Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sofocle, Aiace: testo integrale, Appunti di Letteratura Greca

Il documento contiene il testo integrale della tragedia Aiace di Sofocle per la lettura.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 18/06/2018

maddygal
maddygal 🇮🇹

5

(2)

2 documenti

1 / 37

Toggle sidebar

Anteprima parziale del testo

Scarica Sofocle, Aiace: testo integrale e più Appunti in PDF di Letteratura Greca solo su Docsity! Sofocle Aiace Traduzione di Ettore Romagnoli PERSONAGGI: ATENA ULISSE AIACE TECMESSA ARALDO TEUCRO MENELAO AGAMÈNNONE CORO di Nocchieri di Salamina PERSONAGGI MUTI: EURISACE PEDAGOGO ARALDO dell'Esercito Quando incomincia l'azione, si vede il campo dei Greci sulla spiaggia del mare. A destra la campagna, in mezzo la tenda d'Aiace, a sinistra le altre tende degli Achei. (Al principio dell'azione, entra Ulisse, e comincia a girare, esaminando attentamente delle tracce di piedi sulla sabbia. Quasi subito compare Atena) ATENA: Sempre io t'ho visto, figlio di Laerte, che cerchi qualche occasïone cogliere contro i nemici. Ed alle tende innanzi or ti veggo d'Aiace, ove, all'estremo del campo, e presso al mare ei l'ha piantate, che vai braccando già da un pezzo, e cerchi l'orme che impresse egli ha testé, se dentro sia, se non sia, Bene ti guida un fiuto, qual di cagna spartana: or ora Aiace entrato è dentro, e di sudor la fronte gronda, e le man' di sangue intrise. Or, d'uopo non è che tu da questa porta spii, ma che dica perché giungi con tanta fretta: io so tutto, e ammaestrar ti posso, ULISSE: O favella d'Atena, a me diletta sopra tutte le Dee, come, sebbene invisibile sei, giunge il tuo suono a me distinto, e l'anima l'accoglie, quale di bronzea búccina tirrena! Ed or, lo sai, sopra un nemico il passo volgo, su Aiace dall'immane scudo: l'orme sue, non d'altrui, da un pezzo seguo, Ch'egli ha compiuto un atto inconcepibile contro noi, questa notte; ov'ei l'autore ne sia: ché non abbiam certezza alcuna: nel buio erriamo. Ed io mi sobbarcai volonteroso a tal fatica. Or ora, tutte distrutte le predate greggi trovate abbiamo, coi pastori insieme, da mano d'uomo sterminate; e ognuno a lui la colpa attribuisce. E a me l'ha scoperto una scolta; e detto m'ha che l'ha veduto per i campi, solo balzar, con una spada ancor grondante, Su le sue tracce io subito mi lancio, ed ora colgo qualche indizio, ed ora sono sviato; né alcun v'è che possa darmi notizie. Ma tu giungi in punto: ché, già pria d'ora, e, d'ora innanzi, sempre il senno tuo per guida io prenderò. ATENA: Sapevo; e già da tempo, alla tua caccia, spontanëa custode, Ulisse, assisto. ULISSE: E son vòlto a buon segno, o mia Signora? ATENA: Da quest'uomo compiuta fu quell'opera. ULISSE: E qual follia la mano a lui guidò? ATENA: L'ira concetta per l'armi d'Achille. ULISSE: E perché mai piombò sopra le greggi? ATENA: Su voi sperava insanguinar la mano. ULISSE: Contro gli Argivi, dunque, era l'insidia? ATENA: E la compiea, se li avessi negletti. ULISSE: Con quale ardir, con quale animo audace? ATENA: Furtivo, sol, su voi piombò di notte. ULISSE: E giunse fino a noi? Giunse alla mèta? ATENA: Giunse alla porta dei due sommi duci. ULISSE: E poi frenò la mano di sangue avida? ATENA: La sua gioia feroce io gli contesi: a lui con false immagini funeste gli occhi turbai, nelle predate greggi A quest'opera muovo; e ti scongiuro d'essermi, come or sei, sempre alleata. (Rientra nella tenda) ATENA: Il poter dei Celesti, Ulisse, vedi quanto sia grande. All'opere opportune, chi fu mai di costui piú pronto o valido? ULISSE: Io nulla so; ma pur, di questo misero provo pietà, sebben mi sia nemico: ché nel gorgo piombò di tal iattura, né piú del suo m'è noto il mio destino. Altro non siam, lo vedo, che fantasime, tutti quanti viviamo, ed ombre vane. ATENA: Poi che l'intendi, mai non dir parola contro i Numi arrogante, e non alzare troppa superbia, se di forze superi e questo e quello, e di ricchezza grande. Un medesimo giorno, atterra e suscita tutte le cose dei mortali. E i Numi amano i saggi, e aborrono i malvagi. (Atena sparisce, Ulisse si allontana) CANTO D'INGRESSO DEL CORO (I guerrieri compagni d'Aiace entrano e si aggruppano dinanzi alla tenda d'Aiace) CORO: Di Telàmone figlio, che reggi Salamina, che siede sul mare ond'è cinta, se tu sei felice, io m'allegro: ma quando t'investe qualche colpo di Giove, o dei Dànai qualche trista calunnia, io mi turbo, tutto trepido, come pupilla di pennuta colomba. Come ora, gran susurri all'orecchio ci giunsero d'uno sconcio compiuto la notte che or ora è trascorsa: che, irrompendo sul piano