Scarica Stati, Dinastie e Sovrani quasi assoluti - XVIII secolo - Profilo storico e più Appunti in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! 26 Stati, Dinastie e Sovrani ‘Assoluti’ (o quasi) La Francia (e non solo) del XVIII secolo (Da A. Chiavistelli, Stati e sovrani fra potere assoluto e riforme, in R. Balzani, A. Chiavistelli, L’Argomentazione storica, Milano, Rizzoli educational, 2018) Le società del Settecento si caratterizzano per un generale processo di evoluzione delle forme di potere che, in una grande varietà di situazioni su tutto il continente, vedeva poteri centrali e poteri locali sovrapporsi, mentre poteri dei sovrani e poteri dei ceti convivevano in maniera conflittuale o compromissoria. In questo quadro di evoluzione costituzionale, dalla seconda metà del secolo XVII, tuttavia, il potere del sovrano acquisì un ruolo sempre più centrale all’interno dei vari ordinamenti statali confermandosi responsabile delle decisioni di politica estera, nonché titolare di un diritto dinastico che gli riconosceva la proprietà dello Stato (sudditi compresi!). Tale evoluzione sovrano-‐‑centrica, caratterizzò tutte le monarchie d’Europa che, nei decenni tra la fine del secolo XVII e la prima metà del secolo XVIII, vissero una stagione che alcuni storici definiscono il plenilunio delle monarchie. È proprio per questo progressivo accentramento di potere, riscontrabile quasi ovunque, che nel Settecento si parla di sovrani “assoluti”. Sia chiaro, però, che anche nei casi in cui il re era davvero centro del sistema politico e sociale, come nella Francia di Luigi XIV o di Luigi XVI, il potere del sovrano doveva sempre fare i conti con il “contro-‐‑potere” dei ceti e delle loro istituzioni corporative che rimasero vigenti (ed esigenti) almeno fino alla fine del secolo XVIII. Tra diritti e privilegi Nel corso di tutto il Settecento, nonostante l’evoluzione demografica e il balzo in avanti compiuto in molti settori, la società europea continuò a essere organizzata secondo schemi “antichi”, consolidatisi nei secoli precedenti e basati sulla divisione di tutti gli individui in gruppi sociali quali corpi, corporazioni, stati, ordini o ceti. L’appartenenza a tali ordini derivava da criteri legati alla nascita, all’onore, alla dignità; erano criteri “astratti” che esulavano dalla concreta funzione svolta dall’individuo ma che tutti – dai principi ai contadini – condividevano e percepivano come necessari al buon funzionamento della comunità. Quella del Settecento era, dunque, una società basata sulla diseguale distribuzione di diritti e privilegi che derivavano dal corpo di appartenenza e dalla sua collocazione all’interno della piramide sociale: i corpi più in alto erano quelli che godevano di maggiori privilegi, ma erano anche quelli i cui componenti erano meno numerosi. Nel Settecento, infatti, a fronte di un ristrettissimo numero di persone che godeva di molti diritti e di moltissimi privilegi si trovava la grande maggioranza dei sudditi che di privilegi e diritti ne aveva pochissimi. Le regole di appartenenza corporativa erano, però, “universali” e valevano per le piccole comunità locali (villaggi e città), per le comunità di arti e mestieri (dette corporazioni) e per l’intera comunità dei sudditi compresa all’interno di uno Stato; tali regole, insomma, valevano per ogni aspetto della vita associata compreso quello della politica. Quanti strati? Ma quali erano questi gruppi? Chi accoglievano al loro interno? Come funzionavano? Ebbene, pur nella grande varietà riscontrabile all’interno della realtà continentale, con una qualche approssimazione, possiamo assumere che la società del Settecento continuava, come nei secoli precedenti, a dividersi in tre ordini o ceti: il clero, la nobiltà, e il terzo stato e, sebbene ogni ordine contenesse al suo interno una varietà piuttosto ampia di condizioni sociali che erano espressione di ricchezza, titoli o tradizioni diverse dei singoli membri, l’appartenenza a uno stesso ordine, rendeva tali individui tutti giuridicamente titolari degli stessi diritti; naturalmente, poi, sul piano pratico ogni minimo scarto nelle condizioni di esistenza era comunque reso visibile da un sistema di regole che imponeva una rigida etichetta riguardante anche le più “piccole” cose quotidiane, come le precedenze da rispettare nella circolazione nelle strade o il tipo di abbigliamento da indossare in pubblico. Tra «cura di anime» e regole monastiche: il clero Il clero era il primo ordine della società in termini di onori, dignità e privilegi ma era anche il meno numeroso (si pensi che in Francia su 26 milioni di abitanti riuniva appena 120.000 individui); esso accoglieva tutti i componenti dell’ordine ecclesiastico e riuniva sia il clero “secolare”, cioè preti e vescovi con il potere di «cura delle anime» che appartenevano a una diocesi, sia il clero “regolare”, cioè tutti coloro continuavano a essere costretti a prestazioni molto gravose a favore dei ceti più alti. Quella del Settecento era dunque una società che possiamo definire post-‐‑feudale in cui fortissime rimanevano le diseguaglianze. La Francia del «Reggente» Nel settembre 1715, dopo 54 anni passati alla guida del suo Stato, Luigi XIV detto Re Sole moriva lasciando il trono al pronipote Luigi XV (1710-‐‑1774) di soli cinque anni; per la minore età dell’erede si rese necessaria la nomina di un reggente presto identificato in Filippo d’Orleans (1674-‐‑1723) detto il Reggente, nipote del defunto sovrano. Il nuovo governo si trovò subito a dover affrontare due problemi principali: da una parte, il difficile rapporto con le istituzioni cetuali, nobiltà e clero in primis, che il Re Sole aveva progressivamente marginalizzato e “utilizzato” in maniera strumentale al consolidamento del suo potere, senza però riuscire a escluderli dalle consuetudini sociali e politiche del regno; dall’altra, la difficile situazione finanziaria derivata in buona parte dall’enorme distrazione dei fondi conseguente al vasto sistema di esenzioni fiscali di cui godevano la nobiltà e il clero. Il re e i ceti Per quanto riguarda il rapporto con i ceti, il Reggente Filippo d’Orleans restituì all’alta nobiltà molti dei privilegi tradizionali che erano stati “congelati” dal Re Sole; uno di questi privilegi era il diritto dei Parlamenti del regno di pronunciarsi, prima della registrazione dei vari editti reali, in merito alla rispondenza di questi ad alcuni requisiti “costituzionali” tra i quali il rispetto delle «leggi fondamentali del regno»; analogamente, fu ripristinata anche la consuetudine di ammettere l’alta nobiltà, detta «nobiltà di sangue», all’interno di alcuni organi di governo. Questo rapporto “pacifico” tra Corona e ceti, però, durò poco: dopo l’iniziale riavvicinamento, Filippo d’Orleans e, più avanti, Luigi XV ripresero la politica sovrano-‐‑centrica di Luigi XIV cercando di espellere nuovamente dai circuiti di potere la nobiltà tradizionale che, in questo gioco delle parti poté rallentare di molto l’esercizio del potere reale, attraverso l’applicazione sistematica, all’interno dei parlamenti, del riottenuto diritto di rimostranza sugli editti reali. Dagli anni Quaranta, dunque, si acuì il conflitto tra Corona e Parlamenti. Dopo il Reggente: un re giovane e il suo fiduciario Alla morte del Reggente, nel dicembre 1723, il potere fu esercitato per tre anni da Luigi Enrico, duca di Borbone-‐‑Condé (1692-‐‑1740), che Luigi XV, appena tredicenne, nominò primo ministro. Dal 1726, però, raggiunta la maggiore età, Luigi XV assunse direttamente il potere facendosi affiancare dal suo stimato precettore, il cardinale André Hercule Fleury (1653-‐‑1743) che, pur senza essere primo ministro, esercitò una notevole influenza sulla politica francese di quegli anni. Grazie alla sua consulenza la Francia poté progressivamente risanare le proprie finanze, raggiungendo il pareggio di bilancio alla fine degli anni Trenta, e avviarsi verso una netta espansione sia nel settore agricolo, sia nel settore del commercio internazionale grazie a una fortissima crescita delle importazioni dello zucchero e di altri prodotti coloniali. Dal 1743, alla morte di Fleury, Luigi XV assunse il governo in prima persona, ispirandosi ancora di più alla condotta del Re Sole: irrigidì la politica religiosa aumentando la chiusura nei confronti delle minoranze gianseniste e ugonotte e limitando ulteriormente gli spazi della nobiltà tradizionale. Dinastie e territori in gioco: potenza ed equilibrio P Per almeno tutta la prima metà del Settecento, in concomitanza delle successioni sul trono di alcune monarchie europee si verificarono momenti di crisi che sfociarono in conflitti bellici dagli effetti spesso contraddittori. Per la stretta identificazione tra sovrano e Stato, infatti, la successione al trono costituiva un momento estremamente delicato sia all’interno dei singoli Stati sia nei rapporti tra gli stessi Stati. Di fronte a un trono vacante appariva normale che si facessero avanti pretendenti mossi da aspirazioni di potenza o legati alla famiglia regnante anche solo da una lontanissima parentela. Appariva poi naturale che in caso di attriti e rivendicazioni incrociate tra dinastie, venissero fatti entrare subito in azione gli eserciti statali per affermare, da parte di ciascun sovrano, la propria superiorità rispetto agli altri. Con il passare dei decenni, però, questa logica fu progressivamente sostituita da una logica nuova e opposta che prevedeva, al posto dei grandi spiegamenti militari, l’impiego dell’alta diplomazia e degli accordi tra sovrani; l’obiettivo principale divenne infatti il raggiungimento di una condizione d’equilibrio tra le potenze così da evitare il predominio di una di esse. Tra le cinque maggiori potenze d’Europa (Francia, Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia) prese così avvio una sorta di “gioco delle parti” che condusse a una situazione di conflittualità diffusa con frequenti cambi di alleanza nel tentativo di evitare o prevenire che una di loro prevalesse sulle altre. La prima riflessione teorica riguardante la “regola dell’equilibrio” si deve a Charles Davenant (1656-‐‑1714), economista e politico inglese, che nella sua opera An essay upon the balance of power del 1701 auspicava da parte della Gran Bretagna, come già nei secoli XV-‐‑XVI, la conquista di un ruolo centrale ed equilibratore (appunto) del sistema delle relazioni internazionali. La pace di Aquisgrana: omnia restituantur Dal 1745 una serie di eventi imprevisti a carico delle dinastie in campo favorì il progressivo disimpegno militare e l’avvio degli accordi di pace: nel 1745 morì Carlo Alberto di Baviera, pretendente al trono d’Austria che dal 1742 era riuscito a farsi proclamare imperatore del Sacro Romano Impero togliendo – dopo tre secoli – la corona imperiale agli Asburgo; nel 1746 morì Filippo V di Spagna sostituito dal figlio, Ferdinando VI (1713-‐‑1759), contrario al prosieguo della guerra. La guerra terminò il 18 ottobre 1748 con la firma della pace di Aquisgrana voluta sia dalla Francia sia dalla Gran Bretagna sulla base del principio dell’equilibrio e del ritorno allo status quo ante con la restituzione di tutti i territori nel frattempo occupati dai vari pretendenti con l’eccezione della Slesia che rimaneva alla Prussia. L’Austria riuscì comunque ancora a limitare i danni: Maria Teresa fu confermata sul trono austriaco e per suo marito Francesco Stefano di Lorena ottenne la ratifica del titolo imperiale (Francesco I). Nella penisola italiana gli accordi di pace sancirono l’inizio di un periodo di equilibrio che sarebbe durato per la restante metà del secolo; qui i Savoia mantennero i territori dell’Alto novarese, di Vigevano e Voghera, mentre il Ducato di Parma e Piacenza fu attribuito a Filippo di Borbone, figlio del defunto Filippo V e di Elisabetta Farnese. Con la firma del trattato di Aquisgrana, che di fatto non risolse alcun problema di relazioni tra le potenze in Europa, si esaurì la stagione delle guerre dinastiche dell’Antico Regime prodotte dalle mire dei vari sovrani ancora legati all’immagine antica del re-‐‑nobile-‐‑condottiero. “rifiutati” dai Parlamenti e crescente fu la loro ostilità verso ogni scelta del sovrano. Fallirono, dunque, tutti i tentativi del re di attuare riforme sociali e politiche secondo i principi fisiocratici che richiedevano liberalizzazione del commercio dei grani e incentivi alle enclosures per favorire la nascita di una classe di proprietari virtuosi, votati alla moderna agricoltura e destinati a scalzare la nobiltà tradizionale dai posti di comando. Fallì anche, nel 1771, il tentativo di smantellare i Parlamenti “riottosi” e sostituirli, a partire da quello di Parigi, con corti di nomina regia, docili al volere sovrano. Eguale destino caratterizzò il regno di Luigi XVI (1774-‐‑1792), salito al trono nel 1774. Per attenuare i conflitti sociali ripristinò sia i Parlamenti sciolti da Luigi XV sia gli antichi privilegi alla nobiltà di toga che già avevano svuotato le casse dello Stato. Ebbe scarso successo anche il tentativo di rilanciare un programma riformista nuovamente ispirato ai dettami fisiocratici con la nomina al governo, come controllore delle finanze, dell’illuminista Anne-‐‑Robert-‐‑Jacques Turgot (1727-‐‑ 1781); i suoi primi provvedimenti per liberalizzare il commercio dei grani e lo scioglimento delle corporazioni coincisero con una serie di annate di carestia che affamarono la popolazione e che lo resero inviso alla popolazione. Numerose furono le rivolte e il sovrano fu costretto a “sfiduciarlo”: Turgot si dimise, infine, nel 1776, ponendo fine a ogni tentativo riformista. Dopo decenni di espansione economica e prosperità, dalla seconda metà del secolo, dunque, la Francia visse una stagione di reflusso economico e di stasi politica i cui effetti si sarebbero presto rivelati devastanti Le “riforme”: non proprio un punto d’arrivo Pur in un quadro estremamente variegato, dalla metà del secolo XVIII, la maggior parte dei sovrani animò una stagione di riforme che modificarono, più o meno significativamente, gli assetti politici, istituzionali e sociali di molti Stati del continente. Gli ambiti di intervento, le modalità e anche le differenti “geografie” delle riforme autorizzano a parlare, per quel periodo, di età delle riforme. Molta attenzione occorre però prestare quando si tratta di evidenziare un eventuale nesso tra tali riforme e il pensiero illuminista. Come abbiamo visto, infatti, non sempre gli interventi dei sovrani erano ispirati alle suggestioni razionali, ideali e culturali veicolate dai pensatori “illuminati” che circolarono per tutto il continente; in molti casi, le riforme rispondevano più semplicemente a esigenze sovrano-‐‑ centriche o al bisogno, avvertibile già dalla metà del secolo XVII, di sistemare i rapporti tra dinastie al potere e ceti. Occorre, infine, essere cauti anche nell’identificare nelle “riforme” il punto di arrivo di un processo di modernizzazione e razionalizzazione degli assetti sociali, politici e istituzionali dell’Antico Regime; la più aggiornata storiografia sul tema induce piuttosto a vedere nelle riforme un momento di transizione a sua volta fonte di contraddizioni che si manifesteranno nei decenni successivi, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, e che troveranno soluzione solo nel più maturo Ottocento con le Costituzioni liberali e gli Stati nazionali.