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stampare pestalozzi, Appunti di Storia Della Pedagogia

l educazione del cuore di pestalozzi

Tipologia: Appunti

2013/2014

Caricato il 21/08/2014

federica.midulla
federica.midulla 🇮🇹

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Scarica stampare pestalozzi e più Appunti in PDF di Storia Della Pedagogia solo su Docsity! www.treccani.it Pestalòzzi Johann Heinrich Pestalòzzi ‹-zzi›, Johann Heinrich. - Educatore e pedagogista svizzero (Zurigo 1746 - Brugg 1827), di famiglia oriunda italiana. L'idea centrale della sua didattica era un metodo «basantesi sulla vita integrale dei rapporti familiari: nell'istruzione spontanea e concreta offerta dall'ambiente familiare è il fondamento di qualsiasi didattica dell'apprendere». P. insistette in particolare sull'importanza, nei processi di apprendimento, dell'intuizione e del contatto immediato con l'esperienza. Su questa base P. teorizzò l'importanza del «contare», del «misurare» e del «parlare» nel processo educativo, ponendo quindi l'accento sull'aritmetica, la geometria, il disegno e l'apprendimento delle lingue. VITAFrequentò nella sua città il Collegium Carolinum, dove ebbe come insegnanti notevoli figure dell'illuminismo e del rousseauianismo svizzero come J. G. Zimmermann, J. J. Breitinger e J. J. Bodmer. Con altri amici si strinse intorno a Bodmer, capo dei patrioti e democratici, ispirandosi alle idee di Rousseau e all'ideale d'un moralismo stoico e ribelle e d'un patriottismo democratico. Tuttavia, sciolto il gruppo, egli si dedicò all'agricoltura e, acquistato un fondo a Neuhof nel Giura, nel1769 vi si stabilì insieme con la moglie Anna Schulthess, che gli fu fedele compagna e collaboratrice. Fallita l'impresa agricola, P. trasformò (1777) la fattoria in un asilo per i piccoli mendicanti, col proposito di «redimerli ed educarli alla vita operosa e utile»; ma anche la nuova impresa naufragò (1779). Burgdorf dapprima, poi Münchenbuchsee, dove trasportò il suo istituto nel 1804, e finalmente Yverdon, dove la sua scuola, che durò fino al 1824, ebbe un magnifico rigoglio e attirò l'attenzione dell'intera Europa colta, sono stati il campo sperimentale da cui è uscita la moderna scuola elementare. OPERE.Nel 1780 pubblicò l'Abendstunde eines Einsiedlers, primo abbozzo del suo sistema pedagogico, e la prima parte di Lienhard und Gertrud, il suo capolavoro (di cui la seconda parte vide la luce nel 1787), nel 1783 Über Gesetzgebung und Kindermord. Nel 1793 commentò gli eventi della Rivoluzione francese con l'equilibrato opuscoloJa oder Nein?. Del 1797 è l'opera in cui P. tentò di esprimere con la maggior chiarezza e coerenza il suo credo filosofico e l'idea che era venuto intanto conquistando delle intime contraddizioni della civiltà: Meine Nachforschungen über den Gang der Natur in der Entwicklung des Menschengeschlechts. I rivolgimenti provocati dalla Rivoluzione francese anche in Svizzera gli porsero l'occasione di ritornare all'insegnamento. Rifiutata l'offerta di dirigere la scuola magistrale, fondò (1799) a Stans una scuola per orfani di contadini, ma dopo solo sei mesi la guerra lo costrinse a chiudere l'istituto. Fu quindi maestro a Burgdorf, dove continuò ad approfondire il suo metodo didattico, con la collaborazione di H. Krüsi, J.-G. Tobler e J.-Ch. Buss. Da queste esperienze nacquero il breve scritto Die Methode (1800) e le quattordici lettere a Gessner (Wie Gertrud ihre Kinder lehrt, 1801), cui seguirono alcuni libri elementari rivolti a facilitare il primo insegnamento secondo il suo metodo: Buchstabierbuch; A. B. C. der Anschauung; Buch der Mütter; Natürliche Schulmeister. Negli ultimi anni scrisse due opere notevoli: Schwanengesang(1825) e Mutter und Kind (1827), esposizione popolare ma molto penetrante delle proprie idee pedagogiche. Il problema della connessione tra l'ideale della libera natura umana e la concreta realtà storica della cultura, tra la spontaneità soggettiva e l'obiettività spirituale, che travagliò la fine del sec. XVIII e il principio del XIX e che nella filosofia idealistica si risolse con il concetto della libertà dello spirito, sta al fondo anche delle ricerche di P. e della sua idea dell'educazione naturale ed elementare. Certo egli raggiunse tale idea solo attraverso e nei limiti della sua esperienza personale, ma in questa esperienza era così profondamente vissuta la crisi del suo tempo e, in generale, dell'umanità ed era ricercata con tale fede la sua soluzione 1 nell'attività educativa, che l'intuizione a cui riuscì, nonostante i difetti della sua formulazione, si armonizzava con le correnti più vive della cultura e del pensiero contemporanei e riassumendo la riflessione pedagogica anteriore, conciliando e superando insieme l'utilitarismo sociale dell'illuminismo e il naturalismo del Rousseau, coglieva con l'ideale più alto il problema essenziale dell'educazione. Praticamente spetta a P., oltre al merito generale di avere radicalmente approfondito la coscienza pedagogica, quello d'aver posto in rilievo il valore spiritualmente umano e nazionale dell'educazione, specie rispetto ai ceti più poveri, d'aver innovato, contro la tradizione metodica irriflessa, il problema d'una prassi educativa, sia pure attraverso soluzioni parziali, d'avere offerto lo schema per l'organizzazione dell'istruzione popolare elementare e dell'educazione professionale. D'altra parte gli istituti pestalozziani servirono di modello a filantropi e governi di tutta l'Europa e prepararono tutta una generazione di maestri, mentre alle idee di P. s'ispirarono i grandi pedagogisti del secolo: F.W.A. Fröbel e J.F. Herbart. La concezione pedagogica. L’idea centrale della didattica pestalozziana è la persuasione che c’è un’arte, da cui possiamo riprometterci la rigenerazione dell’umanità, e quest’arte è il metodo elementare «basantesi sulla vita integrale dei rapporti familiari»: nell’istruzione spontanea e concreta offerta dall’ambiente familiare è il fondamento di qualsiasi didattica dell’apprendere. L’arte educativa deve essere «esercizio e irrobustimento di poteri fondamentali che sono la radice dell’umana spiritualità». E l’unico modo di potenziare e disciplinare naturalmente sia le forze umane sia le varie attività è l’uso, il normale esercizio di esse, così come gli stessi fondamenti della vita morale, vale a dire l’amore e la fede, sono rafforzati dall’uomo con la pratica dell’amore e della fede, e il fondamento della sua vita intellettuale, vale a dire il pensiero, con l’esercizio del pensiero. L’insegnamento scolastico con il suo procedere artificiale viola l’ordine della libera natura e perciò occorre rinnovarlo secondo il metodo materno. Minore importanza si dà oggi alle sue faticose indagini circa la determinazione di un ideale metodo didattico, tempo addietro considerate la parte più viva e storicamente significativa del pestalozzismo. P. insiste particolarmente sull’importanza dell’intuizione, del contatto immediato con l’esperienza. Soltanto gradualmente, attraverso la sistemazione e l’organizzazione di ciò che è stato intuitivamente colto, si avrà il costituirsi del giudizio. È su questa base che P. teorizza l’importanza del «contare», del «misurare» e del «parlare» nel processo educativo, ponendo quindi (in modo talora esclusivo) l’accento sul ruolo preminente che aritmetica, geometria, disegno e apprendimento delle lingue svolgono per una formazione concreta dell’educando. Nei primi decenni del 19° sec., gli istituti pestalozziani servirono di modello a filantropi e a governi di buona parte d’Europa e prepararono tutta una generazione di maestri, mentre alle idee di P. si ispiravano i grandi pedagogisti dell’Ottocento, e in partic. Fröbel e Herbart. PESTALOZZI, Johann Heinrich. - Nacque dal medico Johann Baptist e da Susanna Hotze il 12 gennaio 1746 a Zurigo, vi frequentò le scuole e nel Collegium Carolinumebbe ad insegnanti lo Steinbrüchel, lo Zimmermann, il Breitinger e il Bodmer. Partecipò con il Hirzel, il Füssli e il Lavater al gruppo dei patrioti che si raccoglieva intorno al Bodmer, ispirandosi alle idee del Rousseau e all'ideale d'un moralismo stoico e ribelle e d'un patriottismo democratico. Da questi principî sono animati i suoi primi scritti: Wünsche (1766), frammenti etici pubblicati sulla rivista Der Erinnerer, e Agis (1766), racconto storico a sfondo morale-politico. Sciolto il gruppo per ragioni politiche, il P. troncò gli studî e rivolto il proprio interesse all'agricoltura, acquistò un fondo a Neuhof, presso Brugg, dove nel 1769 si stabilì con la moglie Anna Schulthess, che gli fu fedele compagna e 2 Münchenbuchsee e rimanervi sotto la direzione del Fellenberg, mentre il P. fondava in Jverdon un grande istituto educativo, che sotto la sua direzione e per l'opera di abili collaboratori: Krüsi, Schmid, Niederer, Muralt, Mied, Hoffmann, Tobler, Henning, Pfeiffer, Nägeli, Schacht, Raumer, Froebel, fiorì rapidamente e vide accorrere da ogni parte d'Europa discepoli e maestri. L'infaticata attività del P., che nel 1818 creava un nuovo istituto per l'educazione dei poveri, non poteva però evitare che la sua istituzione risentisse dopo un decennio di vita delle mutate condizioni economiche e politiche e che in essa sorgessero dissensi tra i collaboratori. Un conflitto tra lo Schmid, che aveva perfezionato il metodo matematico, e il Niederer che aveva dato impostazione filosofico-idealistica alla pedagogia pestalozziana, degenerò rapidamente in aspre lotte personali e condusse allo scioglimento dell'istituto, provocato dal P. stesso nel 1824. Egli nel frattempo era venuto rielaborando le sue idee pedagogiche in una serie di scritti di cui i più importanti sono: Wesen und Zweck der Methode (1802); i frammenti raccolti sotto il titolo Ansichten und Erfahrungen die Idee der Elementarbildung