battuto dai cavalli, l'armento e la preda, quanta ancor ne restava, dei Dànai, con la lucida spada tu avevi sterminata, distrutta. Susurri di calunnie cosí va fingendo, e all'orecchio di tutti li reca il figliuol di Laerte. Ed assai li convince quanto egli racconta, verisimile sembra. E chi ascolta, gode piú di chi parla, e l'ingiuria si compiace a scagliarti. Se volgi contro l'anime grandi la mira, non puoi colpo fallir: chi scagliasse contro me la medesima ingiuria, niun convinto farebbe: ché Invidia repe sol contro i grandi. Sebbene, senza i grandi, i piccini sarebbero baluardo ben debole: il piccolo si può reggere solo coi grandi, coi piccoli il grande. Ma possibil non è quanti d'essi sono stolti, convincere in tempo: da tal gente ti viene l'oltraggio. E noi, nulla possiamo ribattere, o Signor, senza te. Ma, se invece, il tuo viso vedranno, in tumulto fuggiran, come stormi d'uccelli: per timore del grande avvoltoio, se improvviso ti mostri, ben presto resteranno, tremando, in silenzio. (I guerrieri si aggruppano tutti dintorno all'ara di Diòniso) PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARA CORO: Strofe prima Forse la figlia del Croníde, Artèmide la Tauropòlia - o trista Fama, origine della vergogna mia - te sopra i buoi della comune greggia spinse, o perché d'una vittoria il premio fu conteso all'Iddia, o d'un'inclita spoglia, o d'una caccia di cervi? O il Dio cinto di bronzo, Eníalo ti die' soccorso, e te ne colse oblio; e il notturno or ne sconti obliquo fio? Antistrofe prima Non di tua voglia per obliqui tramiti sí ti sviasti, o figlio di Telàmone, da piombar su gli armenti: divino morbo ti colpí. Ma sperdano degli Argivi i susurri Giove e Apòlline. Se poi, con ladri accenti ti colpîr di calunnia i sommi principi, oppure il germe del ribaldo Sísifo, esci, orsú, dalla tua marina tenda, pria che vigore la calunnia prenda. Epodo Sorgi, su dunque, dal luogo, dove, confitto restando nei lunghi contrasti, una sciagura eccitasti che levasi al ciel come un rogo. Ché dei nemici l'oltraggio, senza piú freno si spande lunghesse le valli, ed il vento lo accresce, fra un murmure grande di tutte le lingue acerbissime; e pieno è il cuor mio di tormento. (Dalla tenda esce Tecmessa) TECMESSA: Della nave d'Aiace o ministri, dei terrígeni Erèttidi o stirpi, dobbiam gemere, noi che abbiam cura della casa d'Aiace: ché lungi è l'eroe dalle valide spalle, il gigante, il terribile, e giace nella furia di torba procella. CORO: Qual travaglio recò questa notte, dopo quello del giorno? O del Frigio Teleutànte figliuola, or tu parla, poiché te, sposa e preda di guerra, predilige il fortissimo Aiace: sicché puoi non ignara parlare. TECMESSA: Come dir ciò che dire è impossibile? Un cordoglio saprai, della morte piú doglioso: il fortissimo Aiace da follia còlto fu questa notte, svergognato ne fu: tali vittime puoi veder di sua mano sbranate nella tenda, ed immerse nel sangue. Tali furono i suoi sacrifizi. CORO: Strofe seconda Deh, quale intollerabile incancellabil macchia del Sire ardente a noi tu sveli; e i principi dei Dànai la divulgano, e il parlar lungo a lei vigore dà. Del futuro pavento. Quando ei saprà lo scempio, saprà che col suo ferro sgozzò pastori e mandrie, dalla propria frenetica mano spento morrà. TECMESSA: Ahimè, di lí venne, di lí, conducendo una greggia captiva. Ed a terra una parte qui dentro ne scannò, giú pei fianchi divise in due parti quell'altre; e, levati due montoni dai candidi piedi, miete all'uno la lingua e la testa, e le gitta lontane; e quell'altro, ad una colonna lo lega diritto; e una sferza da legare cavalli impugnata, l'addoppia e la fa sibilare sul suo corpo, avventando improperi Amici, or voi, se lo potete, entrate e recate soccorso: a questo io giunsi. Gli amici come voi, parlando vincono. CORO: Figlia di Teleutànte, orrori parli, se dici che pei mali esso delira, (Dall'interno si odono i gemiti di Aiace) AIACE: Ahimè, ahimè! TECMESSA: Ed il peggio verrà presto, mi credo. Non udite che grida Aiace innalza? AIACE: Ahimè, ahimè! CORO: L'angustia il morbo, a quanto sembra; oppure al morbo antico pensa, e s'addolora. AIACE: Oh figlio, oh figlio! TECMESSA: Oh me tapina! Per te grida, Eurísace. Che mai vaneggia? Dove sei? Me misera! AIACE: Teucro, te chiamo! Dov'è Teucro? A caccia andrà dunque in eterno? Ed io qui muoio. CORO: È in senno, sembra. Aprite, dunque. Forse qualche riguardo avrà di me, vedendomi. TECMESSA: Ecco, aprirò. Le sue gesta vedremo e lui stesso potrai, la sua sciagura. (Tecmessa schiude la tenda, e nell'interno si vede Aiace steso, ancora delirante, in mezzo ai mucchi delle