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Sociologia Emile Durkheim, Appunti di Sociologia Dei Media

Vita, pensiero e opere del sociologo Emile Durkheim

Tipologia: Appunti

2019/2020

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In vendita dal 06/08/2020

Carol1969
Carol1969 🇮🇹

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Scarica Sociologia Emile Durkheim e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Media solo su Docsity! Emile Durkheim (1858 – 1919) Con questo studioso la sociologia fa un salto di qualità, diventa una scienza consolidata. Sia Comte che Marx erano filosofi e la loro riflessione è tutta teorica, non è basata sul controllo dei fatti (–> Comte con la legge dei 3 stadi, Marx con la legge della caduta del saggio di profitto). D., come Comte e Marx, è un collettivista. D. invece dispone dei mezzi per accompagnare alla riflessione teorica l’indagine empirica. Lavora come un vero scienziato, seppur con un limite di dati dovuto al periodo storico in cui vive. D. ha integrato l’analisi teorica con quella empirica. Questo si vede soprattutto nella sua opera “Il suicidio”, quando è andato a procurarsi, direttamente o attraverso i suoi collaboratori, i dati necessari all’analisi. È il primo vero sociologo e, insieme Weber (che come pensiero è all’opposto), è considerato il padre della sociologia, uno dei fondatori della sociologia moderna, dato che ne fece una disciplina accademica legalmente riconosciuta. I sociologi a lui precedenti avevano tutti rivolto il loro impegno verso una disciplina che non aveva ancora trovato riconoscimento nelle università; nel loro tentativo di sostenere la legittimità della nuova scienza, la sociologia, essi incontrarono numerosi ostacoli che ne accrebbero notevolmente le difficoltà personali. Emile D. fu invece considerato semplicemente un intruso dai colleghi professori universitari. Comte e Spencer avevano impegnato gran parte delle loro energie per convincere il pubblico che la nuova scienza meritava l’attenzione delle persone colte. I loro successori, pur continuando la battaglia in questa direzione, si assunsero anche il compito di conferire alla sociologia, attraverso l’istituzionalizzazione, una posizione di forza all’interno dell’ambiente universitario. Gran parte dell’opera di D. può essere considerata come il tentativo consapevolmente compiuto per dimostrare al grande pubblico, ma soprattutto ai colleghi universitari, che la sociologia trattava temi d’importanza vitale, non considerati in precedenza da altre discipline. Non ha la vocazione del filosofo tradizionale, perché la filosofia come veniva insegnata allora gli sembrava troppo lontana dai problemi della vita del suo tempo. Egli voleva dedicarsi ad una disciplina che avrebbe dovuto contribuire a chiarire le grandi questioni morali che travagliavano il suo tempo e a risolvere i problemi della società contemporanea. Voleva dare un contributo al consolidamento morale e politico della Terza Repubblica che in quei giorni era ancora una struttura fragile e sottoposta a tensioni. Era convinto che tale guida morale potesse essere fornita soltanto da uomini con una solida preparazione scientifica, per questo decise di dedicarsi allo studio scientifico della società, con l’obiettivo di costruire un sistema sociologico su basi scientifico, che si ponesse come guida morale della società. D. ebbe come problema dominante quello di ricercare le origini dell’ordine e del disordine sociale. Lo stato di anomia era secondo D. pregiudizievole tanto per gli individui quanto per il più vasto ordine sociale. Contesto storico , politico e sociale In questo momento la scienza della sociologia da teorica diventa empirica. Questi due autori hanno trattato tutto lo scibile umano della sociologia (che è la scienza che ha più branche); non c’è settore in cui non siano citato l’uno o l’altro o entrambi. Siamo nel periodo della Francia positivista (la scienza positivista nasce con Comte e si rafforza proprio a metà ’800). Quando Comte muore, D. nasce. La Francia è ancora travagliata da lotte socio-politiche e nuovi regimi che si susseguono. Al tempo della giovinezza di D., la Terza Repubblica si trovava ai suoi inizi e in una situazione di