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«SOGNANDO IL FUTURO»
Paola Dalla Torre
Capitolo 1: Dal moderno al postmoderno 1. “2001: ODISSEA NELLO SPAZIO” La crisi della modernità e la fine della metafisica 2001: Odissea nello spazio è un film del 1968 prodotto e diretto da Stanley Kubrick. L’inizio del film è spiazzante per lo spettatore, perché in un film di fantascienza ci si aspetta di vedere la presenza di una civiltà aliena superiore. La prima sequenza, sotto le note di “Leitmotiv” di Strauss, mostra la Terra vista dallo spazio che si allinea con il sole; compare poi una didascalia che recita “l’alba dell’umanità”. Sembra assurdo che un film che dovrebbe parlare di futuro e di alieni cominci la sua narrazione dall’inizio dei tempi dell’uomo. Si alternano immagini della Terra deserta, di albe, tramonti e di animali che vivono allo stato brado seguendo la legge del più forte. Ad un tratto, tra le scimmie compare un grosso monolite nero, a loro completamente estraneo. Era geometrico, levigato e non aveva nulla a che vedere con il loro mondo, era qualcosa di alieno e straordinario. La straordinarietà dell’evento viene sottolineata da Kubrick con l’introduzione di musiche dissonanti, mentre prima si sentivano solo i versi delle scimmie. Così com’è apparso, da un momento all’altro, il monolite scompare, ma nell’atteggiamento delle scimmie cambia qualcosa. Una di esse infatti, mentre maneggia un osso si ricorda del monolite e comprende che quell’osso può diventare un’arma di offesa o di difesa. Si arriva poi alla famosa sequenza in cui la scimmia lancia in aria un osso, e questo diventa improvvisamente una navicella che fluttua e danza nello spazio sulle note di Strauss. Kubrick sfrutta il genere fantascientifico per affrontare le grandi tematiche dell’umanità, il quale diventa così un genere filosofico utile ad un’analisi culturale. “2001: Odissea nello Spazio” è quindi un film sul futuro che guarda al passato, infatti per raccontare il futuro e il presente non si può dimenticare quello che c’è stato prima. Per questo Kubrick inizia la sua pellicola parlando del mondo delle scimmie, nostre dirette antenate. Il regista racconta poi del momento in cui è subentrata la razionalità, caratteristica propria solo del genere umano, e del lento cammino dell’uomo verso l’affermazione della propria coscienza razionale. L’osso maneggiato dalla scimmia rappresenta proprio la comparsa della coscienza razionale, che differenzia l’uomo dall’animale. Il film malgrado ciò, non è un inno alla razionalità umana e al progresso, il pensiero di Kubrick infatti rimanda a quello del filosofo nichilista Nietzsche. L’autore, proprio come il Vengono esaltate le potenzialità tecnologiche del mezzo cinematografico, che vuole capire lo spettatore in tutti i suoi sensi. Kubrick si trova fra la modernità e la postmodernità: è moderno perché crede ancora in un cinema d'élite e in una messa in scena razionale; ma è postmoderno perché crede nel film immersivo, annunciando la nascita di un nuovo mondo. In quegli anni stava diventando sempre più importante per i giovani americani la realtà New Age, ed il cinema era il mezzo attraverso cui il verbo New Age potesse diffondersi a livello mondiale. Tra i vari pensieri di questo periodo vi era l’idea che alla fine degli anni ‘70 si sarebbe assistito al passaggio da un’età dominata dalla guerra e dal disordine a un’età di pace e benessere. L’accesso ad un altro livello di realtà, facilitato dall’uso della droga, avrebbe permesso l’abbandono della razionalità e di fondersi con la natura. Il film divenne l’eco delle idee della società americana in quel periodo. Il monolite nero rappresenta l’ultimo residuo di modernità che lascia il posto alla postmodernità. Infatti è ancora rettangolare, geometrico e levigato ma è nero perché indica la pietra tombale da cui nascerà il bambino del futuro. E il futuro siamo noi. 2. “STAR WARS” Il nuovo blockbuster-pastiche Star Wars è un film del regista George Lucas, con il quale il genere fantascientifico conoscerà il blockbuster. Le prime scene del film riprendono un inseguimento tra navicelle spaziali e una lotta all’interno di esse tra soldati in armature bianche o nere che si sfidano a colpi di spade o pistole laser. Totalmente diverso, dunque dall’incipit di 2001, perché in Star Wars esso è in linea con ciò che ci si aspetta da un film di fantascienza: puro spettacolo psichedelico. Sembra raccontare una storia passata, ma in verità è ambientato nel futuro. Il film si sviluppa sulla superficie e semplifica ogni concetto, infatti a differenza di numerosi film di questo periodo, non esiste alcuna molteplicità interpretativa. Non ha l’intento di diventare un esempio di ricerca filosofica, ma vuole piuttosto esaltare le possibilità tecnologiche del cinema e creare intensità emotiva mediante gli effetti speciali. George Lucas è il primo ad utilizzare la nuova tecnologia del “Dolby Surround”, oggi must di ogni film, modificando l’estetica dei nuovi prodotti cinematografici. Il linguaggio cinematografico contemporaneo sarà quello del concerto, dell’esperienza sensoriale immersiva, più che dell’identificazione o della riflessione. L’incipit del film in questo senso, è più chiaro, perché proietta lo spettatore all’interno di uno spazio audiovisivo che lo abbraccia completamente, facendogli provare sensazioni nuove. Questo film è inoltre uno dei primi esempi di nostalgia per il passato, paradigma culturale della postmodernità. È inoltre definito “film pastiche”, cioè un assemblaggio di stili, linguaggi, temi, e personaggi del passato, al fine di dare al film un mood di coinvolgimento. Star Wars sembra la versione postmoderna dei film western, perché si rifà molto ai fumetti, ai videogiochi e alle filosofie orientali. È quindi un ipertesto, con rimandi continui al mondo esterno, e numerosi collegamenti che lo spettatore può cogliere o meno. Il concetto di ipertesto è chiaramente postmoderno perché rimanda al mondo digitale del web. Permette di abbandonare le modalità logico-razionali del pensiero, che hanno dominato l’Occidente per secoli, e si concede una nuova forma di pensiero che lavora sulla superficie. Il significato dietro alle cose è sempre presente, è solo posizionato e raggiungibile in altre forme. Il concetto di “forza” è trascendente, è attorno a noi, anzi dentro di noi, e ci permette di superare ogni ostacolo. Una frase significativa del film, pronunciata dal maestro Yoda