bestie uccise) AIACE: Sfrofe prima Cari nocchieri, fra quanti m'amarono soli rimasti fedeli nei termini di lealtà, non vedete che turbine, che sanguinëo flutto ora m'avvolge tutto? CORO: Ahi, che purtroppo il vero dice; e chiaro mostrano i fatti che non v'ha riparo. AIACE: Antistrofe prima Stirpi dell'arte navale sollecite, che vanamente sedeste al remeggio, voi sole vedo fra tutte, partecipi ancor della mia sorte. Or datemi aiuto alla morte. CORO: Augura il ben, ché per erronea cura non sia la doglia piú che la sciagura. AIACE: Strofe seconda Vedi l'ardito, l'impavido cuore che nelle pugne mai seppe il terrore, l'invitto contro ogni fiera selvaggia? Chi mi schernisce adesso, ahi, chi m'oltraggia! TECMESSA: Non dir cosí, ti prego, Aiace re! AIACE: Lunge non vai? Non volgi altrove il pie'? Ahimè! TECMESSA: Cedi, in nome dei Numi, e torna in te. AIACE: Ahi, me tapino, lasciai che di man mi sfuggissero gli empi, e sui cornigeri bovi piombando, e su l'agili greggi, il negro lor sangue versai. CORO: Per quanto fu, ché gemi? Alcuna via non c'è, che quanto fu, stato non sia. AIACE: Antistrofe seconda O di Laerte figliuolo dai cento volti, o di mali perpetuo strumento, dell'esercito sozzo volutabro, come godi! Che scherno è sul tuo labro! CORO: Riso e pianto a ciascun partisce un Dio. AIACE: Lo intendo, pure a tal distretta, anch'io. Ahi, ahi! CORO: Vedi a che sei? Non favellare altero. AIACE: Giove, antichissimo padre degli avoli miei, deh, concesso mi sia quel sozzo furbo trafiggere, e insieme i due re, e dopo soccombere io stesso. TECMESSA: Se questo invochi, invoca anche per me la morte: a che vivrei, priva di te? AIACE: Strofe terza O tu mia luce, o tenebra, Erebo che per me sei fulgidissimo, ospite ricevetemi, ricevetemi, ch'io fissar non merito sovra i Celesti il ciglio, e non sugli uomini: tanto sono io disutile. Ché la figlia pugnace di Giove, a vituperio vuole or distrutto Aiace. Di fuga quale via mi s'apre, o qual ricovero, se qui mi trovo in mezzo a tanto scempio, se preda son di selvaggia follia, se tutto il campo e l'uno e l'altro re s'avventerà su me? TECMESSA: Misera me, quando parlare s'ode come pria d'or mai non parlava, un prode! AIACE: Antistrofe terza O rumorosi tramiti del mar, caverne e selve della spiaggia, lungo, ben lungo indugio io feci ad Ilio. Or trattenermi, e ch'alito mi resti, piú non vi sarà possibile: ben può, chi vuole, intendermi. Dello Scamandro o rivi prossimi, che benevoli foste sempre agli Argivi, piú non vedrete - lode sarà la mia non piccola - un uomo tale, quale mai non videro d'Ilio le genti giunger dalle prode d'Ellade, al campo achivo. Or giaccio, spoglio d'onore, in tal cordoglio. CORO: Un freno importi - in tanto duol piombasti - non posso; e pur convien ch'io ti contrasti. (Aiace si leva e si avanza sulla scena) AIACE: Ahi, ahi, chi mai creder potrà che tanto alle sciagure mie potesse il nome mio convenire? Ed ora, invece, due, tre volte far ne debbo lagno: in tanti mali mi trovo. Che salpò mio padre da questa terra Idèa, recando in patria coi piú eccelsi trofei gloria purissima; ed io, suo figlio, a questo suol medesimo giunto, che di valore a lui non cedo, che non men grandi opre compiei, perduto son fra gli Argivi, a fine d'ignominia. Eppure, ciò credo saper: se vivo dovesse Achille aggiudicare, in premio del valor, l'armi sue, nessuno, invece di me le avrebbe avute. Ora, gli Atrídi un uomo reo d'ogni empietà compiacquero, la virtú mia spregiarono. Ma se queste pupille mie, se questa mente di senno priva, dal disegno mio non mi sviava, contro niun degli uomini non darebbero piú giudizio iniquo. Ora, l'invitta Dea figlia di Giove dal fiero sguardo, mi fiaccò, mentre io su lor lanciavo le mie mani, e un folle furore infuse in me, sí ch'io le mani su queste greggi insanguinassi. E ridono quelli di me, sfuggiti a mal mio grado. In quale altra potrei cosa giovarti? AIACE: Fa' ch'io lo veda qui, fa' ch'io gli parli. TECMESSA: Custodito qui presso è da famigli. AIACE: A che s'indugia ch'egli venga qui? TECMESSA: Figlio, il padre ti chiama! - O dei domestici tu, che di lui cura ti prendi, recalo. AIACE: Muove già forse? O udito ancor non t'ha? TECMESSA: Uno s'accosta dei famigli, vedilo. (Entra uno schiavo che conduce per mano Eurisace) AIACE: Dammelo, dallo qui: non rimarrà sbigottito, a veder questa recente strage, se veramente è da me nato. E di suo padre nei costumi fieri educarlo convien subito, e d'indole pari alla sua. Piú fortunato, o figlio, sii tu del padre, e in tutto il resto simile. Invidïare ora io ti debbo in ciò: che nulla tu di questi mali intendi. Soavissima cosa