betreffend; le lettere destinate a completare Wie Gertrud; le lettere al Graves del 1818 (Letters on early education, 1827; Mutter und Kind (1827); la correzione iniziata nel 1819 diLienhard und Gertrud; infine lo Schwanengesang (1825). In questi scritti il P. tende sempre più a lasciar cadere le particolarità artificiose del metodo, insiste sul valore dell'esperienza immediata, sulla necessità che il processo educativo coincida con l'espansione della vita sia in ogni grado armonico, mentre illumina sempre più vivamente il senso e la funzione spirituale dell'educazione in senso religioso, facendo coincidere l'idea dell'educazione elementare con l'ideale del cristianesimo di redenzione spirituale dell'umanità. Un breve scritto in difesa della sua opera: Meine Lebensschicksale (1826) provocò un aspro libello di un discepolo del Niederer, il Biber, libello che giunse al P. quando egli già piegava sotto il male. Morì a Brugg il 17 febbraio 1827. Il problema della connessione tra l'ideale della libera natura umana e la concreta realtà storica della cultura, tra la spontaneità soggettiva e l'obiettività spirituale, che travaglia la fine del sec. XVIII e il principio del XIX e che nella filosofia idealistica s'è risolto con il concetto della libertà dello spirito, sta al fondo anche delle ricerche del P. e della sua idea dell'educazione naturale ed elementare. Certo egli raggiunge tale idea solo attraverso e nei limiti della sua esperienza personale, ma in questa esperienza era così profondamente vissuta la crisi del suo tempo e, in generale, dell'umanità ed era ricercata con tale fede la sua soluzione nell'attività educativa, che l'intuizione a cui riuscì, nonostante i difetti della sua formulazione, si armonizzava con le correnti più vive della cultura e del pensiero contemporanei e riassumendo la riflessione pedagogica anteriore, conciliando e superando insieme l'utilitarismo sociale dell'illuminismo e il naturalismo del Rousseau, coglieva con l'ideale più alto il problema essenziale dell'educazione. Praticamente spetta al P., oltre al merito generale di avere radicalmente approfondito la coscienza pedagogica, quello d'aver posto in rilievo il valore spiritualmente umano e nazionale dell'educazione, specie rispetto ai ceti più poveri, d'aver innovato, contro la tradizione metodica irriflessa, il problema d'una prassi educativa, sia pure attraverso soluzioni parziali, d'avere offerto lo schema per l'organizzazione dell'istruzione popolare elementare e dell'educazione professionale. D'altra parte gl'istituti pestalozziani servirono di modello a filantropi e governi di tutta l'Europa e prepararono tutta una generazione di maestri, mentre alle idee del P. s'ispiravano i grandi pedagogisti del secolo: il Herbart e il Froebel. Ediz.: L'edizione delle opere del Pestalozzi, Sämtliche Werke, a cura di H. Seyffart (voll. 12, Liegnitz 1899 segg.), viene oggi sostituita da quella critica a cura di A. Buchenau, E. Spranger, H. Stettbacher (Berlino 1927 segg.). In Italia oltre a varie traduzioni scolastiche sono notevoli l'iniziata traduzione delle Opere complete(Venezia-Firenze 1927 segg.) e la traduzione delle Mie ricerche a cura di A. Piazzi (Firenze 1929). 5 6 Appunti online Le teorie del pensiero pedagogico di Pestalozzi Al centro del pensiero pedagogico di Pestalozzi si collocano tre teorie: - Educazione come processo che deve seguire la natura. Idea ripresa da Rousseau, secondo la quale l'uomo è buono e deve essere solo assistito nel suo sviluppo, in modo da liberarne tutte le capacità morali e intellettuali. Ciò significa che l'educazione deve sviluppare armonicamente tutto l'uomo, facendo leva sulla unità delle facoltà, anche se, nella fase della maturità, sottolineerà che nella natura umana ci sono anche pigrizia, ignoranza, avidità e leggerezza, che solo l'educazione può aiutare a superare, come educazione positiva e non negativa. Secondo Pestalozzi il bambino ha già in sé tutte le facoltà della natura umana: è un bocciolo non ancora dischiuso. - Formazione spirituale dell'uomo come unità di cuore, mente e mano. Una formazione che va sviluppata attraverso l'educazione morale, quella intellettuale e quella professionale, tra loro strettamente congiunte; la formazione dell'uomo è un processo complesso che si attua intorno alla Anschauung, vale a dire all'osservazione intuitiva della natura, che promuove lo sviluppo intellettuale, il quale promuove a sua volta uno sviluppo morale, in modo da produrre nel soggetto un senso di armonia sia col mondo esterno sia con quello interiore, che realizza l'elevazione dell'uomo all'autentica dignità di essere spirituale. La formazione morale, poi, si delinea in Pestalozzi in termini sempre più kantiani, come sottomissione ad un imperativo interiore che anche la disciplina permette di realizzare, risvegliare e sviluppare. - L'istruzione. Discorso affrontato soprattutto in Come Gertrude istruisce i suoi figli, del 1801, secondo la quale è necessario sempre partire dall'intuizione, dal contatto diretto con le diverse esperienze che ogni allievo deve concretamente compiere nel proprio ambiente. Senza fondamento intuitivo ogni verità è per i ragazzi solo un gioco noioso ed inadatto alle loro capacità. Partendo dall'intuzione Pestalozzi sviluppa una educazione elementare che parte dagli elementi della realtà, sia nell'insegnamento linguistico sia in quello matematico, analizzandoli secondo numero, forma e linguaggio. Tale didattica dell'intuizione segue le leggi stesse della psicologia, di quella infantile in particolare, che gradualmente procede dall'intuizione di singoli oggetti alla loro denominazione e da questa alla determinazione delle loro proprietà, cioè alla capacità della loro descrizione e da questa alla capacità di formarsi un concetto chiaro, cioè di definirli. 7 frequenza scolastica, se non si limita a educargli la mente, ma ne sviluppa le funzioni elementari, si completerà poi con la partecipazione attiva alla vita sociale. -Il metodo pestalozziano Anche i principi del metodo sono tre: principio della necessità meccanica, principio dell’organicità e continuità, principio della vicinanza e della lontananza. Per necessità meccanica intende che l’educazione deve essere talmente conforme alla natura spirituale dell’alunno da produrre determinati modi di sentire, di pensare, di operare. Organicità e continuità stanno a significare che l’educazione non può avvenire a caso, ma solo seguendo lo sviluppo complessivo del bambino in maniera graduale e continua. Il principio di vicinanza e della lontananza suggerisce di partire da ciò che è più vicino all’esperienza del bambino per allargare gradualmente il suo orizzonte. Per applicare questi principi metodologici bisogna conoscere la psicologia del bambino, o come dice Pestalozzi, le forme elementari nelle quali egli si esprime. La forza del cuore si esprime originariamente nella fiducia e nell’amore, che il bambino manifesta verso la madre. La madre, facendo leva su questo sentimento naturale, cercherà di allargare l’orizzonte affettivo del fanciullo e di favorire il risveglio della coscienza morale e religiosa. Se l’educazione morale e religiosa sarà ben impostata nell’infanzia, il fanciullo avrà già l’inclinazione alla fiducia e all’amore cristiano verso gli altri, che gli farà superare l’impatto con l’egoismo che domina la società. L’opera della madre dovrà comunque essere proseguita dal maestro, usando amore e fermezza nei suoi riguardi. -L’educazione intellettuale mediante il metodo intuitivo Nel bambino la forza dell’intelletto si manifesta nella forma di percezione sensibile o intuizione immediata: il compito dell’educazione è di fare in modo che passi dalle intuizioni confuse aiconcetti chiari, all’individuazione degli elementi che implicitamente sono compresi nell’intuizione. Essi sono il numero, la forma, il nome; attraverso l’aritmetica si possono attingere i rapporti numerici; con la geometria e il disegno si raggiunge la forma del reale e attraverso il linguaggiosi esprimono gli aspetti qualitativi e la denominazione precisa degli oggetti. Quindi, l’insegnamento linguistico è il compimento naturale dello studio degli elementi e l’educazione intellettuale è fondamentale per rendere evidenti quelle che erano le intuizioni. Il metodo intuitivo di Pestalozzi differisce da quello di qualunque altro pedagogista. Vi è, infatti, un primo grado d’intuizione, che è la presenza della cosa nella mente, ma l’intuizione vera e propria sarebbe il punto d’arrivo di un processo di materializzazione della realtà, per coglierne elementi astratti. L’insegnamento elementare consiste nel rendere i fanciulli buoni osservatori e capaci di esprimere con un linguaggio appropriato ciò che hanno osservato; questa è la premessa d’ogni più approfondita scienza che in futuro essi possano apprendere. Per quanto riguarda l’insegnamento linguistico Pestalozzi si contraddice; usa il metodo fonico- sillabico (pronuncia del suono delle lettere appoggiate ad una vocale es. ba, be, aggiungendo via via altri suoni es. bac, bec), evitando il metodo alfabetico (far distinguere e chiamare per nome le lettere partendo da un testo qualsiasi). -L’educazione al lavoro Pestalozzi, avendo sempre presenti le esigenze di un’educazione popolare, si è preoccupato di fornire ai ragazzi quelle prime abilità di movimento e d’utilizzazione delle proprie membra che erano richieste dal lavoro agricolo come da quello industriale, esercitati in condizioni durissime in quei tempi. Egli rimproverava all’educazione scolastica di preoccuparsi solo dell’istruzione e non 10 dell’educazione fisica, così necessaria nella crescita. La preparazione al lavoro doveva dunque basarsi sul corretto esercizio di certe attitudini di forza, di destrezza, di resistenza (attraverso giochi di gruppo, passeggiate, nuoto, slitta). L’educazione della forza dell’arte doveva essere attuata con le elementari attività del battere, spingere, portare, trascinare, spingere… che sono alla base d’ogni lavoro. È bene che i ragazzi siano avviati al lavoro, ma non devono essere sottoposti a fatiche eccessive, perché il lavoro deve elevare spiritualmente e non abbrutire. Secondo Pestalozzi, infatti, il lavoro materiale dovrebbe potersi conciliare con le esigenze dello spirito, perché si possa giungere ad un miglioramento della società. Pestalozzi non era socialista, ma credeva nella possibilità di attenuare lo sfruttamento ad oltranza del lavoratore (specie del minore) e di trasformarlo in un uomo consapevole. -Pro e contro Pestalozzi Nonostante i difetti, il metodo di Pestalozzi contribuì alla creazione di una scuola elementare moderna, non bisogna poi dimenticare la campagna che l’educatore condusse per l’istituzione della scuola popolare gratuita, che portò prima i Cantoni Svizzeri e la Prussia, poi altri Paesi europei alla progressiva eliminazione dell’analfabetismo. La maggior parte dei pro e dei contro, li possiamo raccogliere dalla relazione che venne scritta dal francescano padre Gregorio Girard, a seguito dell’ispezione effettuata all’istituto di Yverdon. Questa metteva in rilievo i pregi della pedagogia pestalozziana considerando soprattutto l’intenzione di andare incontro alla spontaneità del fanciullo e di seguire lo sviluppo integrale della natura; la preoccupazione di formare l’uomo nella sua integrità, piuttosto che appesantirne lo spirito con un cumulo di notizie. Ma nell’attuazione pratica dei principi il Girard rinveniva dei fondamentali difetti: gli sembrava che l’insegnamento fosse eccessivamente basato sull’intuizione sensibile, con il pericolo di indurre il bambino a non credere se non a ciò che tocca con mano. Riteneva anche che si desse troppa importanza alla matematica e alla dimostrazione di tipo matematico applicata ovunque e ciò poteva condurre ad un inaridimento dell’immaginazione e del sentimento (in contrasto con le stesse promesse di Pestalozzi). La relazione criticava anche lo scarso sviluppo dato all’educazione religiosa cristiana, l’eccessiva prolissità dell’insegnamento (conseguenza della regola che le nazioni devono essere impartite poco alla volta e lentamente) e l’eccessiva durata del lavoro scolasticogiornaliero. Comunque il rilievo più critico più valido era quello relativo all’eccesso di matematicismo. Il Girard, a rimedio, proponeva un’educazione che avesse come base il linguaggio, una scuola che prendesse come esempio il metodo istintivo seguito da ogni madre, che attraverso la parola comunica al bambino tutta la sua esperienza e ne sviluppa le attività spirituali in un modo attivo e concreto. 11 www.heinrich-pestalozzi.info Chiunque voglia addentrarsi nel „mito di Pestalozzi“, solitamente incontra l’immagine di un generoso donatore di elemosina, di un sentimentale amico dei bambini, di uno svagato riformatore scolastico e soprattutto di un maldestro sognatore, che economicamente non è riuscito a cavare un ragno da un buco. Solo persone particolarmente interessate o specialisti dell’ambito pedagogico, storico e – tutt’al più – anche di quello filosofico, economico, letterario o sociologico conoscono le opere postume letterarie estremamente vaste di Pestalozzi. Nell’opera omnia, la Kritische Gesamtausgabe (nonostante perdite significanti) queste opere comprendono ben 45 volumi. Gli interessati conoscono quindi anche le varie visioni e i ragionamenti di Pestalozzi. Di seguito, le idee fondamentali di Pestalozzi saranno presentate nei loro tratti fondamentali e in modo riassuntivo. A questo riguardo, Arthur Brühlmeier ha sviluppato cinque ambiti tematici: Antropologia Lo Stato Povertà Religione Educazione / Istruzione Questi ambiti tematici si distinguono dalle altre pagine del sito, poiché sono stilati senza immagini e link, per permettere ai visitatori una lettura coerente dei testi. Per ricercare il nesso tra le idee fondamentali di Pestalozzi e la sua biografia o le sue opere, i visitatori del nostro sito, „Pestalozzi goes Internet“, hanno diverse possibilità: tramite la funzione di ricerca del sito, tramite la tabella riguardo a tempo, vita e opere di Pestalozzi e soprattutto tramite i capitoli biografici o analitici di questo sito. Antropologia La dottrina dell’uomo secondo Pestalozzi Nel 1782, in una lettera al parroco Mieg, Pestalozzi scrive: „L’unico libro che studio da anni è l’uomo; su di lui e sull’esperienza con e riguardo a lui, fondo tutta la mia filosofia” (PSB, 154), e la sua famosa “Abendstunde eines Einsiedlers” (Vespro dell’eremita) inizia con l’essenziale domanda: „L’uomo, nella sua essenza, che cos’è?“ (PSW 1, 265). Una spiccata caratteristica di Pestalozzi è rappresentata dal fatto che dall’immagine dell’uomo che portava dentro di sé, evincesse coerentemente, da politico, la sua teoria della società e i derivanti principi politici, e, in veste di pedagogo, la sua teoria dell’educazione. Pur non essendo quest’immagine dell’uomo un qualcosa che egli stabiliva in modo definitivo come creazione fissa, il suo filosofare antropologico è caratterizzato da poche supposizioni fondamentali, dalle quali possono essere dedotte le sue posizioni sociali, politiche, pedagogiche, teologiche e psicologiche. Le sue riflessioni e convinzioni sono state trasposte dapprima soprattutto in “Abendstunde eines Einsiedlers” (1779), poi prevalentemente negli ultimi due volumi di “Lienhard und Gertrud” (1785, 1787), e, infine, con un ruolo centrale nella sua opera filosofica principale “Meine Nachforschungen über den Gang der Natur in der Entwicklung des Menschengeschlechts” (1797). Si è riagganciato direttamente alla teoria qui sviluppata anche in uno dei suoi ultimi scritti „An die Unschuld, den Ernst und den Edelmut meines Zeitalters und meines Vaterlandes“ (1815). Nell’ambito di questo breve compendio riguardo all’immagine dell’uomo secondo Pestalozzi, sarebbe troppo fuorviante addentrarsi nell’evoluzione biografico - storica del suo pensiero nelle diverse sfumature delle ponderazioni nelle varie opere o periodi di vita. Piuttosto saranno esposti i pensieri fondamentali in maniera sistematica e a modo di tesi. L’antropologia di Pestalozzi, come sviluppata in “Nachforschungen”, funge da ossatura principale: 12 Le contraddizioni provate nello stato naturale deteriorato e nello stato della società si risolvono solo tramite la propria moralizzazione. La moralità si avvera solo nella misura con la quale la natura superiore supera le pretese della natura sensuale. Nonostante la moralità alla fine si concretizzi spesso come azioni sociali, non può mai essere attribuita ad un collettivo, ma “è completamente individuale, non convive tra due”. Di conseguenza non è identica a ciò che è oggettivamente buono o desiderabile (qualsiasi cosa sia). Morale non è il risultato delle azioni razionali o a fin di bene (per esempio una legge giusta), ma solamente le azioni dell’individuo che decide. Siccome l’uomo non può evitare la natura animale in quanto essere fisico con impulsi e necessità (tranne che nella morte) e siccome in ogni caso fa parte di una società concreta e partecipa a sistemi collettivi (portandoli con sé) che servono soprattutto alla conservazione e al successo personale, non può, da individuo, avere la pretesa di vivere sempre e in ogni caso senza contraddizioni. Nessuno può essere puramente morale se vuole sopravvivere fisicamente. Le contraddizioni appartengono quindi all’essenza dell’essere umano. Sono spiegabili, dato che nei tre stati valgono leggi diverse: Come essere dello stato naturale l’uomo s’impone da solo, è correlato a se stesso, cerca il suo vantaggio e si sottomette anche all’impeto degli impulsi (“opera della natura”). Come essere sociale l’individuo è parte di un sistema funzionante (“opera della società”, “opera del genere”), dei vantaggi del quale vorrebbe godere, ma il quale permette questi vantaggi solo finché l’individuo non rinuncia alla disponibilità di essere parte del tutto (di funzionare), nonostante le esperienze frustranti che spesso ne derivano. Come essere morale (“opera di se stesso”), l’uomo rinuncia alle pretese egoiste, cerca il benessere degli altri e del tutto e si completa dispiegando tutte quelle forze e risorse che gli permettono questa dedizione alle persone e alla società che lo circondano. Stato naturale e stato sociale da una parte e stato morale dall’altra sono correlati: Così come la natura animale rappresenta la buccia necessaria per la formazione del nocciolo indistruttibile (la natura superiore), questi due stati, nei quali la natura animale domina (lo stato naturale e lo stato della società), sono il presupposto necessario per la moralizzazione dell’individuo. Dall’altra parte, l’uomo morale è attivo nella creazione concreta dello stato della società (come datore di leggi e nel modo in cui si attiene alle leggi), rendendo così la società concreta meno pesante quanti più individui riconoscono la propria moralizzazione come loro compito di vita. Lo stato sociale è di per sé labile e dipende da quante persone sono o “sottomesse dall’opera della Natura” (cioè agiscono egoisticamente) o – ciò che sarebbe moralità dell’individuo – riconoscono il vero obiettivo della socializzazione. I tre stati sono da intendere come tre diversi modi di vivere, ai quali siamo sempre allo stesso tempo collegati e obbligati o (nel caso dello stato morale) dovremmo esserlo. Ogni atto di vita umano può quindi essere analizzato in questo modo riguardo ai tre stati. (Una soluzione del conflitto nello stato naturale si basa quindi sul diritto del più forte, nello stato sociale sul diritto positivo vigente e nello stato morale sulla comprensione e cura delle necessità legittime del partner conflittuale.) Riguardo alla differenza tra stato sociale e morale (tralasciando lo stato naturale) tutte le azioni e conquiste della società si possono definire come civilizzazione, mentre la cultura è da definire in ogni caso come risultato di individui che agiscono moralmente. Tutte le istituzioni civilizzanti intendono l’individuo come portatore di determinati ruoli nell’aspetto collettivo e riguardano quindi sempre l’esistenza collettiva dell’essere umano. In opposizione, la vera cultura consiste nel prendere sul serio l’esistenza individuale dell’essere umano, che significa 15 la comprensione dell’unicità così come del concreto stato di vita (stato dell’individuo) della persona. Per risolvere determinati compiti statali e sociali (come la finanza, la polizia, il militare) è necessaria la comprensione dell’uomo a riguardo della sua esistenza collettiva. Le richieste di religione, educazione e cura dei poveri invece, secondo Pestalozzi, devono essere attaccate riguardo all’esistenza individuale della persona. Tutto ciò che fa parte della civilizzazione può essere gestito o accettando il vero scopo dell’unione sociale (quindi da un’opinione morale di chi decide) o anche da interessi puramente egoistici degli individui o dei gruppi. Nel caso di quest’ultimo, Pestalozzi parla di “deperimento della civiltà” (Pestalozzi usa il termine complessivamente 120 volte.) Gli esempi „guadagno“ e „proprietà e stato patrimoniale” mostrano in che modo Pestalozzi analizzi essenziali atti di vita ed istituzioni con l’aiuto della sua dottrina dei tre stati. Si noti che Pestalozzi, dicendo “io”, intende l’uomo per eccellenza. Come evidenzia il testo, teoricamente si possono definire quattro modi di esistenza riguardo alla possibilità di agire egoisticamente in maniera incurante (sottomettendosi quindi alla propria natura animale) o di riconoscere lo scopo della socializzazione (e non rinunciare completamente al proprio egoismo, trasferendolo comunque nei limiti dello scopo e diritto sociale): quello puramente naturale, libero da istituzioni sociali e in realtà solo immaginabile quello relativo all’egoismo naturale, completamente incurante dello scopo della socializzazione quello limitatamente egoista, che si cura della cura personale legittima riconoscendo lo scopo sociale quello realmente morale che ha eliminato il proprio egoismo e ha come scopo solamente la propria realizzazione o la „felicità” degli altri. Guadagno Come opera della natura non ne vedo, l’innocenza animale non guadagna. Come opera del mio genere, il guadagno prende una direzione diversa, se riconosco o non riconosco lo scopo e il diritto dell’unione sociale. Nel primo caso, la pretesa al suo diritto nasce, almeno per me, in una preoccupazione personale da me stesso posta in giusti limiti sociali, e mi conduce, all’interno di questi limiti, alla soddisfazione di me stesso nelle mie prossime condizioni. Nell’altro caso rivendico un diritto al guadagno basato interamente sulla libertà della mia accidia animale, e mi presento nella società civile senza forza sociale contro me stesso, senza una volontà sociale condotta in limitazioni sociali, sottomesso ai sentimenti animali della mia deteriorata natura (me stesso come opera della natura). (Osservazione di Pestalozzi: Nei capitoli futuri voglio definire questa mia condizione di evitare il peso della ripetizione solo con le parole “sottomesso all’opera della natura”.) Proprietà e stato patrimoniale Come opera della natura non ne conosco, l’innocenza animale non possiede niente. Sottomesso all’opera della natura, cerco di espandere il mio diritto nel possesso di proprietà. Più di quanto sia permesso dallo scopo dell’unione sociale. In questo mio stato non mi importa minimamente di aumentare le pressioni delle persone a me sottoposte a causa delle mie proprietà, senza curarmi dell’essenziale soddisfamento che spetta agli aspiranti di proprietà sociali. Annotazione: Con “proprietà” Pestalozzi intende proprietà terriera. Con “pressioni” sono intesi interessi e decime. Le “persone sottoposte alla proprietà” sono identiche con gli “aspiranti”, cioè coloro, il quale guadagno ne dipende: gli agricoltori obbligati a pagare interessi e decime.) In questo mio stato non è abbastanza che gli usufruttuari a me sottoposti lascino stare in pace l’ingiustizia del mio stato patrimoniale. Voglio anche che mi concedino nell’uso proprio la libertà animale dalla quale la proprietà nel mondo ha avuto quasi sempre le sue origini. (Annotazione: Pestalozzi non vede nell’acquisizione originaria di terreni un diritto sociale, ma si esprime a favore - dato che questo passo è stato fatto – nel senso del male 16 minore, del non-diritto (l’ingiustizia) originario dell’acquisizione data, dato che se fosse messo in questione il diritto di proprietà i legami sociali si strapperebbero.) Se io quindi, riconoscendo il diritto del mio genere, appesantisco la proprietà più grande con la necessità del più piccolo, appesantisco, sottomesso all’opera della natura, la proprietà più piccola con le voglie dei più grandi. Se io invece, riconoscendo il diritto del mio genere, cerco di dare agli uomini che non hanno parte nel mondo, un risarcimento soddisfacente dei loro dirittti naturali, così nego loro, sottomesso all’opera della natura, il loro diritto sociale. Riconoscendo l’opera del mio genere e il suo diritto, proprietà e stato patrimoniale sono la colonna vertebrale dello stato sociale e delle forze che sviluppano e formano il nostro genere. Sottomesso all’opera della natura, è dal vaso di Pandora che è scaturito tutto il male della terra. Come opera di me stesso riconosco lo stato patrimoniale di ognuno, nella mia mano però non è uno stato patrimoniale, ma un mezzo, anche a rischio del mio diritto e utilizzo, per nobilitarmi e per rendere felice il mio genere. Essenza e funzione dello Stato secondo Pestalozzi Legittimazione dello Stato Sin dai primi anni di gioventù, Pestalozzi intendeva lavorare “per la patria”, cioè in ambito pubblico. Per tutta la vita è stato dunque impegnato a comprendere l’essenza e il funzionamento dello Stato ideale. I suoi ragionamenti sulla filosofia politica sono menzionati in numerose opere, da “VON DER FREIHEIT MEINER VATERSTADT” (1779), passando per „NACHFORSCHUNGEN (1797) e „UNSCHULD“ (1815) fino ad arrivare a „LANGENTHALER REDE“ (1826). Pestalozzi vede nello Stato un’istituzione che si lascia ricondurre logicamente alla natura dell’uomo. In „NACHFORSCHUNGEN“ egli descrive l’uomo come una creatura della contraddizione. Ciò si basa sul fatto che l’esistenza umana si sviluppa su tre diversi modi di essere: naturale, sociale e – se l’uomo lo desidera - morale. Per riconoscere l’importanza dello Stato, è importante soprattutto chiarire la relazione tra stato naturale e stato sociale: Il problema di base dell’uomo „naturale“ (e non ancora „morale“) è il suo egoismo. Questo ha assolutamente due facce: Da un lato è utile per la conservazione e l’aumento del proprio benessere, dall’altro lato invece favorisce il conflitto tra gli esseri umani. Tuttavia l’egoismo porta l’uomo anche verso la socializzazione, con tutti i fastidi e le contraddizioni che questa comporta. Partecipando alla vita sociale, l’uomo infatti si aspetta una più facile soddisfazione delle proprie necessità. La soddisfazione collettiva delle necessità oggigiorno esige la proprietà. Questa, dal canto suo, può essere preservata solo se tutti gli individui concordano nel non violare le proprietà altrui, se anche questi ultimi si attengono alle regole. Un accordo analogo riguarda la sicurezza di vita. Questi accordi motivano sia diritti che doveri : il diritto di poter usufruire del proprio possesso e di godere della propria vita in sicurezza, ed il dovere di evitare di appropriarsi di beni altrui e di attaccare la vita del prossimo. Secondo Pestalozzi, per l’uomo sociale gli impegni sono sostanzialmente insostenibili, poiché non concordano col suo egoismo, il quale non si estingue a causa della sola socializzazione. Per quanto invece riguarda i diritti, l’uomo, considerato l’egoismo, ne fa uso tanto volentieri quanto trova fastidioso l’adempimento dei doveri. Sono quindi prevedibili conflitti di ogni tipo. Questi però, come prevedono i suddetti accordi, non devono essere eseguiti con la violenza (come nello stato naturale puro), ma nell’ambito della legge, alla quale sono sottomessi tutti i partecipanti di un conflitto. Da ciò nasce la legittimazione dello Stato. I suoi compiti sono da un lato puramente formali, dall’altro dal contenuto definito. Sotto il punto di vista della funzione formale deve rilasciare leggi e sorvegliare sul loro mantenimento, in modo che gli individui non ricorrano alla violenza personale in casi di conflitto e non scivolino nella lotta tutti contro tutti (“stato naturale deperito”). I contenuti essenziali della legge riguardano la sicurezza di vita dell’uomo e la protezione della proprietà. 17 Stato può – e deve – solo creare la cornice sociale per rendere possibile educazione e istruzione. Portatori del potere Pestalozzi è convinto che lo Stato possa adempiere ai suoi compiti – assicurazione della sicurezza, protezione della proprietà, assicurazione di spazio libero per l’autonomia del cittadino, cura per una giusta soddisfazione delle necessità ed educazione, legislazione adeguata – basandosi esclusivamente sul potere legato alla legge. Ci si chiede dunque: chi deve essere il portatore del potere? Fino a poco prima della rivoluzione francese, Pestalozzi era ancora convinto che il potere governativo concreto del governo non dovesse essere messo in mano al popolo ma in quelle di uomini formidabili e acculturati. (I diritti di decisione per le donne all’epoca non venivano ancora discussi, almeno non nel raggio d’azione di Pestalozzi). Il principio dell’aristocrazia fu trasposto alla lettera: Dovevano veramente essere i migliori elementi del popolo a essere in alto. La democrazia diretta, che lasciava decidere in molte questioni singole la maggioranza, gli era sospetta, poiché vedeva che il popolo non era colto. Egli era convinto che l’essere educato e istruito fosse un requisito irrinunciabile per poter parlare ed esercitare il potere governativo nello Stato. Pestalozzi era democratico in quanto affermava che il popolo dovesse avere il diritto di scegliere il proprio governo. Ma se qualcuno era destinato a governare, allora questo doveva poter governare con tutto il potere, pur controllato e ancorato nel diritto, ma comunque indiscutibile, per il benessere di tutto il popolo. Pestalozzi evidenzia il problema in “LIENHARD UND GERTRUD” con l’esempio del Signorotto Arner, che traspone deciso le sue idee riformiste nella realtà. L’ostinata persistenza di Pestalozzi nel volere una forma di Stato aristocratica non nasce assolutamente dall’interesse di assicurare agli ereditieri aristocratici i loro privilegi personali. Più che altro, è in stretto collegamento con la visione che il bene venga “dall’alto”: da Dio alle persone, dal padre al figlio, dal principe al suddito. La fiducia di Pestalozzi nella democrazia cresceva quanto più vedeva la possibilità che tramite una giusta educazione arrivasse il “bene da dentro”, dall’interno di ogni singolo uomo erudito. Pestalozzi sapeva da sempre che anche il male poteva provenire “dall’alto”. Scrisse quindi nel 1785 che “proprio la vita senza obblighi delle persone prepotenti e del ceto signorile è la causa principale della devastazione che regna nei ceti poveri”. (PSW 3, 97) A dire il vero, aveva scritto la seconda versione di “LIENHARD UND GERTRUD” (1790/92) con la chiara intenzione di risvegliare i principi e ricordar loro i loro obblighi. Rimase però delusa la speranza di Pestalozzi che i nobili potessero catturare le forze dal rinnovamento interiore evitando così la rivoluzione. Ripose quindi le proprie speranze dapprima nella Francia rivoluzionaria, la cui riunione nel 1792 nominò lui come unico cittadino onorario francese della Svizzera. Ma, sconvolto dai massacri di settembre del 1792, egli si allontanò di nuovo dalla Francia. Quando, nel 1798, affondò la Vecchia Confederazione, egli si allineò con i nuovi e supportò attivamente le idee riformiste del nuovo governo elvetico. Le esperienze con la rivoluzione francese fecero rivivere in Pestalozzi le sue riserve sulla democrazia. È già stato spiegato come egli vedesse giustificata la democrazia solo insieme a idee educative molto elementari. Vedendo adesso il clamore delle masse davanti a sé, pur con tutta la volontà possibile non poteva riconoscere l’efficienza della vera educazione. Scrisse quindi nel 1815: “Sono un repubblicano, ma non un repubblicano per grandi nazioni. Sono un repubblicano per comuni piccoli, comuni cittadini e rurali organizzati con animo nobile repubblicano.” (PSW 24A, 10) In piccole e sommarie unità, secondo lui è possibile che i cittadini possano comprendersi vicendevolmente in modo concreto, addossarsi le responsabilità e affidare queste alle persone giuste. Nel piccolo Stato, le persone possono giungere alla maturità politica necessaria per risolvere questo compito. Per Stati più grandi, invece, Pestalozzi vedeva il pericolo che l’individuo perdesse la sua responsabilità personale nella comunità e diventasse più facilmente manipolabile nelle mani dei burattinai. Per quanto 20 riguarda i grandi Stati, vedeva, pur non menzionandolo nelle sedi adeguate, il potere statale nelle mani dell’aristocratico colto, erudito e impegnato per il bene comune. Esistenza individuale ed esistenza collettiva La questione riguardo all’essenza dello Stato induce sempre alla questione del rapporto tra individuo e collettivo. Pestalozzi ha dedicato ampio spazio a questa problematica in "AN DIE UNSCHULD, DEN ERNST UND DEN EDELMUT MEINES ZEITALTERS UND MEINES VATERLANDES" (1815). Ricollegandosi ai tre stati, si occupa principalmente del rapporto tra lo stato sociale e quello morale, evidenziando che nello stato sociale venga pretesa “l’esistenza collettiva” dall’uomo, mentre nello stato morale “l’esistenza individuale”. Per „esistenza collettiva“, Pestalozzi intende diverse cose: per prima cosa, la partecipazione concreta a collettivi personali (il popolo, gli abitanti di un villaggio, una comunità, un ente pubblico), poi, l’aspetto collettivo dell’individuo nel senso dei ruoli (padre, moglie, contribuente, infermiera, votante) e per terzo, l’uomo nella concreta dinamica di una massa reale, dove corre il rischio di perdere la sua coscienza personale e di delegare la propria responsabilità alla triste volontà della massa sì attiva, ma senza coscienza. Decisiva è quindi la convinzione di Pestalozzi: In nessuno di questi casi l’essenza più interiore dell’individualità viene messa in luce. Questo succede solo quando “l’esistenza individuale” dell’uomo arriva ad avere una certa importanza. In quel caso non è legato al suo ruolo sociale, ma alla sua particolarità e ai suoi unici e inconfondibili rapporti animo-spirituali con i suoi simili, con il mondo, con Dio e con se stesso. Nella contrapposizione tra esistenza collettiva e individuale, vi è ovviamente un giudizio: la prima è il mezzo per il fine della seconda. Di conseguenza, anche lo Stato è qui per l’uomo e non viceversa. Questa posizione privilegiata dell’esistenza individuale nei confronti di quella collettiva non giustifica nessuno a sottrarsi ai propri doveri sociali e statali, poiché, secondo Pestalozzi, l’uomo non può né avere pretese di pura moralità né – di conseguenza – di esclusiva realizzazione della propria esistenza individuale. L’esistenza collettiva è una parte del suo essere che non può eliminare. La singola persona deve quindi anche accettare che venga considerato un essere collettivo da Stato e società. Inoltre, la persona impegnata per la moralità è senz’altro in grado di elevare i doveri collettivi, caso per caso, in se stesso al livello di moralità nel quale riconosce la loro importanza e necessità per il bene della comunità e produce lo sforzo sociale che gli viene imposto, rinunciando ai vantaggi personali per motivi sociali. La distinzione tra esistenza collettiva e individuale dell’uomo pone la politica di fronte ad una questione: quali settori dello Stato devono essere affrontati sotto il punto di vista dell’esistenza collettiva e quali sotto il punto di vista di quella individuale? Secondo Pestalozzi, lo Stato non può essere in grado di garantire da un lato uguaglianza giuridica e dall’altro occuparsi di ogni persona come individualità unica. Non gli rimane quindi altro da fare che occuparsi dell’uomo nei settori dell’ordine pubblico, della giustizia, delle finanze e del militare nell’aspetto collettivo. Dall’altro lato però, Pestalozzi ritiene che ci siano settori da intendere e da trattare in prima linea come una faccenda dell’esistenza individuale dell’uomo. Esplicitamente menziona la religione, l’educazione e la formazione così come l’assistenza dei poveri. Sono quei settori dove non si dibatte sul perfezionamento delle cose e dei sistemi, ma si discute della soddisfazione e dello sviluppo delle persone stesse. Qui lo Stato non può essere attivo, ma solo rendere possibile il desiderabile: tramite una legislazione che favorisca l’iniziativa personale, la responsabilità personale e la moralità degli individui. Pestalozzi e la povertà Nel corso della propria vita Pestalozzi si è occupato di molti problemi: di economia in generale e di agricoltura e industria cotoniera più in particolare, di politica, antropologia, istruzione ed educazione, filosofia della scienza, giustizia, esecuzione della pena, buoncostume, religione e 21 molto altro. Molte cose l’hanno occupato solo temporaneamente, ma un argomento non lo lasciò in pace per tutta la vita: la povertà. Già da giovane spiegava con decisione che “aveva stabilito che la ricerca dei modi per facilitare con sicurezza l’educazione del povero tramite semplici istituti dovesse essere l’unico obiettivo della (sua) vita.” (PSW 1, 185). A 81 anni, al capezzale e nella più profonda tristezza, considerando distrutta l’opera di una vita, deplorò il destino dei poveri: “E i miei poveri, abbattuti, disprezzati e ripudiati poveri! Poveri, vi abbandoneranno e vi discrimineranno come me!” (Walter Guyer ,Pestalozzi – eine Selbstschau, Zurigo 1926, P.173) Pestalozzi incontrò la povertà già nell’infanzia. La sua stirpe apparteneva alle privilegiate della città di Zurigo, ma suo padre, che economicamente non cavava un ragno da un buco, morì a 33 anni, quando il giovane Heinrich aveva appena cinque anni. Così la famiglia sprofondò nella miseria e poté stare a galla solo grazie allo spirito di sacrificio della domestica. Da suo nonno, che era prete a Höngg vicino a Zurigo, Pestalozzi imparò a conoscere la pena e la miseria ben più grande della povera popolazione rurale. Vide che i bambini venivano rovinati sia a causa del lavoro a domicilio nell’industria cotoniera sia a causa delle scuole indescrivibilmente scarse e perdevano la loro naturalezza e forza ereditata, ed egli decise già da ragazzo di fare di tutto in futuro per aiutare i poveri. Nelle sue lettere alla futura moglie, Pestalozzi escogitava anche dei piani per aiutare i poveri in veste di agricoltore. E quando naufragò egli stesso come agricoltore, trasformò la sua fattoria in una casa per poveri e accolse un gran numero di bambini nella propria casa. Anche questa impresa fallì, e lo stesso Pestalozzi cadde in estrema miseria. Lo scrivere gli garantì qualche entrata qua e là, ma non bastava per la sopravvivenza. Nel 1802 scrisse a Heinrich Zschokke: “Non lo sapevi? Per trenta anni la mia vita è stata un’irrefrenabile confusione economica e una lotta contro un’infuriante e difficile situazione di estrema povertà! – Non sapevi che verso i trenta anni mi mancava la necessità della vita; non sapevi che non posso visitare né la società né la chiesa, perché non sono vestito e non sono in grado di vestirmi? Ah, Zschokke! Non lo sai che per strada sono lo zimbello del popolo, perché vado in giro come un mendicante? Non lo sai che mille volte non sono stato in grado di pranzare e all’ora di pranzo, quando anche tutti i poveri sedevano ai loro tavoli, consumavo il mio pezzo di pane con rabbia sulle strade!” (PSB 4, 109) Come lo stesso Pestalozzi testimonia, questa propria esperienza della mi-seria acuì il suo occhio per la pena del prossimo: “Adesso, essendo io stesso misero, imparai a conoscere la miseria del popolo e le sue origini sempre più profondamente, come non le conosce nessun uomo felice. Soffrii quello che soffrì il popolo, e il popolo mi si mostrò così com’era e come non si mostrava a nessuno. Per tanti anni mi sedetti tra di loro come il gufo tra gli uccelli. Ma in mezzo alle risate di scherno delle persone che mi buttavano via, in mezzo alle loro forti grida: Poveretto! Sei capace ad aiutare te stesso meno che il peggiore dei braccianti, e credi di poter aiutare il popolo? – in mezzo a queste grida piene di scherno che leggevo su tutte le labbra, l’imponente corrente del mio cuore non cessava di voler raggiungere solo e soltanto l’obiettivo di riempire le fonti della miseria, nelle quali vedevo immerso il popolo intorno a me.” (PSW 13, 184) Heinrich Zschokke, il destinatario della suddetta lettera del 1802, ebbe l’intenzione di assisterlo, ma Pestalozzi non volle accettare elemosina. Lo pregò invece di adoperarsi per la vendita dei suoi scritti, affinché potesse riaprire la sua casa per i poveri. Questa fu chiusa tre anni prima a Stans, dove finalmente era potuto tornare a essere attivo, su incarico delle autorità – con importante influenza di Zschokke stesso – e Pestalozzi non era riuscito a dimenticarlo. Il suo percorso di vita lo portò sì a occuparsi in seguito del miglioramento delle scuole, ma nel fondo del suo pensiero e delle sue azioni rimase sempre viva la preoccupazione per i poveri. Quando il suo lavoro educativo a Burgdorf gli aveva procurato riconoscimento mondiale, scrisse in una lettera: “L’essenziale da fare è una scuola per poveri nello spirito del metodo (espressione con la quale ai tempi definiva la scienza dell’educazione; 22 Pestalozzi quindi collegò a Neuhof la sua casa per poveri da un lato con una piccola fabbrica, dove i bambini impararono a filare e tessere, e dall’altra parte con la sua fattoria ereditata, sulla quale potero-no imparare la “piccola agricoltura”, cioè la coltivazione intensa di un piccolo terreno. Anche in tutti i successivi piani di educazione dei poveri l’attività pratica e produttiva ebbe un ruolo centrale. In pratica questo significava: lavoro minorile. Ai tempi di Pestalozzi era ovvio, e non gli sarebbe venuto in mente di escludere bambini idonei al lavoro dalla collaborazione nell’impresa domestica o anche nell’industria di casa, solo perché non avevano ancora raggiunto una determinata età – per esempio 15 anni-. Secondo la propria esperienza, non era il lavoro a rovinare i bambini, ma l’ozio. Importante era, per quali motivi si facevano lavorare i bambini: per educarli al lavoro e all’essere uomini o per arricchirsi con forze di lavoro convenienti. Pestalozzi condannò in modo veemente il pensiero di un abuso così deprecabile della giovane persona: “No, il figlio del povero, perduto e infelice non è qui solo per far girare una ruota, il quale moto innalza un orgoglioso cittadino – No! No! Non è per questo che è qui! Abuso dell’umanità – come s’indigna il mio cuore! – Che nel mio ultimo respiro in ogni persona un mio fratello vedo e nessuna esperienza di malvagità e indegnità l’estasi dell’amore m’indebolisca!” (PSW 1, 159) L’educazione al lavoro e tramite il lavoro stava quindi in primo piano. Sic-come però Pestalozzi non vedeva la povertà solamente come una man-canza economica e dato che non voleva condurre i bambini solo a un funzionamento senza intoppi nella società, non poteva e non voleva rimanere fermo. L’educazione al lavoro doveva essere piuttosto situata in una formazione umana complessiva. Non solo la mano, anche la testa e il cuore dovevano essere educati. Pestalozzi quindi insegnò ai bambini mendicanti come usare i propri sensi, insegnò loro a pensare, a leggere, a scrivere, a calcolare e li aiutò a conoscere e comprendere il mondo. Nei primi anni Pestalozzi tentò di collegare il lavoro produttivo con l’insegnamento scolastico. I bambini dovevano diventare così bravi a filare e tessere da poter svolgere quest’attività senza doversi concentrare particolarmente e quindi potendo, contemporaneamente: ascoltare il professore, risolvere compiti di matematica ed esercitarsi a parlare. Più tardi, Pestalozzi rinunciò a questo pensiero e divise il lavoro dall’apprendimento scolastico. Ma la cosa più importante e centrale era l’educazione del cuore, l’educazione etico - religiosa. Pestalozzi era convinto del fatto che questa non potesse essere raggiunta tramite un insegnamento alla lettera. In “Lienhard und Gertrud” scrisse: “È inutile che tu dica ai poveri: È un dio, se tu per lui non sei un uomo; e al povero e all’orfano: Hai un padre in cielo. Solo se riesci a fare in modo che il tuo povero possa vivere davanti a te come un uomo, solo se educhi l’orfano come se avesse un padre, solo così gli mostri un dio e un padre nei cieli.” (PSW 4, 426) Pestalozzi non si stancava mai di sottolineare: Solo con il cuore può essere condotto il cuore di un’altra persona, e l’amore del cuore si manifesta nell’azione premurosa. Per il successo dell’educazione etica era quindi determinante che i bambini potessero intendere il comportamento dello stesso educatore dei poveri come un comportamento dell’amore. I bambini dovevano vedere situati i loro sforzi e le restrizioni pretese in una relazione d’amore che li collegava con gli educatori. È dunque chiaro che l’educazione dei poveri non rappresenti un particolare settore dell’educazione, ma sia identica all’educazione umana generale. Pestalozzi cercò di trovare prima la giusta educazione dei poveri, ma stimando l’uomo nel povero e volendo istruirlo, trovò quel tipo educazione che è generalmente adeguato alla persona. Scrisse così nel 1806 riguardo ai tentativi di educazione: “I loro primi risultati sbocciarono per misericordia per il povero nel paese, per il quale cercavo una mano tesa e aiuto, ma non sono rimasti fermi in questo ristretto cerchio delle particolari necessità di questa classe. I miei sforzi di ottenere i mezzi per offrire una mano ai poveri, di metterli in risalto tramite l’essenza della natura umana, mi portarono ben presto a risultati che mi confermavano irresistibilmente che ciò che da sempre era stato visto come veramente educativo per il povero e misero, lo era soltanto 25 perché per l’essenza della natura umana e senza riguardo sul suo stato e le sue condizioni si rivela generalmente come educativo. Vidi ben presto che povertà e ricchezza non potevano né dovevano influire sulla formazione dell’uomo in maniera essenziale, ma che, al contrario, dovesse avere in mente la natura umana, eternamente uguale e immodificabile, in ogni caso necessaria, indipendente e separata da tutta la casualità e l’aspetto esteriore. Viveva la più interiore convinzione in me, che l’uomo che è educato fortemente a quest’ultimo riguardo, potesse dirigere e condurre il suo stato esteriore, per quale questo sia, sempre in accordo con la forza interna da egli sviluppata; non solo, ma anche che potesse usare e utilizzare quest’aspetto esteriore per il rafforzamento e l’utilizzo della forza interiore e si elevi anche quando i confini della sua forza, del suo effetto sull’aspetto esteriore della sua situazione pone limiti, si eleva oltre questa apparenza e vive in povertà e sofferenza, soddisfatto come lo può essere nella fortuna e nella ricchezza.” (PSW 19,29) La religione secondo Pestalozzi Nella sua casa paterna, Pestalozzi ricevette una severa educazione religiosa e qualche impulso religioso anche da suo nonno, che era prete a Höngg. Anche l’educazione pubblica nelle scuole cittadine di Zurigo all’epoca era chiaramente di stampo religioso. Non sorprende quindi che il giovane Pestalozzi giocava col pensiero di diventare prete, ancor di più in quanto, come cittadino di Zurigo, sostanzialmente aveva le porte aperte a questa carica. Pur rinunciando a questa intenzione (forse perché una volta, dovendo guidare il “Padre Nostro”, dovette ridere in continuazione), rimase comunque per tutta la vita una persona religiosa e sempre convinta che l’uomo dovesse giustificare la propria vita dinanzi a Dio. Anche Anna Schulthess, consorte di Pestalozzi, proveniva da una famiglia religiosa e fu educata alla profonda devozione. Per entrambi sarebbe stato impensabile sposare qualcuno che non avrebbe potuto dividere le stesse convinzioni e gli stessi principi religiosi. Inoltre, per tutta la vita, Pestalozzi ha riflettuto sull’essenza della religione e il significato della vita religiosa, includendo questi pensieri nelle sue considerazioni filosofiche. Pur costatando un certo raffreddamento dei suoi sentimenti religiosi negli anni della sua grande crisi esistenziale (all’incirca tra il 1785 e il 1798), questi sentimenti furono risvegliati quando, nel 1799, Pestalozzi si incaricò di dirigere l’istituto per orfani di Stans, e si approfondirono considerevolmente nei suoi ultimi tre decenni di vita, raggiungendo nell’anzianità una profondità quasi mistica nella venerazione per Gesù. Le prossime pagine non si addentrano nella propria prassi religiosa di Pestalozzi, ma riguardano soprattutto le sue convinzioni teologiche. Queste sono naturalmente influenzate dalla sua educazione religiosa, sono quindi di forte stampo pietista. È noto che i pietisti rifiutavano i dibattiti razionalistici riguardo ai testi biblici assumendo inoltre un atteggiamento distanziato per quanto concerne la cultura e le belle arti. Essi ritenevano la religione una questione di cuore e non di testa, aspiravano alla semplice devozione, a una vita senza lussuria, condotta dallo spirito della Bibbia e pronta a mettersi a disposizione del prossimo. L’appartenenza a una chiesa che comprendesse tutti i cristiani non era importante, essenziale era per loro la convivenza, segnata dall’amore, in comunità ben visibili e personali, nelle quali “il risorgimento dalla fede” divenisse per loro un’esperienza sensibile. Oltre al pietismo fu soprattutto Rousseau a influenzare Pestalozzi. Rousseau non era ateista come molti combattenti dell’illuminismo europeo, ma non appoggiava la sua fede alle rivelazioni della Bibbia e condannava l’autorità della chiesa. Piuttosto, le sue convinzioni religiose erano radicate nella propria certezza del sentimento e nel proprio pensiero razionale. In questo modo Rousseau contrapponeva la religione naturale a quella della rivelazione. Pestalozzi ha affrontato i ragionamenti di Rousseau nel suo famoso romanzo educativo „Emil“. Nell’opera, il filosofo ginevrino lascia esporre le sue fondamentali opinioni filosofiche e teologiche tramite il vicario savoiardo. Riassumendo, i suoi più importanti dogmi sono i seguenti: esiste una volontà intelligente che muove l’universo e anima la natura, e questa 26 volontà la chiamo Dio. Così collego l’idea di intelligenza, potere, volontà e bontà. Di per sé non conosco questo essere, ma so che esiste e che la mia esistenza è subordinata alla sua. È per questo che umilmente adoro questo essere e lo servo dal profondo del mio cuore. Percepisco Dio in tutte le sue opere e lo sento dentro di me. Nella natura dell’uomo riconosco due principi chiaramente distinti: l’uno lo innalza verso la ricerca delle eterne verità, l’amore, la giustizia, la moralità e verso le regioni dello spirito, l’altro lo tira verso il basso e verso se stesso, nel dominio dei sensi e delle passioni. L’uomo è libero nelle sue azioni, e da essere libero è animato da una sostanza non materiale che sopravvive alla morte fisica. Il ricordo alla vita passata è, quindi, o la beatitudine dei buoni o la tortura dei cattivi. Il male non proviene da Dio, ma dall’uomo. Dio non vuole il male, ma non vieta neanche all’uomo di farlo, perché non vuole limitare la sua libertà. Dio creò l’uomo come essere libero, affinché per libera scelta non facesse il male ma il bene. La coscienza è un innato principio della giustizia e della virtù e infallibilmente dice all’uomo cosa è il bene. Per quanto riguarda la Bibbia: la superiorità della Sacra Scrittura parla al mio cuore, ma non la riconosco come rivelazione vincolante. Questo bagaglio ideologico si collegò in Pestalozzi col cristianesimo pietistico ereditato. Il pietismo e Rousseau sono i due pilastri sui quali posano le idee religiose di Pestalozzi. In entrambe le dottrine è data la precedenza al cuore rispetto alla ragione, entrambe le dottrine pongono l’accento sulla semplicità della fede, entrambe si distanziano da sofisticate costruzioni concettuali teologiche. Questi tre punti percorrono poi anche le convinzioni religiose di Pestalozzi per tutta la sua vita. Ovunque lo possiamo notare in una certa avversione per la teologia. Nel 1801 scrive (quando dice “io” non intende se stesso, bensì l’uomo in generale”): “Il Dio del mio cervello è una fantasticheria. Non conosco altro Dio all’infuori del Dio nel mio cuore e mi sento un uomo solo nella fede verso il Dio del mio cuore. Il Dio del mio cuore è un idolo ed io mi rovino nella sua adorazione. Il Dio del mio cuore è il mio Dio ed io mi nobilito nel suo amore.” (PSW 13, 353) Con Rousseau, Pestalozzi divideva anche la semplice certezza emotiva che dopo la morte, l’uomo continuasse a vivere in un mondo non materiale e che questa esistenza “post mortem” stesse in un rapporto causale con la condotta di vita nel mondo terreno. Questa convinzione è sì fondamentale per il pensiero cristiano ortodosso, Pestalozzi, però, non la motivava con riferimento alla Bibbia, bensì, appunto, come fece Rousseau, con la sua fiducia per il proprio pensiero e sentimento. E, come Rousseau, anche Pestalozzi si rifiutò di farsi altri pensieri su questa vita post mortem o di voler concretizzarla tramite chissà quali idee. La speranza della vita eterna doveva soprattutto dare all’uomo la forza di vivere la sua esistenza terrena secondo la sua più intima sorte. Contrariamente a certi teologi cristiani – e al contempo in concordanza con Rousseau – anche Pestalozzi si negò di voler dire chissà cos’altro sull’essenza di Dio al di fuori di: egli è buono, egli è giusto, egli è l’amore, egli è Padre. Sentì Dio come suo Padre e quindi se stesso come figlio di Dio, e la risposta adeguata fu l’amore per Dio, la fiducia, la gratitudine. Pestalozzi lascia aperta anche la questione teologica di base, cioè se Dio fosse da intendere come un essere che vivesse indipendentemente dall’uomo in un aldilà – nella trascendenza – o come un principio che operi all’interno dell’essenza umana. Nelle scritture di Pestalozzi entrambe le concezioni di Dio – quella trascendente e quella immanente – si accompagnano in armonia, e quindi parla disinvoltamente sia del “Padre in cielo”, sia dell’uomo come “Figlio di Dio”, sia di “Dio nell’intimo della mia natura”. In accordo sia con Rousseau sia con la concezione cristiana tradizionale, Pestalozzi era anche convinto che in fin dei conti fosse sempre la fede in Dio, sentita nel profondo del cuore, ad allontanare l’uomo dal cercare il proprio piacere di vivere ai danni del prossimo. Indifferentemente dal fatto che questa fede sia manifestata come fiducia nel “Padre nel cielo” o in “Dio nell’intimo del mio cuore”, rappresenta per l’uomo il motivo portante che evidenzia che egli voglia superare l’egoismo dentro di sé. È per questo che per Pestalozzi l’educazione morale era in stretta relazione con l’educazione religiosa, cosa che si evidenzia già nel fatto che spesso, comprendendo entrambe, parli dell’educazione morale-religiosa come di un’unità 27 sempre in base al punto di vista teologico di quelle persone che vogliono che questa domanda abbia una risposta definitiva. Educazione / Istruzione Il compito: Risveglio della vita morale Per Pestalozzi, l’obiettivo di una qualsiasi educazione è l’uomo morale. Costui cerca il bene, aspira all’amore, è radicato nella fede religiosa e mette possibilmente da parte il proprio egoismo. Si sente interiormente libero di volere il bene ed è quindi "opera di se stesso“. Anche Pestalozzi sa che non è facile vivere da uomo morale, dato che nella natura umana è presente una tensione. Da un lato vi sono gli impulsi e l’egoismo, poiché la "natura sensuale e animale“ induce l’uomo a cercare il piacere ed evitare qualsiasi avversione. Dall’altro lato c’è l’opposizione della coscienza e del migliore giudizio. Queste sono espressione della "natura superiore, eterna e divina“ e aiutano l’uomo a riconoscere che quando si lascia libertà alla natura nascono litigi, lotte, crudeltà, guerra e miseria e la vita rimane incompiuta. È una delle più basilari convinzioni di Pestalozzi che l’individuo possa essere degno del suo destino e svegliare in se stesso la vita morale solamente tramite l’educazione. Si pone quindi la questione: L’uomo che cresce come può arrivare ad essere in grado di poter fare tutto ciò? Sviluppo naturale di forze e talenti Pestalozzi è convinto che le condizioni per una forma di vita morale si trovino nella natura dell’uomo. A ogni bambino sono state trasmesse – anche se non ancora in modo sviluppato – forze e talenti. Questi si lasciano sviluppare, addirittura si spingono verso lo sviluppo sulla base di un impulso immanente, "la forza dell’aspirazione“. A questo riguardo, è d’importanza sostanziale se questi si pongono al servizio dell’egoismo o se servono a una forza di vita morale. Anche per arrivare a quest’ultima sono stati naturalmente trasmessi al bambino forze e talenti. Lo aiutano a vincere l’egoismo e a dedicarsi al Tu. Pestalozzi definisce questo impulso sociale naturale "benevolenza“. Da esso si formano col tempo – se l’educazione è buona – i sentimenti sostanziali morali dell’amore, della fiducia e della gratitudine, sui quali si basano tutte le altre forze morali-religiose. Oltre a queste "forze del cuore“ è importante espandere anche le forze intellettuali (spirituali) e artigianali. C’è però da notare che cuore, testa e mano si sviluppano a seconda delle proprie condizioni. Il compito dell’educatore è di imparare a conoscere queste condizioni e di sottomettersi a esse. Tutte le influenze educative devono assolutamente essere subordinate alla natura umana. La “naturalezza“ è quindi la più alta richiesta di Pestalozzi all’educazione. Solo essa è “educativa“ e qualsiasi influenza non naturale sull’uomo è “diseducativa“. Umore morale tramite soddisfazione delle necessità e vita pacifica Basilare per lo sviluppo sano del bambino secondo Pestalozzi è il rapporto tra madre e figlio. Nel bambino i tre sentimenti di base morali si sviluppano in modo ottimale se la madre soddisfa questi bisogni naturali in un’atmosfera di amorevole sicurezza. Di conseguenza, il salotto è per Pestalozzi la base di ogni educazione. Tutto il resto deve ampliare e completare l’educazione del salotto, così anche la scuola. Questa però non potrà mai sostituire un salotto. Una professoressa non è, infatti, la madre, e un professore non è il padre, ma l’educazione scolare può essere fruttuosa solamente se ogni questione educativa è sorretta da un rapporto umano caloroso e aperto. Secondo Pestalozzi l’uomo si forma "umanamente essenzialmente solo a faccia a faccia, solo da cuore a cuore.