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Cultura Giuridica nell'Età delle Riforme: Cuneo Profondo verso Nuova Ordinanza, Appunti di Storia Del Diritto Medievale E Moderno

Storia della cultura in ItaliaStoria Politica ItalianaStoria del diritto italiano

La stabilità dinamica della cultura giuridica in italia durante il medioevo e la sua accelerazione a partire dal cinquecento. Il giurista, inizialmente custode della tradizione e depositario di grandi poteri giudiziari, diventa un intellettuale e un progettista del futuro. La cultura giuridica diventa parte di una cultura orientata all'azione politica e alla realizzazione concreta, ma mantiene un equilibrio con la tradizione. Anche dell'avvio della riflessione binaria sulla riforma del sistema delle fonti e la nuova funzione giurisdizionale.

Cosa imparerai

  • Come la cultura giuridica ha influenzato la politica in Italia durante l'Età delle Riforme?
  • Come il ruolo del giurista ha cambiato durante l'Età delle Riforme in Italia?
  • Come la cultura giuridica ha evoluto durante il Medioevo in Italia?
  • Come la funzione giurisdizionale ha evoluto durante l'Età delle Riforme in Italia?
  • Come la riforma del sistema delle fonti ha influenzato la cultura giuridica in Italia?

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 27/05/2019

vaentinaspano91
vaentinaspano91 🇮🇹

4.1

(12)

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Scarica Cultura Giuridica nell'Età delle Riforme: Cuneo Profondo verso Nuova Ordinanza e più Appunti in PDF di Storia Del Diritto Medievale E Moderno solo su Docsity! La progettazione della modernita: l'Illuminismo giuridico di Bernardo Sordi - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Diritto (2012) «Changer toutes les magistratures»; «refondre les loix»: sono passati appena due mesi dall’arrivo dei lorenesi in Toscana, nell’estate del 1737. Emmanuel de Nay conte di Richecourt, autorevole e potente membro del Consiglio di reggenza, ha già stilato un incisivo e dettagliato Plan des changemens à faire en Toscane, che può inoltrare a Francesco Stefano di Lorena, alla Corte di Vienna. È soltanto uno dei tanti inizi, nella penisola, di quel Settecento riformatore così magistralmente descritto nella monumentale ricerca di Franco Venturi (5 voll., 1969-1990). Tempi, luoghi, protagonisti possono variare. Anticipazioni rilevanti possono cogliersi in diversi Stati regionali italiani già a fine Seicento. Nell’arco dei primi decenni del Settecento, in ogni caso, l’antico regime conosce un primo, importante, sussulto. La stabilità dinamica che ha caratterizzato, negli antichi Stati italiani, il lento snodarsi di un lungo Medioevo fatto di pesanti persistenze e solide continuità, appena ordinate e segnate qua e là dall’incedere, sempre più vigoroso, a partire dal Cinquecento, di una sovranità già di chiaro conio moderno, ma ancora intrinsecamente limitata negli obiettivi e nei fini sostantivi di governo, conosce una prima, brusca, accelerazione. I periodici interventi di assestamento di magistrature e statuti, tipici della pratica quotidiana di governo del territorio, propria di Stati regionali che hanno intessuto di paterni vincoli tutori i rapporti tra centro e periferia, lasciano il posto a disegni di larga portata che mettono in discussione, nella loro complessità, gli assetti istituzionali esistenti e la tradizione giuridica consolidata. I materiali concettuali accumulati nelle grandi fratture della modernità, dall’Umanesimo al giusnaturalismo, dalla Riforma alla rivoluzione scientifica, per la prima volta vengono convogliati in una precisa prospettiva progettuale, di chiara matrice operativa. Prende così, progressivamente, forma e consistenza un laboratorio politico- istituzionale inedito, in grado ora di tesaurizzare, ora di stimolare una riflessione teorica ad ampio spettro, che cattura sfere sempre più ampie del sociale, si propone di analizzarle, studiarle, classificarle, di farne oggetto di ‘aritmetica politica’, non per mera erudizione, ma al contrario in vista di un intervento concreto: di ‘riforme’, appunto, che modifichino l’esistente, lo riordinino sulla base di un progetto razionalmente elaborato. La realtà sociale non è più soltanto una dimensione da conservare con un attento dosaggio di poteri giurisdizionali. Diventa, al contrario, una realtà da organizzare, da manipolare, da trasformare, sulla base di un disegno di autentica politica del diritto. I modelli giustiziali di governo non sono più sufficienti. Da un lato, sarà sempre di più la legge (e, più tardi, il codice) la voce e lo strumento privilegiato delle riforme: una legge che cade dall’alto, dall’illuminato arbitrium del principe, ma che comincia pure a essere avvertita come il prodotto di una funzione, che richiede quindi ingenti lavori preparatori, inchieste, relazioni, scambi di memorie e discussioni Eppure, al tempo stesso, il messaggio che la cultura delle riforme riesce a ispirare trascende il piano concreto della lotta politica e il braccio di ferro tra un centro, che ha iniziato a progettare società e territorio, e una periferia che, vera roccaforte del patriziato, resiste impermeabile al mutamento. Messo nel debito conto lo scarto, non di rado notevole, tra progettazione e realizzazione, la cultura delle riforme, anche dove non riesce a tradursi in concreta realtà istituzionale e forse proprio qui, dove il progetto si presenta più ardimentoso e quasi velleitario, nel suo astratto razionalismo, rispetto alla impermeabilità della tradizione, esprime una palingenesi radicale dell’ordine antico, una trasformazione insieme antropologica e concettuale: una palingenesi che avviatasi su questo lento sentiero riformatore, non ne può prefigurare il crollo improvviso; ne anticipa tuttavia incisive linee di trasformazione. Un cuneo profondo inizia dunque a insidiare le architravi portanti dello Stato di giustizia di antico regime, immettendosi consapevolmente in un percorso di chiara natura europea e anticipando, di fatto, non pochi contenuti del progetto rivoluzionario. Anche l’Illuminismo giuridico italiano contribuisce a progettare un nuovo ordine politico, gettando le basi di una diversa tipologia statuale e avvicinando la frattura di