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Stanley Kubrick - Carocci, Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

Libro nel programma di estetica del cinema e dei media, Prof. Carocci 2020/21 Dams Roma3

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Stanley Kubrick - Carocci e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! Stanley Kubrick - Enrico Carocci Kubrick esplicitamente disegna un mondo che è insieme totalmente creato e assolutamente ricreato. E creato perché è in ventato dal gesto compositivo dell’autore e dai suoi collaboratori, si manifesta come un mondo nuovo che si aggiunge agli altri mondi, e accresce la nostra esperienza e la nostra conoscenza. Ma insieme questo mondo è ricreato, cioè non nasce ex novo dalla fantasia visiva di Kubrick, bensì è realizzato sulla base di modelli preesistenti e quanto mai suggestivi. Questi modelli ovviamente non sono la realtà del Settecento, che noi certamente non possiamo più percepire direttamente, ma sono le immagini del mondo settecentesco che l’arte ci ha lasciato, dei sistemi di segni che rinviano certo al visibile settecentesco, ma che insieme ne sono doversi perché rielaborati pittoricamente con uno stile e una sapienza i mirabili, sicuramente specifici e particolareggiati. Kubrick, che ci dà il mondo di Barry Lyndon riscrivendo filmicamente le immagini dei grandi pittori del Settecento, crea un sistema disegni dinamici che riprende e rielabora i sistemi di segni dei pittori. Ci dà un’opera che riorganizza il mondo attraverso le ricreazioni di altri artisti, ci dà qualcosa che non è la realtà, ma un simulacro, non la storia, ma la sua rielaborazione visiva e mentale, somigliante e differente, proprio come un simulacro. D’altronde Kubrick non lavora co»n questa opzione formale solo sul Settecento. Aveva già ricreato Li futuro in Arancia meccanica mediante un’invenzione del mondo come estensione e proiezione di modelli visivo-spaziali della pop art, da Oldenburg a Lichtenstein, da Warhol a Ramos ad Allen Jones. E aveva affermato l’immagine filmica come segno di segno, cioè configurazione ipersemiotizzata che rinvia ad altre configurazioni. Sono esperienze fìlmiche radicali in cui il cinema non è solo inventato dal gusto del grande artista, ma inverato nella sua struttura profonda. 1. Kubrick, o dell’ossimoro L’etichetta di “indipendente” accompagnava Kubrick da tempo, Essere indipendente, per un cineasta americano dell’epoca, poteva implicare il rifiuto di ogni rapporto ogni rapporto con l’industria dominata dalle major, per individuare modalità alternative di finanziamento e distribuzione; oppure il dialogo con quel sistema, gestire la realizzazione di un prodotto che fosse in grado di soddisfarne le richieste. È però evidente che si trattava in parte di una strategia di auto-promozione. Soltanto con Paura e desiderio (1953) mantenne le distanze dall’industria; consente di individuare i «limiti dell’autonomia» che già all’epoca Kubrick si impose nel tentativo di raggiungere, L’insuccesso del film, che ebbe una distribuzione alternativa, deve aver convinto Kubrick a valutare diversamente, per il futuro, i generi a basso costo maggiormente distribuiti nei circuiti commerciali: di qui probabilmente i noir urbani de Il bacio dell’assassino (1955) e Rapina amano armata (?). Si dice che la lontananza di Kubrick dalle industrie fosse solo apparente, dalla lavorazione di Lolita (1962) si spostò in Inghilterra, che dalla figura di artista intransigente che Kubrick continuo a promuovere. Un fatto rimane però fermo: Kubrick ha lavorato almeno una volta, con quasi tutte le “major’’; . La novità del caso kubrickiano risiede piuttosto, secondo Sklar, nel modo particolare con cui il cineasta interpretò regole del sistema produttivo hollywoodiano. Inoltre, se inquadrato nel periodo dei cambiamenti all’interno del sterna hollywoodiano dopo la “sentenza Paramount” e l’avvento della televisione, tra gli anni cinquanta e i sessanta. Molte major iniziarono semplicemente a distribuire film, come la United Artists, c’erano insomma delle condizioni favorevoli, di natura innanzitutto produttiva, grazie alle quali Kubrick potè entrare in contatto con la grande industria pur rimanendo indipendente, e anzi riuscendo a estendere, nel giro di un decennio, i margini di autonomia consentiti. «How did they ever make a movie of Lolita?»: il manifesto del film che Kubrick adattò dal romanzo omonimo di Vladimir Nabokov rifletteva ironicamente sulle condizioni di possibilità di un’operazione che, nel 1962, appariva effettivamente difficile da realizzare. Bisogna ricordare, tuttavia, che anche la presentazione dei propri film come delle sfide al senso comune era parte della strategia comunicativa adottata dal regista. Già con il lancio dei lungometraggi precedenti Kubrick aveva costruito la propria immagine di cineasta intraprendente accettando, e sfruttando, il restrittivo senso del pudore degli ambienti cinematografici. Si pensi ai manifesti dei suoi primi lavori: pur promuovendo film molto diversi tra loro, suggerivano continuamente allo spettatore la possibilità di compiere viaggi all’interno di territori proibiti. Si trattava evidentemente di campagne che seguivano una modalità sensazionalistica all’epoca diffusa, e che finiva tra l’altro per accomunare film di exploitation, b-movies e film d’arte sotto l’etichetta della trasgressione. che la pubblicità suggeriva: i temi affrontati nel romanzo erano che la pubblicità suggeriva: i temi affrontati nel romanzo erano così scabrosi che, come risulta dalle ricerche sulla lavorazione, censure di ogni tipo arrivarono a incidere su ogni fase della lavorazione. Per la prima volta, ad ogni modo, si tentava di trasformare l’uscita di un film di Kubrick in un evento, una strategia che pure co□linciava a diffondersi con l’acuirsi della crisi delle sale, e che sarebbe stata ulteriormente sfruttata dal regista negli anni a venire. Kubrick cercava dunque l’attenzione del pubblico e della critica promettendo film fuori dai limiti e auto-promuovendosi come giovane regista intransigente. Ma la realizzazione dei suoi progetti era spesso il frutto di una quantità di riscritture e compromessi, la cui principale funzione era il mantenimento dell’interesse da parte dell’industria mainstream. La tormentata vicenda produttiva di Orizzonti di gloria è esemplare. Quando fu presentata la prima versione del progetto, nel ’56, la Harris- Kubrick aveva cominciato a collaborare con la mgm, grazie all’interesse del responsabile di produzione Dorè Schary- Schary rifiutò però Orizzonti di gloria, soprattutto per la cattiva luce che gettava sull’ordine militare francese. Il progetto fu portato avanti in maniera caparbia e autonoma. Siamo però lontani dall’immagine del cineasta che «sceglie di restare del tutto indipendente dalle case di produzione più grosse»,. Kubrick non fu insomma un critico cinematografico passato alla regia, né un cineasta laureato all’università; era stato però, fin da giovane, un intellettuale autodidatta dalla formazione eclettica. La formazione di Kubrick è dunque, in parte, quella di un intellettuale newyorkese ebreo interessato a grandi questioni culturali, non schierato politicamente ed eclettico nei gusti e nei riferimenti. Sarà chiaro, a questo punto, quanto stiamo cercando di evidenziare: non è possibile, affrontatici/? lavoro di Kubrick, separare nettamente la cura delle questioni estetiche dall’attenzione per quelle amministrative, il lavoro dell’artista da quello del tecnico o del produttore. Non si può dire che Kubrick sia rimasto al di fuori del sistema hollywoodiano, più di quanto non si possa dire che sia rimasto all’interno di esso: egli ha delineato un perimetro al cui interno i termini che troppo spesso vengono considerati opposti -l’arte e il mercato - si trovano affiancati e non in contraddizione. I principali nuclei tematici kubrickiani sono stati lucidamente d nella «crisi del modello della ragione occidentale»; un tema “alto” che deriva dall’apprendistato intellettuale del regista, e che tuttavia Kubrick affronta «non con strumenti concettuali e mediante verbalizzazioni», bensì «con mezzi esclusivamente cinematografici, visivi e auditivi». Il brand kubrickiano, in effetti, si nutre di una feconda dialettica tra superficie e profondità: tra la facilità rassicurante dell’esperienza sensoriale e la complessità inquietante della ricerca del significato. Le interpretazioni della filmografia kubrickiana hanno messo in gioco un complesso intreccio di riferimenti storici, culturali e filosofici. Nei film di Kubrick si riconosce, innanzitutto, una summa di questioni che riguardano innanzitutto la modernità: Sandro Bernardi, ad esempio, ha visto in Eyes Wide Shut un testamento, «la più profonda, amara critica del Novecento e della città, descritta come regno delle immagini in cui si evoca la Vienna di Scinitzler mentre si mostra una New York contemporanea abitata da i fantasmi di inizio secolo e del Settecento.Non possiamo dare conto in questa sede del dibattito»; diremo che, in linea generale, i film di Kubrick sono manifestazioni tardo-moderne di istanze e modelli estetico-culturali precedenti. Il cinema di Kubrick, in ogni caso, è immediato sul piano dell’esperienza e insieme complesso su quello del significato, senza che sia possibile tenere distinti i due aspetti. Si tratta di una modalità che definisce le proprie dinamiche in termini ben espressi dalla figura dell’ossimoro - dal greco oksy moron, composto di oksys (acuto) e morós (ottuso). Il cinema di Kubrick è ossimorico, acuto- ottuso, perché non esiste in esso astrazione che non sia radicata nell’esperienza sensibile, né partecipazione che non implichi anche certo distacco. Se Kubrick è un pensatore, lo è nella misura in elabora concetti partendo da dati sensoriali e affettivi; se è un autore, lo è nella misura in cui coniuga la difficoltà del cinema d’arte con la popolarità del prodotto culturale; se è un brand, lo è anche perché i suoi film costruiscono un mood particolare, in un regime emozionale che implica la partecipazione come la distanza. In molti parlano, a proposito dei capolavori kubrickiani, di un “cinema totale” che si avvale del contributo a pari titolo di letteratura, musica, pittura, gestualità e architettura. Kubrick è stato in effetti, come ha ricordato Paolo Cherchi Usai, un grande architetto del cinema. e Giuliana Bruno ha riconosciuto in lui «un maestro del movimento»51 che invita gli spettatori ad attraversare percorsi architettonici. Se insistiamo su questo aspetto è perché il riferimento architettura evidenzia la fondamentale qualità scenografica del coinvolgimento nel cinema di Kubrick. È anche grazie a questa qualità che gli spazi kubrickiani, insieme alle figure che li abitano, circolano oggi nella cultura popolare con l’evidenza delle icone e il fascino degli enigmi. Lo stile visivo e le narrazioni spazializzate di Kubrick sembrano, in effetti, particolarmente in linea con la sensibilità contemporanea per l’environmental storytelling. Giuliana Bruno ha sottolineato la qualità aprica dello spazio cinematografico: davanti ai film di “cineasti-architetti” infatti «sentiamo lo spazio tangibilmente poiché il contatto diventa un’interazione, un’interfaccia comunicativa». In questa prospettiva, come abbiamo visto, i film di Kubrick rassicurano, attraverso piacere “ottuso” dell’incontro sensoriale con una superficie audio- visiva. Si tratta però soltanto, ripetiamo, di un aspetto del coinvolgimento kubrickiano. Si è sempre spinti all’interpretazione, verrebbe da dire, nel momento in cui ci si confronta con eventi che non possiedono il “significato situazionale” tipicamente espresso da emozioni specifiche (ad esempio, la paura versus l’inquietudine generalizzata). 2. Le età di Stanley Kubrick Fotografia È l’ottobre del ’48 quando Mildred Stagg, dalle pagine di «The Camera», traccia il primo profilo di Stanley Kubrick, descrivendolo come il più giovane fotografo assunto dalla celebre rivista «Look»; Kubrick ha da poco compiuto vent’anni, e in due anni ha pubblicato decine di servizi. La breve carriera da fotografo di Kubrick è stata spesso considerata come un tassello importante perla ricostruzione di un quadro creativo estremamente complesso5, oltre che per cogliere il punto d’introduzione nella pratica registica, È questo il motivo per cui consideriamo questo periodo come la prima delle sei “età” che qui individueremo. La celebre fotografia dell’edicolante affranto e “incorniciato” dalle prime pagine dei giornali che annunciano la morte di Franklin Delano Roosevelt, in effetti, è stata considerata a lungo come la più viva testimonianza di una straordinaria capacità di cogliere l’attimo da parte del giovane fotografo; ma si tratta, in realtà, della testimonianza di un’altrettanto straordinaria capacità di cogliere il potenziale comunicativo di una situazione e di individuare la strategia compositiva più efficace per veicolarlo attraverso un’immagine fotografica. Esordi Se infatti la “palestra” di «Look» si rivela fondamentale per l’aaquisizione di una padronanza tecnica e di un metodo di lavoro anche una passione cinefila coltivata fin dall’infanzia nei nabe del Bronx, dove il giovane Stanley conosce molto cinema americano dell’epoca. L’altra faccia della sua passione prende corpo, invece, nella costante frequentazione delle sale d’essai e nella partecipazione alle proiezioni del moma, dove entra in contatto col cinema d’arte europeo e orientale, e con le sperimentazioni d’avanguardia. Idea un primo cortometraggio da vendere come episodio per la serie The March of Time, per cui investe 4mila dollari ma non riscontrando successo; infine lo inserisce nel catalogo di This is America. Negli ultimi minuti del film Kubrick fa ricorso ad alcune soluzioni stilistiche interessanti con le quali sembra dar sfogo alla sua esigenza di di oltrepassare i codici della rappresentazione giornalistica. Seguirà con altri lavori come Day of the Fight e Flying Padre, entrambi documentari. Dopo quest’ultimo il regista è pronto per un lungometraggio Paura e DesiderioPiù volte è stato rimarcato come l’intento di Kubrick fosse quello di realizzare un film antimilitarista che pone al proprio centro la gratuità e l’insensatezza della violenza prodotta da ogni guerra. Concordiamo però con Ruggero Eugeni quando sostiene che, a un’analisi più profonda, emerge in questo film una dimensione più propriamente filosofica, all’interno della quale lo smarrimento spaziale dei personaggi funziona come correlato oggettivo dei loro più profondo smarrimento esistenziale. Lo stile visivo scelto da Kubrick e la coltre di lirismo che avvolge la sceneggiatura operano uno scollamento della vicenda dalla dimensione realistica e la collocano su un piano prevalentemente “mentale”: «not other country but the mind», potremmo dire, riprendendo la con cui si chiude l’introduzione alla vicenda parte della voce narrante che apre il film. Noir ripreso e rielaborato, dall’ontologia debole al pensiero della differenza alla filosofia dei simulacri. Sembra che per Nietzsche lo sviluppo storico segni l’avvento epocale della favola, cioè della narrazione generalizzata al posto della diffusione sistematica delle infinite forme di narrazione attraverso media estremamente diversi che caratterizza il Novecento. E il cinema è sicuramente uno dei vettori più forti di questa trasformazione del visibile. Qualcosa che rende davvero il mondo un racconto, anzi una favola immaginaria. In maniera simile Kubrick realizza una frattura violenta e potente nei confronti della tradizione cinematografica e in particolare dell’ingenuità della presunta ontologia dell’immagine filmica, per affermare al contrario il mondo come segno di segno, come doppio di un modello inesistente: come simulacro. Kubrick afferma l’iper-semiotizzazione come modo dì composizione nell’epoca della perdita della realtà, e la rielaborazione totale del visibile come forma della messa in scena al di là del cinema classico e del moderno. Barry Lyndon Michele Guerra Nel mio modo di vedere, non c’è film più manifesto di Barry Lyndon per spiegare quello che vorrei definire “il pensiero del visibile” in Stanley Kubrick, dove pensiero sta per produzione concettuale, ma anche per assillo, preoccupazione. Del resto lo scriveva già Enrico Ghezzi che «pochissimi si accorsero che Barry Lyndon prolungava direttamente il trip visivo e la sperimentalità di 2001». Barry Lyndon è il film che, mentre sembra restituire la superficie dell’immagine e scorrervi sopra con il falso movimento dello zoom, mai usato da nessun altro in una forma così filosofica, rivela invece lo usato da nessun altro in una forma così filosofica, rivela invece lo squarcio, la tela strappata, la parte di immagine mancante. Barry Lyndon è il film che attraversando quadri, , guardandovi attraverso grazie al potere del cinema, «perfora» la Storia, per usare una felice definizione di Ghezzi. L’arte non è l’accompagnamento, né la restituzione di un processo storico, è piuttosto la forma della sua incrinatura, la “faglia”, come direbbe Walter Benjamin, e dentro quella faglia precipita il significato reale di ciò che vediamo oltre la superficie. Questo film si presenta come il film della sospensione e ricapitola i tanti riferimenti sparsi sul Settecento nelle opere che lo hanno preceduto, dai Watteau e i Boucher che ritroviamo nel dialogo tra Mireau e Broulard in Orò? Monti di gloria al già citato caso di Lolita, dalla stanza settecentesca di 2001: Odissea nello spazio a certi coturni di Alex DeLarge in Arancia meccanica, fino a quelli dei convenuti a Somerton in Eyes Wide Shut. La fascinazione di Kubrick per il secolo dei Lumi diventa dunque il doppio capovolto della sua ossessione per il mito: la ragione e la convenienza sono modalità di sospensione e velleitaria rifondazione del Tempo, che trovano nella pittura la loro forma simbolica e ora, nel cinema, la denuncia della loro precarietà. Perché il cinema può integrare il fuori campo nel campo, può offrire il controcampo, può creare una dialettica tra l’iconico e il diegetico che crea tensione tra le insondabili profondità del primo e la ragionevolezza del secondo. È da questo punto di vista che lo zoom diventa in Barry London, lo strumento per l’analisi critica di un secolo e della modernità, la tecnica per scardinare altre tecniche, l’avventura percettiva che caratterizza il cinema di Kubrick. Come mi è capitato di notare altrove, per lo meno da dopo 2001 in avanti, ogni film di Kubrick si costruisce su soluzioni tecniche e visive che ne costituiscono l’esito formale e filosofico: il grandangolo (Arancia meccanica), lo zoom (Barry Lyndon) la steadycam (Shining}, il rapporto tra il carrello e la macchina a mano (FuII Metal Jacket), l’infrazione della continuità classica (Eyes Wide Shut) dietro quella tecnica si rivela l’idea e siamo chiamati a forzare la dietro quella tecnica si rivela l’idea e siamo chiamati a forzare la visione per vederla da dentro, o da dietro. Mi pare si possa dire che proprio il caso di Barry Lyndon, per compattezza e coesione stilistica, rappresenti il passo più radicale verso questa scelta d’autore. Lo zoom, nel mettere in discussione il punctum effettivo del piano cinematografico, rimescola continuamente gli strati di senso e le gerarchie narrative e visive, sia quando viene operato all’indietro, cioè da un punto che si vorrebbe significativo fino a cioè quando isola artificiosamente qualcosa di significativo che senza questa tecnica sarebbe rimasto nell’insignificanza. K. tiene in equilibrio la ragione della narrazione (gli aspetti diegetici) con la sua continua messa in scacco da parte della visibilità che eccede quella ragione (gli aspetti iconici). In taluni casi è l’iconico a travolgere il diegetico, come accade quando viene operato un profondo zoom all’indietro e «la storia raccontata è perduta, si è fatta sottile, ridotta a un particolare nella grande estensione dei visibile». Alla sua uscita Barry Lyndon apparve alla critira estremamente calligrafico, estenuantemente lungo e tutto sommato noioso, Per un autore che veniva da Arancia meccanica sembrava quasi il. rifiuto di certa adrenalina cinematografica, e pochissimi colsero gli aspetti rivoluzionari e sperimentali di quest’opera, che crebbero con gli anni, portando alcuni dei maggiori ammiratori di Kubrick, come ad esempio Martin Scorsese, a ritenerla il migliore dei suoi film. Full Metal Jacket Vito Zagarrio Quando si parla di Full Metal Jacket si può usare davvero la nozione desueta di “capolavoro”. Ri-vedendo Full Metal Jacket, appunto, propongo alcuni percorsi di indagine, per una detective story che risulta ogni volta appassionante: 1. il rapporto con la letteratura e l’adattamento dal testo iniziale 2. la struttura della sceneggiatura 3. la lettura Junghiana 4. il rapporto con la Storia 5. il rapporto col genere 6. la messa in scena.  Si mettono a confronto film quali American Sniper (2014) e Apocalypse Now (1979). Full Metal Jacket e tratto dal romanzo Nato per uccidere (The Short Timers, 1979), un testo parzialmente autobiografico di Gustav Hasford, un ex marine che racconta la sua esperienza di guerra nel Vietnam. La prima considerazione da fare è che l’adattamento dal romanzo di Hasford conferma l’imprescindibile rapporto di Kubrick con la letteratura. ’56 in poi, tutti i film del grande regista sono ispirati da uno spunto letterario; è come se Kubrick avesse bisogno di sentirsi ancorato un testo di partenza, da “tradire” però e da manipolare a sua immagine e somiglianza. Kubrick fa un’operazione che oggi suona simile a quella che ha fatto in tempi più recenti Clint Eastwood con American Sniper. Si tratta di un “diario” patriottico, gonfio di retorica reazionaria, che però nelle mani di Eastwood diventa qualcosa di diverso, un inno al genere war movie; Eastwood sceglie di raccontare la Storia attraverso questa autobiografia-diario di un “guerriero”; uno che non ha dubbi, che divide il mondo tra buoni e cattivi: Gli iracheni diventano dei “selvaggi”, come gli “indiani” dei western o i “charlies” del Vietnam. Chris Kyle incarna tutti gli stereotipi della Destra americana: la fiducia nella Patria, l’amore per Dio e Famiglia, la considerazione della Guerra come risolutiva, l’odio per il nemico cattivo, la mancanza di qualsiasi dubbio sul punto di vista degli altri. Eastwood è un regista che, pur proclamandosi politicamente conservatore (è stato sindaco di Carmel), ha fatto dei film che hanno messo il dito sulle piaghe dell’America contemporanea (vedi Torino, (Id. 2008)). Eastwood £a muovere i “selvaggi” di cui parla Kyle come zombies, figure di un enorme videogame che ben rappresenta immaginario contemporaneo. L’operazione di Full Metal Jacket è simile. su cui insisterà Kubrick: la deriva psichica di Palla di Lardo, la maturazione di Joker passa attraverso “l’eutanasia” della cecchina vietnamita, i soldati che cantano La marcia di Topolino ecc. Nel sequel di Nato per uccidere si parla addirittura di un comandante fantasma americano che si è schierato con i vietcong, e si racconta di Joker che, dopo essere tomato in patria, decide di recarsi di nuovo in Vietnam per stare dalla parte dei “charlies”: due statements certamente anti-yankees, che non possono non fare tornare in mente la scheggia impazzita del colonnello Kurtz in Apocalypse Now. sua interpretazione in termini di messa in scena; quel che conta sua interpretazione in termini di messa in scena; quel che conta ~e il modo in cui il regista si appropria di queste found stories, di questa “letteratura del reale” per farne “cinema del non-reale", cinema allo stato puro.  Veniamo alla struttura del film, che appare diversa da quella de® romanzo di partenza, classicamente tripartito, ma anche dalla sceneggiatura “classica” americana, la sceneggiatura in tre atti, basata sulle regole della tragedia greca. Invece il film di Kubrick è più episodico, basato su dei “quadri” centrati su un personaggio o un avvenimento. Non si assiste al classico “viaggio dell’eroe”, in questo caso Joker, che si trasforma attraverso la sua avventura narrativa. Joker è più un “collante’ che cuce la matassa del racconto. Anche la sua voiceover è molto diversa da quella di Barry Lyndon, emerge a tratti, senza costituire un vero filo narrativo. Appare una struttura disarmonica, come è disarmonica la realtà che racconta. Si tratta dunque di 8/10 segmenti, a seconda di come si vogliano sezionare, con dei climax principali interni: la morte di Hartman e Palla di Lardo, la morte della ragazza-cecchino. jMa la narrazione appare più complessa e meno “classica” di così. Metal Jacket funziona come i sogni, in maniera meno logica. Funziona per improvvise accelerazioni, “brucia” dei personaggi prematuramente, come la morte di Palla di Lardo che ricorda quella di Pina, protagonista di Roma città aperta (1945) già alla metà del film, «Quello che vorrei fare è far esplodere la struttura narrativa del film», diceva, come abbiamo visto, il regista.  In Full Metal Jacket la chiave psicanalitica è dichiarata: quando Joker e Rafter Man visitano la fossa comune, un colonnello (Poge) apostrofa Joker, chiedendogli perché porti il distintivo della pace. Per sottolineare la duplicità dell’essere umano - risponde Joker Modine -, e fa esplicito riferimento a Jung. Scena che non è presente nel libro, dunque Kubrick punta, molto di più di Hasford, sulla doppiezza, sull’ambiguità dell’essere umano - sull’“ombra”, direbbe Jung, per questo Hartman è alla fine meno “cattivo” di quello che può sembrare, e così Animal. Conflittuale è la cecchina vietcong, sadica sniper ma anche fragile ragazza in preghiera, eroina dal suo punto vista e al tempo stesso impietoso e subdolo strumento di guerra. Kubrick e Jung sono due “alchimisti” delle emozioni (entrambi nati nello stesso giorno, il 26 luglio) che portano lo spettatore/paziente dentro un sogno/incubo cui sta a noi tentare dì dare una interpretazione. Quello di Full Metal Jacket è un viaggio dentro le viscere della psiche - ma anche del corpo - che fa inevitabilmente da pendant a quello sul fiume Lung di Apocalypse Now, film altrettanto psicanalitico Due film sulla complessità dell’uomo (Jung) e della narrazione (il Northop Frye citato a chiare lettere da Coppola). Due film capisaldi del rapporto Cinema-Storia e del Vietnam movie.  Come nel caso della letteratura, Kubrick pesca sempre nei generi, quelli “classici” e più riconoscibili, e quelli più ibridati e meno facilmente tangibili. Nel caso di Full Metal Jacket tanto importante è il riferimento ai generi che Kubrick ne può fare la parodia: quando il ragazzo vietnamita ruba la macchina fotografica, sfida i due amici marines con delle mosse di kung fu alla Bruce Lee, Mosse irrealistiche e meta-filmiche cui Joker risponde a tono, con altrettanto comici gesti di arti marziali. Il principale genere in gioco, nel film, è il war movie, ma in particolare quel sottogenere che è diventato dagli anni settanta in poi il fortemente alla ribalta il rapporto tra il Cinema e la Storia. fòrtemente alla ribalta il rapporto tra il Cinema e la Storia. Il Vietnam è un grande serbatoio di plot e tópoi del cinema, è studiamile come “genere”. A volte il retroterra personale di un protagonista, il pretesto narrativo di partenza per avventurarsi nelle varianti del genere. Il Vietnam è diventato questo enorme contenitore di trame e di personaggi per il cinema, da un lato per la metabolizzazione, l’implosione e riassunzione nell’immaginario contemporaneo come il film sul Vietnam.  Gli elementi della regia K. su cui concentrare l’attenzione sono il carrello/steadycam, il long take, il rapporto tra corpo attoriale e location, e soprattutto lo sguardo in macchina/soggettiva. Tutti questi elementi della regia possono essere all’insegna di una self-flexivity, che sta nel cinema, nel suo stesso modo di produzione; il discorso sul cinema sta nella stessa autoconsapevolezza della messa in scena, nel livello alto di esplicitazione dell’apparato, nei movimenti della mdp. In Full Metal Jacket il carrello e la steadycam sono ovviamente due tra le cifre stilistiche più importanti, accoppiate all’uso del grandangolo che espande lo sguardo, sulle camerate dei Marines o sulle rovine urbane. Il carrello e la steadycam pedinano il personaggio e lo inseguono nel suo contestualizzassi nella storia. Il movimento di macchina che più si impone in Full Metal Jacket dunque, è il carrello, anzi travelling proprio per sottolineare l’idea di “viaggio”, di accompagno continuo dei personaggi che vengono “accarezzati” dal movimento della mdp che si muove in parallelo. C’è anche lo zoom (un “carrello ottico, in fondo), che non viene usato in modo sistematico che in Barry Lyndon, ma quando viene scelto dalla regia si esibisce in maniera emozionante. Il cinema di K. è, insomma, un cinema altamente “riflessivo”. Sia perché riflette sulla Storia, sui generi, sulla letteratura, sul metalinguaggio, con un segno stilistico sempre originale e innovativo, sia perché rifatte su se stesso, è autoreferenziale, e fa riflettere perché propone sempre un’indagine sul terreno del metalinguaggio. È un cinema che sperimenta sempre, utilizzando i codici di Hollywood per poi trasgredirli inevitabilmente, un cinema che coniuga America ed Europa, spettacolo e autorship. Eyes Wide Shut Ruggero Eugeni Questo film vive di un contrasto tra l’apparente semplicità della trama e una proliferazione di sottotesti, rimandi e allusioni che rendono qualunque lettura scivolosa e precaria, rilanciando costantemente e quasi ossessivamente il gioco delle esegesi. Eyes Wide Shut è insomma un testo che nasce per essere analizzato: una sorta di monumento all’attività della interpretazione.  Maschere: Eyes Wìde Shut si regge su quattro principi compositivi. Anzitutto, esso gioca sulla esibizione generalizzata di uno scollamento tra l’essere e l’apparire. Il tratto saliente della coppia di Bill e Alice è la dualità tra aspetto diurno e aspetto notturno, l’apparente normalità di una relazione felice e l’effettivo gorgo di desideri, gelosie, ossessioni che essa nasconde. D’altra parte, a ben vedere, la coppia appare come frammento e specchio del più ampio sistema sociale in cui è inserita: anche la società nel suo complesso vive sul filo che separa due dimensioni, una diurna l’altra notturna, una scena e un fuoriscena. La festa di Ziegler che apre il film all’insegna di una chiara, piena e diffusa viene duplicata nell’orgia notturna a Somerton. Entrambe le feste durano esattamente 17 minuti, e appaiono l’una l’inverso ma anche il complemento dell’altra. Centrale sotto questo aspetto il motivo della ‘maschera', le maschere grottesche e deformate dei partecipanti all’orgia di Somerton non sono altro che la manifestazione di un più generale principio di mascheramento sociale. E ancora: il film è attraversato da insistenti ripetizioni verbali. Queste possono aver luogo all’interno della battuta di uno stesso personaggio risulta l’impressione che la macchina rappresentativa talvolta entri un loop, si incanti, come un disco rotto o un automa che non sappia più rispondere ai comandi. Salti, ripetizioni, interruzioni. La continuità della rappresentazione classica non viene esplicitamente distrutta ma sottilmente minata, sottoposta a piccole crisi locali, perdite di controllo infinitesimali ma pure sensibilmente presenti.  Blocco Magico: Torna in questo caso il grande tema kubrickiano del desiderio animale e ancestrale che, malamente anestetizzato dalla civiltà e camuffato dalla recita sociale, riaffiora prepotentemente: «Milioni di anni di evoluzione, vero?» chiede sarcastica Alice a Bill nel primo colloquio notturno. In particolare emerge lo stretto legame tra desiderio sessuale e morte, tema tipicamente freudiano che Kubrick declina in vari modi, dal bacio con Marion davanti al cadavere del padre di lei all’ossessione erotica di Bill per il cadavere della ragazza morta all ’obitorio. A questo si aggiunge, più che in altri film di Kubrick, il tema della connessione tra denaro e potere. Al di là di questi rimandi a precise storie di viaggi, di avventure e di sogni, la gamma dei riferimenti culturali disseminati nel film è in ogni caso estremamente ampia e complessa: dall’Ovidio delMrs amandi citato da Szavost… E infine, Eyes Wide Shut contiene un ulteriore livello di riferimenti, diretti al cinema e perfino alla vita privata di Kubrick. Ouasi tutti i suoi film precedenti vengono variamente allusi, i quadri di casa Harford e del bagno di Ziegler sono dipinti dalla moglie e ‘ dalla figlia del regista; la casa degli Hartford è ricalcata su quella abitata in passato dal regista a New York, e così via. Il film si configura insomma come una sedimentazione di reperti culturali di epoche e provenienze differenti, che pure sono compresenti in uno stesso spazio e su una stessa superficie.  Specchi: Se il primo principio di costruzione del film è la mascheratura del reale, e il secondo è la ipersedimentazione intertestuale, il terzo principio è il rimando speculare. Eyes Wide Shut è fittamente intessuto di rime, ripetizioni a distanza, somiglianze e déjà vu che ne fanno un vasto labirinto di specchi. A guidare gli spostamenti di Bill non è propriamente una figura circolare, quanto piuttosto una logica speculare; essa presenta nella seconda parte (BA) il riflesso speculare della prima (AB) c’è una logica di specularità.  Dissonanze: Il quarto e ultimo principio compositivo del film è quello che chiamerò della dissonanza consonante. Esso consiste nel sovrapporre alla presentazione “oggettiva” del mondo allo spettatore le prospettive “soggettive” dei singoli personaggi, in modo tale che l’esperienza percettiva, narrativa ed epistemica dello spettatore risulti incerta e precaria. Anzitutto Kubrick gioca fin dalle prime inquadrature a confondei confini tra suoni e musica diegetici e non diegetici: il valzer di Šostakovič che sembra extradiegetico si rivela parte della soggettiva sonora di Bill e Alice nel momento in cui il medico spegne lo stereo e la musica si interrompe; una stessa ambiguità si ritrova in altri momenti del film. D’altra parte l’incertezza tra dimensione oggettiva e soggettiva si estende alla dimensione narrativa del film Sul racconto che lo spettatore vede svilupparsi sotto i propri occhi pesano le narrazioni che gli vengono fornite verbalmente dai personaggi: i due racconti Alice, quello della infedeltà immaginata e quello dell’orgia nel sogno; i resoconti dei vari “testimoni” della vicenda… Potrebbe sembrare a questo punto che il film si risolva in una sovrapposizione tra la prospettiva dello spettatore e quella di Bill, sua guida nelle avventure osservate, vissute e ascoltate; ma anche questo caso troviamo una dissonanza: lo spettatore è condotto a perdere il senso del tempo e dello spazio laddove Bill lo conserva;  Interpretazione: Il fastoso dispositivo interpretativo allestito da Kubrick in Eyes Shut funziona in base alla complessa interazione dei quattro principi che ho cercato di isolare: la mascheratura della verità, la ipersedimentazione dei riferimenti intertestuali, i richiami speculari multipli, la dissonante consonanza tra le prospettive soggettive e quella “oggettiva”. Ma perché allestire un simile apparato? i legami del regista americano con alcune tendenze dominanti del pensiero e dell’arte della modernità: da un lato si coglierebbero in lui echi dell’esistenzialismo “nichilista” che fa capo a Nietzsche e Heidegger dall’altro si ritroverebbero molti aspetti dell’estetica modernista di Joyce o Kafka, per esempio nell’uso del distacco emotivo e del grottesco. Il cinema si pone così come il dispositivo per eccellenza di cui il Novecento si dota per sperimentare forme di interpretazione e tal(nel cinema cosiddetto modernista) per esibirle con particolare insistenza. Come il lettore avrà già riconosciuto per proprio conto, Eyes Wide Shut non solo tematizza questa rete di riferimenti, ma la porta al massimo grado di concentrazione: Eyes Wide Shut si fa exemplum un cinema che nel rendere percepibili le derive esistenziali dei propri personaggi e nel trasformare i sogni in esperienze collettive, si afferma come la grande macchina di produzione dell’interpretazione del Novecento.  Moderno?: Eyes Wide Shut si presenta dunque come un grande dispositivo ermeneutico e, in quanto tale, come un monumento alla cultura dell’interpretazione che ha caratterizzato la modernità novecentesca. Ma qual è la posizione di questo film rispetto alla modernità? Domanda scivolosa perché bisognerebbe collocare il regista come “moderno” o “postmoderno” e così anche il suo cinema. Ci sono 3 risposte possibili: secondo la prima Eyes Wide Shut si presenta come un film solidamente moderno, capace di esprimere e di esplicitare il lavoro dell’immaginazione che sottende ogni nostra operazione conoscitiva. La seconda invece lo legge come un film postmoderno, un fastoso dispositivo interpretativo essenzialmente vuoto. Infine la terza e ultima lo vede come un film a-moderno, si presenterebbe come un rebooting della modernità, ma anche come un atto di commiato ad essa.
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