“ (PSW 24 A, 19) L’educazione per lui è sempre un avvenimento personale, ed è la più importante abilità del pedagogo di comprendere ogni bambino come individualità con sguardo amorevole e saper addentrarsi nei suoi impulsi dell’anima. Secondo Pestalozzi tutto ciò è possibile solo nell’umore della tranquillità. Questo stato della serenità interiore si crea nel bambino da un lato tramite il suddetto soddisfacimento delle sue necessità (e non la realizzazione dei suoi desideri), dall’altro lato tramite l’irradiazione di amorevole serenità degli educatori. Pestalozzi non si stanca di sottolineare l’importanza di 30 questa calma interiore per lo sviluppo morale del bambino. Scrive quindi nella sua ultima grande opera, ne "Il canto dei cigni“ (1826): “L’essenza dell’umanità si sviluppa solo nella tranquillità. Senza di essa, l’amore perde ogni forza della sua verità e della sua benedizione. L’irrequietezza è in sostanza figlia della sofferenza sensuale o di voglie sensuali; è figlia o della cattiva miseria o dell’ancor più cattivo egoismo. In tutti casi però è la madre della crudeltà, della miscredenza e di tutte le conseguenze che derivano dalla sua natura crudele e miscredente.” (PSW 28, 63) In questa atmosfera di tranquillità e dell’accettazione degli altri, secondo Pestalozzi nell’anima del bambino cresce un “umore morale“: Il bambino è pronto a dividere con gli altri, aiutare gli altri ed esser buono con loro, espandendo così le sue forze di cuore. Secondo Pestalozzi, queste non si attivano mai con pressione, costrizione o coercizione, ma solo con la vita morale-spirituale dell’educatore stesso. L’amore nel bambino può essere attivato solo tramite l’amore verso il bambino. La fiducia si crea solo se l’educatore si confida al bambino. Rispetto per la vita, fede religiosa, affetto verso tutte le creature – tutto ciò si può attivare nel bambino solo se questo nota tali atteggiamenti nell’adulto. È per questo che la vita interiore dell’educatore diventa destino per lo sviluppo morale del bambino. Ciò che vive nell’anima di bambini e professori, fa vibrare le medesime cose nell’anima dei bambini. Visione esteriore e interiore Pestalozzi ha definito la visione come "fondamento assoluto di tutto il sapere“ (PSW 13, 309). Con ciò intende prima di tutto la formazione dei concetti nel bambino. Questa visione "esteriore“ serve quindi allo sviluppo delle forze della testa (vedi sotto). Postula però anche la visione "interiore“. Si tratta del giudizio interiore nell’ambito di una visione esteriore o di una qualsiasi esperienza. Vivere nella visione interiore significa sentirsi elevato interiormente tramite la vita morale degli altri, comprendere il significato dei valori morali per la vita umana e vivere intuitivamente la responsabilità delle proprie azioni cosi come perfino il senso delle proprie azioni. Per Pestalozzi è chiaro che la moralità di una persona è conseguenza diretta dell’opportunità di essere giunti alla visione interiore della moralità già da bambino, che sia nei contatti interpersonali o nel “vivere” episodi fittizi ascoltando racconti. Il passaggio verso le proprie azioni: l’obbedienza Secondo Pestalozzi, nel bambino, insieme ai tre sentimenti di base morali dell’amore, della fiducia e della gratitudine, deve svilupparsi parallelamente l’obbedienza. In tutto ciò, l’obbedienza naturale infantile non ha nulla a che fare con la soppressione, ma è al contrario la base per la libertà. Secondo lui questa è riposta sul fatto di poter ascoltare la propria coscienza liberi dagli obblighi del proprio egoismo e della propria impulsività. Quest’obbedienza verso la propria coscienza un bambino la può però solo offrire se prima ha conosciuto e imparato l’obbedienza verso gli educatori. È per questo che Pestalozzi definisce l’obbedienza come “fondamentali morali”. Pestalozzi quindi si chiede come l’obbedienza si sviluppi naturalmente e constata che questa appare prima come obbedienza passiva, come dover-aspettare e saper-aspettare, e solo dopo nella sua forma attiva, cioè come abilità di adeguarsi alla volontà dell’educatore. L’obbedienza può però svilupparsi solamente se l’educatore si distingue per la fermezza, che è insita nell’amore educativo. In questo caso il bambino non si sente appesantito o arrabbiato dalla pretesa di obbedienza, ma la accetta generalmente come cosa ovvia. Un amore che crede di poter fare a meno dell’obbedienza, secondo Pestalozzi sarebbe debolezza, amore “animale”; se invece è accoppiato con fermezza e senso di responsabilità, allora diventa l’ormai famoso ”amore vedente”, termine coniato da Pestalozzi. (PSW 21, 228). Questo dà al bambino la solidità e pone i termini e i confini necessari. Nell’ambito dello sviluppo di forze morali, secondo Pestalozzi le azioni morali basate sull’obbedienza si trovano sul secondo gradino (primo gradino: umore morale). Il terzo è ultimo gradino sono i termini chiaramente morali, la riflessione e il discutere della moralità. Riassumendo: prima il bambino deve sentire la vita morale (cuore), poi deve fare del bene (mano) e infine segue la riflessione (testa). Con questa visione Pestalozzi si contrappone al 31 razionalismo, il quale crede di poter basare la vita morale unicamente sulla razionalità. Pestalozzi respinge questa visione per due motivi: prima di tutto perché con l’educazione morale del bambino non si può aspettare finché la razionalità si sia sviluppata, e, in secondo piano, perché vede motivate le azioni dell’uomo molto più nell’umore che nelle riflessioni razionali. Le altre forze: testa e mano Le forze del cuore sono centrali secondo Pestalozzi. Le forze intellettuali e artigianali (testa e mano) sono al servizio delle forze del cuore formate. Una volta che queste si sviluppano, si tratta di “educazione”, nonostante Pestalozzi parli di “istruzione” per definire lo sviluppo e il rafforzamento delle forze intellettuali e fisiche. L’istruzione e l’educazione però non dovrebbero essere separate ma collegate, in modo che l’istruzione diventi mezzo dell’educazione. Da ciò nasce il concetto delle lezioni educative. Pestalozzi però non voleva trasmetterlo solo alla scuola, ma si adoperò per la “scuola materna”: i genitori, soprattutto la madre, oltre all’educazione morale dei loro bambini dovevano dedicarsi anche a una scolarizzazione mirata di testa e mano nell’ambito della vita naturale del soggiorno e del lavoro quotidiano. Nella creazione di forze intellettuali (testa), la formazione di concetti come base per il giudicare maturato è centrale. In linea di massima il senso è che il bambino impari a conoscere i propri sensi (visione), sempre in collegamento con la lingua. Questo a sua volta deve succedere nell’ambito dell’affetto amorevole da parte degli educatori. Infatti, un bambino non impara la lingua che nel contatto sociale. Pestalozzi, riguardo allo sviluppo delle forze intellettuali, descrive un corso a quattro gradini dalla “visione oscura” al “concetto chiaro”, che non ci interesserà ulteriormente in questo caso. Di significato pratico è che i bambini imparino a conoscere gli oggetti nel loro ambiente e imparino a denominare il loro aspetto linguisticamente. Questa è poi la base per il giudizio autonomo. Pestalozzi si oppone fortemente alla tendenza di far giudicare tutto il possibile ai bambini. “Il momento dell’imparare non è il momento del giudicare.” (PSW 13, 206) Il giudizio dovrebbe, come lo fa un frutto maturo cadendo dalla propria buccia, emergere da solo tramite visioni maturate. Nella creazione di forze fisiche (mano, “arte“) si tratta di forza fisica, abilità, destrezza e applicazione pratica, mentre qui esiste un rapporto inseparabile con lo sviluppo delle forze intellettuali. Anche nell’ambito dell’arte Pestalozzi descrive un corso a quattro gradini, che vuole che il bambino faccia dapprima attenzione alla corretta esecuzione di un’abilità. Alla fine dello sviluppo troviamo “libertà e autonomia“, quindi la maestria creativa. Per la pratica pedagogica è importante che le tecniche nell’uso degli strumenti e nell’utilizzo dei materiali si siano sviluppate socialmente in processi lunghi spesso cento anni e che quindi siano anche da comunicare socialmente, mentre i contenuti devono essere rimessi in larga misura alla libertà degli alunni. Il mezzo di sviluppo essenziale: l’utilizzo delle forze "Lo sviluppo di forze e talenti“ è un qualcosa di assolutamente diverso dal "riempire con informazioni un contenitore vuoto“. Nell’idea educativa di Pestalozzi i contenuti istruttivi concreti sono meno importanti. Essenziale è ciò che accade nel bambino tramite il confronto con la materia. Non deve semplicemente apprenderla, ma cambiare tramite l’apprendimento della materia, divenire quindi più forte. Al centro non c’è la trasmissione della scienza, ma l’acquisto dell’abilità. Le sue forze di pensiero, di memoria, d’immaginazione e di giudizio devono fortificarsi e le sue mani, tutto il suo corpo divenire più forti, rapidi, abili, agili. Si pone quindi la domanda di come sia possibile raggiungere questi obiettivi. Per Pestalozzi è semplice: “Essenzialmente, ognuna di queste singole forze si sviluppa naturalmente tramite il semplice mezzo dell’utilizzo.” (PSW 28, 60) Solo con il pensare stesso si forma la forza del pensiero, solo con l’immaginazione si forma la fantasia. La stessa cosa vale per le forze artistiche, solo tramite l‘utilizzo della mano questa diventa abile, solo con lo sforzo il corpo diventa più forte. E, infine, la stessa cosa vale anche per le forze morali, l’amore si forma solo 32
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