è nulla intendere, sinché gioire e sofferir s'apprenda; e quando a ciò tu sia giunto, ai nemici dei mostrare da che padre nascesti. Sino a quel punto, lievi aure ti nutrano, il tuo spirito allieta, e di tua madre sii la delizia, E degli Achèi, nessuno, credo, sarà, che d'odïoso oltraggio t'offenda mai, sebben lungi sarò: tale a te lascio un vigile custode, che a proteggerti ignavo non sarà, sebbene lungi, dei nemici a caccia, adesso muove. E a voi, guerrieri, a voi questa grazia, nocchieri, insieme io chiedo, e la mia brama a lui partecipate: ch'egli il mio figlio alla mia casa rechi, e lo presenti a Telamóne, e a mia madre Eribèa, ché dei loro anni tardi il custode ei divenga, insin che scendano giú negli anfratti dell'inferno Dèmone. E l'armi mie, né giudici d'agone, né quei che m'insozzò, sia che le pongano mèta di gara fra gli Achei. Ma tu, per la salda ansa, o mio figliuolo Eurísace, l'infrangibile scudo a sette piastre onde hai tu nome, afferra, impugna; e siano con me sepolte l'altre armi. Su via, questo fanciullo accogli presto, e chiudi la tenda; e fuori, a lagrimare, qui non rimanere: di querele, troppo sono vaghe le donne. Or, chiudi in fretta. Pianger non si conviene al savio medico sopra un mal che bisogno abbia di taglio. CORO: Questa tua brama ascolto e temo: questo tuo tagliente parlar, poco m'affida. TECMESSA: Che volgi nel pensiero, Aiace re? AIACE: Non chieder, non cercar: discreta sii. TECMESSA: Ahi, che mi trema il cuor! Non ci tradire! Pel figlio tuo, pei Numi te ne supplico. AIACE: Troppo mi crucci. Non sai tu che ai Numi io piú non debbo riverenza alcuna? TECMESSA: Empietà, dici. AIACE: A chi t'ascolta volgiti. TECMESSA: Convincer non ti vuoi? AIACE: Troppo tu cianci. TECMESSA: Io temo, o re. AIACE: Su via, chiudete in fretta. TECMESSA: Piègati, per gli Dei! AIACE: Parli da stolta, se pensi ora educare i miei costumi. (Aiace rientra nella tenda, che torna a chiudersi) SECONDO CANTO INTORNO ALL'ARA CORO: Strofe prima Flagellata dai flutti, beata sorgi, o Salamina, o celebre, fra lo stupor di tutti. Ma lungo tempo volse già ch'io scesi sui campi d'Ida, e state e verno, o misero, giaccio, senza far novero di mesi. Mi strugge il tempo, e lugubre in cuor nutro il presagio ch'io scenderò dell'Ade le buie orride strade. Antistrofe prima E, nuovo male, giace presso a me, da follia còlto, né farmaco v'è che lo sani, Aiace. Ché un tempo fu negl'impeti di guerra celebre, ed agli amici ora gran cruccio reca, e dal senno suo ben lontano erra. E vicino agl'immemori figli d'Atrèo, le massime gesta, che di sua mano compié, caddero invano. Strofe seconda La madre sua, compagna ai canuti anni, bianca per tarda età, quando il delirio demente udrà del figlio, udrà gli affanni, ahimè, ahi, non i gemiti di flebile usignolo, misera, leverà, anzi le melodie d'acuto duolo; e di mani un piombar sul seno stanco udrai, le chiome svellere vedrai del crine bianco. Antistrofe seconda Se lo avvolge follia, meglio conviene che giú nell'Ade egli sparisca. Origine ebbe pur dagli Achivi, usi alle pene; ma saldo negl'ingeniti costumi or piú non resta; ma per lontani tramiti erra sbandato. Oh qual nuova funesta, misero padre, del tuo figlio udrai, quale niun degli Eàcidi ebbe a soffrir piú mai! (Aiace esce dalla tenda, seguito da Tecmessa. Cinge unn spada) AIACE: Del lungo tempo i giorni innumerabili le invisibili cose a luce recano tutte; e sparite vanno le visibili; e nulla è certo che avvenir non possa; ed i piú sacri giuri ed i fortissimi animi vacillar vedi. Ed anch'io, che saldo un giorno fui, come per tempra taglio di spada, molle ora son fatto per questa donna: ché lasciarla vedova, pietà ne sento, ed orfano mio figlio. Ai prati della spiaggia, ora, ai lavacri andrò, sí ch'io, purificando tutte le mie sozzure, della Diva sfugga alla collera grave. E, giunto dove piú non si trovi al suol vestigia d'uomo, la terra scaverò, questa mia spada, Che predice? Che sa di tal vicenda? ARALDO: Io tanto so: ché mi trovai presente. Dal consesso dei principi e dal cerchio surto Calcante, solo egli, discorde dagli Atridi, la mano a Teucro offerse benevolmente, e disse, ed insisté che in questo giorno ad ogni modo Aiace trattenere dovesse entro la tenda, e non lasciarlo uscir, se pur volesse vivo vederlo ancor: ché questo giorno solo, d'Atèna l'ira ancor l'incalza. Disse cosí. Ché gli orgogliosi, disse, i vantatori, cadono pei colpi inflitti dai Celesti, allor che un uomo nato mortal, piú che mortal presume. E Aiace, quando abbandonò la patria, di follia si macchiò, mentre suo padre, saviamente parlò. Gli disse il padre: «Vincer con la tua