dallo stato nel differenziare i vari tipi di capitalismo prendendo in considerazione il rapporto tra stato e arena economica. Il primo caso è quello Francese degli anni ’90 soprannominato “dirigismo”, in cui lo stato ha giocato un ruolo forte riguardo alla promozione dell’p economia e delle scelte delle imprese. Il secondo è lo stato che compensa, che invece rappresentato dallo stato italiano degli ultimi decenni, con lo stato che interviene molto ma dirige poco. Il terzo tipo è più simile alle tipologie liberali con organizzazioni degli interessi più frammentate, si tratta di uno stato non interventista. Il quarto tipo è molto vicino al modello delle economie coordinate di mercato, ed è ben rappresentato dal caso tedesco, che si potrebbe definire “stato che concerta”. Lo Stato non interviene direttamente nell’ economia (imprese pubbliche) ma organizza un vasto intervento nel campo del welfare. Il lavoro di Bruno Amable presenta una più complessa e dettagliata varietà di capitalismo, prendendo in considerazione diverse sfere istituzionali: il mercato dei prodotti e le relazioni industriali, il sistema finanziario, il welfare e il protezionismo sociale e il sistema educativo. Su questa base vengono individuati 5 tipi di capitalismo contemporaneo: incentrato sul mercato (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada), socialdemocratico (Danimarca, Finlandia, Belgio e Austria), europeo continentale (Germania, Francia, Belgio e Austria) europeo mediterraneo (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia), asiatico (Giappone e Corea). Questo autore sottolinea il fatto che i tipi sono eterogenei, cioè che al loro interno non rispondono ad una sola “logica istituzionale”. Amable fa una distinzione tra il SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 66 concetto di complementarità, dove due istituzioni si dicono complementari quando l’esistenza e il funzionamento dell’una migliora il funzionamento dell’altra. Un altro concetto è quello di isomorfismo quando le istituzioni funzionano con una stessa logica. I tipi di sistema pirico un elevato isomorfismo non sempre funzionano meglio dei casi misti. Questa tesi contrasta con l’analisi di Hall e Gingerich secondo la quale si ha una maggior competitività nei modelli ibridi. Nei casi ibridi ci possono essere delle forme di complementarietà istituzionale decentrata, che agisce a livello di alcune regioni e aree subnazionali, e che si rivela particolarmente efficace e permette anche delle forme di compensazione di inefficienze delle politiche nazionali di regolazione. L’ analisi di Hall e Soskice è stata criticata perché si ritiene che essa porti a trascurare il mutamento dei vari tipi di capitalismo nel tempo. La loro argomentazione si può riassumere: a) La complementarietà istituzionale dà ai paesi che si avvicinano di più ai due tipi puri un vantaggio competitivo per le strategie delle loro imprese b) Di fronte a pressioni esterne i conti delle imprese e i ricavi degli investimenti finanziari possono peggiorare c) In questa situazione, coloro che detengono risorse mobili cercheranno di recuperare margini di profitto altrove, investendo in paesi con più basso costo del lavoro, o spostando i capitali ad altri impieghi. d) Imprese e detentori di capitale delle economie coordinate, ci sono i vincoli dell’exit e gli operatori cercheranno di rafforzare i meccanismi di coordinamento interno. Per comodità possiamo distinguere due tipi di critiche 1) Quelle relative alle imprese manufatturiere, in cui i loro modelli organizzativi, la loro capacità di individuare nuove strategie che non dipendono soltanto dal contesto istituzionale nazionale, ma anche dalle loro specifiche scelte. La concorrenza tra reti di imprese trans nazionali tende ad attenuare le differenze nelle strategie legate all’ influenza dei contesti istituzionali nazionali. Il problema nasce dal legame tra paesi avanzati e paesi emergenti, i paesi emergenti (grazie alla delocalizzazione del lavoro) possono acquisire competenze maggiori anche nelle fasi più complesse e più ricche, e quindi possono minacciare la posizione delle imprese dei paesi più avanzati. 2) La seconda critica è quello degli operatori finanziari nelle economie coordinate, dove si dovrebbero rafforzare i meccanismi di coordinamento tra banche e imprese, legate da una relazione di lunga durata, e non dovrebbe crescere la finanza legata alla borsa. L’ indebolimento tra banche e imprese che garantiva un orientamento più a lungo termine del management porta a creare dei modelli ibridi. 3) Questi fenomeni sono poi accentuati da un fattore di tipo culturale, dovuto ad un’internazionalizzazione per la cultura economica. I manager delle imprese manifatturiere e finanziarie sono sempre più convolti in esperienze all’ estero “business schools” di stampo anglosassone. In questo modo i manager seguono le stesse strategie, cioè porre al centro il “valore per gli azionisti”. Convergenza o diversità? Oltre ad avere maggiori vantaggi competitivi nell’immediato, il capitalismo anglosassone sembrerebbe poter mostrare, a più lungo termine, migliori capacità di adattamento ai vincoli posti dalla globalizzazione rispetto alle istituzioni regolative delle economie coordinate. Il risultato finale sarebbe una convergenza nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone. Come si vede, in questa accezione, il concetto di globalizzazione non si riferisce soltanto alla crescita dell’apertura e dell’interdipendenza delle economie nazionali, ma assume che la globalizzazione implichi anche un’estensione di modelli regolativi basati sul mercato. • Le componenti della globalizzazione Alla bassa crescita delle economie dei paesi più sviluppati, iniziata nei primi anni 70 e prolungatasi oltre la seconda metà degli anni ’90, si è accompagnato un forte aumento del commercio internazionale. Essendo il PIL mondiale aumentato in misura molto minore dell’ammontare complessivo dei flussi di scambio tra i diversi