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La Prima Guerra Mondiale: La Trincea, la Rivoluzione Russa e la Nascita del totalitarismo, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Storia del fascismo in ItaliaStoria del NEPStoria della Terza InternazionaleStoria del Stato socialista in RussiaStoria della prima guerra mondiale

La conduzione della Prima Guerra Mondiale, la totale avversione dei combattenti alla guerra e i protagonisti come la trincea e il carro armato. Viene inoltre trattata la rivoluzione russa e la nascita del totalitarismo in Russia e Germania. Il testo illustra come la guerra cambiò il corso della storia e la società europea.

Cosa imparerai

  • Come mutò il corso della guerra nel 1917?
  • Quali furono gli eventi che mutarono il corso della guerra?
  • Quali nuove tecnologie furono applicate durante la prima guerra mondiale dall'Italia?
  • Quali furono i problemi che sorse all'interno del gruppo dirigente dopo la nascita del primo Stato socialista in Russia?
  • Quali furono i risultati della nascita della Terza Internazionale?

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 04/01/2019

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Scarica La Prima Guerra Mondiale: La Trincea, la Rivoluzione Russa e la Nascita del totalitarismo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! CAPITOLO 13- La prima guerra mondiale Sul confine orientale le forze austro-ungariche, inferiori di numero, ripiegarono per pochi chilometri lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee, le truppe comandate da Luigi Cadorna, sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le quattro battaglie dell’Isonzo) senza ottenere successo. Una situazione analoga, a scala più ampia, si era creata sul fronte francese. Infatti anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili. Gli unici successi di rilievo furono ottenuti sul fronte orientale dagli austro- tedeschi: prima contro i russi, che durante l’estate furono costretti ad abbandonare la Polonia, poi contro la Serbia che, attaccata anche da Austria e Bulgaria, fu invasa. All’inizio dell’anno successivo (febbraio 1916), i tedeschi sferrarono un attacco contro la piazzaforte francese di Verdun. Ma la battaglia (durata 4 mesi), risultò troppo costosa sia per gli avversari che per gli attaccanti. I francesi riuscirono a resistere sino alla fine di giugno, quando gli inglesi organizzarono una controffensiva sulla Somme, che si trasformò in una nuova estenuante battaglia di logoramento. Il tutto si risolse in una spaventosa carneficina. Nel frattempo, nel giugno del 1916, l’esercitò austriaco passò all’attacco sul fronte italiano, tentando di penetrare dal Trentino. Gli italiani furono colti di sorpresa, ma riuscirono a contrattaccare l’offensiva che fu denominata Strafexpedition (=spedizione punitiva contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento). L’Italia non subì perdite territoriali, ma il crollo psicologico era inevitabile: il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da un mistero di coalizione nazionale (che comprendeva tutte le forze politiche, tranne i socialisti) presieduto da Paolo Boselli. Questo cambio di ministero non comportò mutamenti nella conduzione della guerra. Nel corso dell’anno furono combattute altre cinque battaglie dell’Isonzo, tutte prive di risultati concreti, salvo la presa di Gorizia avvenuta in agosto da parte degli italiani che fu motivo di orgoglio per l’Italia. Sul fronte orientale, i russi lanciarono nel giugno del 1916 una violenta offensiva, riuscendo a recuperare i territori persi l’anno prima. Ma i successi russi, indussero ad agosto la Romania a intervenire a fianco dell’Intesa. Ma il risultato fu che essa, così come la Serbia, lasciò nelle mani dei nemici le sue risorse agricole e minerarie. Questo risultato non cambiò la condizione degli imperi centrali, che restavano sempre inferiori per risorse e per numero, e che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord (Invano, nel maggio del 1916, la flotta tedesca tentò di attaccare quella inglese, nei pressi della penisola dello Jutland, ma fallì). Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell’estate del ’14. Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Inizialmente furono semplici rifugi; poi divennero, una volta allargate e fortificate, la sede permanente dei soldati. La vita nelle trincee logorava i combattenti, che oltre a subire un forte stress psicologico, erano costretti a vivere in condizioni igieniche deplorevoli e a subire le intemperie: all’interno di questi fossati, l’entusiasmo patriottico svaniva nel giro di pochi mesi. Molti soldati semplici (contadini e operai) non conoscevano i motivi per cui si combatteva la guerra. Solo poche minoranze, come le truppe d’assalto tedesche o gli arditi italiani, vedevano nella guerra un’avventura eroica. Per tutti gli altri, la guerra era una dura necessità: i soldati la combattevano per solidarietà ma soprattutto perché erano costretti. In realtà, la totale avversione alla guerra era diffusa anche e, forse, soprattutto tra i combattenti con manifestazioni individuali (e collettive: scioperi militari) che andavano dalla renitenza alla leva, alla pratica di autolesionismo. La prima guerra mondiale scoppiò in un periodo di grandi progressi scientifici ed economici. Per tale motivo, si caratterizzò per l’applicazione sistematica delle nuove tecnologie (artiglieria pesante, fucili a ripetizione, mitragliatrici). Ma ciò che sconvolse di più, fu l’introduzione di nuovi mezzi micidiali come le armi chimiche, gas che, lanciati contro le trincee nemiche, provocavano soffocamento e quindi morte per i nemici. La guerra sollecitò anche lo sviluppo di nuovi settori come quello automobilistico, l’aeronautica e la radiofonia (l’impiego dei mezzi motorizzati consentì lo spostamento di enormi masse di soldati). Gli aerei, invece, non furono utilizzati per la guerra in quanto non erano ancora abbastanza affidabili. Un altro protagonista della Grande Guerra fu il carro armato, usato in modo massiccio. Tuttavia, fra le macchine belliche, l’unica che ebbe un influenza significativa fu il sottomarino. I tedeschi furono i primi a riconoscerne le potenzialità, sia per attaccare le navi nemiche, sia per affondare le navi mercantili che trasportavano i rifornimenti essenziali per i soldati. Quando nel maggio del ’15 un sottomarino tedesco affondò un transatlantico inglese Lusitania, che trasportava mille passeggeri di cui una parte anche americani, le proteste degli Stati Uniti costrinsero i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata. Durante il primo conflitto mondiale, anche i civili furono investiti dagli eventi bellici, sia coloro che vivevano lungo il fronte (caso limite: armeni di Turchia, sottoposti a una brutale deportazione), ma anche coloro che vivevano lontano dal fronte. Il settore industriale era chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti a fronte. Le industrie interessate alle forniture belliche conobbero uno sviluppo imponente: il cliente principale era lo Stato che intervenne nei settori dell’industria, stabilendo quando e che cosa si dovesse produrre (riorganizzazione degli apparati produttivi incompatibili con il modello ottocentesco) (In Germania si giunse addirittura a parlare di socialismo di guerra). Strettamente legate ai mutamenti nell’economia furono le trasformazioni degli apparati statali con l’aumento della burocrazia. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: manifesti rurali, manifestazioni di solidarietà, comitati, associazioni <<per la resistenza interna>>. All’interno del movimento operaio europeo, vi erano voci dissidenti nei riguardi della guerra. Nel settembre del ’15 e nell’aprile del ’16, a Zimmerwals e a Kienthal in Svizzera, si tennero due conferenze socialiste internazionali durante le quali furono approvate i documenti che rinnovavano la condanna della guerra e si chiedeva una pace <<senza annessioni e senza indennità>>. Col protrarsi del conflitto, vennero rafforzandosi i gruppi socialisti contrari alla guerra. Al loro interno esisteva però una spaccatura fra il pacifismo delle sinistre riformiste (obiettivo: pace negoziata e ritorno alla vita democratica) e il disfattismo rivoluzionario dei gruppi più radicali (Fra questi spiccavano gli spartachisti tedeschi e i bolscevichi russi, staccatisi dalla socialdemocrazia e costituitisi in partito autonomo). La svolta del 1917 All’inizio del nuovo anno, due fatti mutarono il corso della guerra. ▲ I primi di marzo, uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (capitale russa) si trasformò in un’imponente manifestazione politica contro il regime zarista. I soldati, che avrebbero dovuto ristabilire l’ordine, fraternizzarono coi dimostranti. Lo zar abdicò (15 marzo) e nel giro di pochi giorni tutta la famiglia reale fu arrestata. Si metteva in moto così un processoo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia. ▲ Circa un mese dopo (6 aprile), gli Stati Uniti decisero di entrare in guerra contro la Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina. L’intervento americano sarebbe risultato decisivo sul piano militare e economico: tanto da compensare il gravissimo colpo subito dall’Intesa con l’uscita di scena della Russia. Il crollo del regime zarista era stato infatti il preludio della disgregazione dell’esercito. Infatti molti reparti elessero organi di autogestione disconoscendo l’autorità degli ufficiali. Il governo provvisorio tentò un nuovo attacco in Galizia contro le truppe austro-tedesco, ma fallì. Da allora, la Russia cessò di fornire qualsiasi contributo militare agli alleati. I tedeschi penetrarono nel territorio del’ex Impero