lancia, o figlio, devi, ma con l'aiuto dei Celesti». Ed egli, con folle tracotanza, a lui rispose: «Con l'aiuto dei Numi, o padre, vincere un uom da nulla anch'esso può: la gloria pur senza i Numi io di strappar confido». Tale il suo vanto. E un'altra volta, quando la Diva Atena lo eccitava a volgere contro i nemici la sanguinea mano, queste parole orribili nefande a lei rispose: «Agli altri Argivi, o Dea, fatti d'accanto: ché non mai le schiere si spezzeranno, dove io sono». E l'odio della Diva implacato guadagnò con tali detti: che piú ch'uom presunse. Ma, se vivrà per questo giorno, forse, con l'aiuto del Dio, salvo l'avremo.» Cosí disse il profeta; e Teucro súbito m'inviò dal consesso, a darti l'ordine di custodirlo. E spento è, se saremo frustrati; o nulla intende piú Calcante. CORO: Sciagurata Tecmessa, vieni, o misera, odi quanto costui dice: ché al vivo ci piaga, e sí, che niun lieto può esserne (Dalla tenda esce Tecmessa con Eurisace) TECMESSA: Misera me, perché mi fate sorgere dal mio riposo ancora, allor che avevo tregua appena dai mali innumerabili? CORO: Odi quest'uomo, che sciagura annuncia d'Aiace, tal che me ne duole il cuore. TECMESSA: Che dici, amico, ahimè? Siamo perduti? ARALDO: La tua sorte non so; ma poco spero, per Aiace, se uscito è dalla tenda. TECMESSA: Appunto è uscito: onde il tuo dir mi cruccia. ARALDO: Dentro alla tenda custodirlo, Teucro impose, e non lasciar che solo uscisse. TECMESSA: E Teucro, ov'è? Perché mai dice questo? ARALDO: È giunto or ora; e tale uscita pensa che funesta sortir debba ad Aiace. TECMESSA: Ahimè, tapina! E da chi mai l'apprese? ARALDO: Di Tèstore dal figlio, in questo giorno che recare gli deve o morte o vita. TECMESSA: Assistetemi, amici, in tal iattura. Poi provvedete che s'affretti Teucro. Ed alle spiagge voi d'occaso, e voi movete a quelle d'orïente, e Aiace cercate ove n'andò, con tristo auspicio: ch'ora ben vedo ch'egli m'ingannò, che fui bandita dall'antica grazia. Figlio, ahimè, che farò? Restar non posso. Andrò, finché mi valgano le forze, anche io colà. Affrettiamoci, andiamo: non è momento da sostare, questo. CORO: Io sono pronto, e non solo a parole: seguiranno veloci il piede e l'opera. (Tecmessa esce in furia. I corifei si dividono in due gruppi, e si allontanano dalle due parodoi, lasciando vuota l'orchestra. Qui interviene un cambiamento di scena, e si vede un luogo appartato e solitario in riva al mare) (Aiace entra, e va a piantare la sua spada in terra, fra i cespugli. Poi torna sul davanti della scena) AIACE: Sito è il ministro di mia morte, in guisa tale, da rïuscir, chi ben consideri, quanto si può micidïale. È dono d'Ettore, infesto a me fra tutti gli ospiti, odïoso a vedere; ed è confitto nell'inimico suolo della Tròade, ed affilato or ora con la cote voratrice del ferro; e lo confissi con cura assai, ché riuscir benevolo a quest'uomo dovesse, e una sollecita morte accordargli. Pronto io sono dunque. Ed ora, o Giove, tu per primo assistimi, come è pur giusto: un dono io da te bramo, non grande: un qualche messaggero invia, che la trista novella a Teucro rechi, perché, quando io, su questo ferro intriso di fresco sangue sia caduto, primo ei mi raccolga, e dei nemici alcuno pria non mi vegga, e ai cani ed agli augelli preda mi gitti: io ciò ti chiedo, o Giove. E invoco insieme Ermète sotterraneo, guidatore dell'anime, che me dolcemente sopisca, e senza spasimi, con lieve balzo, allor ch'io frangerò il fianco mio con questa spada. Invoco a mia venaetta anche l'Erinni, vergini sempre, che sempre dei mortali scorgono le pene, pie' veloci, venerabili, perché vedan come io, misero, muoio per colpa degli Atrídi, e quei malvagi precipitino all'ultima rovina, come ora io son caduto. Orsú, veloci vendicatrici Erinni, ora lanciatevi, risparmiato da voi non sia l'esercito. E tu, che per il ciel sublime spingi, Sole, il tuo carro, allor che la mia terra patria vedrai, rattieni l'auree briglie, e la mia sorte e il tristo fine annunzia al vecchio padre, all'infelice madre. Misera, allor che questa nuova udrà, tutta empierà la rocca d'un grande ululo. Ma versar vane lagrime, a che giova? Compier conviene, e senza indugio, l'opera. O Morte, o Morte, giungi adesso, e guardami, sebben anche laggiú potrò parlarti. Ed a te la parola volgo, o lucido raggio del giorno, auriga Sole, a te, l'ultima volta, e piú mai non potrò. O luce, o sacro suol di Salamina, della terra paterna, o focolare dei miei maggiori, e tu, famosa Atene, o consanguinea stirpe, a voi mi volgo, o fonti, o fiumi, o voi, troiani campi, che mi nutriste: ora salvete: a voi questa ultima parola