durante il duello tra Luke Skywalker e gli altri cavalieri contro la Morte Nera è: “lasciati attraversare dalla Forza”. La precedente frase a livello filosofico, invita gli spettatori a lasciarsi andare ad una razionalità spirituale, e non logica; a livello cinematografico invece, invita ad abbandonarsi alle emozioni che l’apparato tecnico audiovisivo cinematografico può offrire. Il film di Lucas non è semplicemente un Blockbuster coloratissimo (blockbuster è un film o uno spettacolo teatrale molto popolare che ha riscosso un largo successo di pubblico), ma veicola anche significati profondi di alto livello culturale. Il regista di Star Wars, si differenzia da Kubrick, nel linguaggio cinematografico, che trova nel cinema d'élite e nella profondità la via migliore per affrontare una serie di problematiche; Lucas utilizza invece la piattezza e la superficie per realizzare definitivamente l’espressione artistica postmoderna e la nuova modalità di pensiero. Se Kubrick ha rappresentato quindi un crocevia tra moderno e postmoderno, Lucas è pienamente postmoderno. La nuova modalità narrativa di Lucas rappresenta in toto la nuova modalità postmoderna per 3 caratteristiche: 1. Introduce movimenti immersivi della macchina da presa, che così facendo trasporta letteralmente lo spettatore dentro la dimensione audiovisiva del film. Questa tecnica era stata utilizzata anche da Kubrick nella scena finale, dove ci immerge nel monolite nero. Anche le didascalie dell’incipit di Star Wars non sono fisse come nella tradizionalità, bensì scorrono in maniera tale da immergere lo spettatore nello spazio stellato che fa da sfondo. Questo movimento simula la modalità visiva dei videogiochi, dove viviamo in prima persona gli eventi. (Connubio cinema-videogiochi). 2. Utilizza l’ironia e il distacco, che aleggiano in tutta la pellicola. L’ironia in particolare, non è solo nel racconto, ma è propria anche dello sguardo della macchina. È come se Lucas volesse metterci in guardia sul fatto che quello che stiamo guardando è un film, e come tale è finzione, e che dobbiamo godercelo con la pace dell’intelletto. 3. Il film presenta una frantumazione narrativa del racconto. Lucas segue una struttura del film molto lineare che segue esattamente la parabola del racconto cinematografico classico; per frantumazione si intende la perdita di senso e di forza dei nessi causa-effetto, che caratterizzano ogni racconto cinematografico e che determinano l’abbandono improvviso della linearità del racconto, al fine di creare picchi d’intensità spettacolare. In questi momenti la storia viene abbandonata e smette di evolversi, in modo da potersi concentrare solo sull’azione spettacolare che viene mostrata. Al posto dei nessi logici causa-effetto, subentrano nessi emozionali di spettacolarità audiovisiva. Il posizionamento del film nel mercato del cinema: Negli anni ‘60 crolla il mercato e così anche gli incassi; ma con la fine degli anni ‘70, il sistema produttivo americano si ristruttura e torna a dominare, grazie alle Major, cioè le case cinematografiche che hanno iniziato a diversificare i loro interessi su più mercati, diventando multinazionali della comunicazione. Le Major cominciarono ad investire più oculatamente, su una o due pellicole l’anno che fossero strutturati come blockbuster planetari capaci di ottenere incassi stratosferici. Il potere torna quindi in questi anni in mano ai produttori, che puntarono sul racconto kolossal, per storie, divi e tanti effetti speciali. Il fantasy aveva tutte le caratteristiche per ottenere un racconto grandioso come quello del futuro o dello spazio, ricco di effetti speciali. Lucas ha colto la palla al balzo, facendo diventare Star Wars una pietra miliare della nuova forma cinematografica, prettamente estetica. 3. “INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO” Alieni e trascendenza Incontri ravvicinati del terzo tipo è un film del 1977 scritto e diretto da Steven Spielberg. Come Star Wars, è un grande campione di incassi, e similmente parte con produzioni a budget basso per poi convertirsi al nuovo blockbuster del rinato sistema produttivo cinematografico. Il sistema Hollywoodiano in quegli anni:si parlava della fine dello stile personale, che non aveva più spazio nelle pellicole. Nell’epoca della frammentazione e dell’esaltazione, l’artista, per potersi affermare, doveva avere la capacità di assemblare i materiali più disparati secondo il proprio punto di vista. Quindi non si trattava esattamente della fine dell’autore, quanto piuttosto della capacità di citare il passato e il presente in modo del tutto personale. Il paradigma di questa nuova modalità è Quentin Tarantino, tant’è che si può dire fosse necessario “Pulp Fictionarizzare” i film, cioè multi-stratificarli, non in profondità ma sulla sua superficie. Dopo la scena di presentazione della Los Angeles del futuro, viene introdotto un altro tema chiave della postmodernità, cioè il concetto dello sguardo. La pellicola è una metafora che vuole mostrarci che il futuro che ci aspetta sarà dominato da tecnologie sempre più sofisticate, capaci di creare macchine in tutto e per tutto indistinguibili e uguali agli esseri umani. Diventerà dunque sempre più complicato capire ciò che è reale e ciò che non lo è. Nell’universo di Blade Runner è quasi impossibile comprendere se ci si trova davanti al vero o davanti alla sua simulazione tecnologica. Il protagonista, Rick Deckard, è tra i pochi che riescono in questa ardua impresa. Lo sguardo, nella modernità era il simbolo della razionalità, e ne era lo strumento principe. Ora invece ha perso il suo primato e la sua funzione ontologica. L’occhio in Blade Runner, vede ma non comprende, e non a caso il regista cita esplicitamente una sequenza di “Blow Up” di Antonioni, che metteva in evidenza la fine delle grandi narrazioni e la fragilità dello sguardo in un mondo che ha perso il suo centro metafisico, l’uomo. La citazione sta nella scena in cui Deckard zoomando un’immagine al computer vede qualcosa che prima non aveva notato, proprio come il protagonista di Blow Up che ingrandendo una fotografia scopre un omicidio. Questa scoperta si dimostra in seguito vana, proprio a dimostrare inaffidabilità dello sguardo umano. Ogni cosa può avere, in queste circostanze, interpretazioni multiple, proprio come avveniva nella pellicola 2001 di Kubrick. I grattacieli di Los Angeles sono tappezzati di immagini, che diventano per i passanti lo specchio