zarista; Per le potenze dell’Intesa (colpite dalla guerra sottomarina, e in attesa ancora dell’apporto americano) i mesi fra la primavera e l’autunno del ’17 furono i più difficili. Alle difficoltà militari, si aggiungeva la sofferenza: si intensificarono ovunque le manifestazioni, scioperi popolari contro la guerra, gli ammutinamenti. Questi segni di stanchezza erano diffusi anche negli Imperi centrali: ad aprile una serie di scioperi ebbe luogo in Germania e Austria; In maggio si ammutinarono i marini della flotta tedesca del Baltico. Delicata era la posizione dell’Austria-Ungheria che subiva le aspirazioni indipendentiste delle <<nazionalità>> oppresse. Nell’estate del 1917, un accordo fra serbi, croati e sloveni portò alla formazione ricostruire un nuovo equilibrio europeo, era necessario tener conto di quei principi di democrazia a cui i governi dell’Intesa si erano richiamati nell’ultima fase del conflitto. Quando la conferenza si aprì, era convinzione diffusa che la sistemazione dell’Europa postbellica si sarebbe fondata essenzialmente sul programma indicato da Wilson nei suoi quattordici punti. In pratica, però, la realizzazione del programma wilsoniano si rivelò assai problematica. Il contrasto tra l’ideale di una pace democratica e l’obiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell’Alsazia-Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l’annessione di territori della Germania. Ma questi progetti incontravano l’opposizione di Wilson e quella degli inglesi, contrari (per lunga tradizione) allo strapotere di un unico Stato sul continente europeo. Clemenceau dovette dunque accettare la rinuncia al confine sul Reno. La Germania non subì quindi amputazioni territoriali ma una serie di clausole che avrebbero ridotto di molto il suo potere nel continente. Il trattato di pace con la Germania fu firmato il 28 Giugno 1919. Si trattò di una vera e propria imposizione (un Diktat, come allora fu definito con termine tedesco). Dal punto di vista territoriale, il trattato prevedeva: • la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia; • il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi; • La città di Danzica, abitata in prevalenza da tedeschi, fu tolta alla Germania e resa “libera”; • La Germania perse inoltre le sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari: • Indicata come responsabile della guerra, la Germania dovette pagare ai vincitori i danni subiti in conseguenza del conflitto; • La Germania dovette abolire il servizio di leva e rinunciare alla marina di guerra; • Per finire, la Germania fu costretta a lasciare “smilitarizzata” l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti che ferirono profondamente la Germania nel suo orgoglio nazionale. Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell’Impero asburgico: la nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85.000 km quadrati. Un trattamento severo toccò all’Ungheria che, costituitasi in repubblica nel novembre ’18, perse non solo tutte le regioni slave fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare. A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia, furono soprattutto i popoli slavi: i polacchi della Galizia si unificarono alla nuova Polonia; i boemi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia; gli slavi del Sud si unirono a Serbia e Montenegro per dar vita alla Jugoslavia; l’impero ottomano, estromesso dall’Europa, si trasformava in Stato nazionale turco. Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali non riconobbero la Repubblica socialista, anzi cercarono di abbatterla aiutando i gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate con l’appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di Stati-cuscinetto che le erano tutti fortemente ostili e che aveva la funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e ogni possibile contagio rivoluzionario. Uscita dalla conferenza, l’Europa contava ben 8 nuovi Stati sorti dalle rovine dei vecchi Imperi. L’ultimo problema da risolvere era ora garantire l’equilibrio del nuovo assetto europeo. Nelle intenzioni dei pacifisti e di Wilson, a questo scopo avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni (proposta nei quattordici punti) che fu ufficialmente accettata da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles. Il nuovo organismo sovranazionale, che prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il ricorso all’arbitrato, l’adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori, non aveva precedenti nella storia delle relazioni internazionali; Tuttavia nasceva in partenza con profonde contraddizioni: l’esclusione dei paesi sconfitti e della Russia. Ma il colpo più grave e inatteso la Società delle nazioni lo ricevette proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che avrebbe dovuto costituirne il principale pilastro. Il