Aiace volge. Il resto, lo dirò giú nell'Averno. (Torna ai cespugli del fondo e si gitta sulla spada) (Rientra in orchestra il primo semicoro) SEMICORO A: Pena a pena s'aggiunge, ognor piú grave. Quale ferocia dicesti ineffabile degli Atrídi inumani, in cosí grande angustia! Un Dio pur l'allontani. TECMESSA: Pur, tutto avvenne per voler dei Superi. CORO: Il male sopra voi troppo aggravarono. TECMESSA: Tale cordoglio la tremenda inflisse Pàllade a noi, per compiacere Ulisse. CORO: Certo, nell'animo negro l'oltraggia l'uomo dai molti raggiri, e ride, ahimè, di riso inestinguibile, per questi dogliosi deliri; e la nuova n'apprende, e seco ride e l'uno e l'altro Atríde. TECMESSA: Ridano pur, s'allegrino dei mali di quest'eroe; ma forse, anche se brama non sentiron di lui vivo, potrebbero in distrette di guerra anche rimpiangerlo. Perché tutti gli stolti il bene ignorano ch'ànno in lor mano, avanti che lo perdano. Amara fu la morte sua per me, piú che dolce per essi; ma gradevole per lui, che quanto pur bramava, ottenne, la morte che volea. Come potrebbero rider di lui? Per opera dei Numi morí, non per la loro. A vuoto, dunque, l'insolentisce Ulisse. Aiace piú non esiste per essi; e angosce e gemiti a me lasciando, abbandonò la vita. (Si ode da lontano la voce di Teucro) TEUCRO: Ahimè, ahimè! CORO: Taci: la voce udir penso di Teucro: alla sciagura un tal canto s'accorda. TEUCRO: Dilettissimo Aiace, occhio fraterno, morto sei tu, come la fama narra? CORO: Di vita uscí l'eroe, sappilo, Teucro. TEUCRO: O troppo grave mia sciagura, troppo! CORO: Poiché tale è la sorte... TEUCRO: Oh me tapino! CORO: Gemer conviene. TEUCRO: Ahi, troppo fiera doglia! CORO: Sí, troppo. TEUCRO: Ahimè tapino! E il figlio ov'è? In quale parte del suolo troiano? CORO: Solo, presso alle tende. TEUCRO: E tu non corri a recarmelo qui, ché dei nemici non lo ghermisca alcuno, al par di cucciolo di lionessa orbata? Or senza indugio corri al riparo; poiché tutti sogliono irridere ai defunti, allor che giacciono. CORO: Mentre vivo era ancor, l'eroe t'ingiunse d'averne cura, come adesso l'hai. TEUCRO: Ahimè, di quanti orrori abbian veduti queste pupille, il piú doglioso! Oh via che piú d'ogni altra via crucciasti il cuore, e ch'io battei, com'ebbi, dilettissimo Aiace, udito il tuo destino, in furia, a rintracciarti! Ché una fama rapida, come d'un Nume, fra gli Achivi corse, ch'eri tu morto. Io, misero, l'udii da lungi; ed or ti vedo; e morto io sono. Ahimè! Su via, scoprilo, ch'io la mia sciagura intera scorga. (Si scopre il cadavere) Ahimè, terribil vista! Amaro ardire! Ahimè, di quanti affanni per me, col tuo morir, gittasti il seme! Dove, fra quali genti andar potrò, se nei tuoi crucci io nulla ti soccorsi? Forse il tuo padre, il padre mio Telàmone m'accoglierà con lieto ilare volto, quando io senza di te ritornerò? E come no, se mai, pur nella prospera sorte, un sorriso ei mi mostrò benevolo? Che cosa ei mi dirà? Quale improperio non lancerà contro il bastardo, nato d'una schiava di guerra, e che tradí per codardia, per tristo animo, te, dilettissimo Aiace, o per inganno, per usurpare il tuo dominio, quando tu fossi morto, e le tue case. Questo dirà quell'iracondo, aspro per gli anni, che per un nulla a rissa il cuore infiamma. E sarò dalla patria alfin bandito, servo mi chiameranno, e non piú libero. Questo m'attende nella patria. E molti son nella Troade a me nemici, e pochi quelli in cui fidi. Io tutto ciò guadagno dalla tua morte. Ahimè, che farò? Come ti strapperò da questa amara lucida punta, o meschino, per la cui trafitta l'alma esalasti? Avresti mai creduto che, pur dopo la morte, Ettore uccidere potesse te? Di questi due mortali considerate, per gl'Iddei, la sorte. Alla sponda del carro Ettore avvinto col bàltëo che a lui donava Aiace, fu trascinato, lanïato fu sino alla morte; ed un tal dono Aiace d'Ettore avendo, ne mori, piombandovi su, con funesto crollo. Ora, un'Erinni questa sua spada non foggiò, quel bàlteo Ade, il selvaggio artefice? Dunque, io direi che questi e ogni altro evento agli uomini apprestano i Celesti; e a cui non piacciano tali sentenze, e le repudi in cuore, egli le sue diliga, ed io le mie. CORO: Piú a lungo non parlar: bada a nascondere nella tomba l'eroe, rifletti a quello che presto dir dovrai. Vedo un nemico: e da malvagio, quale è, pure, giunge forse irridendo alle sciagure nostre. TEUCRO: Un uomo giunge dal campo? Chi è? CORO: È Menelao, per cui si scese in mare. TEUCRO: Vedo: è già presso; e ravvisarlo è facile. (Giunge, furente e minaccioso, Menelao, e si rivolge a Teucro) MENELAO: Ehi, dico a te, non appressar