deformato della realtà. Un’altra caratteristica che rende Blade Runner matrice dei film fantascientifici è la tematizzazione del rapporto uomo-macchina (uomo-tecnica); infatti se nel moderno la tecnica era visibile e dominabile, nell’era postmoderna questa tecnologia si è fatta sempre più nascosta, invisibile e volatile. Blade Runner parla anche del nuovo Moloch tecnologico postmoderno, cioè un paradigma tecnologico in grado di dominare il mondo attraverso la creazione di vite uguali e indistinguibili dall’umano, i “replicanti”, veri simulacri dell’uomo. A dominare l’universo caotico di Los Angeles c’è una sorta di tempio Maya o Azteco, la sede della Tyrrel Corporation, cioè l’azienda a capo della realizzazione dei replicanti. Quelli che un tempo erano i templi (sedi religiose) qui sono diventati grandi corporation tecnologiche assetate di soldi e potere. In relazione al rapporto tra macchina e uomo, evolutosi negli anni, si può prendere in esempio il film Metropolis di Fritz Lang: nel film infatti la macchina era ben visibile, tangibile, e capace di mangiare gli uomini, mentre nel film di Scott, essa è incarnata dai replicanti, perfetti sosia delle persone, non più riconoscibili ad occhio nudo. L’uomo quindi non è più padrone della tecnica, in primis perché non riesce a riconoscerla, e poi perché essa si ribella al suo potere (gli uomini avevano tentato di utilizzarli come schiavi nelle colonie). La tecnologia ha reso il mondo sempre più alienato e disumanizzato, mentre di contrasto i replicanti sembrano essere molto più umani; tant’è che nella scena finale, il capo dei replicanti, fino a quel momento spietato, salverà il protagonista morendo poeticamente. Blade Runner inaugura anche un’altra tendenza del cinema postmoderno, cioè quella di mettere in guardia gli spettatori da pericoli futuri. Ecco perché il cinema di fantascienza è in un certo senso morale, sottintende le negatività future, offrendo possibili soluzioni. Come afferma Jameson, in questo periodo ci si trova di fronte al terzo stadio dell’evoluzione capitalistica, quello in cui le macchine diventano sempre più invisibili ma sempre più dominanti. In questo senso, il tempio di Blade Runner, la Tyrrel Corporation, non rappresenta solo un luogo sacro della tecnologia, ma anche luogo sacro del capitalismo, sempre più sfrenato, globalizzato e multinazionale. La temporalità del film è particolarmente confusionaria: è ambientato nel futuro ma la città e ricoperta di templi che ricordano il passato. Questo sempre per via del citazionismo, che porta a “saccheggiare” stili, tempi e storie precedenti. I replicanti sono la perfetta metafora dell’accelerazione e della presentificazione al tempo stesso, perché essi hanno un’aspettativa di vita di 4 anni, quindi vivono tutto con maggiore intensità. Scott tratta altri temi delicati come la desocializzazione, e la scomparsa di solidarietà e comunicazione: i Losangelini brulicano per le strade ma nessuno si guarda o si parla, sono tutti soli e persi nell’inferno della città. Come afferma Jameson, non si tratta neanche di alienazione, quanto piuttosto di una “schizofrenica euforia”, che esprime la nuova vita dell’uomo contemporaneo nella metropoli. L’istinto di sopravvivenza dei cittadini, che li spinge spesso al ricorso alla violenza, li fa vivere in un costante stato di eccitamento euforico. Naturalmente la sovraeccitazione corrisponde allo stesso tempo alla depressione e ai mali più oscuri dell’anima, come dimostrato dal personaggio di J. F. Sebastian, che si muove tra picchi euforici e picchi depressivi. Vive da solo in una casa enorme con le sue creazioni, piccoli robot parlanti. Per disperazione e solitudine si allea ai replicanti ribelli ma non riesce a trovare un contatto a causa della socializzazione (come sempre, non esiste soluzione). La pellicola presenta anche riferimenti cristologici, infatti nella sequenza finale, quando il replicante Betty, malvagio e senza scrupoli salva Deckard, viene ripreso con una luce improvvisa dall’alto e una colomba che vola, mentre la pioggia presente durante l’intero film finalmente cessa di scendere. Ecco l’esempio di un riferimento spirituale e religioso tipico del genere fantascientifico contemporaneo. Ecco dunque perché Blade Runner di Ridley Scott rappresenta un manifesto del nuovo cinema fantascientifico postmoderno: vive di superfici riflettenti, fa attenzione agli effetti speciali, è citazionista, ipertestuale e soprattutto immersivo. 5. “DUNE” Spazio e tempo nel postmoderno Dune è un film di fantascienza del 1984 diretto da David Lynch, tratto dal romanzo omonimo di Frank Herbert. La pellicola ha ottenuto moltissimo successo e ben 8 candidature all’Oscar, che permisero al giovane regista di uscire dalla piccola cerchia dei cult, verso il grande mondo di Hollywood. Come notò subito Mel Brooks, Lynch era evidentemente un americano, dal punto di vista estetico (somiglia a Frank Capra e a Hitchcock), ma non lo sembrava affatto dal punto di vista comportamentale. D’altra parte, egli fa parte di quel gruppo di registi, a partire da Lucas e Spielberg fino a Oliver Stone e Tim Burton, che si trovano fra due poli: da una parte il mondo industriale, con le grandi multinazionali che costruiscono blockbuster a tavolino, e dall’altra il forte desiderio di fare un cinema personale, meno attento alla spettacolarità, e piuttosto volto alla ricerca artistica e stilistica. Lynch ha scelto di non adeguarsi al modello economico-produttivo del cinema, tant’è che oggi nessuna casa produttrice rischierebbe di sostenere i suoi progetti, definiti spesso incomprensibili. Lui e altri pochissimi registi, perseguono caratteristiche stilistiche e tematiche tipiche del postmoderno, senza essere però integrati con quelle economico-produttive. Il film dell'estremo regista, è tratto dal bestseller di fantascienza omonimo di Herbert. Rappresentava un’impresa mastodontica, a causa della complessità e lunghezza della saga fantascientifica, dalla trama quasi inesistente. Lynch lo che vede l’individuo come la vittima di una macchina molto più potente di lui che trasfigura la realtà attraverso un’enorme quantità di immagini e informazioni, nascondendo la verità. Lo scopo del film, è quello di proiettarci nel futuro, in cui il nostro villaggio globale si trasformerà in una prigione dove saremo sotto il costante controllo dei mass media. In questo mondo trans-umano, in cui cioè l’uomo non è più la misura delle cose, nessuno si ribella perché non si conosce la realtà dei fatti. Il protagonista, interpretato da Vincent Price, tenta di sfuggire alle dinamiche del gioco, ma il finale lascia intendere che non esiste possibilità di salvezza. Come in Blade Runner, anche qui viene sottolineato il legame stretto fra mass media (e le tecnologie in generale) e interessi politico-economici. All’inizio della pellicola, Gilliam illustra l’unica via di fuga: il sogno ed il sentimento, che permettono di uscire dagli schemi di razionalità imposti dalla società. Il protagonista, per esempio sogna di avere le ali e di volare via verso la donna che ama, e grazie al sogno e all’immaginazione, riesce a liberarsi momentaneamente dalle sue catene. Lo scenario pessimistico sembra non avere soluzione, infatti anche quando il meccanismo perfetto della tecnologia si inceppa a causa della mosca, non si fa un passo indietro ma piuttosto vengono introdotte punizioni e maggiore controllo sui dipendenti, e neanche il sogno sembra essere abbastanza forte da abbattere gli schemi imposti. Nel finale invece, che sembra apparentemente tragico, il protagonista viene sottoposto ad un interrogatorio tanto violento da non svegliarsi mai più, e da rimanere in uno stato vegetativo-comatoso. Questa rappresenta la sua salvezza, perché potrà vivere per sempre guidato dai sogni e dall’immaginazione. Tutto il cinema di Gilliam è attraversato dall’idea di fondo che la nostra vera realtà non sia quella razionale ed imposta, bensì quella immaginata e vissuta internamente. Durante il suo viaggio infatti, il protagonista vive un’ascesa nella sua attività immaginativa fino a raggiungere il “trionfo” finale. Avanzando nel film, la confusione tra sogno e realtà diventa sempre più forte: all’inizio viene mostrata la differenza netta tra le due realtà (quando il protagonista sogna, ad un certo punto suona la sveglia e si torna proiettati nella vita reale), ma procedendo verso la fine i confini diventano sempre più labili fino ad essere quasi indistinguibili. Brazil, sulla scia di Blade Runner, mette in luce la difficoltà di distinguere la realtà dalle immagini mass mediali, durante la post-modernità. In Brazil, la temporalità è sospesa, come di norma avviene nel cinema postmoderno, infatti anche se è ambientato nel futuro, gli edifici sono in stile nazista, gli abiti appartengono agli anni ‘40, gli oggetti nelle stanze sono art déco, etc. Tutti questi accostamenti di stili differenti, hanno lo scopo di riprodurre la realtà frammentata di questi anni. Il passato viene “musealizzato” come nei film-nostalgia, anch’essi tipici del periodo postmoderno. Il film di Gilliam anticipa anche alcune tematiche; la madre del protagonista ricorre costantemente alla chirurgia estetica e sembra ossessionata dalla cura del corpo. Rispecchia dunque un’altra caratteristica dell’epoca postmoderna: il corpo non è più concepito come un’entità immodificabile e soggetta all’invecchiamento. Il regista non vede positivamente questa tendenza, (è chiarito dagli effetti devastanti sul volto della madre), anzi critica l’incapacità di accettare i propri limiti e di voler stravolgere la propria identità. Un elemento che distingue Brazil dai film precedenti è la buona dose di ironia, prima sconosciuta al genere fantascientifico. L’ironia non è però ludica ma sottile, pungente e seria: un esempio è il momento in cui il capo si allontana momentaneamente dai dipendenti e questi lasciano il lavoro per guardare un film in televisione, ma al suo ritorno, corrono a ricoprire le loro postazioni. L’ironia del regista può essere definita moderna perché guida l’intera narrazione e l’interpretazione da dare al mondo. Gilliam fa parte di quel gruppo di registi che, come Lynch, entrarono in conflitto con il potere del mercato cinematografico dei grandi studios multinazionali. Egli per esempio, entrò in conflitto con il produttore della sua pellicola, che voleva a tutti i costi un finale positivo. A differenza del regista di Blade Runner, Ridley Scott, Gilliam non accettò il compromesso e mise in scena il suo finale, seppur ambiguo e aperto all’interpretazione. Il protagonista di Brazil, dunque non è solo quello del film, ma, metaforicamente, Gilliam stesso, che si è battuto per la sua libertà di espressione. Questa sua dimostrazione è stata importantissima, perché ha sottolineato l’esistenza e il ruolo centrale dell’autore. La sua è una vera e propria denuncia alla società dello spettacolo, che con il tempo si stava trasformando nella società della prigione (seppure splendente e luccicante). 7. “VIDEODROME” e “EXISTENZ” Dall’analogico al digitale: la società dell’informazione ● Videodrome è un film del 1982 diretto da David Cronenberg, divenuto manifesto teorico del cinema del regista canadese. È un altro esempio di cinema di fantascienza contemporaneo, che riflette sulla società postmoderna. Cronenberg è il regista che in questi anni racconta di più le trasformazioni vissute dalla società a causa dell’avvento dei mass media. In particolare la sua attenzione si focalizza sull’influenza delle tecnologie nella concezione del corpo, ispirandosi ad uno dei maggiori studiosi dei mass media, Marshall McLuhan. Quest’ultimo concepisce le tecnologie come vere e proprie estensioni dei nostri sensi, poiché ci permettono di potenziare le nostre facoltà e di modificare/migliorare il nostro corpo. Tutto ciò, secondo l’autore, ha permesso la nascita del “villaggio globale”: il mondo ci appare come un piccolo villaggio perché tutto è più vicino e più a portata di mano, e la comunicazione è istantanea. A differenza di Gilliam (Brazil), McLuhan ha una concezione positiva dell’evoluzione tecnologica, perché permette appunto di migliorarsi, soprattutto dal punto di vista estetico. Tutte queste tematiche vengono riprese in Videodrome, ed in particolare la concezione delle tecnologie come estensioni del corpo umano. Videodrome infatti è il nome di un segnale televisivo clandestino, che provoca negli spettatori un’escrescenza del cervello e che amplia la visione della realtà del soggetto. Induce gli spettatori ad avere allucinazioni e all’incapacità di distinguere tra la realtà e la loro immaginazione. Il regista mette dunque in luce l’influenza psicologica ma anche fisica che le tecnologie hanno sugli individui. Cronenberg ha una visione ambivalente: parla con entusiasmo della “nuova carne” cioè del corpo modificato dall’impatto dei mass media ma allo stesso tempo mette in scena un segnale televisivo che provoca una sorta di tumore e quindi conduce alla morte. La sua posizione infatti, non è né ottimistica come quella di McLuhan, né catastrofica come quella di Baudrillard. Si avvicina piuttosto alla visione di Gianni Vattimo, che percepisce le tecnologie come qualcosa di ambiguo e ignoto, che però non ha per forza esiti negativi, ma che anzi, a volte, permette l’emancipazione dell’individuo. Paradossalmente, l’attenzione non è posta sugli esiti che il segnale ha sul corpo umano, cioè allucinazioni e modifiche al cervello, bensì sul mezzo stesso (il mezzo è più importante del messaggio che veicola). Un ruolo importante spetta al Prof. O’Blivion, il cui nome richiama il sostantivo oblio, ad indicare la sensazione di smarrimento tipica della postmodernità. Il professore è un esperto di mass media che registra delle cassette al fine di veicolare il pensiero di McLuhan e di spiegare la teoria della nuova carne. O’Blivion spiega in una cassetta indirizzata al protagonista, Max Renn che viviamo in una società in cui la realtà è veicolata dalle immagini, e dove le immagini diventano più vere della realtà stessa. La confusione che vivono i protagonisti del film nel distinguere le allucinazioni dalla realtà dopo essere stati sottoposti a Videodrome, Cronenberg la fa vivere anche a noi spettatori, proponendo un’alternanza di questo senso, il cinema postmoderno diventa l’antitesi del cinema classico, il cui fulcro è la narrazione. Se per quanto riguarda la narrazione, il cinema classico e quello moderno sono agli antipodi, non è lo stesso per la storia raccontata e per l’eroe principale che invece sono molto vicini. Il cammino del protagonista Neo, infatti riproduce il classico cammino dell’eroe verso la vittoria (stessa cosa vale per Luke Skywalker protagonista di Guerre Stellari). L’eccesso di effetti speciali tipico della postmodernità sembra essere indice di una pochezza di significati o di concetti, ma non è così; Matrix infatti è ricco di stimolazioni concettuali che vengono solo accennate in modo che lo spettatore possa approfondirle o meno, a proprio piacimento. Molti film in questo periodo, fra cui anche quelli di Cronenberg, eXistenZ e Videodrome, sono vittime di un paradosso: mettono in guardia il pubblico dall’evoluzione tecnologica ma allo stesso tempo uno dei loro statuti fondanti è l’esaltazione delle capacità tecnologiche delle macchine cinematografiche. Matrix è l’emblema di questo paradosso perché nel film le macchine rappresentano il male, ma le stesse sono fondamentali nella riuscita della pellicola. Una riflessione filosofica associa il film al “mito della caverna” di Platone, che narrava dell’umanità imprigionata in una caverna, e vedendo le ombre sulle pareti pensava che fossero reali. Uno degli umani riuscì ad uscire fuori dalla caverna e scoprì quanto il mondo reale fosse diverso da ciò che immaginava. Tornato nella caverna tentò di liberare i compagni e di raccontare loro la verità, ma questi lo uccisero. In Matrix la caverna è rappresentata dal mondo digitale creato dalle macchine, tanto affascinante da sembrare vero. Neo, ugualmente, liberato da Morpheus dalle sue catene (Morpheus gli da una pillola rossa che “lo sveglia” dall’incoscienza), tenta di aprire gli occhi e di scoprire la verità. Prima di conoscere tutta la realtà, per lo shock sviene, per poi risvegliarsi nella navicella spaziale in cui Morpheus e i compagni oppongono resistenza alle macchine. Come il protagonista del racconto di Platone, anche Neo si troverà davanti a uomini ostili che preferiranno restare nell’incoscienza. La pellicola dei fratelli, riflette dunque su un classico dilemma occidentale, quale sia la verità del mondo, e quanto esso sia conoscibile, ma riflette anche sul dubbio Cartesiano. Descartes era dell’idea che nulla fosse certo, l’unica cosa di cui si poteva essere sicuri era la propria esistenza (“cogito ergo sum”). Malgrado il film non sia un trattato filosofico, i riferimenti possibili sono molti, infatti un’altra tematica trattata è la “crisi del visibile” preannunciata da Gianni Canova. Lo sguardo non è più utile a conoscere la realtà, anzi è il primo ad ingannare perché la società si trova davanti ad un ologramma collettivo. I fratelli Wachowski parlano anche della religione, infatti il cammino di Neo è volto a diffondere la verità, come nella cristologia cristiana o nel Buddhismo. Il protagonista incontra anche l’oracolo, con il quale parla proprio di misticismo orientale. Non esiste un Dio ma probabilmente il mondo ritratto è dominato dal panteismo, come in Star Wars, ed il cammino di Neo somiglia a quello di un monaco Buddhista (lo stesso attore Keanu Reeves aveva recitato nel film Piccolo Buddha). Neo è stato definito un “supereroe flessibile”, perché a differenza dell’eroe classico come Superman, che è un soggetto forte in grado di plasmare la realtà, è invece un eroe debole, che diventa flessibile verso il mondo che lo circonda. Basti osservare la scena finale in cui Neo combatte contro Mr. Smith: Superman lo avrebbe colpito, mentre lui entra letteralmente nel nemico per distruggerlo dall’interno; quest’ottica è fortemente in linea con la filosofia New Age, perché il protagonista non usa la forza ma la flessibilità. L’uomo moderno, allo stesso modo, non può combattere il capitalismo, ma deve piuttosto diventare flessibile alle circostanze e così sopravvivere. Un’altra distinzione dalla narrazione classica sta nel fatto che le tappe del cammino di Neo somigliano più a quelle di un videogame rispetto a quelle di una fiaba: sembrano dei livelli da superare, anche grazie a tecniche e visuali proprie dei videogiochi più che del cinema. Ecco perché Neo rappresenta il perfetto eroe postmoderno, fluttuante, flessibile e virtuale. Prima dei fratelli americani, un altro regista, Gabriele Salvatores, nel suo film “Nirvana” del 1997, aveva tentato di mettere in scena un protagonista tecnologizzato come Neo, ma è stato stroncato dalla critica e snobbato dal pubblico. ● Avatar (2009) è un film di James Cameron, lanciato dal regista 13 anni dopo il successo mondiale ottenuto con Titanic (1997). La sua realizzazione è durata circa cinque anni, ma ha ottenuto incassi stratosferici. Malgrado sia il regista di Titanic, Cameron ama in assoluto la fantascienza, avendo dato luce a pellicole come Terminator, Terminator 2, Il Giorno del Giudizio, e altri film che sono pietre miliari del fantasy. Il regista dimostra tutte le sue abilità nel genere poiché ama la tecnologia e sa metterla in risalto anche in storie semplici ma efficaci. In “Aliens” ha raccontato la paura dell’altro, cioè del mostro che si annida in ognuno di noi e che nella postmodernità prende il sopravvento; in Terminator affronta il problema del rapporto uomo-macchina in un mondo che sta superando l’antropocentrismo; in Terminator 2 ritrae la tecnologia come qualcosa di fluido e multiforme, non più solido e riconoscibile. James Cameron è il regista che meglio incarna il paradosso: cioè il connubio tra tecno-fobia e tecno-esaltazione. Anche Titanic è la dimostrazione di questo paradosso pur non essendo un film fantascientifico, infatti racconta l’affondare di una nave che rappresenta il trionfo tecnologico della modernità. Cameron ha spinto oltre ogni confine le possibilità tecnologiche attraverso effetti speciali e proiezioni 3D. Oltre a sfruttare la Motion Capture, che attraverso una tuta in lycra sulla quale sono installati dei LED riproduce virtualmente la figura dell’attore, utilizza anche la nuova tecnologia della Performance Capture, che permette di riprodurre con precisione assoluta anche le movenze facciali. Il risultato fu stupefacente, perché la nuova tecnica permetteva di creare personaggi da un mix di attori e quindi di “rubare” ad ognuno un certo movimento, creando dei personaggi ibridi e mantenendo un realismo incredibile. Durante il film furono introdotte anche la “Virtual Camera che permise al regista di vedere la scena proiettata nello stesso istante in cui veniva girata, e la “SimulCam” che proiettava nel monitor contemporaneamente l’attore reale ed il personaggio virtuale. L’ambientazione è Pandora, un mondo immaginario, affascinante e seducente in cui vivono pacificamente i Nav’i, alieni simili agli umani. Il loro equilibrio viene sconvolto dagli esseri umani, giunti a Pandora per appropriarsi di una pietra utilizzabile come carburante. Inizia così un combattimento violento, raccontato attraverso gli occhi di un ex marine sulla sedia a rotelle inviato tra gli alieni sotto forma di un Avatar, per spiarli. Veste i panni di un Nav’i e scopre grazie ad essi una serie di valori persi dall’umanità, come l’amore per la natura, la pace e la fratellanza che lo spingeranno a diventare un loro alleato, anche per l’amore che prova per la figlia del capo Nav’i. Il film ricorda la storia di “Balla coi lupi” o di “Pocahontas”, nei quali i protagonisti si ritrovano in una società sconosciuta che apprezzano più della loro. La vicenda narrata quindi è già vista, schematica e banale ma Avatar rimane nella storia per l’immersione dello spettatore nello spazio 3D e per l’esaltazione dell’apparato tecnologico audiovisivo (un po’ come era già accaduto in Star Wars: Lucas inscena una storia semplicissima, ma rimane nella storia per le tecniche utilizzate). Anche di più rispetto al film di Lucas, Avatar è un film-concerto, le cui tecniche come il carrello che si avvicina per dare la sensazione di immersione, vengono potenziate. Ciò che maggiormente classifica il film di Cameron fra i postmoderni è la raffigurazione dell’obsolescenza del corpo umano, incarnata dall’avatar, una digitalizzazione/tecnologizzazione dell’individuo, un suo clone virtuale. L’identità diventa multipla e si sdoppia nell’era postmoderna, come nel caso dell’ex marine, che ritrova persino l’uso delle gambe. ● Inception è un film di Christopher Nolan, girato nel 2010. Il protagonista vuole dimostrare a chi gli sta intorno che l’identità di una persona si costruisce e decostruisce attorno ad un’idea, un’emozione o un ricordo, elementi che sono facilmente manipolabili mentre sogniamo o quando siamo più deboli. Il tema di Inception è la possibilità di entrare nei sogni altrui per rubarne le idee o innestarne nuove. Si parla dunque di manipolare la mente dei soggetti quando essi sono incoscienti, e stanno appunto sognando. Come in Strange Days, anche in questo film i protagonisti entrano in una realtà di secondo grado attraverso la tecnologia e attraverso una droga che li fa addormentare proiettandoli nei sogni altrui. Il protagonista, Cobb naviga nei sogni degli altri e nei suoi, per incontrare la moglie, che stremata dalla dipendenza del marito e incapace di comprendere quale fosse il sogno e quale la realtà si era suicidata. Da quel momento Cobb combatte costantemente tra la voglia di vivere la realtà, dove ci sono i suoi figli, o sognare per riportare in vita la moglie. Già in Memento Christopher Nolan aveva trattato il tema dell’identità e della possibilità di modificarla a proprio piacimento, ma qui lo esalta, tanto che il protagonista muovendosi agilmente tra sogno e realtà fatica a distinguerli. Lo strumento che definisce i confini tra un mondo e l’altro è una trottola: se gira all’impazzata Cobb è addormentato, se invece cade, si trova nel mondo vero. Come Nero, il protagonista di Strange Days, anche lui è drogato di un’esperienza particolare: entrare nei sogni delle persone, acquisendo un’altra identità, o vivere le proprie esperienze in playback. Entrambi i personaggi sono prigionieri di quest’esperienza perché permette loro di mantenere in vita il passato. Un altro argomento portante della pellicola è il confine tra sogno e realtà, che nell’epoca postmoderna è difficile da delineare, se non impossibile, proprio a causa dell’ultra-tecnologia. Ma se in Matrix e in eXistenZ questa difficoltà è legata alla virtualità generata dai computer, in Inception ciò deriva da qualcosa di molto più umano, cioè il sogno, sviluppato solo dalla nostra mente. Il regista di Inception fa sì che il pubblico sperimenti lo stesso lo stesso sentimento di confusione percettiva dei personaggi, creando soprattutto all’inizio della pellicola un’alternanza continua tra sogno e realtà creando un loop percettivo. In questo senso il finale è emblematico, perché mostra il protagonista che riabbraccia finalmente i suoi figli, facendoci pensare di essere nel mondo reale; ma la macchina da presa si sposta e inquadra la trottola che ruota all’impazzata. Partono i titoli di coda, e gli spettatori rimangono nel dubbio fino alla fine, non sapendo mai se la trottola cadrà mai. Alla base della pellicola c’è un nichilismo ideologico: non si può raggiungere la verità, anzi essa non esiste proprio, perché tutto dipende da come la viviamo e interpretiamo; ma il film si caratterizza anche per un individualismo esasperato, poiché solo chi vive il mondo, che sia reale o un sogno, può scegliere quale sia la verità. La struttura di Inception, non va definita come “stratificata”, perché come già detto, i film postmoderni si sviluppano in superficie, ma piuttosto è “a rete nodale”, visto che la sua superficie è costituita da una serie di nodi nevralgici che rimandano ad altri concetti, e che permettono di navigare verso altre superfici, sviluppando così svariate tematiche. Kubrick, vedeva nello strumento cinematografico un mezzo per riprodurre i meccanismi mentali e per comprenderne il funzionamento; in questo senso, il regista di Inception, Christopher Nolan si avvicina al genio americano, tentando di mostrare il funzionamento della mente umana. D’altronde Nolan, aveva tentato di riprodurre il lavoro del cervello e di darne una sua visualizzazione, già precedentemente, nel suo film Memento. Molte sono le differenze con 2001: Odissea nello Spazio, film ancora moderno che preannunciava il postmoderno; lì c’era profondità, lentezza e disinteresse per la storia, mentre Inception esalta la superficie, accelera il ritmo e mette in primo piano la storia di vita del protagonista. I 40 minuti finali del film di Nolan sono carichi di suspense, e rappresentano alla perfezione la convivenza di elementi classici e moderni. Infatti, Cobb e i suoi collaboratori tentano di innestare un’idea nella mente di un miliardario, su commissione di un altro miliardario che voleva distruggere l’impero del rivale. Per riuscirci, la squadra deve costruire un complicato meccanismo composto da tre livelli di sogno nel sogno per arrivare più in profondità nel subconscio del soggetto. In questa fase la pellicola subisce un acceleramento del plot narrativo e il regista maneggia i tre livelli del sogno attraverso la loro visualizzazione in montaggio parallelo e alternato. Gli effetti speciali vengono spinti al massimo delle loro prestazioni (basti pensare ai personaggi che fluttuano nell’aria in una stanza d’albergo), e le tematiche subiscono un’accelerazione progressiva. Più il protagonista si spinge avanti nei livelli, più il suo subconscio si impossessa di lui, perseguitato dal fantasma della moglie. Sarà l’unico, inoltre, a potersi spingere in quarto livello, dove si troverà davanti alla scelta tra sogno e realtà. Il tema delle identità multiple e della molteplicità di mondi, caratteristici dell’era postmoderna, vengono esaltati al massimo. Un altro tema che rende Inception manifesto della fantascienza postmoderna è l’attenzione all’emotività, all’irrazionalità e l’idea che bisogna sollecitare costantemente l’inconscio per avere accesso alla vera dimensione psicologica della persona. Nolan a differenza di altri registi come Cameron, ha scelto di realizzare tutti i suoi effetti speciali non con il computer ma con i vecchi trucchi meccanici della macchina cinematografica, ottenendo un risultato altrettanto sorprendente. Vi sono infatti momenti di puro delirio audiovisivo, come la scena in cui la collaboratrice di Cobb, immagina le strade di Parigi chiudersi una sopra l’altra, a formare una sorta di quadrato in cui i protagonisti possono muoversi in tutte le dimensioni. Questa immagine richiama il tema del labirinto, caratterizzato da un senso di smarrimento logico, di abbandono della razionalità e di impossibilità di uscita, tutti sentimenti tipicamente postmoderni (il labirinto fu rappresentato la prima volta da Kubrick in Shining). Anche questa pellicola, come Strange Days, da una risposta poco rassicurante, cioè che l’identità multipla ed il desiderio di essere altro o altrove, conducono alla pazzia e all’incapacità di districarsi nella vita vera, fino ad arrivare a volte al suicidio. Per tutte le sue caratteristiche e riflessioni, Inception di Christopher Nolan rimarrà un grande film di fantascienza che ha segnato la storia, e non di certo solo per i suoi incassi stratosferici. 10. “GATTACA”, “ARTIFICIAL INTELLIGENCE” e “WALL-E” Problemi bioetici ● Gattaca è un film del 1997 diretto dal regista Andrew Niccol. Fin dall’inizio lo spettatore viene posto di fronte al tema portante della pellicola, cioè il rapporto fra scienza e morale, fra sviluppo tecnologico ed etica, tanto che il film si apre con due citazioni, una derivante dalla Bibbia e l’altra da un famoso scienziato. “Gattaca” inoltre è l’acronimo delle quattro sostanze che compongono il DNA (adenina, citosina, timina e guanina), ad indicare che la tematica principale è il rapporto tra tecnica e morale applicato al campo della genetica. La morale del film in sostanza, afferma che è necessario porre dei paletti etici al cammino scientifico, che da solo potrebbe avere esiti negativi. Gattaca rappresenta il miglior esempio di film di fantascienza bioetica contemporaneo. Prende in esame un futuro dominato dalla genetica, in cui manipolare il DNA è all’ordine del giorno. La società di Gattaca infatti è composta dai “validi”, nati attraverso la manipolazione genetica e quindi progettati per essere perfetti, e “non validi” nati naturalmente e dunque soggetti a tutte le imperfezioni umane. Il protagonista, Vincent, appartiene ai non validi, e a causa di piccole imperfezioni (problemi cardiaci, miopia, poca 2. David viene adottato dai suoi genitori, per scelta del padre, con l’intento di colmare il vuoto lasciato dal figlio naturale Martin, in coma profondo. Con l’avanzare della storia, la mamma, inizialmente contraria all’adozione, si affeziona al piccolo robot, tanto da opporsi al marito, che dopo il risveglio di Martin aveva deciso di restituire il bambino artificiale. Prevale la scelta del marito, ma riportandolo alla Cybertronics, la mamma lo lascia libero e lo invita a scappare. Questa discussione fa riflettere sulle motivazioni etiche che spingono a volere un figlio: istinto, necessità di colmare un vuoto o una perdita, etc.). È particolarmente interessante anche l’incontro/scontro tra Martin e David, che si contendono le attenzioni e l’amore dei genitori, che metaforicamente rappresenta soprattutto il confronto tra umano e artificiale. I due bambini raffigurano inoltre “il doppio”, l’Eros e il Thanatos, tanto temuto dall’Umanesimo che ricercava la perfezione e la singolarità dell’individuo. Oggi invece, il mondo è frammentato e caratterizzato da molteplici identità, quindi la paura del doppio dovrebbe essere superata; in realtà Spielberg dimostra quanto la fobia della contaminazione della “purezza” dell’uomo a contatto con la macchina, sia ancora