grave disordine. La Francia si riprendeva lentamente dalle ferite subite nella guerra perduta con la Germania e dal trauma della Comune di Parigi. All’inizio degli anni ’90 la scena politica era alquanto più distesa e i giovani della generazione di D., che avevano vissuto un periodo quasi continuo di agitazioni, avvertirono la sensazione di potersi finalmente dedicare con tranquillità ai loro interessi professionali. In quello stesso periodo egli insegnava a Bordeaux e preparava la tesi; durante gli anni cui si è più esposti alle influenze formative esterne, egli aveva vissuto l’esperienza del caos sociale e politico, ed era stato costretto a trovare da solo la propria identità personale: dal giudaismo ortodosso era passato alla filosofia razionalista. Dal momento in cui i giacobini in Francia hanno voluto distruggere il cattolicesimo e hanno poi tentato di colmare il vuoto morale inventando un’artificiosa Religione della Ragione o una Religione dell’Umanità (Comte), i pensatori laici francesi, quali D., si sono sempre scontrati con il problema di come la morale pubblica e quella privata potessero essere mantenute senza sanzioni religiose. Se la religione, la grande forza unificante, è sul punto di estinguersi, come può essere curata la malattia della società moderna, cioè la sua tendenza a disgregarsi? D., che al pari di Saint-Simon e Comte, avvertiva l’ansia di dare unità morale ad una società in disintegrazione, non li seguì nel loro tentativo di istituire un nuovo culto dell’Umanità, e volle sollecitare gli uomini a fondare la loro unità su una morale civica basata sul riconoscimento che noi siamo ciò che siamo proprio in funzione della società. Le strutture che hanno un elevato tasso di suicidi hanno tutte un elemento in comune: una relativa mancanza di coesione o una condizione di relativa assenza di norme. La vita Fu il primo sociologo ad avere un ruolo universitario. La sua vita, interamente dominata dall’impegno accademico, fu tuttavia caratterizzata da un intenso ed appassionato interesse per i problemi della società francese. Nasce nel 1858 in Lorena, in Francia. Proviene da una famiglia ricchissima per cui si afferma facilmente nell’università. Suo padre è un rabbino e lo diventerà anche lui, ma la religione non è un elemento importante del pensiero di D., per lui il fatto di essere ebreo era solo un fattore elitario. Si libera infatti di ogni coinvolgimento religioso e diviene agnostico. Studia filosofia all’Ecole Normale a Parigi, la più importante in Francia per la formazione filosofica. Negli anni universitari conosce Jaurès (che diventerà il capo dei socialisti francesi) e, pur non prendendo mai la tessera del partito, le idee politiche di D. sono molto vicine al socialismo (che porta ad un programma di riforme a favore delle classi più deboli). I suoi interessi si indirizzano verso questa nuova scienza, la sociologia, che all’epoca però non aveva ancora una cattedra universitaria. All’università di Bordeaux viene istituito per lui un corso di scienza sociale nella facoltà di lettere e successivamente viene istituita la prima cattedra appositamente per lui, per la sua importanza in questo campo. Questi sono gli anni in cui scrive le pietre miliari della storia del pensiero sociologico (quello della giovinezza è per lui il periodo della massima ispirazione). È chiamato alla Sorbona nel 1902. Fonda anche un periodico scientifico interamente dedicato alla nuova disciplina: “L’année Sociologique” (1898), che ogni anno analizzava la corrente letteratura sociologica francese e straniera, consentendo al pubblico francese per la prima volta di avere una percezione completa della profondità e dell’ampiezza dell’attività sociologica. Le opere Analizziamo le 4 opere principali di D., quelle più strettamente di carattere sociologico (3 sono del periodo giovanile e 1 della maturità). - La divisione del lavoro sociale (1893): è la sua tesi di dottorato. mette d’accordo autonomamente. L’uomo si scopre come individuo a sé, staccato dalla società. È un diritto restitutivo, che non sanziona, l’individuo sceglie di conformarsi alle norme comportamentali. Secondo D. la causa della divisione del lavoro va ricercata sempre nei fatti sociali. La causa è la densità morale e materiale. Fa qui riferimento ad un’esplosione demografica che ha caratterizzato il passaggio dalla società a solidarietà meccanica a quella a solidarietà organica. Il forte aumento della popolazione (–> densità materiale) ha portato anche ad un aumento delle relazioni e degli scambi, con la conseguenza che gli individui si sono differenziati, per un problema di sopravvivenza. Se tutti infatti svolgono lo stesso lavoro, si corre il rischio di soddisfare meno bisogni; invece differenziandosi in base alle capacità e attitudini, si possono soddisfare più bisogni, con il risultato che chi sopravvive è colui che si differenzia, si specializza (–> di nuovo la teoria di Darwin). Quindi la differenziazione è ciò che ha permesso all’uomo di sopravvivere. La densità morale è legata ai legami sociali. Qui si evidenzia la prima contraddizione di D. Essendo un collettivista, non accetta di dare una risposta ai fenomeni sociali con una risposta individuale, perché confonde la risposta individuale con quella psicologica. Per questo cerca la causa nei fattori sociali. In realtà però lo fa prendendo in considerazione gli individui, perché è proprio di loro che parla, dei loro comportamenti. Inoltre usa una delle idee del pensiero individualista, quella che la divisione del lavoro è la conseguenza inintenzionale di azioni umane intenzionali (–> gli individui interagiscono tra di loro per soddisfare i proprio bisogni dando vita spontaneamente alla società: questa è una definizione individualista, ma D. è un collettivista). In effetti D. non arriverà mai a dare una definizione della società, proprio perché questa può essere definita solo in termini individualistici. D. arriva addirittura a dire che la coscienza collettiva si crea prima della coscienza individuale, pur di non ammettere che la società non si crea dal nulla. La sua è un’opposizione ideologica al pensiero individualista. D. continua a considerare la società come una cosa, rimane incastrato nel voler spiegare i fenomeni sociali come cose, spinto da ragioni ideologiche, ma anche dall’epoca storica in cui vive. La sua ricerca, pur cercando di essere imparziale, come avviene per tutti gli scienziati, è spinta da idee del proprio tempo. Sia Comte che Marx e lo stesso Durkheim sono anti-individualisti, hanno un preconcetto. “Il suicidio” In quest’opera D. si concentra sulla società organica, quella moderna, del suo tempo, in cui rileva che i legami che dovrebbero tenere la società si stanno sfaldando, al punto da portare ad un incremento dei suicidi. Esprime in questa opera un altro concetto importante: anomia (a-alfa privativo dal latino, nomia, dal greco nomos = regole), che vuol dire etimologicamente “senza regole, senza norme”, ma non va preso letteralmente, e vedremo poi perché. Le strutture che hanno un elevato tasso di suicidi hanno tutte un elemento in comune: una relativa mancanza di coesione o una condizione di relativa assenza di norme. L’analisi del tema del suicidio diventa il pretesto dell’analisi della natura della società moderna. Il suicidio rientra tra i fatti patologici (all’interno dei fatti sociologici), quelli in cui si osservano comportamenti che non sono conformi alle regole sociali. Non esistono società in cui il suicidio non esista; inoltre molte società mostrano nel lungo periodo tassi di suicidio più o meno costanti. I suicidi possono essere considerati quindi un fatto “normale”. Tutta improvvisi aumenti in taluni gruppi o in talune società dei tassi di suicidio sono “anormali” e rivelano l’esistenza di elementi perturbatori non presenti in precedenza, possono quindi essere considerati come un indice dell’azione di forze disgreganti all’interno di una struttura sociale Molti studiosi del tempo, fra cui l’italiano Morselli, stavano prendendo in esame questo tema, ma secondo D. con un limite, quello di soffermarsi al suicidio come conseguenza di una malattia mentale o un disagio individuale. Egli vuole invece fornire un’interpretazione alternativa, soprattutto con caratteristiche sociologiche. Anche in questo caso, trattando il tema del suicidio, D. vuole rintracciare una causa sociale, perché non lo considera come un caso personale, ma come un fenomeno che interessa più persone. Decide quindi di studiare l’incremento del numero dei suicidi che si stava verificando in Francia in quel periodo. È questo infatti che interessa al sociologo, quando il numero dei suicidi è tale da far supporre che ci sia qualcosa di anomalo ed è quindi necessario cercarne le cause. Da scienziato sociale, per prima cosa fornisce la definizione del fenomeno: il suicidio è qualunque atto attraverso cui un individuo si procura la morte da sé, direttamente (per es. con un colpo di pistola o tagliandosi le vene) o indirettamente (per es. la morte per inedia), è un atto lesionistico. Finora le risposte fornite dagli altri sociologi erano tutte orientate a cercare delle cause psicologiche. D. chiarisce che queste cause psicologiche/psicologistiche sono di tipo individualistico, per dimostrare che sono sbagliate; per esempio, la tesi che riconduce il suicidio alla malattia mentale. Per far ciò raccoglie i dati a disposizione (carceri, ospedali, manicomi, tribunali) e li incrocia e li disaggrega per trarne delle conclusioni. Per farlo fa delle ipotesi, non molto fondate, perché si basano su credenze. Per es., dato che si credeva che la pazzia fosse soprattutto un problema legato alle donne, analizzando i dati che riesce a reperire, scopre che i suicidi delle donne sono in realtà inferiori a quelli degli uomini, quindi arriva alla conclusione che il suicidio non può essere legato alla pazzia, e la esclude come possibile causa. Un altro fattore che prende in considerazione è l’alcolismo: per procurarsi i dati, si rivolge ai tribunali e recupera anche delle cartine dove sono indicate la diffusione di alcuni fenomeni; da qui ricava che c’era stato un numero cospicuo di cause civili pendenti che riguardavano l’alcolismo. Quindi incrocia i dati del suicidio e quando scopre che in quella stessa zona i suicidi sono in numero minore, esclude anche la causa dell’alcolismo (in questo caso D. sta analizzando il tema dell’alcolismo come era considerato all’epoca, cioè come un problema psicologico, mentre oggi sappiamo che è un problema sociale). Fra le altre possibili cause che prende in considerazione ci sono anche i fenomeni climatici, affermando per es. che nelle zone più calde, il clima determina un indebolimento del corpo che predisporrebbe al suicidio. Purtroppo molte delle analisi che fa sono ingenue e legate ai limiti della pochezza dei dati e delle conoscenze disponibili al suo tempo, ma la grande novità del suo studio consiste nel fatto che per la prima volta prende in considerazione vari dati e fenomeni e li incrocia, li studia. La sua tesi per spiegare il suicidio è che questo sia legato al tipo di legami che si instaurano nella società: quando sono troppo forti possono schiacciare l’individuo, quando sono troppo deboli al punto di sfaldarsi, possono scatenare uno stato di frustrazione che porta anche questo al suicidio. Per cui il suicidio è dovuto alla disgregazione sociale, ad una corrente suicidogena nella società. Un fondamentale fattore di integrazione è il grado di interazione che i vari componenti stabiliscono tra loro. Il grado di integrazione, cioè il grado di accettazione da parte dei membri dei valori e delle credenze comuni, risulta dunque connesso con la frequenza dei rapporti di interazione prestabiliti. Nella comunità in cui esiste un alto grado di consenso si ha un comportamento deviante inferiore a quello presente nei gruppi in cui il consenso è attenuato. D. distingue 3 tipi di suicidio: egoistico, altruistico, anomico. Si tratta di tre modalità diverse di suicidio di cui analizza le cause, che apparentemente sembrano tre, ma in realtà sono solo una, perché per D. c’è sempre solo una causa per ogni fatto sociale. - Il suicidio egoistico: la legge che mette in relazione il fenomeno con la causa è che questo tipo di suicidio è inversamente proporzionale al grado di integrazione sociale. Tanto meno l’individuo è integrato, maggiore sarà la possibilità di legami sociali sfaldati e quindi di suicidio. Lo chiama suicidio egoistico perché l’individuo esce dalla società, di chiama fuori da una società che però è essa stessa responsabile del suo disagio, della sua solitudine. Analizza questa causa nell’ambito familiare e religioso. Per quanto riguarda l’ambito religioso, sempre basandosi sui dati che ha raccolto e disgregato, afferma che è più facile trovare delle forme di disgregazione sociale tra i singoli, i vedovi, tra le persone sole rispetto a chi ha una famiglia, le coppie con figli (qui si potrebbe far riferimento al cosiddetto “capitale sociale”, l’insieme delle relazioni di sostegno e solidarietà). Per chi ha famiglia infatti, c’è sia un sostegno sia un senso di responsabilità; chi è solo invece è più esposto alla fragilità, alla frustrazione, perché non appartiene ad un gruppo. Va tenuto conto che all’epoca c’era anche lo stigma sociale per chi era single, per cui era veramente una condizione che poteva creare disagio. Per quanto riguarda l’aspetto religioso, D. fa una serie di considerazioni sulle religioni in Europa al suo tempo e prende in esame quelle maggiormente diffuse, cioè la religione cattolica e quella protestante (lasciando da parte quella ebraica). Sulla base dei dati che ha raccolto, nota che c’è un maggior numero di suicidi tra i protestanti. Secondo D. la causa è dovuta proprio al tipo di culto, perché nella religione protestante il fedele ha un rapporto diretto con Dio, vive la fede più in solitudine e senza una guida (il credo esalta la comune fede nell’individualismo e nel libero esame) mentre nella religione cattolica, la Chiesa, con il clero, i riti e i sacramenti, il fedele si sente parte di un gruppo. Quindi anche in questo caso alla base c’è sempre un problema di disgregazione. - Il suicidio altruistico: a differenza di quello egoistico, è direttamente proporzionale al grado di integrazione sociale. Quanto più l’uomo è integrato e schiacciato dalla società, tanto più è spinto al suicidio. I legami sociali in questo caso sono più forti e più solidi, la coscienza collettiva prende il sopravvento. Lo chiama altruistico perché non è più il chiamarsi fuori dalla società da parte dell’individuo ma è il chiamarsi dentro. Il suicidio altruistico si riferisce a quei casi in cui la spiegazione risiede in un eccesso di conformità agli imperativi sociali da parte dei singoli individui. In questo caso le richieste della società sono così importanti che il suicidio è direttamente proporzionale all’integrazione sociale. Per spiegarlo, D. prende ad esempio una tradizione indiana, in cui le vedove si lasciano bruciare vicino alla pira del cadavere del marito durante la cerimonia funebre. In queste donne è tale la forza dell’imposizione sociale, che la donna considera il suicidio come un obbligo, per testimoniare la fedeltà alla comunità di appartenenza, il rispetto, la conformità alle norme sociali; la donna preferisce la morte alla sanzione, allo stigma della società. Non si tratta di una scelta ragionata, perché la donna ha interiorizzato le norme, la coscienza collettiva. Altri esempi proposti da D. sono quelli in cui è molto forte il senso dell’onore (per esempio il capitano di una nave, il comandante di un esercito, che preferisce morire piuttosto che abbandonare la nave e i suoi uomini, che si sacrifica) perché il codice di onore impone loro un’attitudine passiva all’obbedienza, in base alla quale essi sono spinti a sottovalutare la propria vita, la forza del valore, della tradizione è più forte dell’istinto di sopravvivenza. Altri esempi sono i samurai, i kamikaze, le sette religiose. - Il suicidio anomico: D. aveva già accennato al tema dell’anomia nella divisione sociale del lavoro. A partire da quest’opera sul suicidio però, lo estende a qualsiasi contesto sociale. Come quello egoistico, anche il suicidio anomico è indirettamente proporzionale al grado di integrazione sociale. Lo analizza proprio nella società del suo tempo, quella moderna e industrializzata. L’anomia, intesa come perdita di norme e valori, nasce proprio in correlazione a certe società del benessere. L’anomia è una condizione di discrasia (frattura, non coincidenza, contraddizione), tra quelle che sono le aspettative di un individuo e i mezzi istituzionale che la società mette a disposizione per soddisfare tali aspettative. (Robert Merton, riprendendo la riflessione di D., afferma che l’anomia è la contraddizione tra mezzi culturali e mezzi istituzionali). Le nostre legittime aspettative nascono dal relazionarsi con la * È importante prendere nota, per capire le differenze di vedute tra individualisti e collettivisti (vedi tabella), il contesto storico-sociale sia dell’Inghilterra sia della Francia. In Inghilterra, a fine 1700, emerge il pensiero, dalla Francia giacobina e rivoluzionaria, dei Moralisti scozzesi, Il più autorevole rappresentante è Adam Smith (il padre dell’economia, ma anche un importante filosofo, che ha riflettuto sulla società), che si faceva portatore del liberalismo, sia nel commercio che nella società, che è libera, dove è fondamentale l’iniziativa privata e gli individui devono essere lasciati liberi di agire in iniziativa privata. Per Smith non esiste la società, ma esistono solo gli individui. Smith non accetterebbe mai la guida di un filosofo, perché solo il singolo conosce le sue esigenze e sa come soddisfarle. Durkheim e i positivisti sono spaventati da tutto questo, da ciò che potrebbe accadere in Francia se queste idee liberali si diffondessero e prendessero piede. Nel caso dei collettivisti, il loro collettivismo metodologico serve a legittimare il loro ideologismo. Per Marx la dialettica serve a far credere che il capitalismo sarebbe finito perché era scontato. Comte deve rivendicare l’idea dell’ordine, con una società in cui l’individuo si annulla. Quindi D. fa nascere le sue teorie, pretende dal piano sociologico legittimizza il suo essere conservatore. Ha dovuto sostenere il collettivismo metodologico con il suo essere conservatore. Per questo motivo i collettivisti non possono spiegare la società, perché questa parte dagli individui, quindi non spiegano come la società si è formata, altrimenti dovrebbero farlo attraverso l’individualismo. La debolezza della parte metodologica è spiegata dal fatto che i collettivisti la usavano per legittimare la loro ideologia politica (conservatrice rispetto a quella liberale che stava nascendo in Inghilterra). –> Leggere articolo della professoressa Fallocco “L’individualismo metodologico nei collettivisti”, rivista “Sociologia” n. 2 del 2015 * Differenze tra individualisti e collettivisti Individualismo Collettivismo Piano ontologico (l’essenza, la natura) - Qual è la natura dei fenomeni sociali? Individui (i fatti sociali, non esistono, sono solo dei nomi che diamo ai fenomeni sociali) Res (cosa) – i fatti sociali sono cose, hanno una realtà concreta, esterna Piano metodologico - Come si spiegano i fenomeni sociali? Si spiegano a partire dalle azioni degli individui; modelli sociali costruiti dagli scienziati sociali per fare delle generalizzazioni, che nono sono leggi di verità assoluto Con le leggi, le tendenze storiche (–> i 3 stadi, la dialettica…). Le leggi sono necessarie, ma non tutte scientifiche, alcune anche deterministiche Piano gnoseologico (come definire la conoscenza) Gli individualisti sono dei fallibilisti, perché la conoscenza umana non è assoluta, perché non csi concentra tutta in un individuo, ma è dispersa in milioni di individui, la conoscenza è limitata. La conoscenza umana è infallibile (i positivisti credevano fermamente nel progresso, traggono origine dall’Illuminismo, la ragione umana). L’idea è che nella società ci sia chi una conoscenza superiore alle masse (per Comte i sapienti, per Marx i filosofi) quindi può intervenire e ripristinare l’ordine sociale se questo si sfalda. Piano sociologico (e politico) - Che tipo di società? Società liberale o aperta (non c’è monopolio in nessuno settore, né in quello economico, né nella conoscenza né nella politica Il libero mercato invece del regime (non c’è bisogno di stabilire un prezzo, perché lo fa il mercato). Lo stato non è considerato superiore, c’è democrazia Società chiusa, autoritaria, controllata, non libera, l’uomo non è lasciato libero ma è subordinato ad un ente superiore (per D. lo stato è l’ente supremo). Le libertà individuali sono subordinate a quelle del tutto, che annulla le parti (–> ordine e progresso di Comte, riportare l’ordine dopo l’anomia per Durkheim). Sul piano politico D. auspica un regime autoritario, Marx un regime comunista, dove la libertà del singolo viene sacrificata in nome della società intera.
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