le mani a quella salma, e lasciala ove giace. TEUCRO: Che parole son queste ch'ora sperperi? MENELAO: Quelle che a me, che al duce nostro piacciono. TEUCRO: E dir mi vuoi quale pretesto adduci? MENELAO: Che noi credemmo dalla patria amico ed alleato degli Achivi addurlo; ed alla prova, lo trovammo infesto dei Frigi piú: ché macchinò la strage MENELAO: Ai miei nemici, sí: non è giustizia? TEUCRO: Ostile a te si oppose Aiace mai? MENELAO: M'odïava odïato; e tu lo sai. TEUCRO: Si provò che i suffragi a lui frodasti. MENELAO: Questa colpa non fu mia: fu dei giudici. TEUCRO: Sei scaltro a fare il male, e poi nasconderlo. MENELAO: Cruccio a qualcuno frutteran tai detti. TEUCRO: Non piú di quanti altrui ne infliggerò. MENELAO: Seppellir non lo devi; e piú non dico. TEUCRO: E presto, invece, udrai che fu sepolto. MENELAO: Temerario di lingua un uomo vidi già, che i nocchieri a navigare spinse, durante il verno; e quando nella furia poi si trovò della tempesta, voce di lui piú non s'udí: dentro il mantello nascosto, a chi dei navicchier' volesse, calpestar si lasciava. Esser potrebbe cosí di te, del tuo linguaggio fiero: da picciol nembo, una procella grande soffiar potrebbe, e il gran frastuono spengerne. TEUCRO: E un uomo io vidi pieno di follia, nelle sventure insolentir gli amici. Lo vide un uomo a me simile in tutto di costumi, anzi uguale, e sí gli disse: «Amico, tu non oltraggiare i morti: ché, se lo fai, ne avrai cordoglio, sappilo». Ammoniva in tal modo, a faccia a faccia, lo sciagurato; ed io lo vedo; e sei tu quello: parlo per enigmi, forse? MENELAO: Vo': ché punir con le parole, quando puoi con la forza, a risapersi, è turpe. TEUCRO: Va' pure: anche per me cosa è turpissima un pazzo udir che vuote ciance parla. (Menelao parte) CORO: Un contrasto, una grave contesa scoppierà, Teucro, affréttati, scava quanto prima t'è dato, una fossa per quest'uomo, che l'umida tomba v'abbia, a eterna memoria degli uomini. TEUCRO: E a momento opportuno, ecco, qui giungono il figlio suo, la donna sua, la fossa per apprestare all'infelice salma. Avvicínati, o figlio; e presso qui, come supplice stando, al padre stringiti che ti die' vita. Nelle man' reggendo l'unico ben di chi supplica, riccioli di tua madre, di me, di te medesimo, fermo qui prega; e se mai tenti a forza di qui scacciarti alcuno dell'esercito, fuor dalla patria sia gittato il tristo, senza sepolcro, tristamente, e svèlta sia la radice di sua gente, tutta, cosí, come io recido questo ricciolo. Prendilo, o figlio; e il corpo veglia; e niuno te ne allontani. A lui reclino stringiti. (Ai nocchieri) E voi, non donne, uomini siate; presso a lui restate, e dategli soccorso in sin ch'io torni, e al fratel mio la tomba, anche se niuno lo consente, appresti. (Teucro parte) QUARTO CANTO INTORNO ALL'ARA CORO: Strofe prima Deh, qual novissimo novero d'anni, in vicenda perpetua vaganti, mai sarà, che ponga fine a questo travaglio di guerre che mai non ha termine, nell'ampie contrade di Troia, agli Èlleni obbrobrio funesto? Antistrofe prima Deh, fosse prima scomparso nell'ètere immenso, o nei bàratri d'Ade che tutto accoglie, l'uom che i fraterni lutti dell'armi odïose recava fra gli Èlleni! Oh spasimi padri di spasimi! Da lui fûr gli umani distrutti. Strofe seconda Di ghirlande partecipe piú non mi volle, e dei profondi calici, quell'uomo, e ch'io godessi il dolce strepito dei flauti: a me la requie del notturno negò dolce sopor. E sin gli amori, o misero, gli amor mi tolse. E inculto giaccio, e il crine ho molle ognor di brine dense: ché la miseria fatal di Troia, io ben rammenti ognor. Antistrofe seconda Un tempo, a me presidio contro i terror' notturni era la furia d'Aiace, e contro i dardi. Ora, ludibrio ei fu d'un tristo dèmone. Che resta a me, che resta piú di bene? Deh, fossi ove del Sunio sul pian, selvoso un promontorio avanza, e il flutto ai piè gli danza, sí, che un saluto volgere di lí potessi alla divina Atene! (Entra Teucro, e, súbito dopo lui, Agamènnone) TEUCRO: Agamènnone vidi, il condottiere, che verso noi muoveva; e m'affrettai. Ei sfrenerà la bocca turpe, è chiaro. AGAMENNONE: Impunemente contro noi, mi dicono, minacciose parole hai schiamazzate: a te favello, al figlio della schiava. Certo, se tu da nobil madre fossi stato nutrito, assai superbamente favelleresti, i passi tuoi sarebbero superbi troppo, se, pur nulla essendo, d'un uom da nulla le difese assumi, e noi giuri che mai duci o navarchi degli Achivi non fummo, e non di te, ma di sé solo duce, a quanto affermi, Aiace navigò. Non è vergogna, tanto da servi udire? E per qual uomo berci cosí superbamente? Andò