fine Settecento. Il superamento della tradizione: «un codice fisso di leggi» Pensare a un progetto unitario, perfettamente scandito sin dall’inizio e incrinatosi, ovvero sconfitto, soltanto per il peso delle resistenze e delle opposizioni, sarebbe far violenza a una realtà che vive di articolazioni plurali e di spiccate individualità e a un intreccio tra riflessione teorica e concreta azione politica che si tesse, invece, di volta in volta, progressivamente, in un lento, reciproco, scambio. Eppure questa convergenza, sempre diversa, di teoria e prassi, restituisce, chiarissimo, il dipanarsi di un disegno collettivo univocamente indirizzato verso il superamento della tradizione. Un disegno che inizia a ruotare intorno ad alcuni snodi strategici e che progressivamente consolida alcuni punti di attacco: il rapporto legge-diritto e in parallelo la riscrittura della funzione giurisdizionale; la proprietà e il suo innesto in nuovi canali rappresentativi; infine, dopo alcune significative ma isolate anticipazioni, l’apertura generalizzata, a seguito dell’incontro con la frattura rivoluzionaria, di nuovi sentieri costituzionali. Fermiamoci un attimo sul primo punto. L’analisi critica del sistema delle fonti del diritto si avvia per tempo, nella prima metà del Settecento, già negli scritti di Ludovico Antonio Muratori, un personaggio per molti versi lontano dall’Illuminismo maturo e ancora estraneo all’ansia palingenetica delle riforme. Eppure, già con Muratori la tradizione è clamorosamente infranta. La giurisprudenza si carica di fardelli insostenibili e diventa oggetto di studio e di analisi critica per i suoi difetti. L’antiromanesimo di marca umanista non solo conosce ulteriori declinazioni, ma viene ormai superato da una prospettiva che richiede interventi concreti e diretti e presuppone, in primo luogo, la mano demiurgica del legislatore. Non conta, per riconoscere che un sentiero affatto nuovo è stato imboccato, che le proposte concrete siano state appena definite. Definito è ormai con chiarezza il futuro protagonista: il legislatore. Definito è il prepotente bisogno di certezza che condanna senz’appello la tradizione giurisprudenziale precedente, con il suo «foltissimo bosco» (Dei difetti della giurisprudenza, cap. II) e la sua «tanta farragine di libri di legge» (cap. XX). È l’avvio di una riflessione binaria che abbraccia, in stretto parallelismo, da una parte le fonti del diritto e la loro ormai imprescindibile riorganizzazione legislativa, dall’altra i modi di esercizio della funzione giurisdizionale, secondo una costante che sarà propria di tutta la riflessione settecentesca, sino al varo del vasto progetto codificatorio della Rivoluzione e alle grandi leggi di organizzazione del potere giudiziario del 1790. Il glorioso passato che discende dal Medioevo sapienziale, visto a valle del suo lungo percorso storico, si è pericolosamente ingrossato in un «diluvio di opere legali» che ha «riempiuta la scuola della giurisprudenza di incertezza» e ha «aperto un bel campo ai giudici» (cap. IV), riconoscendo loro, di fatto, un amplissimo e incontrollabile arbitrio decisorio: l’una e l’altro, ormai, definitivamente avvertiti come insostenibili degenerazioni di un ordine giuridico che deve essere interamente rifondato. Il fervore di iniziative riformatrici che, dal Piemonte alla Toscana, ai ducati padani, investono il panorama delle fonti del diritto e l’organizzazione giudiziaria, toccando anche, per la prima volta, il tema del reclutamento e della professionalizzazione dei giudici, dimostra che il messaggio di Muratori interpretava lo spirito del tempo. Neppure vent'anni dopo il libretto muratoriano, nel 1764, un altro «libriccino» (come lo definì Alessandro Manzoni) veniva concepito nell’ambiente colto dell’Accademia dei Pugni, inconfondibilmente segnato dalla forte personalità ispiratrice di Pietro Verri: il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ricco di ben altre letture, prima fra tutte quella, drasticamente selettiva e operativamente orientata, dell’«immortale Presidente di Montesquieu», tracciava, in un volume di rara efficacia e di grande fortuna, un disegno di ormai radicale superamento della tradizione. La progettazione delle riforme accentua la crisi dell’ordine antico e ne avvicina il superamento, aprendo la strada a un inedito dispiegamento della sovranità e a una rifondazione completa della stessa tipologia statuale. Il superamento della tradizione: l’interesse proprietario Anche sotto un altro profilo, il secondo Settecento si apriva, nelle diverse isole riformatrici italiane, a una più ampia circolazione europea e parallelamente a un più incisivo intervento sulle sedimentate strutture patrizie dei ceti dirigenti. Se l’«Assolutismo empirico» della prima metà del secolo – per riprendere una celebre distinzione di Franco Valsecchi – si era costruito secondo modelli di stretta assimilazione tra i sovrani e le diverse nobiltà territoriali, i cui criteri di legittimazione venivano autoritativamente scanditi dalla legge del principe – è il caso della legge toscana sulla nobiltà del 1750 –, l’«Assolutismo illuminato» della seconda metà innesca fermenti e contraddizioni del tutto nuovi. Spicca certamente il tema della proprietà, centrale nei processi di contrasto delle grandi carestie degli anni 1763 e 1764 e ancora del 1766. È il caso della Napoli di Bernardo Tanucci, oppositore strenuo, sin dagli anni di Carlo di Borbone, della «mala bestia padronale» e della «tirannide feudale», e ora attento alle sollecitazioni che giungevano dalla riflessione di Antonio Genovesi e Ferdinando Galiani. È il caso, in particolare, in un contesto più favorevole di quello meridionale, della Toscana dei primissimi anni leopoldini, ispirati dal ritorno in patria di Pompeo Neri dopo l’esperienza milanese della giunta del censimento, che giunge a varare inediti provvedimenti di liberalizzazione del commercio dei grani e di superamento degli antichi meccanismi di regolazione annonaria. Auspice la crescente diffusione nella penisola – Toscana in testa – della fisiocrazia, il commercio dei grani cessa, all’improvviso, di costituire il principale oggetto della polizia economica del principe. «Il principio di mercato», secondo la fortunata espressione di Steven Kaplan, prevale sul «luogo di mercato»; viene sottratto alla police, per essere interamente restituito all'economia politica. Libera estrazione dei grani, sperimentazione e diffusione di nuove tecniche agronomiche, nuovi assetti fondiari da realizzare attraverso una politica generale di allivellazione di terre, in gran parte da sottrarre all’uso improduttivo della proprietà ecclesiastica, comunitativa o feudale, avrebbero avuto il compito di sviluppare l’agricoltura e la sua produzione. Questa centralità della proprietà possiede, in ogni caso, una rilevanza che non è solo congiunturale. Intorno alla proprietà viene infatti a ruotare un decisivo percorso di aggiornamento istituzionale che tocca la riscrittura dei meccanismi di prelievo fiscale e dell’imposta, e insieme la messa a punto di nuovi criteri di legittimazione delle classi dirigenti. Si avvia una nuova direttrice – proprietà-censo-rappresentanza – dalle notevoli implicazioni costituzionali. La stessa pubblica felicità, tema ricorrente della letteratura politica settecentesca, inizia a battere nuove strade. Abbandona le minute regolazioni dell’Etat bien policé e si affida sempre di più alla centralità dell’interesse e a un potente desiderio di amministrare da sé i propri affari. A Milano, il completamento del catasto geometrico-particellare avviene, intorno alla metà del secolo, parallelamente a una grande riforma delle comunità che affida la guida dei consigli comunitativi agli stessi estimati, ai maggiori proprietari fondiari, applicando per la prima volta il principio, già nel 1747 formulato da Pompeo Neri, secondo il quale «veramente la proprietà del terreno è il fondamento del censo, e il censo è il vero e primitivo fondamento della nobiltà» (Discorso secondo tenuto nell'adunanza dei deputati alla compilazione di un nuovo codice delle leggi municipali della Toscana. Sotto dì 22 giugno 1747, ora in app. a M. Verga, Da 'cittadini' a 'nobili'. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, 1990, p. 361). Così, in Piemonte, misurazioni delle terre e provvedimenti normativi sul «buon reggimento delle comunità» vanno di pari passo, ridefinendo ruolo e funzioni dei corpi locali e insieme i criteri di accesso alle magistrature municipali. In Toscana, infine, è di nuovo Pompeo Neri, il grande realizzatore della riforma milanese, ad avviare nel 1769 un primo intervento diretto sulle magistrature sulla base della «regola di rilasciare a chi paga i tributi tutte le più desiderabili soddisfazioni» (Progetto di Pompeo Neri per l'Unione della Parte e de' Nove, in Archivio di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto, filza 107, cc. 4-5), aprendo la strada a quella riforma delle comunità che verrà progettata e realizzata in continuo contrappunto con le elaborazioni teoriche della fisiocrazia. A conferma che l’Illuminismo giuridico italiano era in grado di progettare e mettere in pratica un proprio modello di administration des propriétaires e di porsi quindi in ravvicinata sintonia con i grandi esperimenti riformatori d'oltralpe, dai tentativi di Anne-Robert-Jacques Turgot e Pierre Samuel Du Pont de Nemours, alle assemblee provinciali di Jacques Necker. La nobiltà – con l’affollarsi delle resistenze e delle opposizioni che è facile immaginare – inizia a passare in seconda linea: il censo e la proprietà esprimono, sempre di più, il principale canone di adeguatezza al governo della cosa pubblica. Il governo rappresentativo, certo, è ancora di là da venire; la proprietà perimetra una 'libertà' che ha pur sempre il suo pernio nella «sicura possessione della vita, dell’onore, dei beni» e che poco ha a che spartire con il «governo democratico» (P. Verri, Lettera ad Alessandro Verri, 24 nov. 1779, giuridico e una realizzazione che si scontrava con l'impermeabilità sarà, prima, di fatto bloccato dalla sordina imposta alle riforme dai cambi dinastici e dalla crescente impossibilità di serrare le fila del processo riformatore, e quindi invaso, all’improvviso, da un flusso istituzionale, ramificato e impetuoso, e già stratificato nelle formalizzazioni legislative delle novità rivoluzionarie. Neppure il penale, la cerniera indubbiamente più stretta che poteva agganciare con significativa continuità la progettazione dell’Illuminismo giuridico italiano agli sbocchi rivoluzionari, riusciva completamente a serrarsi. Tanto meno le altre dimensioni fondamentali della modernità giuridica, dal potere costituente al grande progetto codificatorio, dalla definitiva neutralizzazione della funzione giurisdizionale al rapido sviluppo di un’amministrazione generale dello Stato: dimensioni rimaste, dal versante italiano, sul piano progettuale e ancor di più sul piano della formalizzazione normativa, sempre molto al di qua della frattura rivoluzionaria, a partire dall’assoluta estraneità di un riformismo, necessariamente circoscritto nei rigorosi limiti di compatibilità dell’assolutismo illuminato, alla straordinaria presa di forza del potere costituente, chiamato a cancellare l’ordine antico, a instaurare il nuovo ordine individuale del diritto e a fare dello stesso principe un semplice organo costituito. Quel potere costituente che in Francia si stava facendo forte non solo di astratte dichiarazioni dei diritti, ma di un assetto istituzionale fissato e compiutamente definito in un’ampia elaborazione normativa, dai corposi testi costituzionali del 1791, 1793, 1795, ai primi codici rivoluzionari, alle grandi leggi generali sull’organizzazione ministeriale, l’organizzazione della giustizia, la cassazione, l’articolazione del territorio, le assemblee amministrative, le municipalità. Palestra di un inedito costituzionalismo nazionale e significativo momento di incubazione delle primissime prospettive risorgimentali, che si nutrivano di una forte continuità, sia di uomini sia di idee, con le precedenti fasi riformatrici – si pensi, in particolare, al caso napoletano –, il triennio giacobino non potrà così nascondere i segni inconfondibili di una forzata assimilazione di un tessuto istituzionale, ancora per molti versi ‘antico’, persino nelle più illuminate isole riformatrici, alla legislazione termidoriana, a partire dalla stessa trasfigurazione repubblicana, certo consapevolmente prefigurata da non pochi «patrioti», ma pure impostasi nel solco di una «trasmutazione» politica avvenuta pur sempre a «opera di avvenimenti casuali» (G. Compagnoni, Saggio di vocabolario democratico, 1798, in un passo opportunamente valorizzato da L. Mannori nel suo saggio La crisi dell'ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in Ordo Iuris. Storia e forme dell'esperienza giuridica, 2003, p. 160). La promulgazione delle prime costituzioni italiane avveniva così in uno stampo già forgiato oltralpe, nel 1795, dalla «costituzione della madre repubblica francese» (Costituzione napoletana, 1799; Rapporto del Comitato di legislazione al governo provvisorio). La forbice istituzionale si allarga quindi improvvisamente, con l’incalzare dei vorticosi tempi rivoluzionari. Il percorso tra riforme e rivoluzione si fa accidentato e quella che sinora è stata una piena compartecipazione dell’avanguardia della cultura giuridica italiana e dei suoi notevoli tentativi di radicamento istituzionale nel movimento dei lumi, prima si arresta bruscamente con l’archiviazione dell’assolutismo illuminato e della collaborazione tra intellettuali e principi riformatori, quindi, vestiti i nuovi panni rivoluzionari, deve forzatamente calarsi in un canale unidirezionale di recezione, su cui si appunteranno presto le feroci critiche di un Vincenzo Cuoco all’astrattismo dei giacobini italiani. Il corto circuito del 1799 e la repressione nel sangue degli esperimenti rivoluzionari ne saranno la conferma drammatica: il travaso delle novità della rivoluzione, nonostante la sensibilità di non pochi intellettuali, da Filippo Buonarroti a Mario Pagano, con il suo lucido progetto di repubblica democratica, era avvenuto nel solco aperto dalle armate francesi. ‘Terminata la rivoluzione’, nel giugno 1800, Marengo apriva una più pacificata assimilazione delle disperse istituzioni italiane alla legislazione del consolato e presto dell’impero. Anche per la penisola, ormai, il secolo giuridico poteva dirsi iniziato.
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