presente e radicata nella società. Allo stesso tempo il regista dimostra che l’evoluzione della tecnologia non è sempre accompagnata da un’evoluzione culturale, motivo per cui anche in un mondo post umano, le macchine sono ancora motivo di timore. Come in Blade Runner, i robot sono trattati come semplici strumenti, oggetti che servono a soddisfare i bisogni umani (come i genitori che prendono David per colmare l’assenza del figlio naturale). Anche in A.I. quindi, il modo è diviso in due metà, da una parte gli “orga”, cioè gli esseri umani, pronti a tutto per essere appagati, dall’altra i “mecha”, i robot, sfruttati perché considerati inferiori. La vita sul pianeta Terra è diventata mediocre, le calotte polari si sono sciolte a causa dell’effetto serra, il livello delle acque degli oceani si è innalzato sommergendo intere città, le popolazioni hanno subito carestie e povertà. Il governo dunque ha deciso di imporre leggi restrittive sulle nascite, per non sovrappopolare un pianeta già fortemente in crisi. Da qui deriva la scelta di creare dei robot, che non mangiano e non consumano le poche risorse rimaste, ma possono diventare essenziali per l’economia. Questo incipit si ricollega al finale, in cui si vede New York, con tutti i suoi grattacieli, simbolo del suo potere, sommersa dalle acque. Il film di Spielberg si interroga perciò sui motivi che spingono l’umanità a creare esseri artificiali, e alle conseguenze che questa decisione può provocare. La figura del padre di David, interpretato da William Hurt, è paradigmatica. Egli è uno scienziato della Cybertronix Corporation che lancia il progetto di creare un robot bambino in grado di amare i suoi genitori. Alla sua proposta, un altro scienziato si è domandato se allo stesso tempo un umano sarebbe mai stato in grado di amare un robot, ponendo una questione fortemente morale. Il padre di David risponde paragonando la sua scelta alla decisione di Dio, che creò Adamo perché egli lo amasse incondizionatamente. Come in Blade Runner, assistiamo quindi ad uno scienziato che da creatura sottoposta a vincoli e limiti, si aspetta di diventare un creatore. Un altro spunto di riflessione del film viene dalla “fiera della carne”, dove viene portato David, cioè una specie di circo nel quale viene spettacolarizzata la violenza contro i robot. Il piccolo protagonista si trova davanti a immagini raccapriccianti, in una sorta di discarica piena di pezzi rotti di robot e di altri che vanno alla ricerca di materiali di ricambio da attaccarsi: braccia, mandibole, occhi. Vengono inseguiti, braccati, strumentalizzati dagli organizzatori della fiera come dei “capri espiatori”. Spielberg vuole mettere in evidenza tutto ciò che non va nella società contemporanea, e suggerisce, che il nostro modo di pensare è ormai inadeguato in una società in cui l’intelligenza artificiale è una realtà quotidiana. Il finale lancia comunque uno sguardo positivo ed idealistico, fortemente New Age: dopo secoli in cui David è rimasto sommerso nelle acque di fronte alla fata Turchina, viene svegliato dagli alieni, che sono venuti in pace, per conoscere l’umanità. Essa però si è ormai estinta, a causa dell’effetto serra e dell’inquinamento, e l’unico testimone è proprio il piccolo David. Dunque laddove l’umanità ha fallito, l'intelligenza artificiale è l’unica entità in grado di preservarne l’esistenza. Gli alieni sono inoltre portatori di un messaggio che ricorda quanto sia importante l'essenza spirituale, che invidiano fortemente agli uomini: non li ritengono importanti per le loro scoperte o progressi ma per la loro anima e per il loro aspetto spirituale. ● Wall-e è un cartone animato della Walt Disney del 2008, aggiudicatosi l’Oscar. Similmente ad A.I. il protagonista è un bambino tecnologico, che salva l’umanità ricordandole i suoi valori e la spiritualità. Il genere della pellicola è una fantascienza particolare, d’intrattenimento. Wall-e è l’ultimo robot rimasto in vita su una Terra desolata, e passa le giornate facendo ciò per cui è stato programmato, cioè raccogliere e impacchettare la spazzatura. Ha un solo amico, un piccolo insetto con il quale comunica emettendo dei suoni. Pur essendo solo, è curioso di tutto e la sera resta incantato guardando la luna. Ha perciò caratteristiche totalmente umane (più bambinesche): non parla ma è curioso, ingenuo, puro e ha perfino delle passioni, come quella per un musical e per la sua collezione oggetti trovati per le strade. La sua monotona vita viene sconvolta dall’arrivo di una robottina, Eve, mandata sulla Terra alla ricerca di vita vegetale, che significherebbe per gli umani, la possibilità di tornare a vivere sul pianeta. Eve, una volta trovata una forma vegetale, e quindi completata la sua missione, viene richiamata sull’astronave, seguita da Wall-e, ormai innamorato di lei. L’astronave è ipertecnologica e dotata di ogni confort, ma gli individui che la abitano non sono più capaci di camminare perché sono sempre seduti, sono tutti obesi e comunicano solo via computer pur essendo uno vicino all’altro. Wall-e si trova di fronte a persone completamente disumanizzate, e attraverso i suoi ricordi permette loro di riscoprire il valore della comunicazione diretta, del contatto, di camminare, etc. Grazie al robottino i passeggeri dell’astronave tornano sulla Terra e piantano il primo seme, simbolo di nuova vita e di civilizzazione. Wall-e apparentemente è una favola, ma offre molteplici spunti di riflessione e tratta argomenti bioetici come il problema ecologico-ambientale. La pellicola si apre infatti con un’immagine di Manhattan sommersa dai rifiuti che creano “montagne” ancora più alte degli immensi grattacieli. Quindi fin dall’inizio l’attenzione è posta sul problema della sostenibilità ambientale in un mondo ipertecnologico e iperpopolato. Come Artificial Intelligence, Wall-e ci mette in guardia sugli anni a venire e ci richiama al principio di responsabilità nei confronti di chi verrà dopo di noi. La considerazione della tecnologia in questo film è assolutamente positiva, perché è il piccolo robottino a ricordare all’umanità l’amore, la solidarietà, la capacità di sognare e di sacrificarsi per l’altro (il protagonista rischia di morire per salvare Eve). Come in A.I. dunque, un robot bambino sognatore rappresenta la salvezza dell’uomo, segno che la tecnologia, se usata in modo appropriato e entro certi limiti, è un alleato necessario al progresso e allo sviluppo dell’umanità.