forse egli mai, stette egli mai, dov'io non andassi, non stessi? E dopo lui, altri uomini non han forse, gli Achivi? Amaro gusto hanno per noi le gare che per l'armi d'Achille un dí bandimmo, se tristi sempre or ci dichiari Teucro, se non vorrete, ancor che vinti, cedere a ciò che pure piacque ai piú dei giudici, ma con gli oltraggi ognor ci colpirete, ci pungerete con la frode, quando siate sconfitti. E niuna legge mai salda stare potrà, se mai prevalga tale costume, di scacciar chi vinse pur con giustizia, e chi rimase indietro, portarlo avanti. Ma convien guardarsene. Ché non la gente di gran mole, e gli uomini di larga spalla, a sicurezza affidano; ma quanti han senno, ove che sia, prevalgono. Di fianchi è grosso il bue: pure, una piccola sferza, lo fa per via muover diritto. la giustizia tu ponga. Il piú nemico dell'esercito tutto era quest'uomo anche per me, da quando vinte gli ebbi l'armi d'Achille; ma, sebbene tale, contro di me, spregiar non lo potrei sí, da non dir che nessun uomo vidi tanto gagliardo fra gli Achei, da quando venimmo a Troia, tranne Achille. E tu, con giustizia spregiar non lo potresti: ché le leggi dei Numi offenderesti, e non già lui. Spregiare un prode estinto, non è giustizia, anche se tu l'aborri. AGAMENNONE: Tu per costui con me contrasti, Ulisse? ULISSE: Io, sí: ben l'odïai, quand'era lecito. AGAMENNONE: Né ti conviene or calpestarlo spento? ULISSE: Non t'allegrar di turpi lucri, Atríde. AGAMENNONE: A un sovrano, piegarsi non è facile. ULISSE: Ma sí gli amici udir che bene parlano. AGAMENNONE: Deve ubbidir, l'uom probo, a chi comanda. ULISSE: Pur se cedi agli amici, è tuo l'impero. AGAMENNONE: Pensa l'uomo qual è che tu gratifichi. ULISSE: M'era costui nemico: ed era prode. AGAMENNONE: E che? Spento rispetti un tal nemico? ULISSE: Per me, la sua virtú val piú che l'odio. AGAMENNONE: È tanta, dunque, l'incostanza umana? ULISSE: Molti, ora cari, diverranno amari. AGAMENNONE: L'acquisto pregi di siffatti amici? ULISSE: Non mi piace lodare un'alma dura. AGAMENNONE: Sembrare vili ci farai quest'oggi. ULISSE: Giusti, anzi, agli occhi degli Ellèni tutti. AGAMENNONE: Vuoi che lo lasci seppellire, dunque? ULISSE: Sí, ché giungere anch'io debbo a tal passo. AGAMENNONE: Proprio a ciò che lo tocca ogni uomo bada. ULISSE: Di chi, piú che di me, dovrei curarmi? AGAMENNONE: Tua, dunque, e non già mia, detta sia l'opera. ULISSE: Pio tu sarai, comunque in ciò proceda. AGAMENNONE: Sappi bene, però: grazie maggiori anche di questa a te concederei; ma questi, o vivo o morto, odïosissimo mi sarà. Tu puoi far ciò che piú brami. (Parte) CORO: Chi nega, Ulisse, che di saggia mente, sendo qual sei, tu sei fornito, è folle. ULISSE: Ed ora, a Teucro annunzio che, per quanto gli fui nemico, amico gli sarò da questo punto; e questo morto insieme con lui vo' seppellir, tutti gli uffici insiem con lui prestargli, e niuno ometterne di quelli che agli eroi debbono gli uomini. TEUCRO: Tutte lodare io debbo, ottimo Ulisse, le tue parole: tanto hai tu mostrata falsa ogni attesa mia: ché fra gli Argivi il piú nemico eri a quest'uomo; e solo or tu l'assisti di tua mano, e, vivo al cospetto di lui già spento, ingiuria a lui non volgi, come il duce, quello che qui tonando giunse, e il suo fratello, che coperto d'oltraggi e senza fossa lo voleano lasciare: onde il supremo padre d'Olimpo, e la memore Erinni, e la Giustizia punitrice, infliggano tristo sfacelo a quei malvagi, come volevano essi fra gli oltraggi il prode senza onore gittar. Ma te, progenie dell'antico Laerte, a questa tomba lasciar che t'avvicini, io me ne pèrito: temo di far cosa non grata al morto. Del resto, mano dar ci puoi: né duolo avrò, se alcun tu delle schiere adduca. E tutto il resto io compirò. Ma te reputo, sappi, un generoso cuore. ULISSE: L'avrei bramato; ma se a te gradito non è, parto; né so disapprovarti. (Parte) TEUCRO: Basta: già troppo tempo è trascorso. Senza indugio, una fossa profonda qui scavino alcuni di voi, con la fiamma altri avvolgano eccelso un tripode, acconcio ai sacri lavacri; e una schiera di guerrier, dalla tenda qui adduca l'ornamento dell'armi. Fanciullo, avvicínati, e meco solleva di tuo padre le membra: ché in alto soffiano anche, le arterie ancor calde, negra furia. Or su, via, s'avvicini, venga qui senza indugio, chiunque nostro amico si dice, e qui rechi suo tributo a quest'uomo, che in tutto fu perfetto, e a nessuno secondo. CORO: Molte cose ai mortali è concesso, poi che vider, sapere; ma prima di vedere, nessuno è profeta della sorte che a lui toccherà.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved