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Capitale Sociale in Quartieri di Padova: Pratiche di Solidarietà e Participazione, Guide, Progetti e Ricerche di Diritto Della Sicurezza Sociale

Studi Urbani e RegionaliSociologia comparataAntropologia socialePolitiche sociali

La ricerca svolta nei quartieri 5 e 6 di Padova, che ha evidenziato l'esistenza di buone pratiche di solidarietà sociale, spontanee o coordinate, tra diverse istituzioni, associazioni, comitati e strutture locali. Il documento mette in evidenza la differenza di genere, le distanze intergenerationali e le differenze culturali come fattori chiave di lettura dei microprocessi di partecipazione, solidarietà e accoglienza attivati nei territori in questione. Le buone pratiche identificate includono l'impegno di anziani e donne nella vita del quartiere, la collaborazione tra istituzioni locali e associazioni, e l'importanza di servizi specifici rivolti alle donne.

Cosa imparerai

  • Come le buone pratiche di solidarietà sociale contribuiscono alla vita dei quartieri?
  • Come le donne sono coinvolte nella vita dei quartieri?
  • Come le istituzioni locali e associazioni collaborano per promuovere la partecipazione e la solidarietà?
  • Come i servizi specifici rivolti alle donne contribuiscono alla vita dei quartieri?

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

Pre 2010

Caricato il 08/02/2022

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Scarica Capitale Sociale in Quartieri di Padova: Pratiche di Solidarietà e Participazione e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Diritto Della Sicurezza Sociale solo su Docsity! COMUNE DI PADOVA ASSESSORATO ALLA PARTECIPAZIONE PROGETTO PACE URBANA RAPPORTO FINALE A CURA DEL CIRSSI CENTRO INTERDIPARTIMENTALE DI RICERCA E SERVIZI PER GLI STUDI INTERCULTURALI UNIVERSITA’ DI PADOVA COORDINAMENTO: ENZO PACE IN COLLABORAZIONE CON: ANNALISA BUTTICCI, ANDREA CELLI, DAVIDE GIRARDI, KHALED RHAZZALI NOVEMBRE 2006 1 2 aggregati (ma non mancano gesti individuali) che abbiamo incontrato nelle aree sondate; d) interpretare tali pratiche come una forma di capitale sociale accumulatosi nella vita dei due quartieri, capitale che può essere considerato una risorsa collettiva per la promozione della pace urbana. Fermo restando l’intento di fare una ricerca che, sin dalle prime fasi di progettazione, coinvolgesse i soggetti e i gruppi più attivi che operano nelle due aree individuate, le linee lungo le quali la ricerca stessa si è svolta possono essere riassunte nel diagramma che segue: FINALITÀ ULTIMA: Pace urbana: monitoraggio buone pratiche esistenti Nei quartieri e nelle loro istanze istituzionali con le assoc., leader locali, rappr. di realtà istituzionali e religiose con gruppi spontanei di cittadini e cittadine Progettazione della ricerca-intervento Tramite raccolta dati informativi di sfondo Monitoraggio esperienze di partecipazione Analisi delle eventuali criticità 5 Il risultato atteso, dunque, era: a) ricognizione dell’esistenza di segmenti di capitale sociale creatosi nel tempo a fronte di problemi emersi nelle realtà di quartiere che hanno contribuito a suscitare nella popolazione residente o in parti di essa sentimenti di appartenenza e di partecipazione attiva alla vita della comunità; b) individuazione di criticità o di problemi che sono rimasti sinora latenti in vista di un eventuale intervento partecipato. Il presente rapporto è così suddiviso: - una sintesi di quanto è emerso dall’indagine sul campo (paragrafo 2 a cura di Enzo Pace) - la sintesi delle interviste focalizzate attorno al tema del genere (paragrafo 3 a cura di Annalisa Butticci) - la sintesi delle interviste che tematizzano le relazioni fra le generazioni (paragrafo 4 a cura di Davide Girardi) - la sintesi delle interviste che fanno il punto in tema di invenzione degli spazi sociali e della sicurezza (paragrafo 5 a cura di Andrea Celli) - la sintesi delle interviste sul tema dell’immigrazione (paragrafo 6 a cura di Khalid Rhazzali) - riflessioni conclusive (paragrafo 7 a cura di Enzo Pace) - una nota metodologica (paragrafo 8 a cura di Annalisa Butticci). - Una bibliografia selezionata che dà conto di ricerche analoghe o di esperienze in corso in altre città. 2. BUONE PRATICHE E CAPITALE SOCIALE IN UNA CITTÀ CHE CAMBIA Alla fine della ricerca abbiamo verificato: a) l’esistenza di legami sociali diffusi fra gli abitanti delle due aree esaminate e attraverso quali forme tali legami si esprimono; b) l’esistenza di repertori d’azione sociale spontanea o coordinata, inventati da diversi soggetti (istituzioni, scuole, associazioni, comitati spontanei di cittadini) per prendersi cura e carico di problematiche indotte dai cambiamenti che sono in atto nei due Quartieri esaminati; c) l’esistenza di relazioni importanti e intelligenti fra associazionismo, strutture pubbliche periferiche (consultori, Progetto Giovani, scuole, Vigili di quartiere ecc.) e istituzioni religiose (parrocchie o centri Caritas), che consente di misurare il grado di spontaneità o di integrazione fra iniziative dal basso, da un lato, e coordinamento pubblico e istituzionale, dall’altro, in una parola, l’estensione di ciò che abbiamo chiamato capitale sociale, frutto di buone pratiche. Non si voleva fare un’indagine estesa, rappresentativa dell’universo dei bisogni degli abitanti né solo degli eventuali problemi che essi vivono quotidianamente. L’idea era al contrario individuare un gruppo di soggetti (persone e aggregazioni vitali e visibili che operano da tempo nelle due aree prescelte), facendo raccontare a loro stessi le iniziative prese e le 6 esperienze vissute direttamente nel campo della solidarietà sociale, della partecipazione attiva alla soluzione di problemi e, infine, della creazione di senso civico. Non ci aspettavamo, perciò, che le persone che abbiamo intervistato ci raccontassero esclusivamente le cose che non vanno nel quartiere o quali problemi urgenti sono percepiti come fonte di allarme o preoccupazione sociali. Al contrario, abbiamo loro proposto di risponderci “a tono” su che cosa di buono innanzitutto essi avevano fatto in questi anni per migliorare le relazioni fra gli abitanti, prendendosi carico, spontaneamente o in collaborazione con strutture pubbliche e istituzionali, di ciò che possiamo chiamare le micro-fratture che si accumulano nella vita di ogni giorno e che, alla lunga, possono trasformarsi in conflitti e tensioni crescenti, difficili poi da risolvere. Abbiamo scelto di concentrare l’attenzione nostra e dei nostri interlocutori su tre aspetti: a) la differenza di genere, con particolare attenzione al ruolo attivo delle donne nell’invenzione di buone pratiche di solidarietà sociale; b) le distanze fra generazioni e gli spazi sociali inventati per la loro colmatura; c) le differenze culturali aumentate in seguito all’inserimento sociale di cittadini immigrati. Questi tre aspetti sono stati affrontati nelle conversazioni e nelle interviste che abbiamo svolto sul campo. Una città che cambia – e le due zone esaminate costituiscono un punto di osservazione interessante – può percepire che qualcosa sta mutando se chi vi abita si accorge che nei luoghi, che egli frequenta quotidianamente, le differenze e le distanze sono diventate visibili. Dalla scuola al supermercato, dai giardini pubblici agli uffici comunali, dalla parrocchia alle varie associazioni che sono presenti nei Quartieri. Si può esercitare di fronte a tali differenze e distanze la disattenzione civile oppure ci si può dare da fare per creare relazioni sociali intelligenti, in grado di cogliere i problemi, quando sono ancora in nuce, e di immaginare inedite forme di solidarietà e partecipazione sociali, magari partendo con piccole iniziative spontanee e spesso non costose. Anziani che aiutano i giovani, donne, che siano autoctone o immigrate, che si aiutano tra loro per far fronte a problemi comuni, giovani adulti che si preoccupano dei loro coetanei più piccoli, magari di altra nazionalità, parroci o parrocchiani che si interessano ai nuovi fedeli di religione ortodossa o musulmana, insegnanti che propongono progetti formativi capaci di mobilitare i loro studenti, ma anche le famiglie, raggiungendo anche quelle di recente immigrazione, persone attive in associazioni che per lungo tempo hanno elaborato programmi per i loro iscritti e che, ad un certo punto, escono dal loro sano guscio e si danno da fare per sostenere iniziative a più largo raggio e così via. L’elenco potrebbe continuare, perché ci siamo limitati semplicemente ad evocare le figure della solidarietà civica e della partecipazione attiva che abbiamo trovato e ricostruito attraverso il racconto degli intervistati. Per dirla senza troppa enfasi, ciò che abbiamo visto è l’esistenza di una trama di buone pratiche, spontanee o coordinate (con altri soggetti organizzati che operano nei quartieri: da quelli istituzionali, a cominciare dai due dinamici Consigli di Quartiere per finire con il Progetto Giovani altrettanto dinamici, alle strutture “storiche” come le parrocchie, ad esempio) che lasciano intravedere l’esistenza di un capitale sociale accumulato, che può e deve essere valorizzato ogni qual volta s’intende prendere un’iniziativa da parte del Comune. Ciò che va sottolineato è la caratteristica di tale capitale sociale: non siamo di fronte solo a un insieme di risorse umane e sociali che hanno generato, mobilitandosi nel tempo, legami più o meno forti fra categorie di persone raggruppate per età, genere, etnia, status o ceto ecc., ciascuna di esse in un certo senso gelosa delle proprie specificità e competenze (come, ad esempio, si potrebbe evincere da una superficiale lettura delle molte sigle di associazioni che frequentano la Casa Leonardo a Brusegana). Abbiamo a che fare, invece, con iniziative varie 7 Soggetti Tipi di azione Luogo Problematiche Associazione Animata da adulti e anziani, già attivi nella parrocchia di Altichiero a) sostegno extra- scolastico a 25 studenti di famiglie immigrate coinvolgendo giovani liceali, universitari e insegnanti in pensione; b) gestione di uno sportello per famiglie di detenuti; c) produzione di materiale didattico per le scuole sul tema della memoria della zona dove agisce l’associazione Raggio d’azione Q6, ma prevalentemente zona Altichiero con estensione a Ponterotto, Montà e Valsugana Immigrati Inter-generazioni CdQ-Associazione- Scuole-Istituzione carceraria Ruolo attivo delle donne Associazione animata da adulti e anziani a)Iniziative per e con i giovani (tramite il Progetto Giovani) b)Assistenza anziani non autosufficienti in collaborazione con i centri Caritas di due parrocchie e con un supermercato; c) Progetti ed iniziative per le nuove famiglie di immigrati (luoghi di socializzazione e prima assistenza pratiche) Rione Palestro Q5 ma con estensioni e collegamenti più ampi: - con le parrocchie di S. Vincenzo e S. Giuseppe; - con Progetto Giovani; - con anziani della città tramite un punti ascolto telefonico (Il Filo d’Argento) Inter-generazioni Immigrati Assistenza anziani Coordinamento con servizi pubblici e istituzionali Coordinamento con le parrocchie Ruolo attivo delle donne Servizi socio-sanitari territoriali, progetti donna (CdQ), Centro Aiuto alla Vita, Progetto giovani e associazionismo femminile a) iniziative istituzionali sulla maternità e la genitorialità; b) iniziative complementari e spontanee di associazioni di donne o di gruppi di donne con bambini c)attività di formazione e informazione rivolte soprattutto agli adolescenti e ai giovani I due Consultori dei Q5 e Q6, con pochi mezzi, agiscono come strutture di servizio ma anche come luoghi d’incontro da cui prendono avvio iniziative spontanee o attività coordinate da associazioni soprattutto di donne Prendersi cure delle immigrate sole con figli Proporre interventi sulla genitorialità Aggregazioni spontanee di donne attorno ai temi della gravidanza e della cura dei neonati, aggregazioni a volte anche di donne padovane e straniere Punto Giovani a)servizi utilizzati da giovani autoctoni e immigrati; b)corsi e offerte culturali che aggregano giovani ma anche adulti della zona c)collegamenti con il CdQ, associazioni di anziani, gruppi giovanili di musica e teatro, cooperativa Nuova Terra operanti nella zona Via Toselli Spazio pubblico aperto: inter-generazionale con presenza di giovani immigrati possibilità di riferimento nella zona per i giovani che tendono a sentirsi meno radicati nel quartiere Parrocchie vecchie e nuove (la più rilevante: la Parrocchie in missione e Parrocchie cerniere con il Parrocchie che non riescono ad entrare in “Ponti sul territorio” nei rioni multiculturali 10 nuova parrocchia ortodossa di Brusegana nata per spirito ecumenico fra Curia vescovile, parrocchia nuova di Brusegana e comunità rumeno- ortodossa) territorio contatto con l’ambiente sociale in cui sono inserite parrocchie che invece sono capaci di creare una rete di rapporti con gruppi intermedi, associazioni e istituzioni (CdQ) Aperte al confronto con le realtà religiose nuove che si rendono visibili (es.: comunità ortodosse) Ma non del tutto dinamiche rispetto alla realtà sociale che muta attorno ad esse Ogni soggetto che compare nella prima colonna può essere visto come un nucleo che dinamicamente stabilisce relazioni con altri soggetti, mobilitando proprie ed altrui risorse umane. Un’azione a stella che può essere graficamente rappresentata nel modo seguente: Lo schema non dà conto evidentemente della quantità e qualità delle diverse iniziative che l’associazione che opera nel Q6-zona Altichiero ha prodotto e produce. L’idea che lo schema vuole trasmettere è invece un’altra: dare conto della rete di relazioni e della capacità di costruire ponti fra diverse realtà presenti nell’area dove l’associazione si muove. Il gruppo in questione ha incorporato, infatti, un sapere sociale, frutto di esperienze ripetute nel tempo e di Sostegno alunni immigrati Relazioni con la scuola Assistenza famiglie detenuti Memoria storica del rione Relazione con nuove generazioni Associazione Q6 11 varie iniziative prese, tale per cui esso può essere visto come un gatekeeper, un interlocutore che è in grado di filtrare le informazioni cui il gruppo può avere accesso, mediare le relazioni fra il gruppo e l’ambiente esterno in cui agisce e fra il gruppo stesso ed altri gruppi o istituzioni presenti nella realtà. Il sapere sociale di cui parliamo crea fiducia sociale e, tramite essa, impegno civico di cui un’Amministrazione pubblica non può fare a meno per governare società complesse come sono diventate le nostre città. Il problema semmai è come si trasformano le informazioni e le esperienze accumulate da una associazione in informazioni e indicazioni per chi è chiamato a governare la città. Quando, sempre continuando nell’esempio, i responsabili dell’associazione fanno presente quali sono i problemi e le urgenze della zona in cui il gruppo agisce (come, ad esempio, la mancanza di un presidio sanitario per servizi elementari da fornire alla popolazione soprattutto anziana che ha difficoltà a spostarsi con i mezzi pubblici; un controllo più occhiuto sui limiti di velocità che non vengono rispettati su alcune strade di maggiore traffico nel quartiere; la costruzione di una piazza e di un parco giochi per i bambini; e, più in generale, la salvaguardia dell’identità e della memoria collettiva “di quartiere” contro la tendenza a trasformare l’area in un dormitorio “senza più anima”), non si può leggerli come se fossero solo le voci di un quaderno di doglianze, ma vanno presi in considerazione come il risultato di una lettura intelligente che l’associazione ha fatto di cosa s’intende per bene pubblico e di come un soggetto non istituzionale se ne fa carico, al di là del soddisfacimento delle proprie legittime finalità associative. Potremmo provare quanto stiamo dicendo ripetendo lo schema che abbiamo disegnato poco sopra anche per il secondo gruppo di anziani che opera nel Q5 12 2 IL GENERE COME RISORSA PARTECIPATIVA La ricerca sviluppata sui quartieri 5 e 6 della città di Padova ha individuato nel genere e nelle differenti realtà che caratterizzano la vita quotidiana di uomini e donne, un’interessante chiave di lettura dei micro processi di partecipazione, solidarietà e accoglienza attivati nei territori in questione. Lo sguardo sul genere ha dunque offerto interessanti spunti di riflessione in grado di cogliere alcune delle potenzialità insite nelle diverse fasi del ciclo di vita e dell’esperienza individuale e collettiva della popolazione maschile e femminile. Le interviste nelle quali i contenuti sul genere sono apparsi più significativi fanno riferimento ai consigli di quartiere, ad alcune associazioni e in particolar modo ai servizi socio-sanitari territoriali, ossia i consultori. Attraverso le testimonianze degli intervistati è stato possibile individuare alcuni importanti spunti di riflessione riconducibili essenzialmente alla diversa partecipazione delle donne e degli uomini alla vita di quartiere, alla specificità che caratterizza la socialità delle donne straniere rispetto alle italiane, alla diversa modalità di approccio ai servizi socio-sanitari territoriali dedicati alla salute riproduttiva, alla famiglia ed all’infanzia. Ci è sembrato importante soffermarci inoltre sul lavoro dei consultori, sulle progettualità e sulle loro difficoltà in quanto ad oggi, si possono ancora considerare le istituzioni cardini degli interventi di promozione della salute riproduttiva e del benessere psicofisico delle donne e delle loro famiglie. In tal senso, appare evidente come la questione di genere sia stata particolarmente approfondita nelle interviste realizzate con le assistenti sociali e con le psicologhe dei consultori dei due territori. Tuttavia, accanto alle configurazioni delle tipologie e dell’istanze della popolazione maschile e femminile, sono emerse difficoltà operative alle quali abbiamo ritenuto importante dare spazio in questo rapporto. Rispetto alle peculiarità che caratterizzano la partecipazione ad attività istituzionali e associative, si evidenzia un maggiore impegno delle donne in particolare nelle iniziative culturali, ricreative, come pure nei servizi di sostegno e supporto alla cittadinanza. Di fatto, gli uomini sembrano essere meno presenti, come riferisce peraltro SP nell’intervista realizzata presso la sede della sua associazione particolarmente attiva da diversi anni in una delle aree in questione. Le difficoltà che sentiamo, che è abbastanza comune, ce lo chiediamo sempre, è cosa si possa fare per rompere un po’ questa chiusura della presenza maschile. Al contrario, ci sono molte signore, innanzitutto vedove….ma anche no, che vengono e trovano soddisfazione nel venire a dare una mano, lavorare in laboratorio, partecipare agli incontri, partecipare a queste escursioni che hanno sempre l’obiettivo di natura culturale. Simili considerazioni sono state avanzate anche da altri testimoni intervistati, quali referenti di associazioni o istituzioni, i quali evidenziano come il coinvolgimento delle donne nella vita del quartiere sia trasversale a diversi tipi di attività, che vanno dal preparare banchetti di beneficenza e feste di quartiere, al cucire i costumi degli spettacoli teatrali dei bambini delle scuole del rione, fino alla partecipazione alle attività politiche delle istituzioni locali, come testimoniano peraltro le osservazioni di seguito riportate di alcuni dei consiglieri di quartiere intervistati. In riferimento al consiglio di quartiere quante donne ci sono? C1: Metà. Allora, di maggioranza sono quattro…..poi..sei…sei su diciotto! Un terzo! Che mi dite? Più della media nazionale! Per quanto riguarda l’attività di volontariato? C2: Molte donne. Molte donne sì, ci sono poi gli “Amici della bicicletta”, li ci sono anche tanti uomini perché vanno sempre in bicicletta, fanno sempre tante belle gite, il gruppo “Padovani..”, il gruppo podistico lo stesso, però dove operano ad esempio l’Upel, l’Auser, etc. la maggior parte sono donne. 15 Emerge quindi una realtà nella quale il ruolo delle donne appare non solo riconosciuto, ma anche incoraggiato. Infatti, se da una parte si rileva una certa partecipazione femminile alla vita dei quartieri, dall’altra è bene sottolineare come le stesse istituzioni locali tendano a sostenere servizi specifici rivolti alle donne, in particolare se in difficoltà. In entrambi i quartieri sono infatti attive due realtà: “Progetto donna oggi” e “Centro veneto progetti donna”, alle quali sono stati concessi dei locali pubblici da utilizzare come sedi operative e legali. Accanto a questi servizi, vi sono molte altre associazioni a connotazione tipicamente femminile. Una simile disponibilità da parte delle istituzioni locali è inoltre accompagnata da un certo interesse e curiosità nei confronti delle possibili attività, interventi o ricerche1 in grado di ampliare la conoscenza e la sensibilità sulle diverse implicazioni di genere nelle politiche pubbliche. Di seguito riportiamo le considerazioni di uno dei presidenti di consigli di quartiere intervistati. Adesso c’è un progetto del Centro Veneto Donna che si svolge in via Tripoli. Via Tripoli è un luogo del quartiere dove noi abbiamo dato spazio, ripristinato la casa delle donne che la precedente amministrazione aveva cacciato da via Napoli. Noi adesso l’abbiamo spostata in via Tripoli e abbiamo dato una stanza in più. Adesso non è che io ballo negli edifici nelle stanze, non è che ne ho quante ne voglio. Dargli una stanza per me ha un significato, è una scelta politico-amministrativa di cui sono tranquillo: sono contento! Il protagonismo femminile nella sfera pubblica dei due quartieri si caratterizza però per il coinvolgimento quasi esclusivo di donne italiane, nella maggioranza dei casi in età pensionistica. Appare infatti assente la partecipazione di donne immigrate, sia nelle adesione ad iniziative in corso sia nelle vere e proprie forme di associazionismo2, salvo qualche rara e preziosa esperienza come quella dell’associazione di donne “Far filò” dedita alla riscoperta dei tradizionali lavori manuali delle donne. Su tale mestiere, l’associazione ha costruito un momento di condivisione e valorizzazione reciproca con il risultato, piuttosto inconsueto, di rendere partecipi anche delle donne cinesi. E’ dunque sul filo (in questo caso simbolico e reale!) della memoria e della tradizione che si è inanellato l’incontro e la relazione con donne che altrimenti subirebbero il peso dell’isolamento e dell’invisibilità sociale. Di certo, siamo di 1L’esperienza di ricerche condotte sulle varie realtà locali del territorio nazionale in merito agli aspetti di “governance e genere” quali Gender Auditing, Mainstreaming di genere, Gender budgeting cominciano ad assumere una certa rilevanza soprattutto per gli amministratori locali che da tali ricerche acquisiscono elementi utili per programmazioni e pianificazioni d’intervento. Nello specifico, per Gender Auditing si intende la pratica di rendicontazione sociale tramite la quale integrare una prospettiva di genere nella lettura di documenti di programmazione economica di politiche pubbliche, al fine di valutare le implicazioni sulle condizioni di vita dei due generi, evitando così effetti e ricadute differenziate sulla condizione economica e sociale della popolazione femminile o maschile. In proposito si veda la ricerca svolta per la Regione Emilia Romagna nel 2004 dal titolo “Implementazione degli strumenti di Gender Auditing già progettati nella programmazione finanziaria e di bilancio delle Regione Emilia-Romagna, finalizzata all’integrazione dell’analisi e della programmazione di genere nei processi più generali di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle politiche”, report conclusivo, SCS, 2004. Il Mainstreaming di genere invece è un concetto innovativo che tende ad inserire la prospettiva di genere - il punto di vista delle donne e degli uomini- in ogni scelta politica di programmazione e in ogni azione di governo, al fine di eliminare gli ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale delle donne. Il fine di un simile processo è la promozione delle pari opportunità tra i sessi. Tra i lavori più significativi si segnala una ricerca sempre promossa dalla Regione Emilia-Romagna su “Buone pratiche per le pari opportunità e il mainstreaming di genere nelle azioni FSE della Regione Emilia-Romanga, CRAS, 2004, e un’interessante guida realizzata da equalitalia, scaricabile sul sito internet www.equalitalia.it/Documenti/Guida_Mainstreaming_4.pdf, dal titolo “Guida a mainstreaming di genere”. Infine, per Gender Budgeting si intende l’analisi della distribuzione delle spese di bilancio. In proposito si evidenzia il sito internet www.genderbudgeting.it, nel quale sono presenti numerose iniziative sul bilancio di genere di diverse amministrazioni locali. 2 Una simile realtà appare confermata anche per ciò che concerne gli immigrati uomini, la cui partecipazione ad associazioni è risultata pressoché assente. Vedi par 6. 16 fronte solo a dei micro processi che evidenziano tuttavia sfere e ambiti di vita quotidiana particolarmente permeabili e fecondi allo scambio, alla reciprocità ed alla condivisione. L’elemento della solitudine e dell’isolamento è ritornato più volte sia nelle interviste con i testimoni privilegiati sia nell’incontro realizzato con alcune delle associazioni attive nei territori in questione. In realtà, a fronte di una significativa vita associativa, si evidenziano ancora delle sacche di popolazione che per diverse ragioni appaiono vivere in un difficile isolamento. Questo appare particolarmente vero per una parte degli anziani3 e per le donne straniere. Per quest’ultime in particolare, si è osservato come i bisogni legati all’ambito della genitorialità e della famiglia possono dar seguito all’avvicinamento ai servizi socio sanitari4, alle istituzioni scolastiche5 del territorio nonché alle realtà socializzanti del territorio. In tal senso, le donne risultano maggiormente visibili rispetto agli uomini, dediti quasi esclusivamente all’attività lavorativa, ricoprendo in molti casi un ruolo cardine nel processo di inserimento di tutto il nucleo familiare. Il ricorso ai servizi socio-sanitari può attivare, oltre all’intervento sanitario, una rete di relazioni attraverso le quali arginare i vuoti affettivi e le apprensioni della condizione genitoriale. A tal proposito, si sono osservate due diverse circostanze nelle quali la richiesta di aiuto ai consultori appare particolarmente significativa. La prima, peculiare soprattutto al consultorio del quartiere 5, fa riferimento alla realtà dei nuclei mono-genitoriali composti da donne immigrate le quali si trovano a dover far fronte a ricongiungimenti familiari difficili. E’ il caso, per esempio, di coloro che vivono con estrema conflittualità l’adolescenza di figli giunti da poco in Italia, così come ci riferiscono in uno dei servizi socio sanitari interpellati. Abbiamo richieste di aiuto di tantissime donne sole. Quelle che ho conosciuto io, sono donne venute da situazioni già problematiche dal loro paese; sono in cerca di un miglioramento economico. Hanno avuto dei ricongiungimenti difficili con i figli. Me ne viene in mente una che ha lasciato il figlio al padre nel paese d’origine. Poi c’è stato un ricongiungimento. Mi veniva segnalata per un sostegno perché la situazione del minore era molto difficile. Poi mi vengono in mente tanti altri casi. Sono, appunto, casi di donne sole, che avevano delle storie complesse già nel loro paese di origine; arrivando qua la situazione con i figli è sulle loro spalle e quindi i servizi territoriali intervengono. Noi abbiamo una grandissima richiesta di sostegno per le loro difficoltà di genitori. Io ne ho parecchie, alcune si fanno seguire in modo anche molto attivo, hanno delle risorse, una precedente preparazione culturale nel loro paese, qualcuna ha anche familiari che si sono ricongiunti qua. Sono ucraine, moldave, rumene e poi abbiamo anche marocchine. (Psicologa) Peraltro, il sostegno alla genitorialità è peculiare anche alle richieste di aiuto riguardanti le famiglie italiane, soprattutto in riferimento all’età adolescenziale. La ricorrenza e la significatività di una simile istanza ha dato vita all’elaborazione di un progetto da parte del personale di uno dei due consultori, risultato però impraticabile in considerazione delle diverse priorità di intervento indicate dall’USL e per l’insostenibile mole di lavoro alla quale ogni giorno i consultori devono far fronte. Il progetto prevedeva l’attivazione di gruppi di genitori in difficoltà con i propri figli. PS: Per economizzare le risorse, il gruppo poteva essere uno strumento di lavoro ottimo, è una sorta di auto aiuto. Non abbiamo potuto portarlo avanti perché eravamo partite con troppo lavoro, poi abbiamo avuto la richiesta istituzionale di fare il percorso nascita e quindi abbiamo iniziato ad orientarci verso un’altra formazione su un progetto di preparazione alla nascita. La popolazione però ci chiede dei corsi sulla genitorialità. Che tipo di richieste sono? Quali sono i nodi problematici? 3 Vedi in proposito il par ?? generazioni. 4 Attualmente non siamo ancora a disposizione dei dati in merito all’utenza immigrata nei due consultori. Abbiamo tuttavia inoltrato la richiesta all’USL, che sta elaborando i dati forniti dai vari distretti in attesta di una prossima pubblicazione. Tuttavia, possiamo sostenere che l’affluenza delle donne straniere ai consultori risulta sostanzialmente paritaria all’affluenza delle donne italiane, come risulta peraltro dalle tendenze evidenziate nelle ricerche sopra menzionate riferite ad altre realtà territoriali. 5 In merito alle relazioni con le istituzioni scolastiche si veda il paragrafo 6. 17 richiesto rientra nell’ambito di azioni di prevenzione alla salute ed al benessere psicofisico. Di fatto, si è rilevato come, nella maggioranza dei casi, le donne siano propense ad usufruire dei servizi solo durante il periodo strettamente connesso alla gravidanza e al parto; tanto è vero, che la maggior parte delle richieste fa tendenzialmente riferimento a situazioni di disagio socio-economico. Le donne straniere più difficilmente aderiscono agli interventi di prevenzione, per cui difficilmente arrivano all’inizio della gravidanza. In genere, il primo accesso è sempre per le risorse economiche (assistente sociale) Uno dei servizi che nel tempo sembra essersi connotato da un’utenza di donne a maggioranza straniere è il Centro Aiuto alla Vita, con il quale i consultori collaborano quotidianamente. Tale servizio offre sostengo alle donne sole in gravidanza che versano in uno stato di profondo disagio economico. La collaborazione tra i vari servizi territoriali e i consultori rappresenta sicuramente uno dei punti di forza dei territori indagati. Le stesse operatrici riferiscono di una buona rete di supporto per gli utenti (in maggioranza donne e minori), i quali possono dunque beneficiare di interventi attivati congiuntamente da consultori, comune, Caritas (molto attiva in entrambe i territori), Centro Aiuto alla Vita, e Progetto Giovani per ciò che riguarda le iniziative informative o formative. C’è anche il Centro Vita, con il quale collaboriamo che è molto importante. Anche loro chiedono la collaborazione del servizio sociale. Nel Centro Vita sono quasi tutti stranieri. Quando una donna partorisce e non sa dove andare c’è questa convenzione dell’USL, con il Centro Vita per sostenerla prima del parto e tre quattro mesi dopo. Aiuti la donna a trovare anche dei riferimenti, un lavoro. Sono stranieri principalmente. Una volta questo servizio non c’era. (assistente sociale) Per i minori, che è di competenza del servizio sociale del Comune, spesso viene coinvolto il consultorio per un approfondimento delle capacità genitoriali, per un supporto alle situazioni territoriali, per degli incarichi dal Tribunale, oppure il comune che si occupa di tutela minori ci coinvolge per un sostegno alla genitorialità in situazioni di rischio e questa è… diciamo considerevole, perché è di grande responsabilità. Secondo me però, quello che è cambiato nel tempo, a mio parere, è che c’è più rete tra i servizi. (psicologa) Non di poco conto inoltre è il ruolo di filtro e mediazione svolto dai consultori. Accade sovente che le operatrici accolgano persone che avanzano le più disparate richieste. Ciò dimostra quanto il consultorio rappresenti per la sua funzione e cultura organizzativa l’interlocutore principale attraverso il quale gli utenti esercitano la loro cittadinanza sociale. Diamo riposte alle persone che ti vengono a chiedere informazioni sugli avvocati, sulla casa. Non è specifico del consultorio, ma lo fai. Anche la prima accoglienza, non è del consultorio, ma si filtra la richiesta e di volta in volta la si rimanda ai servizi competenti, al comune ad altri uffici. (assistente sociale) In merito all’utenza straniera, e’ importante osservare come l’accesso e il rapporto con i servizi sia spesso ostacolato da una scarsa conoscenza dell’italiano e dal diverso approccio alle modalità di erogazione delle prestazioni acquisite nel paese d’origine. Rispetto alla difficoltà di comunicazione, diversi sono stati gli aneddoti riferiti durante le interviste. Le stesse operatrici hanno espresso la loro preoccupazione in merito all’incomunicabilità che spesso caratterizza le relazioni con le utenti. Appaiono infatti evidenti le ripercussioni che simili difficoltà possono causare sugli esiti della richiesta di prestazione8. A tal proposito, riportiamo di seguito alcuni stralci di interviste realizzate nei consultori. 8 E bene inoltre rilevare come il nodo problematico della conoscenza dell’italiano sia stato oggetto di riflessone anche durante l’incontro realizzato con le associazioni del territorio. Anche in quella sede è emersa l’importanza dell’apprendimento e della padronanza dell’italiano da parte della popolazione immigrata. Per una riflessione più approfondita in merito vedi il par. ?? 20 AS. Qualche mese fa c’è stato un problema, anche grosso, con una donna dell’est. Tra l’altro, non era neanche regolare qui in Italia. Era in gravidanza, non ci si capiva proprio. Ad un certo punto, sospesa la visita, la ginecologa le ha detto.” Signora io le ho spiegato le cose, ma vedo che lei non mi capisce”. Dopo di che, abbiamo chiesto l’intervento di un mediatore culturale. La signora poi non si è più presentata, non si è più fatta vedere, però il problema c’è. Più di qualche volta, la dottoressa Cirillo, si rivolge alle donne che si fanno servire qui perché parlano inglese, altrimenti bisogna far ricorso a qualche mediatore culturale. PS. Sì, qui è opportuno specificare che da qualche tempo cominciamo ad avere delle risorse in questo senso. Ci sono dei mediatori culturali dell’USL, con una convenzione. Possiamo rivolgerci all’USL per la presenza di un mediatore culturale per una determinata etnia. (psicologa e assistente sociale) Stamattina è venuta una donna straniera e ci ha fatto cenno che aveva bisogno dell’esame del sangue con il segno della mano. Poi toccandosi la pancia avevo capito che è incinta. (assistente sociale) Una laureanda in psicologia stava facendo uno studio sui papà che partecipano ai percorsi nascita e aveva chiesto se potevamo farla partecipare. Ben venga. E’ venuta quando è iniziato uno di questi corsi, l’abbiamo presentata a dei papà a delle mamme, chiedendo la loro collaborazione. Nessuno ha detto di no, anzi, perfino una mamma cinese poverina, non ha capito niente! Ho capito che era in difficoltà e ad un certo punto ho detto: <Signora lei deve dire se aderisce, se è d’accordo!>, lei si è sentita un po’così….Cosa ha fatto poverina: mi ha riconsegnato la scheda d’iscrizione al corso di preparazione alla nascita per se e per suo marito. Non ha capito. Ecco a volte abbiamo….avremo degli scontri. (Psicologa) Nel primo stralcio di intervista viene riportata la possibilità da parte dei servizi di usufruire di una mediazione linguistica grazie ad una convenzione con l’USL di Padova. Il servizio di mediazione linguistica viene tuttavia attivato solo su richiesta, ossia non fa parte integrante nell’equipe di lavoro. In tal senso, possono sorgere delle difficoltà nel caso in cui la mediazione non sia immediatamente disponibile, costringendo sia l’utente sia l’operatore a interrompere l’erogazione della prestazione e rinviare l’attivazione dell’intervento. Altrettanto complessa appare l’intervento quando le utenti non seguono le indicazioni dettate dagli orari di appuntamento stabiliti, circostanza che sembra piuttosto ricorrente. Sicuramente una difficoltà che noi abbiamo, mi pare più con quelle che sono qui da meno tempo o comunque meno inserite, è proprio il senso del tempo, la puntualità agli appuntamenti, il fatto di dover prendere appuntamento, etc….cioè, loro tendono a venire qui senza appuntamento, oppure vengono con appuntamento ma arrivano molto in ritardo. Questo comporta un difficile equilibrio. Significa che la donna italiana o anche immigrata integrata, che si è presa due ore di permesso dal lavoro deve rientrare al lavoro senza visita.… (assistente sociale) Molto interessanti si sono inoltre rivelate le considerazioni delle operatrici circa gli interventi di conflittualità di coppia. Dalle interviste emerge con evidenza come il ricorso al sostegno familiare sia considerato dalla popolazione immigrata come un’iniziativa del tutto straordinaria, da intraprendere dunque solo nel caso in cui la conflittualità sia nella fase ormai più critica. A fronte dunque di una certa richiesta della popolazione italiana, soprattutto appartenente a fasce sociali medio alte, si rileva un richiesta di sostengo di coppia piuttosto marginale da parte delle coppie e famiglie straniere, le quali invece chiedono aiuto in prima istanza per ragioni economiche. Inoltre, nella maggioranza dei casi, sono le donne che per prime si rivolgono ai servizi, anche nei casi di richieste di intervento di tipo economico. Abbiamo una richiesta importante nell’area della difficoltà di coppia e della mediazione familiare, che verrà presto in parte convogliata in un servizio che si sta definendo meglio e che risponderà a tutta l’azienda. Ma comunque risponderà per una fetta e per le separazioni; noi abbiamo tantissima richiesta di consulenza per la conflittualità, quindi per coloro che hanno un rapporto di coppia conflittuale. (psicologa) Noi siamo più in contatto con le crisi di coppia, con questo tipo di malessere; famiglie in crisi. Comunque c’è da dire che sono più le richieste di intervento concreto, soprattutto economico. Le famiglie straniere si rivolgono al consultorio per conflittualità di coppia? 21 E’ difficile. Dal punto di vista dei disagi sempre psicologici e sociali è molto difficile seguire le famiglie straniere. Io a volte ho delle segnalazioni molto delicate, situazioni veramente allo sfascio, però nel momento in cui si cerca di inquadrare tra virgolette “il problema” di quella famiglia, la famiglia sfugge perché dire ad una famiglia musulmana: “Attenzione ai vostri figli, attenzione al fatto che siamo in Italia e che qui ci sono dei doveri precisi come per i bambini italiani anche per i bambini stranieri”. C’è una certa incomprensione anche perché ci sono dei problemi a monte, ci sono dei problemi legati all’assistenza, cioè ci sono delle famiglie, che hanno problemi di lavoro. Io sono chiamata anche per capire quali risorse hanno queste persone, perché ti arriva una donna musulmana, prima di tutto, non solo una signora. Si è tentato di tutto per far arrivare anche il marito, il quale ha spedito una o due righe di risposta alle mie richieste. Poi ha telefonato più volte, prendendo appuntamento, ,a qua non è mai riuscito a venire. Non so se lei ha presente un uomo musulmano che viene a parlare dei suoi problemi familiari: è una cosa incredibile, impossibile a dire quattro parole. Le considerazioni dell’ultima operatrice evidenziano alcune delle difficoltà di comprensione che emergono nel rapporto con gli utenti, soprattutto se musulmani. In tal senso, la presunta religione musulmana, desunta dalla provenienza geografica degli utenti, può richiamare nell’immaginario degli operatori, difficoltà di comunicazione e di condivisione di significati che non sempre trovano però conferma nella realtà Di fatto, sono le stesse operatrici che riferiscono di contesti familiari molte volte segnati dalle difficoltà economiche, dalla disoccupazione, da incombenze quotidiane che poco spazio lasciano alla riflessione ed all’elaborazione del disagio individuale e di coppia. Simili considerazioni inoltre sono replicabili anche per le coppie italiane nella medesima condizione socio-economica. Comune a tutte coppie è comunque l’iniziativa e l’intraprendenza delle donne le quali risultano nella quasi totalità dei casi le promotrici dell’aggancio dei mariti e compagni ai servizi. Tuttavia, il pensiero delle operatrici dei consultori sembra condiviso in parte anche da altri intervistati i quali riferiscono le loro impressioni sui ruoli familiari e sulle relazioni tra uomo e donna all’interno delle famiglie immigrate, richiamando l’immagine dell’Italia degli anni 609. Tali riflessioni sollecitano nuovamente le considerazioni poco sopra avanzate circa l’importanza di alcuni strumenti che si rivelano fondamentali per una corretta erogazione di servizi e prestazioni, soprattutto in rapporto con l’utenza immigrata quali, la mediazione, la formazione e la ricerca. In merito alla mediazione, le stesse operatrici evidenziano il ruolo chiave della figura della mediatrice, in particolare quando l’utenza presenta difficoltà linguistiche e di condivisione di indicazioni comportamentali. Per ciò che concerne la formazione e la ricerca, abbiamo rilevato un forte interesse da parte delle operatrici dei servizi ad approfondire la conoscenza sulla realtà dell’immigrazione, in considerazione delle nuove implicazioni operative e progettuali che le nuove utenze sollecitano. Tuttavia, la carenza oramai cronica di risorse umane, economiche e di tempo che caratterizza i consultori offre ben poche possibilità di sperimentare percorsi formativi e di ricerca. In merito alla formazione, abbiamo rilevato un’interessante iniziativa sull’interculturalità attivata per gli operatori dell’area materno infantile di tutti i distretti sanitari dell’USL di Padova. L’obiettivo della formazione era, così come ci ha riferito la psicologa che ha promosso l’iniziativa: Dare maggiori conoscenze e anche maggiori capacità di porsi delle domande, dare anche una risposta agli operatori sulle loro difficoltà. La ricerca invece risulta più di ogni altra richiesta particolarmente penalizzata dalle difficoltà organizzative ed economiche. Ad oggi, una delle maggiori risorse utilizzate è il temporaneo supporto dei praticanti e tirocinanti, i quali nell’ambito dei loro progetti di specializzazione realizzano delle piccole indagini e forniscono un importante sostegno agli operatori ormai saturati da una richiesta sempre più pressante. 9 Vedi anche par. 6 22 donne. E infatti soprattutto su quest’ultimo aspetto che occorre concentrare l’attenzione degli amministratori locali e della società civile. La ricerca ha evidenziato come la capacità di socializzazione delle donne, soprattutto se stimolate dalla condizione genitoriale, possa essere utilizzata come una valida risorsa per attivare processi di solidarietà, partecipazione nonché di superamento delle diffidenze legate alla diversa provenienza geografica. Ci chiediamo quali effetti potrebbe avere una maggiore propositività e attività nella sfera pubblica ad opera anche delle donne migranti. La verosimiglianza di una simile proiezione richiederebbe tuttavia l’attivazione di nuovi processi di ridistribuzione di ruoli e protagonismi ai quali uomini e donne dovrebbero collaborare, a partire dal riconoscimento reciproco di saperi, competenze e potenzialità. 4. GENERAZIONI E PARTECIPAZIONE Nel corso delle interviste effettuate, il concetto di generazione11 ha costantemente ricoperto un ruolo centrale nell’articolazione delle riflessioni svolte dai nostri interlocutori. Non poteva essere altrimenti in un’indagine volta a carpire le “buone prassi” che tessono partecipazione in un territorio: uno spazio, infatti, non è solo la conformazione fisica che esso assume ma, anche, l’insieme delle diverse declinazioni pratiche e simboliche messe in atto da chi lo esperisce. In questo senso, i quartieri oggetto della ricerca, il 5 ed il 6, sono stati intesi nelle loro peculiarità partecipative secondo diverse declinazioni “generazionali”: vale a dire partendo dalle esperienze storico-sociali che hanno definito, e tuttora definiscono, ognuno degli intervistati come facente parte di una generazione. “Giovani” e “anziani” hanno solcato le risposte di ciascuno, in una dicotomia che non è sufficiente solo nella misura in cui ci si voglia soffermare dettagliatamente sulle differenziazioni sociologiche delle due definizioni; definizioni che, tuttavia, nel nostro caso si rivelano funzionali a motivo della rilevanza che tale suddivisione ha avuto nei discorsi delle persone intervistate. Un “senso comune” utile a porre in evidenza le traiettorie partecipative nelle aree di Padova considerate. Poiché la partecipazione dell’individuo al sistema sociale assume particolari configurazioni individuali e collettive (lavorativa, civico-culturale, fino a giungere alla partecipazione politica ed istituzionale), il filo interpretativo generazionale s’è ulteriormente dipanato innestandosi sulle forme partecipative della biografia di ciascuno degli intervistati: dal responsabile di un’associazione a quello operante in un servizio di pubblica utilità, dal componente di un ufficio comunale fino all’insegnante. Nelle parole di ognuno possiamo rinvenire la “comprensione” individuale di contributi generazionali differenti alle buone prassi partecipative e delle dinamiche passate e presenti di queste ultime, con uno sguardo alle ipotesi su quanto verrà. I nuclei tematici che saranno sviluppati originano dall’analisi delle interviste effettuate, certo; ma anche dalle “partizioni” spontanee svolte dagli intervistati. Non di rado si è notato un insieme di sostanziali e non casuali rimandi e connessioni delle argomentazioni del singolo a quelle degli altri interlocutori, come vedremo nel seguito della trattazione. Quale idea hanno gli intervistati del quartiere in cui vivono? E’ il quesito che potremmo porci rileggendo le affermazioni degli intervistati rispetto al “loro” quartiere: non esclusivamente nei termini delle caratteristiche strutturali dello stesso (sempre presenti, comunque, nel discorso); in quelli, piuttosto, dei significati assunti dal “posto in cui si abita” agli occhi di 11 Nei manuali di scienze sociali il concetto di “generazione” è definito come “un insieme di persone che, oltre ad essere nate entro lo stesso arco di tempo, hanno in comune i valori, gli atteggiamenti e le opinioni riguardanti la società e la politica”. Cfr. BAGNASCO A., BARBAGLI M., CAVALLI A. (1997), Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino, p. 376 25 colui che ne parla. Riportiamo quanto detto da due soggetti, il primo appartenente all’AUSER del quartiere 5 ed il secondo al “Centro anziani” del quartiere 6: Io non sono nata in questo quartiere, sono nata in centro. Però sono venuta qui nel ’55, quindi ho passato la mia vita in questo quartiere. Ci conosciamo tutti, e anche i nuovi che vengono dopo poco, forse perché siamo anziani, abbiamo ancora la mentalità della socialità che c’era allora, e facciamo presto a fare conoscenza. […] C’è ancora una tradizione del passato, questo sì, c’è ancora la tradizione del passato. Una cosa (cui) forse non abbiamo accennato è (stato) il tentativo di inserirci come persone che hanno vissuto, e che conoscono un po’ la storia di questo quartiere. La “mentalità della socialità” e la “tradizione del passato” sono ingredienti di relazioni dense, di capitale sociale prodotto e riprodotto. Gli intervistati, che si autodefiniscono “anziani”, sentono il quartiere come contesto simbolico privilegiato della loro esistenza passata e, avremo modo di parlarne, presente. Il loro percepirsi come custodi della memoria del territorio li pone quali interpreti anche del “qui e ora”. E’ un quartiere ai loro occhi dotato di senso, attribuito sulla base di coordinate simboliche acquisite e vive, un “mondo vitale”12. In questa prospettiva, nel complesso delle attività associative molta parte occupano le visite definite “culturali” e che, in realtà, equivalgono ad una positiva “riappropriazione” del territorio, valutandone persistenze e mutamenti nel loro continuo intrecciarsi: […] E abbiamo aggiunto questo incontro di carattere pratico. […] Invitavamo qualsiasi persona del posto a raccontarsi per un quarto d’ora (in) un discorso di attualità. Cosa è successo in questo mese? Cosa è capitato anche qua? Allora un incidente stradale, perché non mettono i cartelli; perché non chiamiamo il comune; perché non affrontiamo con i vigili; cioè un quarto d’ora diventava mezz’ora tre quarti d’ora per cui …[…] Ecco poi abbiamo aggiunto qualche visita alla città in modo da capire dove siamo, dove viviamo, e visite guidate, quindi molto partecipate; cioè tante volte in venti persone, venticinque, a visitare il comune, cioè andiamo a pagare le tasse, […] andiamo anche a vedere dove (si) vive, chi comanda, […] mettendoci delle provocazioni. (Centro anziani) Nelle citazioni testé riportate parlano gli “anziani”: il loro ruolo di custodi della memoria e la loro frequente autoattivazione sono stati nondimeno riconosciuti alle associazioni che li rappresentano anche da parte di chi, in qualità di operatore, è impegnato nei confronti di classi di età inferiori, vale a dire i “giovani”. Un’operatrice del “Punto giovani” ritiene di vedere nelle persone anziane quella che lei definisce una “tenacia” diversa. Con le sue parole: (La) mentalità dei giovani: […] si aspettano che gli altri vadano (loro) incontro, invece da parte degli anziani c’è proprio il fatto di avvicinarsi di più, di richiedere, di organizzare, è una forma loro di… anche di tradizione, di tenacia. Ciò non determina assolutamente un’opposizione semplicistica tra “giovani-passivi” ed “anziani-attivi”, marca d’altra parte che la consapevolezza di una propria storia individuale e sociale consente d’orientarsi rispetto al mutamento sociale: Le nuove generazioni che vengono dall’esterno non si portano dietro questa storia, queste origini, queste radici, e quindi qualcosa è cambiato; sono magari più attenti, più aperti, ma, per certi aspetti, manca quella cultura. (Centro anziani) La capacità degli interlocutori dell’AUSER, o del Centro anziani, di vedere i fenomeni sociali che interessano i loro quartieri con atteggiamento critico è sempre apparsa nitida. La presenza degli immigrati (e non con unico riferimento alla “vicina” realtà delle assistenti familiari), le 12 HABERMAS J. (1986), Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino 26 distorsioni del mercato immobiliare, la necessità di formazione delle nuove generazioni sui banchi di scuola; tali items hanno sempre trovato, nelle risposte dei soggetti in esame, uno spazio pari, se non superiore, a quello occupato dall’elencazione di tematiche più vicine. Non solo ricordo e memoria, quindi, anche idee e progetti. La fuga e la scarsa presenza dei giovani sul totale della popolazione dei quartieri sono un cruccio costante: Noi siamo un quartiere molto popolato, molto anziano, la speranza nostra è che adesso, con la ristrutturazione dei nuovi alloggi, entrino famiglie e coppie giovani per ripopolare, perché di bambini qui ce ne sono molto, molto pochi. Abbiamo due scuole elementari, abbiamo un asilo, ci sono le scuole superiori, e le due scuole elementari sono molto frequentate perché sono molto conosciute, però prevalentemente i bambini sono di altre zone insomma. (Auser) […] Abbiamo gli affitti molto alti, i costi di un acquisto di un appartamento molto alti, molto alti. Ecco perché i giovani spopolano la città, perché vanno fuori, non possono permettersi né un affitto, né un acquisto. (Auser) Come si può notare, non deriva da queste considerazioni il semplice “mormorio” degli anziani rispetto ai giovani: è la legittima preoccupazione che nel quartiere sussistano anche per il futuro le precondizioni per farne luogo di partecipazione piena. Tale nucleo tematico sarà approfondito nel paragrafo dedicato alle attività implementate dai soggetti intervistati e, parimenti, lo sarà quello relativo alla percezione del fenomeno migratorio. In questa sede si voleva portare alla luce la funzione di legami sociali densi quale volano di partecipazione: gli intervistati delle due associazioni di anziani vedono nella conservazione di una solidarietà che è contemporaneamente locale e generazionale ciò che li stimola ad agire e a partecipare, causa ed effetto insieme. Potremmo individuare in questa “solidarietà” un fattore dirimente nella creazione di buone prassi partecipative. Non si vuole prescindere dal fatto che gli intervistati delle due associazioni di anziani, nel rispondere alle domande, parlassero di se stessi e che, conseguentemente, vi fosse un certo compiacimento nel raccontarsi; e dal fatto che, invece, i giovani siano stati frequentemente chiamati in causa quale oggetto del discorso. Ciò non inficia, peraltro, il dovere di sottolineare le relazioni dense come carattere strategico di riempimento dello spazio sociale e di creazione di nuovo capitale: gli approfondimenti degli intervistati, per loro stessa ammissione, non avrebbero ricevuto senso in mancanza di questa sottolineatura preventiva. Più di tutto, socializzazione e relazione sono quanto gli “anziani” auspicano per quanti verranno dopo di loro, affinché quelli che loro chiamano “giovani” siano altra cosa rispetto ad una “moltitudine” (espressione usata dagli intervistati): Cos’è il gruppo della piazza (?) […] La moltitudine, poi cosa c’è? (Auser) Dei giovani, “assenti” in questa prima parte del testo, parleremo d’ora in avanti soffermandoci sulle molte attività che da prospettive diverse li vedono coinvolti, presentate dagli intervistati. E’ quanto faremo anche con riferimento alle classi d’età più avanzate. Tra “giovani” ed “anziani” non sussistono solo divaricazioni ma anche quei denominatori comuni che non si mancherà di evidenziare. 27 Ecco la nascita di “Amico esperto” nelle parole dell’intervistata: […] Ci eravamo rese conto che i problemi, per i bambini, erano non solo imparare la lingua (e) stabilire così relazioni positive con la classe, ma anche il problema […] di inserirsi nel territorio e di fare i compiti a casa. (I ragazzi) sono spesso soli perché le famiglie lavorano dall’alba al tramonto e quindi (c’era bisogno di) qualcuno che potesse aiutarli a fare i compiti. Abbiamo iniziato così, […] un po’ in sordina, a febbraio di due anni fa, pensando che poteva essere utile avere anche l’aiuto di studenti delle scuole medie superiori. Vale la pena rifarsi ancora all’intervista per comprendere l’efficacia del progetto in questione: […] Tra le finalità nel progetto c’è quella di aiuto nello studio pomeridiano per i compiti, imparare la lingua, però abbiamo visto che la cosa funziona, perché abbiamo visto che si stabiliscono i rapporti positivi tra i ragazzi di scuola media e (gli) studenti del 4° 5° anno di scuola superiore. […] Vedere qualcuno più grande di loro che dà importanza allo studio e al lavoro scolastico è motivante, per i ragazzi che studiano. A livello di risultati, per esempio, l’anno scorso non c’è stata assolutamente dispersione scolastica: per quanto riguarda gli alunni stranieri, nessun alunno straniero dei 95 alunni. I volontari resisi disponibili per il progetto sviluppano con gli “assistiti” un rapporto che prosegue al di là dell’ambito strettamente progettuale: Abbiamo visto che tutto funziona per avere volontari: piuttosto che la circolare del preside, funziona il “passa parola” tra studenti, amici, ex alunni; sono prevalentemente studenti del territorio, del quartiere, per cui è anche un modo per conoscere, che so, che ci sono questi ragazzini, queste famiglie; all’inizio, sono stati gli studenti ad accompagnare gli studenti in biblioteca, a fare con loro le iscrizioni alla biblioteca, perché il papà bengalese lavorava e la mamma non esce di casa. I volontari del progetto aiutano i ragazzi a partecipare, non solamente nelle ore dedicate allo studio assistito. A proposito di generazioni: la presenza dei figli di immigrati a scuola potenzia la partecipazione della famiglia, chiaramente in presenza di precondizioni socio-economiche che non siano del tutto ostative. Sono ancora affermazioni della nostra intervistata: Ho visto la mamma senegalese che non permetteva alla bimba di 6 anni di uscire da sola. Lei veniva a fare i compiti al pomeriggio accompagnata dal fratellino maggiore, altrimenti non usciva, non andava neanche alle feste […] dei compagni di classe, non usciva mai, la mamma. Un giorno […] ho visto la mamma, (che prima) non usciva se non accompagnata dal marito, ecco l’ho vista in quartiere attraversare al semaforo trascinata dalla bimba di 7 anni con una borsa della spesa. Dico, c’è qualcosa che sta cambiando. Un parroco afferma in merito: […] Quando ci sono di mezzo i bambini si rompono le barriere: per cui scuola materna, elementare…[…] Le mamme fra di loro, i papà, ai giardinetti; […] al patronato, […] giocano insieme a calcio, fanno le chiacchiere le mamme, quella che ha il velo (e) quella che non ce l’ha. Riallacciandoci a quanto sopra si diceva in merito al rapporto con l’Ente locale, anche nel caso di questo progetto è valsa la collaborazione con il Quartiere 6. Sui giovani, e sui figli di immigrati, ritorneremo nel paragrafo relativo ai bisogni e alle istanze presentate dai nostri intervistati. Focalizzando ora nuovamente l’attenzione sugli anziani si rileva come svolgano importanti funzioni sussidiarie rispetto alle istituzioni. Anche in questo caso tanta parte ha la conoscenza del contesto di vita, delle situazioni di povertà e di debolezza particolare di alcuni anziani, di mobilità difficile: RICERCA (2005), Indagine sugli esiti degli Alunni con Cittadinanza Non Italiana 30 Gli abitanti, e soprattutto le persone di una certa età, non possono godere di pensioni tali da…quindi devono fare un po’ i conti, e quindi qualche volta anche se chiediamo al quartiere un contributo, cerchiamo di destinarlo a calmierare queste iniziative che, altrimenti, sarebbero appannaggio solo di chi dispone di qualcosa. (Centro anziani) Il giovedì mattina serve per informazioni, per telefonate di gente che chiede d’avere un sostegno; e poi noi ci dispensiamo e facciamo, andiamo a prendere i medicinali, abbiamo contatti con i medici di base, a fare la spesa; sostengo la persona che magari, anche momentaneamente, si trova disabile. Magari, se ci sono grosse disabilità, […] interessiamo le assistenti sociali. […] Si fa il percorso, l’iter per avere altri aiuti. (Auser) Si configurano delle attività di risposta, in taluni casi di rappresentanza dei bisogni. Invero, gli intervistati hanno parlato a riguardo di un’informale attività di mediazione tra domanda e offerta di assistenza. Il che concerne il fenomeno delle “assistenti familiari”: Noi facciamo un accompagnamento, […] conosciamo una persona che fa la richiesta, che ha bisogno d’avere un supporto, prendiamo tutte le informazioni sulla persona che dovrebbe dare questo supporto e lo accompagniamo, siamo noi che (la) portiamo alla persona. Le richieste le presentiamo e ci facciamo carico anche della serietà. Trattando di anziani, abbiamo visto le attività ricreative, quelle civiche e queste ultime, che abbiamo chiamato di rappresentanza dei bisogni. Accanto a queste, gli anziani fanno valere il maggior tempo a disposizione (in molti casi sono pensionati) anche in quelli che potrebbero definirsi servizi intergenerazionali, che ineriscono sia alla dimensione privata che a quella pubblica. Afferma in proposito l’intervistato del Centro anziani: Io conosco nonni che hanno quattro, cinque nipotini: tra l’andare a portarli, l’andarli a prendere, il tenerli, perché il papà e la mamma lavorano, sono impegnati tutto il giorno. Questi “servizi intergenerazionali” da parte degli anziani non si limitano alla sfera domestica, familiare. Abbracciano, dicevamo, la sfera pubblica, di servizio alla collettività; esempio ne sia la convivenza, nei medesimi luoghi, dell’associazione C6 e del Centro anziani. Una convivenza non tollerata, bensì voluta: ciò smentisce che i rapporti debbano innescarsi di necessità sul registro del “conflitto”, quasi che per gli anziani i giovani siano elemento di disturbo se chiamati a condividere i medesimi spazi associativi. Ancorché non manchi la testimonianza, nelle interviste, di confronti vivaci, è maggiore la presenza dei momenti collaborativi: Con la collaborazione della scuola media Minzoni, […] insieme a O. siamo andati a portare ai ragazzi di 2° media questo giornalino, […] raccontando quello che potevamo dire, abbastanza brevemente, su questo territorio, su come è nato. (Centro anziani) Abbiamo, ad esempio, un gruppo di venti, venticinque ragazzi extracomunitari che vengono qui, con l’aiuto di un insegnante della scuola media, che coordina […] ragazzi di scuola media superiore, liceali, universitari che danno lezioni a questi ragazzi gratuitamente, e questi vengono al lunedì, al mercoledì e al venerdì. Sono cose sentite. Uno ci ha detto che si è realizzato perché abbiamo aperto questi locali, che sono accoglienti. L’insegnante ci diceva: “Io quando entro qui con i ragazzi mi sento tranquillo perché qui sappiamo che c’è un’assistenza, un controllo, una verifica”. (Centro anziani) C’è un riconoscimento “generazionale” del pluralismo culturale che interessa l’ambito del proprio quartiere di residenza. Sono gli anziani, che conoscono il territorio, a contribuire a che esso venga partecipato dagli immigrati e dai loro figli. Momenti di compresenza con i “giovani”, quando non di scambio, si verificano nelle occasioni di festa che coinvolgono le associazioni di quartiere: Quando il Punto Giovani fa la festa, qui in piazza, noi partecipiamo. […] Ci siamo accorti, proprio (durante) l’ultima festa, che tanti giovani non c’erano; eppure c’era una orchestra rockettara…[…] Ci siamo messi a ballare noi anziani, per dire, ecco. E poi, come posso dire? Far capire che c‘è un altro modo di vivere giovane. […] Dov’è l’allegria dei giovani? […] C’è tanta malinconia, tanta malinconia. […] Alle volte dico ai giovani: ”Fammi un bel sorriso quando mi saluti, fammi un sorriso”. (Auser) 31 Socialità densa e conoscenza del territorio; attivazione dal basso e sussidiarietà; presenza e accompagnamento istituzionale; accordo con la società civile; “intreccio” generazionale; buon grado di accettazione del pluralismo culturale. Parrebbero questi gli attributi desumibili dalle citazioni delle pagine precedenti, in una parola quanto costruisce partecipazione ed inclusione sociale e su cui avremo modo di tornare. Per un quadro più completo, per altro verso, non può mancare uno sguardo alle lacune, ciò che rende “vuoto” e non comunicante lo spazio sociale, che è di ostacolo alla partecipazione sostanziale. Ce ne occuperemo nel paragrafo seguente, nella prospettiva di quanto potremmo definire l’insieme delle “istanze generazionali”. Per istanze generazionali intendiamo l’insieme degli auspici avanzati dai nostri intervistati per una più ampia partecipazione. Un tratto comune si trova nella necessità, più volte evidenziata, di avere nuovi spazi, intesi quali luoghi di aggregazione e di socializzazione. Ciò interessa tanto i ragazzi e gli adolescenti quanto gli anziani, con i secondi che non di rado si sono fatti portavoce dei primi: Non ci sono neanche questi spazi insomma per i giovani del quartiere. (Auser) D’infrastrutture ve ne sono poche, perché comunque il quartiere è troppo grande, [...] e quindi le infrastrutture sono poche. Infatti, ti dicevo, c’è un unico punto giovani in tutto il quartiere, e questo è già emblematico. Anche perché non riusciamo a coprire l’altra parte del quartiere. […] Bisogna creare un altro punto giovani, creare […] dei luoghi di incontro per i giovani proprio. […] Ci sono due biblioteche; (è necessario) aumentare le biblioteche, aumentare proprio le iniziative. (Operatrice Punto giovani) I giovani devono essere spinti alla socializzazione, all’incontro. (Centro anziani) Quel che preme agli intervistati non è il solo incremento degli spazi tout court, ma un loro aumento in vista della prevenzione del disagio e della devianza tramite esperienze di incontro informale. Di questo sembra convinta l’operatrice della cooperativa “Terra”: Il loro modo di stare (sta parlando dei giovani), il loro tempo libero, il modo di impiegare il tempo, il loro modo di vedere il territorio (sono) una risorsa per il territorio (stesso). […] Le prime fasi progettuali sono destinate ad essere autoreferenziali […] proprio perché (il gruppo) acquisti fiducia in sé; in sostanza poi diventa propositivo rispetto all’esterno, per cui diventa un gruppo che sa benissimo come sono (i) giovani perché lo sono, […] sanno benissimo come è fatto il territorio perché lo vivono. […] (I giovani) hanno delle energie che non hanno i bambini, non hanno gli adulti, (hanno) delle energie creative, e vengono fuori attraverso la protesta, […] attraverso il modo di contestare, […] attraverso il disordine, attraverso il casino che fanno; […] sono energie bellissime che a me dà fastidio dire “vanno canalizzate”, perché non è così. […] Noi gli offriamo delle possibilità e dei percorsi, poi sono loro che scelgono, ma li scelgono sempre per il bene loro e per il bene del territorio, alla fine. I valori che hanno sono ancora molto sani e molto genuini, […] sono un buon motore per il territorio. Voci che, da questa prospettiva, hanno fornito un contributo sono anche quelle dei parroci. Un parroco illustra quanto avviene nella sua parrocchia mediante un ruolo inclusivo svolto dallo sport, anche nei confronti dei figli di immigrati: Si invitano questi ragazzi, magari con più difficoltà o disagi familiari, a svolgere questa attività; così formano un gruppo. […] Negli ultimi anni, abbiamo visto la presenza di ragazzi […] che vengono da altri paesi, e che attraverso lo sport si integrano, oltre che con la scuola. Questo è un luogo di aggregazione interessante. Gli spazi e le occasioni di ritrovo: questi sono i fattori di prevenzione dei comportamenti devianti a parere dei nostri intervistati. In merito ai giovani, non può mancare un ulteriore cenno ai figli di famiglie immigrate. Abbiamo prima analizzato, per il tramite di uno specifico progetto e la voce di altri intervistati, la centralità assunta dalla socializzazione scolastica, certo, ma anche da momenti 32 isolati e soggettivi, definiti da qualcuno appunto “isole separate”, si passi alla costruzione di un discorso, o se si vuole di un’immagine condivisa del territorio e delle sue trasformazioni. Che immagine propongono di sé i Quartieri 5 e 6 se guardati dai Consigli di Quartiere? Ci si potrebbe aspettare da queste interviste una fotografia abbastanza coerente e ottimista, al contrario ciò che viene annunciato dalle interviste ai presidenti dei C di Q. ed ai consiglieri è quanto conferma poi la maggioranza degli incontri con i principali operatori sociali: non esistono i Quartieri, così come sono stati disegnati, come entità effettive dal punto di vista sociale e del vissuto individuale. Viene riproposta ossessivamente l’idea di una frammentarietà del territorio, che è effetto per un verso dell’astrattezza dei confini amministrativi, che interdicono intrinsecamente il raggiungimento di una forma organica e positiva, per un altro da un effettivo frazionamento del territorio all’interno di alcuni rioni, per mancanza di dinamiche capaci di produrre comunità, per carenza di mezzi di trasposto, per l’univocità di spostamento dalla periferia al centro e per la difficoltà di spostamenti tra rioni limitrofi. Le periferie, quindi, in prima istanza sono presentate come territori informi, in crescita, con grandi cantieri in corso, a cui è difficile dare sagoma: piazze che non si riescono a realizzare (“abbiamo il problema di questa nostra piazza, c’è questa zona selvaggia che non riusciamo a trasformare in una piazza in cui la gente si possa aggregare, che possa ospitare un mercatino e così via, ed è una delle cose per cui io combatto da anni…”), “sommatoria di situazioni incoerenti”, in cui “nuclei di solidarietà vera” emergono come “scogli isolati”, come “realtà residuali”. Così si esprime uno dei due Presidenti di C. di Q. a proposito di alcuni rioni in cui, al contrario, si incontra una dimensione di socialità vivace: “ci sono nuclei di identificazione forte, ma corrispondono ad alcune realtà storiche e sociali particolari; sono residuali, una specie di spuntoni, di scogli che sono rimasti lì, il resto è una poltiglia indifferenziata di identità, dove alla fine uno va a stare fuori dalle mura, va ad abitare lì perché poi la vita, insomma, è fatta di altre cose che non sono il quartiere”. Se in prima istanza l’immagine di questi due quartieri, attraverso il filtro dei C. di Q., rimane sfuocata e perciò non troppo incoraggiante, in realtà proprio questi “spuntoni comunitari”, questi “scogli rimasti lì” nonostante i molti decenni trascorsi, queste “realtà residuali”, sono isole da cui provare a ripensare il territorio, favorendone il dinamismo. I segnali in questo senso, come vedremo dall’esame delle successive interviste, sono numerosi. Gli stessi Presidenti di C. di Q. elencano con dettaglio queste “realtà di solidarietà vera”: Altichiero e Sacro Cuore, rione Savonarola, via Trento, la “Croazia” e via Bezzecca, nomi di vie, di parrocchie che individuano rioni, singole strade in cui esiste un tessuto comunitario e su cui alcune politiche tese alla partecipazione sono state avviate, con più o meno successo, attraverso il diretto o indiretto coinvolgimento del C. di Q. negli ultimi anni. La più ambiziosa e nota è il “Progetto di Quartiere Savonarola”, iniziativa finanziata dall’Unione Europea, in parte ancora in corso e i cui dettagli non riteniamo opportuno riferire, essendo il Comune di Padova attivamente coinvolto in essa (vedi tra gli allegati l’intervista al responsabile comunale del progetto). 35 Il peso specifico dei C. di Q. nel condizionamento delle dinamiche territoriali è limitato. Tuttavia essi sono dotati di una forza di indirizzo: hanno la capacità, che molto andrebbe tenuta in considerazione, di sostegno, indirizzo e stimolo di realtà già esistenti, di cui favorire la crescita e l’evoluzione. Ne dà un esempio l’intervista all’associazione “Incontro” con cui chiudiamo questo capitolo. Tale forza di indirizzo si compie attraverso attività di coordinamento, attraverso il censimento delle iniziative e delle realtà esistenti e attraverso il conferimento di responsabilità ai singoli soggetti già operanti, al fine di stimolarne una crescita culturale. Una delle chiavi per indurre tale sviluppo, la cui qualità si misura nella capacità dei gruppi esistenti di coinvolgimento e di apertura verso il territorio circostante, è la questione “spazi” ancor più che quella economica. Vi è una grande fame di spazi, di luoghi d’incontro con le caratteristiche le più diverse, da quelli all’aperto, incondizionati (piccoli parchi, panchine…) a quelli al chiuso, dove svolgere attività specifiche (sale per riunioni, per proiezioni, per divertimento, sale prova…). E tuttavia questi spazi vengono avvertiti talvolta come fonte di disturbo, tanto che gli stessi C. di Q. si trovano alle volte nella situazione schizofrenica e paradossale di sopprimerli su richiesta degli abitanti. I ragazzi “hanno bisogno di spazi, anche per muoversi, per giocare. […] Noi avevamo della panchine abbiamo dovuto toglierle perché gli abitanti si lamentavano che i giovani si riuniscono e quindi fanno rumore. Sembrava che venissero anche da altri quartieri”. Il C. di Q. può avere un ruolo importante nello stimolare il coordinamento tra gli operatori sociali del territorio (parrocchie, associazioni, animatori di strada…) affinché tale vigoroso bisogno di spazio trovi modi di soddisfacimento condiviso e non di sua negazione. “Dov’è il vigile di quartiere?” Questa è la domanda che emerge da numerose interviste svolte nei due quartieri. Si tratta di una figura entrata nelle attese e nell’immaginario della cittadinanza, il suo nome è corrente, esiste insomma l’aspettativa della sua presenza nei rioni. Ciò è, almeno in prima battuta, in contraddizione con il riassetto del corpo comunale, che di recente ha cambiato di nome (Polizia Municipale). Di fatto non esiste più il vigile di quartiere, così come si aspetta di incontrarlo il cittadino, con una sede decentrata, sempre presente sul territorio, avvicinabile quotidianamente. E si potrebbe dire che forse non è mai esistito. Per utilizzare le parole di un parroco del Quartiere 6: “se ci sono i vigili di quartiere, io non li ho mai visti. Quando ho voluto, sono dovuto andare a cercarli dentro l’ufficio, oppure il giovedì mattina in quel piccolo mercato rionale, mentre vanno da un banco all’altro a fare non so che cosa. […] Certo che sarebbero utili, ci sarebbe più rispetto dei limiti di velocità, ci sarebbero meno beghe, si accorgerebbero di qualcosa che non funziona, si renderebbero conto dei bisogni, ma quando si chiudono in un ufficio, come fanno a sapere dei bisogni del quartiere? Io li vorrei vedere a passeggiare. […] Hanno reclamizzando ben fortemente l’idea del vigile del quartiere che avrebbe dovuto essere un po’ come il giudice di pace”. Come ha spiegato la direzione del corpo municipale: “non abbiamo più come in precedenza un recapito specifico con un numero di persone ben delimitato, che erano i vigili di quartiere, con funzioni anche di mediazione, di censimento dei problemi”. Eppure quella di un vigile di quartiere è proprio la richiesta che sembra esprimere quell’insieme di comitati che sorgono senza tregua per segnalare le diverse problematiche del 36 territorio. È la richiesta di una figura di prossimità, di un “terminale” dell’amministrazione estremamente prossimo al territorio e ai suoi abitanti. Tale figura rappresenta per l’abitante la possibilità di un ascolto e una partecipazione, che, si ha tuttavia la sensazione, sia più immaginaria che reale. Di ciò peraltro è consapevole la “Polizia municipale”: il vigile da operatore della sicurezza ha assunto alcune funzioni dell’assistente sociale. Vi è una “necessità di essere ascoltati. “I cittadini chiedono prossimità del vigile, di essere ascoltati, chiedono mediazione in situazioni di conflitto di vicinato”, ma nella nuova riorganizzazione del corpo municipale queste funzioni devono ancora trovare una risposta esatta. Ad ogni modo l’elemento più importante a cui si lega questo immaginario vigile di quartiere non è tanto costituito dalle situazioni di degrado delle periferie, in realtà limitate nei due Quartieri, quanto piuttosto la richiesta di una attenzione che le periferie ed i rioni rivolgono alle autorità. Come se desiderassero essere più “centrali”. Il vigile, con la sua semplice presenza, viene vissuto come qualificante. Non sono solo situazioni di criminalità a indurre la richiesta di questa figura nei due Quartieri. Certo, vengono da più intervistati indicate alcune problematiche: la prostituzione in taluni tratti di strada o in certi appartamenti, la spaccio di droga in vari angoli e di giovani arroganti in alcuni parchi, la velocità dei veicoli o la possibile replica di ghetti immigrati (si fa riferimento ad alcune palazzine di via Dini). Ma il termine sicurezza è più che altro in questi due Quartieri impiegato per far riferimento a una richiesta di attenzione per le periferie. In opinione dei responsabili della “Polizia municipale”, “il fatto di vedere sotto casa un vigile dovrebbe dare maggior tranquillità alle persone che vi abitano”. Della stessa opinione sono i parroci, ad esempio uno del Quartiere 5: “alcuni adulti e anziani, sì, prima di entrare in casa devono telefonare cinque volte, hai capito? la presenza del… come si chiama, della guardia del quartiere, o roba del genere, io la considero un’illusione più che una verità. Ma se ci fosse una presenza visibile, la gente potrebbe vivere meglio”. Secondo il parroco tale paura è poco giustificata dai fatti ed è più una condizione emotiva, tuttavia non per questo meno foriera di inquietudini. E un vigile di quartiere avrebbe il compito di intervenire a questo livello emotivo e irrazionale: “Nooo, certo ci sono questi scippi, a volte capitano, ma insomma è un quartiere tranquillo. Ma la gente anziana ha paura”. Il senso di insicurezza è dato a ben vedere dal limitatissimo controllo da parte degli abitanti, in particolare ma non solo gli anziani, sulle trasformazioni del territorio. E un grande fattore di preoccupazione è rappresentato da ogni nuovo insediamento residenziale, che di necessità riguarda le periferie: gli abitanti percepiscono l’imminenza di un mutamento nella fruizione degli spazi, dei servizi. Hanno poche informazioni, non hanno voce in capitolo, sono spettatori di cambiamenti che li riguarderanno: “nel quartiere si sta modificando una parte che è la zona di Ponterotto, nel senso che si sta espandendo dal lato urbano. Questo sta creando problemi: si può vedere sui giornali, i residenti percepiscono che da questa nuova urbanizzazione e dai nuovi arrivi si avrà una modifica sostanziale nei prossimi anni…” Scompaiono spazi liberi e “si ha paura. Non si sa chi può arrivare per cui c’è sempre la titubanza…” Le grandi nuove strutture abitative sono sempre fonti di problematiche, certe ma non conosciute nel dettaglio: “per esempio parlando di nuovi complessi, nel quartiere della Mandria c’è un mega complesso, ci sono tanti condomini e quindi là si dovrà pensare, ci sarà un traffico viario imponente”. 37 “nessuno è profeta in patria”, “c’è una difficoltà di collaborazione forse per lo stesso motivo per cui tra fratelli si litiga più facilmente”. Il rione che sta oltre i limiti del sagrato è identificato tout court con le istituzioni, il Consiglio di Quartiere e il Comune. E questa realtà istituzionale cittadina, se non è “contrapposta”, certo è “divisa”, cioè è distinta dalla parrocchia, che giudica tale mondo estraneo e lontano, poco partecipato e con il quale è possibile interagire solo in ragione della eventuale sensibilità personale o, nel caso dei C. di Q., attraverso “più persone” che vengono utilizzate come “referenti della realtà parrocchiale” all’interno del Consiglio. È un rapporto quindi istituzionale. D’altro canto, come ammette il sacerdote, la Parrocchia, per provare ad influenzare la vita di una popolazione rionale che in misura molto limitata riesce ad incontrare attraverso i propri spazi tradizionali (Chiesa, sagrato, patronato etc…), deve “inseminare” il rione attraverso l’attività di associazioni i cui componenti sono di provenienza parrocchiale ma che agiscono ormai in modo autonomo. È il caso ad esempio dell’associazione “Incontro”, nucleo del centro anziani del rione, che il sacerdote descrive nei seguenti termini: si tratta di “persone nostre che servivano la terza età e che sono andate là, si sono riunite e insieme hanno dato vita all’Incontro, un movimento di anziani che sta andando avanti con attività manuali, culturali e ludiche e che pian piano si è espanso”. La descrizione discorda in parte con quanto affermano i membri dell’associazione, che sostengono di aver iniziato ad operare fuori della Parrocchia anche a causa dell’impermeabilità di questa istituzione rispetto alle dinamiche di quartiere. Il rione, sotto certi aspetti, si configura quindi come una sorta di terra di missione, per la quale l’approccio tradizionale della parrocchia non sembra più adeguato. Guardando attraverso gli occhi del parroco, il territorio circostante appare lontano dalla realtà della chiesa. Peraltro una certa proceduralità la si avverte operante all’interno stesso della parrocchia: le attività caritative sono qui affidate integralmente a strutture sovraparrocchiali, in parte estranee al rione, come la Caritas o la San Vincenzo, che operano nello spazio parrocchiale come mandatarie abbastanza indipendenti dal parroco, che pure ne ha ufficialmente la responsabilità. E questa è una strategia di carattere nazionale più che solo diocesano. Anche per effetto del tipo di attività caritative che vi si organizzano – attività missionarie, campi lavoro, campi scuola, scambi con comunità cattoliche straniere – la Parrocchia appare più vicina mentalmente a realtà remote come possono essere il Kenia, il Benin, l’Albania, il Brasile, la Bulgaria, che non al territorio rionale circostante. Per utilizzare un’immagine del sacerdote, la Parrocchia rischia di essere lontana da quella “piccola Asia che abbiamo in casa nostra, qua vicino”. Ciò ha ripercussioni sulla messa a fuoco delle presenze immigrate del rione. La Caritas “coordina un po’ tutte le iniziative di attenzione al prossimo, di qualsiasi natura esse siano, compresa quella formativa”. È insomma un organismo extraparrocchiale a cui vengono affidate “tutte le iniziative di carità, dall’elemosina alla formazione culturale”, sollevando il parroco da questo impegno. Tale delega configura una sorta di “commissariamento” delle parrocchie (lo stesso ci sembra accada anche in altre situazioni che sono state oggetto di intervista), motivato in parte dalla crisi delle vocazioni sacerdotali, in parte da un’età media ormai molto elevata, che sembra preludere, nel breve periodo, 40 all’accorpamento delle unità parrocchiali (i cosiddetti vicariati). Come spiega il parroco di un altro rione: “Diciamo che l’unione fa la forza. Oggi come oggi non vale la pena di arroccarsi attorno al campanile, di chiudersi. Noi preti siamo sempre meno e i ragazzi non badano più al confine di via Palestro. Con Sacra Famiglia ho quasi in comune le case di via Sorio. Tanti ragazzi attraversano la strada e vengono qua. E viceversa ragazzi miei vanno di là. Di conseguenza conviene unirsi”. Ciò che emerge dall’immagine che il sacerdote del Quartiere 5 propone del suo rione conferma l’opinione della maggioranza degli intervistati: la cattiva distribuzione dei servizi (supermercati, ambulatori, cinema, teatri, mezzi di trasporto pubblico) per un verso aumenta l’utilizzo dell’automobile, essendo la direttrice di movimento prevalente quella centro periferia, da un altro rende le periferie pressappoco dormitori, privi di una vita intrarionale. E il parroco, coincidendo in questo senso con altri intervistati, propone lo sviluppo di una città policentrica: per utilizzare sue parole, si tratterebbe di realizzare forme di collegamento tangenziale, “trasversali e periferiche direi. Le tangenziali non devono servire solo alle macchine; devono esserci tangenziali anche per le persone, tangenziali semipedonali, capisce? La città prima di una certa ora e dopo una certa ora ci chiude fuori, ci impedisce di partecipare alle belle cose del centro”. L’esclusione lamentata dal sacerdote riguarda in particolare la fascia di popolazione anziana, ma più in generale le periferie, favorendone il degrado. Riflettere sul rapporto che le parrocchie hanno con l’immigrazione è interessante per capire lo scambio che esse intrattengono con i quartieri. La presenza immigrata è l’elemento più palpabile delle trasformazioni sociali (ed è tra l’altro un indicatore importante del mercato immobiliare). A seconda della cultura, età e sensibilità del parroco, tale presenza appare in modi diversi. In una delle interviste, si presenta come una realtà frammentata: il contatto con le differenti comunità è diversificato a seconda della confessione. La parrocchia ha un funzionamento in certo qual modo formale e non riesce a cogliere l’unità delle componenti del quartiere, immigrate o meno. Un ragionamento sul pluralismo confessionale è delegato a un incaricato ufficiale della diocesi, esterno, e rimane estraneo alla quotidianità della comunità religiosa locale. Al contrario in una parrocchia del Quartiere 5, diretta da un sacerdote con esperienze di missione, lo spazio della parrocchia appare tutto “estroflesso” verso il quartiere: “da una ricerca di base sulle attese della popolazione rispetto alla parrocchia è emersa la richiesta che essa sia un ponte sul territorio; e quando non lo diventa non svolge la sua funzione. Quindi la funzione della parrocchia non è solo essere un luogo d’incontro religioso e di preghiera ma un ponte a servizio della popolazione”. Anche in virtù di questa consapevolezza il sacerdote nota come la parrocchia possa essere un luogo di mistione fra le componenti del rione: “negli ultimi anni abbiamo visto la presenza di ragazzi che vengono anche da altri paesi”. Nel primo caso, la realtà multireligiosa e interculturale che concretamente si presenta nel territorio della parrocchia non sembra oggetto di riflessione. Certo la parrocchia ha numerose opportunità di contatto con le comunità immigrate, nei confronti delle quali funziona anzitutto un efficiente dispositivo caritativo – affidato alla Caritas, che coordina a livello diocesano le attività paraevangeliche. In più la parrocchia di cui stiamo parlando è dotata di alcuni strumenti (quali alloggi ad uso foresteria) che le permettono alcune forme di supporto straordinario. Se nei confronti delle comunità non cristiane questa parrocchia sembra interagire solamente come istituzione caritativa (discorso leggermente più articolato troviamo invece nell’altro parroco, più sensibile al tema), è nei confronti delle comunità cristiane, in particolare quelle dell’Europa orientale, che il suo modo di agire si fa più sfumato, ma sempre “protocollare”: il 41 parroco si dimostra sensibile anzitutto nei confronti delle comunità ortodosse (rumene e moldave), alle quali vengono offerti in talune occasioni gli spazi della Chiesa. Nella concreta attenzione offerta alle comunità ortodosse, tutta espressa praticamente (il parroco fa ad esempio menzione di una formula che gli permette di offrire ospitalità liturgica: “io li ho sempre invitati a venire, anche perché se siete ortodossi c’è una comunione in sacris”), sembra riflettersi quella reciproca compatibilità tra gerarchia cattolica e rumeno- ortodossa, che viene sottolineata dal parroco ortodosso di Padova, da noi intervistato. In entrambi i casi nei confronti dell’amministrazione comunale vi è un atteggiamento circospetto, che sembra essere motivato da un mancato riconoscimento di parità dell’istituzione laica a quella religiosa. È quasi una forma di rimprovero. Questa diffidenza va tuttavia differenziata da una capacità critica che il parroco ha nei confronti delle scelte dell’amministrazione comunale coinvolgenti la realtà di quartiere. Diverso è invece l’approccio del giovane parroco del Quartiere 5, che si propone all’insegna dell’informalità e della minima convenzionalità istituzionale: ribadisce costantemente durante l’intervista la rilevanza di aprire lo spazio della parrocchia, di superarne la forma per andare verso il quartiere e rendersi permeabile alle sue dinamiche. Tra l’altro è da rilevare come tale atteggiamento abbia negli ultimi anni favorito in questa parrocchia produttive interazioni con i più importanti operatori del Quartiere – il “Punto Giovani” di piazza Toselli, il C. di Q., l’Auser Savonarola, le associazioni di volontariato… – attorno ad iniziative culturali e sociali. Tale apertura deriva anche da una inclinazione del parroco ad affiancare alla pratica liturgica, momenti di analisi e di dialogo: da un incontro organizzato dal sacerdote, insieme al vicario episcopale per la città, con credenti e non credenti della comunità/territorio per capire quali siano le attese rispetto alla parrocchia, si è evidenziata anzitutto l’esistenza all’interno del territorio di un gruppo di persone non credenti o non praticanti ma propenso comunque a iniziative di volontariato. È un gruppo intermedio di grande interesse, perché è attraverso tale zona mediana, che fa da ponte tra parrocchie e territorio, che si può concepire il superamento delle suddivisioni dei rioni in compagini (culturali, d’età, di censo…) non interagenti. Tre sono le attese fondamentali della comunità/territorio nei confronti delle parrocchie: 1) “una parrocchia scuola di comunione, che diventi cioè, in una città divisa per compartimenti, molto individualista, un luogo di comunione tra le persone”, 2) “che sia scuola di formazione: oggi come oggi qualsiasi tipo di approccio con la realtà deve partire da una formazione. Non puoi pensare di agire ingenuamente; quindi è necessario preparare persone capaci di intervenire in vari ambiti, sia dal punto di vista della formazione biblica e teologica, ma anche umana e psicologica e di attenzione alla realtà”; 3) “il terzo aspetto che è emerso dalla comunità mista cittadina del nostro quartiere e della nostra città è stata la richiesta che la parrocchia sia ponte sul territorio, cioè che non rimanga chiusa in sé stessa, il classico gruppo attorno al campanile, ma che sia un ponte sulle attese le necessità del territorio”. Andrebbe dunque favorito, quando esistente, questo sforzo di apertura delle parrocchie, che rinunciano alla difesa di un proprio arroccamento istituzionale e propendono invece a interagire con componenti sociali estranee alla propria tradizione. “Non chiedete mai niente?”: questa è la domanda con la quale il presidente dell’associazione “Incontro” sintetizza l’episodio che porta qualche anno fa a una significativa evoluzione il gruppo anziani da lui rappresentato. La domanda, rivolta dal presidente dell’allora C. di Q. Valsugana al gruppo di anziani, è molto interessante sotto il profilo delle buone pratiche, perché induce una presa di responsabilità del gruppo. Il C. di Q. aveva organizzato un incontro con tutte le associazioni del quartiere, durante il quale esse erano state invitate a 42 dati, ma anche di storie, di situazioni, di desideri…). Questa è la fotografia della realtà. Vi va bene questa realtà? o possiamo fare un passetto in più…” L’intervista si conclude peraltro con la speranza, espressa dal presidente dell’associazione, che questa sorta di “fotografia partecipata”, di immagine condivisa, uno specchio dinamicizzante, possa essere realizzata con il contributo dell’amministrazione comunale: “fotografare questa realtà, è più facile andare con la macchina fotografica e fotografare il rione. Ma bisogna mettere mano alle statistiche che ha il Comune, bisognerebbe accedere con una certa facilità con un certo aiuto, io spero di trovarlo, perché sono elementi… gli abitanti di qua quanti sono? bisogna mettere insieme via per via”16. Insomma, tale “immagine condivisa” potrebbe essere il frutto di cantieri che operino sul paesaggio simbolico dei due Quartieri. 6 IMMIGRAZIONE, TERRITORIO E PARTECIPAZIONE In prima battuta, i nostri intervistati tratteggiano i Quartieri 5 e 6 come aree in cui la presenza immigrata è molto limitata: incontriamo ad esempio aggregati di case popolari oppure di residenze della classe media, ove il tasso di presenza di popolazione straniera è contenuto. “Questo quartiere ha una sua storia, sue caratteristiche particolari: è un quartiere prevalentemente di edilizia popolare, compresi gli insediamenti più recenti. E oltre all’edilizia popolare il quartiere è fatto di famiglie prevalentemente della piccola borghesia: non c’è una grossa presenza di famiglie straniere. E anche per quanto riguarda le situazioni di disagio – scolastico, sociale – abbiamo un numero abbastanza ridotto di casi.” (Maestra) Ad eccezione della zona di via Dini, nella quale di recente è andata producendosi una concentrazione numericamente crescente, la popolazione immigrata ha dimensioni in apparenza molto contenute. Come accade di frequente, la percezione di tale presenza riflette tuttavia solo in parte i dati effettivi, sia in positivo che in negativo: viene ad esempio trascurata la realtà, cospicua quanto silenziosa, delle lavoratrici immigrate che si prendono cura delle persone anziane, le cosiddette badanti. Le stesse condizioni di lavoro, le rendono “abitanti reclusi” nelle case dei due Quartieri. Solo dietro sollecitazione esplicita, gli intervistati richiamano alla mente l’esistenza di questa realtà. Sono i sacerdoti forse a dimostrarsi i più coscienti dell’esistenza di questa tipologia di abitanti che, a parere di uno di essi, rappresenta la percentuale più rilevante della popolazione immigrata del territorio: “Beh ecco la gran parte delle persone che sono qui sono badanti.” (parroco) Il primo dato interessante che emerge da questa situazione è che la presenza degli immigrati in questi due quartieri sembra essere vissuta in modo non conflittuale. È ad esempio molto positiva la valutazione di un parroco, circa la consapevolezza verso lo straniero prodotta dal ricorso alla manodopera straniera specie per l’assistenza degli anziani. E sono gli anziani spesso a rendersi maggiormente conto della trasformazione sociale in corso. Come confessa una responsabile di un’associazione, “io vivo anche in mezzo agli extracomunitari”. La presenza di abitanti non italiani nel rione sembra essere vissuta da questa 16 Abbiamo a questo proposito presente il lavoro sul “simbolico” di Claudio Zulian, che è intervenuto in contesti urbani europei (Barcellona, Lille, Grenoble...) appunto attraverso la costruzione partecipata da parte di una comunità di persone di una immagine del proprio territorio, vuoi attraverso la realizzazione di una fotografia, vuoi di una installazione o di un cortometraggio, vuoi di una struttura multimediale più complessa. Lo scopo è quello di rendere i committenti responsabili di una immagine che riguardi complessivamente loro e il loro territorio e destinata a diventare pubblica. Cfr. http://www.acteon.es. 45 intervistata molto positivamente. Tale felice percezione della convivenza può essere il frutto di una gestione del fenomeno sulla quale occorre fare alcune considerazioni. La residenza nella città degli stranieri è avvenuta in diverse fasi. All’inizio hanno trovato condizioni favorevoli solo in alcune aree come l’Arcella o la Stanga, tradizionalmente destinate a fasce come quella degli studenti universitari. Molto ha influito l’ostilità del mercato abitativo verso alcuni gruppi nazionali, che ha finito per favorire la loro concentrazione in alcune zone, gradualmente abbandonate dagli abitanti italiani. A bilanciare in parte la situazione sono state le politiche abitative adottate dall’amministrazione locale. Avvertendo i rischi connessi a una ghettizzazione degli stranieri, che in parte si era già determinata in un rione della città ormai assurto alle cronache nazionali,17 ha tentato, attraverso le assegnazioni degli alloggi pubblici, una suddivisione più estesa possibile sul territorio della città. Si è cercato di mettere insieme assegnatari da tutte le provenienze, compresa quella italiana: “Abbiamo avuto un caso interessante a Ponterotto: si trattava di un certo numero di alloggi per gli immigrati. È intervenuto lo stesso Consiglio di Quartiere… Lì operava una cooperativa, inserita nel piano PEEP, sempre lì accanto alle nostre case di Ponterotto. Si trattava di un fabbricato con ogni genere di nazionalità ed etnie, qualche famiglia italiana, ungheresi, tunisini, arabi. C’è un po’ di tutto: siamo andati a vederlo. È una realtà interessante: hanno costruito anche asili per i bambini. È un bel intervento…” (Ingegnere comunale) In questo senso, vale la pena ricordare l’esperienza dell’amministrazione comunale di qualche anno fa. Di fronte all’emergenza abitativa in cui versavano alcune famiglie straniere, la regione aveva erogato un fondo per la costruzione di 28 immobili destinati a famiglie straniere. Se questa scelta era senz’altro significativa sotto il profilo dell’allargamento dei diritti sociali agli stranieri, si correva il rischio di dare involontariamente un impulso alla loro ghettizzazione. A quel punto, è stata intrapresa in modo molto opportuno la strada della “distribuzione” delle famiglie immigrate sull’intero territorio cittadino, inserendo in un unico piano famiglie locali e famiglie straniere. È quanto ci ha riferito l’ingegnere responsabile per il Comune di Padova: “Ad assegnare tutti gli alloggi prima che vengano finite tutte le case ci sono 28 famiglie immigrate. È che io da ingegnere non me ne intendo molto di queste politiche, tuttavia mi sembra una cosa molto molto buona, perché ho visto che si sono integrati molto, molto bene” (Ingegnere comunale). In generale, possiamo sostenere che la popolazione straniera sta aumentando e qualitativamente mutando. Negli ultimi anni diversi cittadini stranieri hanno cercato di rispondere alla rigidità del mercato privato della locazione attraverso l’acquisto con il mutuo bancario. Come dimostrano alcune ricerche18, gli immigrati di origine marocchina si sono già da anni mossi in tal senso, complice probabilmente il forte stigma sociale che ha riguardato gli individui di provenienza africana. Prendere un mutuo si è rivelato un’operazione alla portata della popolazione immigrata. Dal punto di vista soggettivo, l’immigrato, munito di regolare contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato, corrispondente ai rigidi parametri bancari, sembra offrire sufficienti garanzie. In base alla debolezza contrattuale che esperimenta nella ricerca di un alloggio in affitto, per cui sono richieste referenze più o meno rigide, l’immigrato indirizza le proprie ricerche verso una zona piuttosto che un’altra. E i due quartieri oggetto della nostra indagine risultano per certi aspetti appetibili. Come conferma un parroco ortodosso di Brusegana, “anni fa ricordo il problema dell’alloggio. Quando sentivano che erano extracomunitari chiudevano la porta. Adesso, con le nuove e numerose 17Cfr. Vianello F., Ai margini della città, Roma, Carocci, 2006. 18 Cfr. Mohammed Khalid Rhazzali, La percezione generazionale dell’Islam, in Alessio Surian (a cura di), Lavorare con l’intercultura, Trento, Erickson, 2006 (in corso stampa) 46 possibilità di acquisto, si comprano la casa e basta”. Agli occhi di uno degli intervistati, sta diventando palese il cambiamento della fisionomia del quartiere: “La presenza dei residenti stranieri sta crescendo: vi sono molti rumeni, marocchini, ci sono famiglie dello Sri Lanka, queste sono le etnie principali… qualche ecuadoregno; si concentrano in alcuni rioni o vie, naturalmente la maggior parte sono vie e case dell’Ater, ma ve ne sono anche in appartamenti “normali”, magari facendo i salti mortali in più persone per pagare l’affitto, perché gli affitti sono molto onerosi” (Un parroco) Non cambia semplicemente la composizione demografica dei rioni: si alterano i costumi di vita. Vi è chi vede negli immigrati i portatori di un tipo di relazione tra uomo e donna, genitori e figli, di carattere tradizionale: “sembra di vedere una fotografia o un film degli anni 60”. Vi sono tuttavia segni di mutamento nel comportamento degli immigrati a contatto con la vita nei rioni: alcuni hanno iniziato a rompere la segregazione comunitaria o domestica, assumendo visibilità negli spazi pubblici dei quartieri. Sono azioni quotidiane e semplici a segnalare questa trasformazione: andare a fare la spesa, accompagnare i figli a scuola o nei giardinetti pubblici: “Secondo me non abbiamo ancora segnali diffusi di questa interazione col territorio: ve ne sono alcuni tuttavia che vanno accolti con fiducia. Ci sono alcune cose che mi fanno essere in alcuni momenti fiduciosa che qualcosa possa cambiare:ad esempio quando ho visto una mamma senegalese… non usciva mai. Non usciva mai la mamma se non accompagnata dal marito. Un giorno, ecco, l’ho vista in quartiere attraversare al semaforo trascinando la bimba di 7 anni con una borsa della spesa... mi sono detta: c’è qualcosa che sta cambiando insomma.” (Una maestra) In queste micro-pratiche quotidiane intraprese in particolare da alcune donne, giocano un ruolo assai importante i programmi messi in atto da parte del mondo del volontariato. Sono associazioni di volontariato a essersi dimostrate molto sensibili nei confronti di queste donne che sicuramente patiscono in maggior misura il carico della condizione dell’immigrato. Occupate in prevalenza nella cura dei figli, hanno infatti poca possibilità di sperimentare relazioni con il mondo che le circonda. La scuola ove vanno i figli risulta tra i luoghi per eccellenza in cui intraprendere i primi contatti con il mondo rionale circostante. Qui di seguito abbiamo una interessante testimonianza: “So che anche gli “Amici dei Popoli” stanno tentando di organizzare attività pomeridiane: potrebbe essere un modo per far conoscere alle madri come funziona la scuola in Italia. “Amici dei Popoli” pensava di organizzare dei laboratori, dei corsi dove queste donne possano portare la loro esperienza. Insomma, la cucina o anche qualcos’altro, per tentare di avere un contatto con la famiglia. Non so se sono riusciti… rimane sempre lo scoglio dell’orario. Si tratta di gente che lavora”. (Idem) Negli ultimi anni, la scuola è stata uno dei luoghi che maggiormente ha dovuto confrontarsi con il fenomeno immigrazione. Sui banchi di scuola hanno cominciato a sedere a fianco agli alunni di origine italiana i figli degli immigrati. In seguito allo sviluppo dell’immigrazione da fenomeno transitorio a permanente, si è assistito a nuove forme di insediamento di immigrati caratterizzate dalla presenza di intere famiglie che hanno fatto seguito al capo famiglia, fosse esso di genere maschile che femminile. Interessante è il ruolo delle scuole che hanno dovuto accogliere questi bambini: essi si trovavano ad affrontare problematiche inerenti all’adattamento al nuovo ambiente, ad apprendere una nuova lingua. Al loro primo accesso scolastico, essi vengono inseriti in programmi di supporto linguistico affidati a mediatori o facilitatori linguistici. È uno sforzo enorme su diversi livelli: imparare la lingua italiana e recuperano i ritardi scolastici. Tale compito non è per niente facile soprattutto se non viene sostenuto adeguatamente sia dalle famiglia, sia da una politica sociale attenta a questi fenomeni. Il peso di questa fase preliminare dell’accesso del giovane nel mondo scolastico è enorme e qualora venga sottovalutato rischia di provocare traumi con effetti difficilmente 47 Da un’altra associazione lo sport viene considerato come mezzo strategico privilegiato per entrare in relazione con i ragazzi di origine straniera. “L’aggancio è il pallone, giocare. E per il momento stiamo entrando in relazione con loro attraverso queste attività”. (Un’animatrice di strada) Tale associazione ha cominciato di recente ad allargare i suoi programmi d’intervento e prevenzione al disagio giovanile anche ai ragazzi immigrati. Si tratta di un gruppo di operatori che fanno attività di animazione di strada e cercano di individuare aggregazioni spontanee di ragazzi con cui entrare in contatto e intervenire qualora ci fossero dei disagi o semplicemente quando se ne ravvisassero i sintomi. Importante risulta il ruolo dello spazio nel rapporto con questi ragazzi: “Ci siamo posti questa questione ancora 4 anni fa. Ci siamo detti: come animazione di strada, adesso che ci sono gli stranieri, è il caso di sviluppare delle competenze e delle conoscenze diverse. Magari hanno delle problematiche che noi non conosciamo. Abbiamo trovato diverse compagnie di ragazzi o miste o composte di soli stranieri. Noi non coinvolgiamo direttamente i ragazzi stranieri. Siamo partiti con un gruppo di ragazzi che si occupa di arte di strada. E sono loro stessi a coinvolgerli direttamente. Cioè c’è un ragazzo che fa giocoleria e poi ci sono un paio di ragazzi che fanno il brek per strada, per cui sono…” (Idem) La pratica interculturale prende diverse forme e non risparmia neppure il cibo. Sono molteplici le buone pratiche da elencare in queste aree, ricche di interazioni tra attori volenterosi che hanno prestato una particolare attenzione ai mutamenti in atto. In questo senso, ci ha colpito la consapevolezza con cui questi soggetti operano e la creatività che permette loro d’inventare nuove ed originali modalità di intervento. Ogni momento, ogni occasione d’incontro diviene una buona opportunità per sperimentare nuove strategie d’intervento. La pratica interculturale si vive dunque attraversando diversi campi: dalla scuola al patronato, dagli incontri formali a quelli informali, dallo sport alla scoperta di nuovi cibi. Tutto ciò serve, parafrasando un espressione di un nostro intervistato, “a creare dei ponti tra le culture”. “A conclusione dell’attività dell’anno, la coordinatrice di quest’attività ha lanciato l’idea di fare una cena insieme. E allora ognuno ha portato un piatto tipico del proprio Paese d’origine. Si è trascorsa una serata molto bella, in cui uno ha sperimentato il cous cous, l’altro ha sperimentato gli spaghetti e l’altro ha sperimentato, che ne so, qualcosa della Romania”. (Un parocco) Prima di passare al prossimo paragrafo, è opportuno soffermarsi su una questione che riteniamo assai interessante, ovvero il curriculum scolastico dei ragazzi di origine straniera, soprattutto per quanto concerne la scuola post obbligo. Alcune indagini a livello europeo hanno messo in luce un precoce abbandono scolastico. Questi ragazzi difficilmente proseguano gli studi e tendendo ad intraprendere semmai percorsi professionali. È una scelta sollecitata probabilmente da situazioni famigliari dal punto di vista economico non agiate, e ciò in qualche modo porta queste famiglie ad escludere percorsi di formazione lunghi e a preferire formazioni professionali di breve durata, preliminari a un rapido accesso al mondo del lavoro. È opportuno quindi prestare seria considerazione a tale condizione sfavorevole che può particolarmente concernere ragazzi di seconda generazione di origine immigrata. Si tratterebbe di inserire tale questione nell’agenda delle politiche sociali, per favorire la crescita culturale della popolazione di origine non italiana. È significativo a proposito il seguente parere che tocca in parte la nostra preoccupazione: “Ci sono alcuni ragazzi usciti dalla terza media che hanno chiesto di continuare all’inizio del 2° quadrimestre, dopo aver ricevuto la scheda. Hanno telefonato e mi hanno chiesto se potevano venire a fare matematica ed inglese, materie che insegniamo qui. Si tratta di ragazzi che sono usciti con “Buono” l’anno scorso, soprattutto dagli istituti tecnici, perché la maggior parte degli stranieri va alle scuole professionali. Sono già meno quelli che 50 affrontano un istituto tecnico e che hanno avuto un successo scolastico alla scuola media. Affrontando la scuola superiore si trovano in difficoltà. Un paio di casi hanno telefonato per chiedere di poter venire”. (Una maestra) L’aspetto che viene messo in rilievo dai nostri interlocutori è la difficoltà che impedisce una maggior partecipazione delle famiglie immigrate alla vita pubblica. Essa diventa evidente quando si tratta di genitori che sono chiamati ad interloquire con la scuola. Nonostante la messa in atto di alcuni programmi promossi da alcune associazioni e lo sforzo compiuto da alcune donne per avvicinarsi alla realtà scolastica, la scarsa qualità di vita della famiglia resta il vero nodo da sciogliere per attuare processi di promozione sociale che consentano anche agli adulti di massimizzare il tempo libero e aumentare l’attenzione alla vita sociale e al territorio. Secondo uno dei nostri intervistati, la causa della poca partecipazione può essere ricondotta alla rigidità dell’orario di lavoro. “Rimane sempre lo scoglio dell’orario perché lavorano”. (Il presidente di un associazione) Un’altra intervistata offre un’interpretazione differente “La poca partecipazione alla vita pubblica e del territorio deriva da una diversa percezione dei bisogni come la casa o il lavoro”. (Una maestra) Sotto questo aspetto, sicuramente siamo di fronte ad una provvisorietà che incide sulla partecipazione degli stranieri alla vita del quartiere. Questa precarietà, per un verso è legata alla condizione del migrante, sottoposto a una inevitabile mobilità, per un altro alla difficile comunicazione con le istituzioni, causata spesso da difficoltà linguistiche. Altro versante che contribuisce ulteriormente a rendere dequalificante la vita degli immigrati è il tipo di lavoro nel quale sono impiegati. Come è evidente, si fa ricorso alla mano d’opera straniera per avviarla a lavori generici e manuali che richiedono uno sforzo fisico che va a danno di una organizzazione migliore del dopo lavoro. “Secondo me, giocano problemi soprattutto di sopravvivenza concreta: sono venuti a lavorare, sono venuti…io ho visto la sera i genitori ucraini o moldavi, arrivavano senza aver cenato perché sono appena rientrati…” (una maestra) Anche uno dei parroci, da noi intervistato, è dello stesso parere. Il lavoro ed i turni ai quali sono sottoposti diversi immigrati costituiscono indubbiamente l’impedimento principale ad una partecipazione più intensa alla vita della parrocchia e quindi della comunità: “C’è sempre stato questo problema di riunirsi durante la settimana; perché la maggior parte della gente è venuta qui per lavorare. E se lavorano tutto il giorno, fanno fatica a rispondere. In realtà ci sono più stranieri di quanti non appaiano a causa della qualità della vita lavorativa”. (Un parroco) È interessante notare come la bassa qualità di vita che conducono gli stranieri, non è riservata ad un gruppo etnico differentemente da un altro. La situazione di lavoratori poco qualificati accomuna la maggior parte della popolazione immigrata. Ciò condiziona molto la partecipazione di quest’ultima alla vita associativa e sociale del territorio. I segnali di presenza di tale partecipazione sono praticamente assenti in questi quartieri: se nella vita sociale si incontrano stranieri, essi appaiono come percorsi individuali. E ciò sembra essere d’altra parte segno di un esercizio più autonomo e attivo della dimensione pubblica, al di là della propria condizione di straniero. Infatti, abbiamo riscontrato esperienze di stranieri maturate in seno a associazioni italiane, senza l’esigenza di far ricorso al proprio ruolo di immigrato, in termini di tutela o di promozione. Vi sono poi forme di aggregazione su base etno-nazionale che non interagiscono con il territorio perché sono rivolte esclusivamente ai 51 partecipanti della quella provenienza. Probabilmente una delle ragioni di tale invisibilità è anche la poca significatività per questi gruppi della loro collocazione in questi quartieri: la presenza delle aggregazioni di stranieri non è frutto di una interazione tra abitanti stranieri e il territorio in cui vivono. Si tratta di innesti di realtà provenienti da altrove. Il Consiglio di Quartiere 6 ha notizia dell’esistenza di una associazione di senegalesi con cui non ha intrattenuto fino adesso alcun rapporto: “C’è questa associazione di senegalesi però sinceramente io non li conosco bene”. (Un membro del C. Q. 6) Il C. di Q. riferisce anche di un tentativo senza seguito di partecipazione, in forma associativa, da parte di un gruppo di rumeni. In questo scenario, l’esperienza della chiesa rumena ortodossa rimane un evento isolato, sia per le modalità della sua nascita, sia per il rapporto che vorrebbe intrattenere con la realtà locale. La chiesa ortodossa è responsabile di tutto il territorio padovano e non semplicemente un soggetto legato alla realtà del quartiere. Altre esperienze19 tuttavia ci dimostra, come vedremo meglio più avanti20, che la popolazione immigrata “preferisce”, per ora, altre forme di abitare il rione. Frequentare i giardinetti pubblici, soprattutto per le mamme, leggere gratuitamente una rivista o connettersi ad internet possono costituire per l’immigrato delle valide esperienze introduttive allo spazio pubblico “Ecco e la mia impressione è che questi luoghi possono essere salutari, ma che possono essere,[ …….] i giardinetti ecco. Siano dei luoghi di sostanziale aggregazione e poi anche di consenso in alcune situazioni, si sono poi creati mantenuti i rapporti che diventavano non so di…magari tra quelli un po’ più i vicini di casa” (Un operatore d’infanzia) “questo servizio è utilizzato spesso da studenti che abitano in questa zona, ma anche da stranieri, extracomunitari che magari lavorano o studiano e abitano in questa zona e qui trovano computer o giornali, quotidiani o settimanali… utenti con queste caratteristiche stanno aumentando sempre di più in questi ultimi anni”. (Il presidente di un associazione) Se da una parte, il non disporre di un computer ed una connessione internet a casa può sembrare il motivo principale che spinge l’immigrati ad utilizzare il servizio offerto dall’associazione. Dall’altra, è interessante notare come spazi di questo tipo caratterizzati dalla facilità di accesso possano rappresentare per gli stranieri un occasione significativa d’incontro con la popolazione locale. Nei processi di inserimento dell’immigrato in questa realtà sociale, si nota un assunzione di atteggiamento, eventualmente anche cordiale e caritativo, frutto di una cultura sociale cattolica, che però contribuisce a mantenere lo straniero nel ruolo dell’ospite. “L’altra sera parlavo con un tipo, un texano, e lui diceva: è dura stare qua da voi perché, perché si è sempre ospiti e si è sempre trattati così, in questo modo. E quando parliamo di un americano, siamo ai gradi più alti della condizione immigrata La presenza di immigrati è abbastanza diffusa e non mi pare che li trattiamo con i guanti bianchi”. (Il presidente di quartiere 5) In questo senso, è interessante l’intervista seguente poiché mette in rilievo il tipo di sensibilità e di cultura che emerge nel rapporto con il cittadino immigrato. “Con i moldavi è difficile entrare in relazione: io ho rapporto con due famiglie ma sono molto chiuse, molto riservate, non ti permettono di entrare più di tanto”. (Il presidente di un associazione) 19 Punto giovani di piazza Toselli e giardini pubblici 20 Si veda in proposito il paragrafo: “Gli spazi gratuiti come fattore di coesione sociale” del prossimo capitolo. 52 diversa provenienza di molte di esse, è evidente che si creano reti di micro-solidarietà che possono ridurre il peso dei pregiudizi e degli stereotipi reciproci. Ciascuna di questa azioni, piccole a piacere, se tendono a moltiplicarsi, favoriscono un lento e progressivo riconoscimento della differenze perché nell’agenda delle persone vengono messe al primo posto non le distanze culturali ma i bisogni comuni. E’ su questo versante che, trattandosi di bisogni che possono essere soddisfatti anche dall’azione pubblica, si può immaginare un intervento sociale partecipato e coordinato (e non imposto) dalla mano pubblica. 55 8 NOTA METODOLOGICA Gli obiettivi della ricerca, così come esposto nella parte introduttiva di questo lavoro, hanno seguito una duplice direzione. Da un lato si sono esplorate le buone prassi applicate, le criticità e i punti di forza del tessuto urbano e sociale di due aree della città di Padova; dall’altro sono state elaborate possibili strategie di intervento e strumenti operativi utili a promuovere e replicare azioni virtuose di partecipazione, solidarietà e accoglienza. Di fondamentale importanza per il raggiungimento di questi obiettivi è stato il coinvolgimento dei soggetti particolarmente attivi nei territori in questione. In tal senso, questo lavoro può definirsi ricerca azione: “una ricerca in cui vi è sia un’ azione intenzionale di modificazione della realtà che la produzione di conoscenze che riguardano tale modificazione. L’obiettivo è di fornire un aiuto per cambiare delle condizioni giudicate insoddisfacenti da parte di alcuni soggetti o di gruppi; l’idea centrale è quella di coinvolgere subito nei processi di ricerca i soggetti implicati in una situazione problematica per individuarne le possibili soluzioni, progettandole e realizzandole in collaborazione con i ricercatori” 21. Rispetto a questa definizione è bene però evidenziare come il nostro obiettivo non fosse lo studio di situazioni problematiche, bensì la scoperta delle buone prassi e dei processi di partecipazione e solidarietà che più volte scompaiono nella percezione della cittadinanza e degli amministratori locali. La stessa scelta delle aree sulle quali operare non ha avuto alcuna relazione con particolari eventi o contesti che destano, o hanno destano, allarme sociale. Ciò che invece ha caratterizzato maggiormente il nostro lavoro è stato dunque il contatto diretto con soggetti e istituzioni impegnate nelle due aree in attività di governo culturali, ricreative e assistenziali. Numerose sono state le occasioni di scambio e confronto avvenute sia attraverso gli incontri di coordinamento dei lavori sia attraverso la realizzazione delle interviste. Questa relazione, che si è quindi configurata come una vera e propria partecipazione dei soggetti interpellati, si è rivelata fondamentale nell’apportare notevoli contributi al processo di ricerca. La struttura organizzativa della ricerca è stata caratterizzata da un gruppo di lavoro composto da quattro giovani ricercatori (3 uomini e 1 donna) e un coordinatore, mentre gli strumenti utilizzati per la rilevazione dei dati sono stati l’intervista semistrutturata e il focus group, dunque strumenti a bassa standardizzazione. La costruzione della traccia ha previsto tre incontri d’equipe. Al primo incontro erano presenti, oltre al gruppo di lavoro e al coordinatore della ricerca, il committente22, e i due Presidenti dei Consigli di Quartiere. In quella sede sono state definite in modo più preciso le aree tematiche sulle quali soffermarsi maggiormente e si sono identificati alcuni dei soggetti da contattare per la somministrazione delle interviste. Al primo incontro ne è seguito un altro nel quale il gruppo ha elaborato una bozza di traccia d’intervista. L’incontro successivo ha invece prodotto la traccia definitiva. In quest’ultima sede si è inoltre deciso come si sarebbe articolato il primo giro di interviste. I primi ad essere intervistati sono stati i Presidenti dei Consigli di Quartiere. La prima intervista si è svolta presso la sede di uno dei Consigli, mentre la seconda è stata realizzata presso il Dipartimento di Sociologia. Il resto delle interviste sono state effettuate nelle sedi operative dei soggetti contattati. 21 Hugon MA, Siebel CL, Recherches impliquées, recherce-action: le cas de l’éducation, Bruxelles-Paris 22 Nella ricerca azione, a differenze delle “tradizionali” ricerche accademiche, il committente assume un ruolo fortemente partecipativo. Nel nostro caso, il committente e l’equipe di lavoro si sono riuniti per coordinare e discutere i dati emersi in itinere per quattro volte durante i 10 mesi di durata della ricerca. 56 Le interviste sono state condotte nella maggior parte dei casi da due dei componenti del gruppo con l’ausilio di un registratore23. Di seguito riportiamo la traccia utilizzata evidenziando tuttavia che la stessa si è ritenuta fin dal principio uno strumento sensibile e modulabile sulla base delle peculiarità del soggetto intervistato e della realtà da esso rappresentata. Nella traccia sono ravvisabili tre dimensioni: 1) descrizione della storia e dell’attività dell’ente negli ultimi cinque anni; 2) percezione da parte degli intervistati della realtà di Quartiere, in riferimento a “partecipazione e solidarietà”, rispetto a immigrazione, generazioni, genere, cambiamenti sociali e urbanistici; 3) ipotesi di intervento. Traccia d’intervista Storia del servizio/istituzione/associazione, attività svolte e attività future Introduzione del servizio e dell’intervistato  Da quanto tempo il servizio /associazione/gruppo opera in quest’area?  Mi può descrivere l’attività del servizio?  Da quanto tempo lei lavora nel servizio?  Mi può descrivere brevemente il suo ruolo nel servizio/…? Interventi realizzati negli anni, coinvolgimento della popolazione, difficoltà incontrate  Quali sono stati gli interventi più significativi realizzati negli anni?  Quali difficoltà si sono incontrate nel realizzare questi interventi?  Quali soggetti istituzionali e non hanno partecipato alla realizzazione degli interventi?  Che tipo di coinvolgimento c’è stato da parte della popolazione residente? Risorse dell’area utilizzate  Quali sono le risorse del territorio delle quali usufruisce il servizio? (risorse umane, materiali, economiche) Scambio o mediazione tra servizio e popolazione  Che tipo di scambio o mediazione c’è tra la popolazione ed il servizio?  Ci sono delle richieste specifiche rivolte dalla popolazione?  Tali richieste hanno delle specificità di genere, età, etnia, classe sociale? Iniziative promosse  Negli ultimi cinque anni avete promosso delle iniziative nell’ambito di: - partecipazione - solidarietà - accoglienza - pace  Se si, mi può descrivere le fasi e gli esiti di tali iniziative?  Negli ultimi cinque anni avete promosso delle iniziative a favore di : 23Segnaliamo in proposito la diffidenza di alcuni degli intervistati che inizialmente hanno espresso il loro dissenso all’utilizzo del registratore. Di fatto però, con il procedere dell’intervista le cautele sono state superate e la registrazione non ha destato più alcuna preoccupazione. 57 Abbiamo ritenuto di aver raggiunto un campione significativo e rappresentativo nel momento in cui le segnalazioni di possibili soggetti da incontrare ricadevano su persone già intervistate o comunque inserite nella lista dei contatti. Di certo, il nostro obiettivo conoscitivo non era il censimento delle attività di tutte le associazioni operanti nei due territori; questo avrebbe richiesto maggiore tempo a disposizione e una struttura organizzativa più corposa. Tuttavia, in considerazione dei dati rilevati, possiamo ritenere che il numero di interviste sia risultato consono all’obiettivo di ricerca prefissato. Le interviste realizzate sono state 16. Di seguito riportiamo l’elenco degli operatori ed enti incontrati.  Presidenti C. di Q. 5 e 6  Auser rione Palestro  Punto Giovani di piazza Toselli  Responsabile comunale del Contratto di Quartiere piazza Toselli  Polizia municipale  Caritas, ass. San Vincenzo  4 parroci afferenti a parrocchie del quartiere 5 e 6  Centro anziani di Altichiero “L’incontro”  Scuola media plesso don Minzoni di Altichiero  Servizi socio-sanitari dei Quartieri 5 e 6  Coop. Terra  Parrocchia ortodossa rumena di Padova (Brusegana) Al focus group erano invece presenti le seguenti associazioni:  Ass. Fratelli dell’uomo, educazione allo sviluppo  Ong ACS (Associazione Cooperazione allo Sviluppo)  Ass. La zattera urbana  Beati costruttori di pace  Ass. Bashú Ci sembra opportuno evidenziare come l’intero lavoro di ricerca sia stato caratterizzato fin dall’inizio da una intensa agenda di incontri di coordinamento e supervisione tra i ricercatori impegnati sul campo, il coordinatore e il comitato scientifico del CIRSSI. Riteniamo che questo tipo di prassi sia di notevole importanza per favorire un maggiore scambio di informazioni e favorire l’elaborazione di proposte operative utili a massimizzare le risorse umane e intellettuali della struttura organizzativa. Inoltre, la stessa partecipazione attiva del committente e delle realtà amministrative locali ha permesso al gruppo di ricerca di valutare costantemente nuovi approfondimenti e possibili micro realtà da analizzare. Come accade al termine di ogni ricerca, molte sono gli ambiti nei quali avremmo voluto indagare maggiormente. Pensiamo tuttavia di aver fornito dei buoni punti di partenza per operare riflessioni ed avanzare nuovi interrogativi che un possibile ulteriore lavoro di ricerca potrebbe affrontare. 60 61 Bibliografia  AA.VV., 2004, Feasibility Project for a Gender Auditing of Pubblic Budgets, Regione Emilia Romagna  Alietti, A., 1998, La convivenza difficile: coabitazione interetnica in un quartiere a Milano, l’Harmattan, Torino  Ambrosini m. – molina s. (a cura di) (2004), seconde generazioni, un’introduzione al futuro dell’immigrazione in italia, torino, edizioni fondazione giovanni agnelli  Bagnasco a., barbagli m., cavalli a. 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