paesi, ciò ha comportato un aumento sensibile della concorrenza tra i vari paesi per aggiudicarsi fette sempre più ampie di mercato. Cambia anche la geografia della produzione mondiale, con un declino del peso percentuale degli Stati Uniti e dell’Europa e una crescita concentrata soprattutto in Giappone e negli altri paesi dell’Asia. Accanto al commercio internazionale, un secondo indicatore della crescente integrazione internazionale dell’economia è dato dagli investimenti diretti all’estero, anche questi in aumento, trainati dalla ricerca da parte delle imprese di localizzazioni più favorevoli, sia per SIMONE MARINO – SOCIOLOGIA ECONOMICA 67 controllare i mercati di sbocco che per godere di condizioni di vantaggio in termini di costi. Infine, il terzo aspetto che segna in misura ancor più marcata l’interdipendenza tra le diverse economie è costituito dall’integrazione dei mercati finanziari, ovvero la liberalizzazione del movimento dei capitali necessari per finanziare il commercio e gli investimenti, per assicurare contro i rischi valutati, per spostare gli utili ottenuti all’estero, ecc. Hanno accelerato questo processo la rottura del sistema monetano internazionale basato sui cambi fissi, avvenuta all’inizio degli anni 70, il diffondersi di nuovi tipi di titoli («derivati finanziari») che vengono anch’essi incontro a una domanda di capitali in cerca di investimento, provenienti in particolare dai paesi produttori di petrolio, ed il miglioramento delle comunicazioni, legato alle nuove tecnologie informatiche, che abbassa nettamente i costi di transazione. Se si tiene conto congiuntamente di tutti e tre gli indicatori citati – commercio internazionale, investimenti diretti all’estero e movimento dei capitali – si può cogliere, sul piano descrittivo, il fenomeno della globalizzazione economica intesa come crescita del livello di apertura e insieme di interdipendenza delle diverse economie nazionali. • Il futuro dei capitalismi Diversi contributi sono stati raccolti con l’obiettivo duplice di valutare la portata dei processi di globalizzazione sul piano empirico e di discuterne le implicazioni sul piano della regolazione istituzionale. Per quel che riguarda il primo aspetto, vengono fornite molte indicazioni volte a non enfatizzare oltre misura la portata del fenomeno, dal momento che, nonostante l’aumento del commercio internazionale e degli investimenti diretti all’estero, nei paesi più sviluppati – non di piccole dimensioni – circa il 90% della produzione resta ancora rivolto al mercato interno, e lo stesso vale per le origini dei prodotti che sono consumati. Oltretutto, non c’è una significativa convergenza degli indicatori macroeconomici (salvo che per gli otto paesi più sviluppati, ma in misura molto limitata e solo per gli anni più recenti). Le persistenti differenze nei tassi di crescita, in quelli di occupazione, di profitto o di interesse, rimandano all’influenza esercitata dal contesto istituzionale. Infine, è certamente vero che il costo del lavoro sensibilmente più basso di molti paesi in via di sviluppo costituisce una minaccia maggiore soprattutto per le economie coordinate, che puntano alla produzione flessibile e di qualità con più elevate retribuzioni del lavoro. Questa minaccia si accresce nella misura in cui gli sviluppi della tecnologia e delle comunicazioni permettono il decentramento verso queste aree anche di produzioni più complesse. Tuttavia, è anche vero che i capitalismi più organizzati dispongono di un livello di economie esterne e di un complesso istituzionale che le mette in condizione di continuare a controllare i processi di innovazione e le fasi produttive a più elevato valore aggiunto. Resta da vedere se effettivamente tutto ciò porterà alla futura convergenza istituzionale. Ci risponde affermativamente a questa domanda, porta generalmente tre tipi di argomentazioni: 1. La pressione dei mercati e la crescente concorrenza a livello internazionale, che aumentano la spesa pubblica degli stati per la protezione sociale (direttamente con interventi redistributivi che pesano sul fisco e sui contributi sociali e indirettamente, tramite la regolamentazione del mercato del lavoro e il sostegno giuridico alle relazioni industriali e alla contrattazione). Gli stati, poi, non possono applicare forme più incisive di redistribuzione e di regolazione dei rapporti di lavoro, perché potrebbero indurre le imprese a spostarsi altrove. Questo si traduce in una limitazione dell’autonomia degli stati nel definire la propria politica economica, e questo avvantaggia i sistemi che già oggi si basano maggiormente sul mercato; 2. I processi di imitazione di regole istituzionali che danno buoni risultati in termini di rendimento economico, che possono spingere a fenomeni di ibridazione tra forme istituzionali diverse, favorendo per questa la convergenza; 3. L’introduzione contrattata, tramite accordi internazionali, di forme di regolazione simili (ad es. gli accordi internazionali volti ad abbattere le barriere protettive e a introdurre standard comuni, quale quello relativo ai processi di integrazione economica europea). A queste argomentazioni Suzanne Berger ne contrappone altre che gettano invece dubbi sulla portata dei processi di convergenza istituzionale. 1. L’accresciuta concorrenza segnala sì delle esigenze cambiamenti istituzionali, ma non è in grado di imporre una soluzione istituzionale standard. Più facilmente tale soluzione sarà anche frutto dei condizionamenti esercitati sugli attori dal patrimonio istituzionale ereditato dal passato e dai conflitti di interesse tra i sostenitori delle vecchie regole e i fautori del cambiamento. Le scelte saranno cioè path dependent; 2. Rispetto ai problemi competitivi, le varie istituzioni (es., l’impresa tedesca, quella di tipo giapponese o i distretti industriali italiani) possono rispondere in modi diversi, che tuttavia si equivalgono come capacità competitiva;
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