Senato degli Stati Uniti respinse nel marzo 1920 l’adesione alla Società delle nazioni e fece cadere anche l’impegno assunto da Wilson circa la garanzia dei nuovi confini franco-tedeschi. A novembre dello stesso anno Wilson non si presentò alle elezioni presidenziali, che videro la vittoria dei repubblicani. Cominciava per gli Stati Uniti una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentale. Quanto alla Società delle nazioni, essa finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire nessuna delle crisi internazionali che costellarono gli anni fra le due guerre. CAPITOLO 14- La rivoluzione russa Tra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale, la rivoluzione russa fu, il più violento e il più imprevisto. A marzo 1917 (23 febbraio per il calendario russo), gli operai di Pietrogrado (così era stata battezzata San Pietroburgo dopo il ’14) insorsero in massa. Ormai si chiedevano la distribuzione della terra e l’instaurazione della democrazia. Lo zar ordinò all’esercito di intervenire, ma esso si rifiutò di obbedire e si schierò dalla parte dei manifestanti. Iniziava la rivoluzione di febbraio che si estese fino a coinvolgere Mosca. Era evidente che il regime zarista non riusciva più a controllare la situazione. Per tale motivo, lo zar Nicola II abdicò il 2 marzo ’17 Finì così la monarchia zarista ( e nacque la repubblica). Dopo la rivoluzione di febbraio, si formarono due centri di potere: 1. la successione fu assunta da un governo provvisorio di orientamento liberale e presieduto da un aristocratico, il principe Georgij L’vov. Obiettivo del governo era quello di continuare la guerra a fianco dell’Intesa e di promuovere l’occidentalizzazione del paese sul piano delle strutture politiche e dello sviluppo economico (politica di riforme). Condividevano questa prospettiva i gruppi liberal-moderati. I menscevichi (che si aspiravano ai modelli della socialdemocrazia) e i socialisti rivoluzionari (che avevano solidi radici nella società rurale russa e aspiravano ad una riforma agraria da parte dei contadini) ritenevano fondamentale il passaggio attraverso una fase democratico-borghese e per questo accettarono di far parte del secondo governo provvisorio costituito da L’vov (maggio ’17) in cui Kerenskij assunse il ministero della Guerra. Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi, convinti che solo la classe operaia, alleata agli strati più poveri delle masse rurali, avrebbe potuto assumersi la guida della trasformazione del paese. 2. Il soviet di Pietrogrado, cioè il <<consiglio eletto direttamente dagli operai e dai soldati>>, dominato dai social rivoluzionari (populisti) e dai menscevichi. Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere “legale” del governo si era subito sovrapposto il potere dei soviet (Gennaio 1905: la repressione di una protesta scatenò scioperi e rivolte in tutta la Russia. Nacque un movimento liberale che chiedeva una costituzione e lo zar, intimorito concesso un parlamento, la Duma, che però non ebbe mai un potere effettivo. In ottobre nacque a San Pietroburgo il primo soviet, un consiglio dei lavoratori che aspirava ad assumere ruoli di governo; lo guidava Trokyij) In altre parole, formalmente il potere legittimo era nelle mani del governo provvisorio, ma il soviet svolgeva sempre più funzione di direzione politica. Questo dualismo di poteri indebolì la Repubblica russa, che a tal proposito appariva incapace di far fronte agli immensi problemi del paese. Questa era la situazione nell’aprile 1917, quando Lenin, leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dopo l’esilio in Svizzera. Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuso un documento di dieci punti, le cosiddette tesi di aprile, in cui rifiutava la diagnosi sul carattere “borghese” della fase rivoluzionaria in atto e poneva nell’immediato il problema della presa del potere: (rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati, come risultato delle contraddizioni del sistema capitalistico giunto al suo ultimo stadio) era la Russia, in quanto “anello più debole” della catena imperialista, a offrire le condizioni più favorevoli per la messa in crisi del sistema. L’obiettivo era quello di abbattere con forza il governo provvisorio e consegnare il potere ai soviet, di far uscire immediatamente la Russia dalla guerra in nome della pace, di confiscare le terre e di metterle a disposizione dei contadini ecc. Questo programma , che poteva apparire utopico ed estremistico, suscitò molte opposizioni nello stesso partito bolscevico; molti esponenti bolscevichi accusarono Lenin di anarchismo. Ma ciò che Lenin proponeva era esattamente ciò che le masse operaie e contadine volevano sentire: pace e terra. La nuova linea che Lenin impose al partito attirò i consensi delle masse, ma allontanò ulteriormente i bolscevichi dagli altri gruppi socialisti e dal governo provvisorio. Per capire come i bolscevichi riuscirono a conquistare la maggioranza nei soviet e ad organizzare la rivoluzione, è necessario ricordare quanto avvenne in Russia nell’estate del ’17. Sul fronte della guerra, il governo provvisorio scatenò contro le forze austro-tedesche un’offensiva che però fallì. Il 18 giugno le truppe vennero mandate all’assalto senza che l’azione fosse stata preparata in modo adeguato e i soldati rifiutarono di combattere. Ma il primo episodio di vera ed esplicita ribellione al governo provvisorio si ebbe a metà luglio a Pietrogrado, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. I disordini vennero sedati dall’intervento di truppe fedeli al governo. Alcuni capi dei bolscevichi furono arrestati: lo stesso Lenin dovette fuggire per rifugiarsi in Finlandia. Ma questo, per il governo provvisorio, fu l’ultimo successo. In agosto il principe L’vov si dimise e fu sostituito da Kerenskij. Il nuovo presidente del Consiglio era però screditato dal fallimento dell’offensiva contro gli austro- tedeschi da lui promossa il mese prima. Alienato da tutti, a lui si contrapponeva il nuovo uomo forte della situazione: il comandante dell’esercito generale Kornilov, che nel mese di settembre marciò su Pietrogrado con le truppe, tentando di abbattere il governo repubblicano di Kerenskij (chiedeva il passaggio dei poteri alle autorità militari). Kerenskij riuscì a reprimere il colpo di Stato con l’appoggio delle forze socialiste (operai, contadini) e dei bolscevichi. Il tentativo di colpo di Stato fu così stroncato. Ma ad uscire rafforzati dalla vicenda furono soprattutto i bolscevichi, che per la prima volta conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca. Per Lenin, rientrato clandestinamente in patria, i tempi erano ormai maturi per rilanciare la parola d’ordine <<tutto il potere ai soviet>> e per preparare l’insurrezione contro il governo provvisorio. Lenin, nel saggio “Stato e Rivoluzione”, sosteneva che i bolscevichi dovevano distruggere lo Stato per dar vita alla <<dittatura democratica>> del proletariato e dei contadini (dittatura: in quanto oppressiva nei confronti della borghesia; ma democratica: perché avrebbe rappresentato l’enorme maggioranza della popolazione). La rivoluzione d’ottobre L’appoggio crescente delle masse popolari, spingeva sempre più i bolscevichi alla decisione di rovesciare con forza il governo provvisorio (decisione che fu presa il 23 ottobre in una riunione del Comitato centrale del partito). Molti erano contrari all’insurrezione; Uno dei principali organizzatori e mente militare della rivoluzione/insurrezione fu invece Trotzkij (eletto in settembre presidente del soviet di Pietrogrado). A questo scopo, venne creata anche una forza militare, la Guardia Rossa. Il 25 ottobre (novembre secondo il nostro calendario), soldati rivoluzionari e guardie rosse, dopo aver occupato (senza spargimento di sangue) i punti strategici di Pietrogrado, circondarono e isolarono Quando i comunisti presero il potere, l’economia russa si trovava in uno stato di gravissimo dissesto; Anche la situazione finanziaria era caotica. I contadini producevano per l’autoconsumo e non rifornivano le città. Il governo non era in grado di riscuotere le tasse ed era costretto a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore (l’inflazione era elevatissima). Anche le industrie erano nel caos più totale. A partire dall’estate del ’18 il governo bolscevico cercò di attuare anche in campo economico una politica più energica e autoritaria che fu poi definita col termine comunismo di guerra. Si cercò innanzitutto di risolvere il problema più urgente, quello degli approvvigionamenti alle città. A tal proposito fu incoraggiata la formazione di comunità agricole volontarie, le cosiddette fattorie collettive (kolchoz), e furono anche istituite delle fattorie sovietiche (sovchoz), gestite direttamente dallo Stato (o dai soviet locali). In campo industriale il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del giugno 1918 che nazionalizzava tutti i settori più importanti con lo scopo di normalizzare la produzione. Questa politica ebbe effetti contrastanti: da un lato permise di assicurare il rifornimento dell’esercito nelle fasi più critiche della guerra civile, dall’altra parte stimolò l’opposizione contadina ergo, questa politica, sul piano economico, fu un totale fallimento. Le grandi città si erano letteralmente spopolate per fame e disoccupazione; nelle campagne i raccolti erano dimezzati; il commercio privato, formalmente privato, fioriva nell’illegalità; i contadini, manifestarono sempre di più la loro insofferenza dando vita a vere e proprie sommosse. La crisi raggiunse il culmine tra la primavera e l’estate del 1921, quando una terribile carestia colpì le campagne della Russia (e della Ucraina), provocando la morte di milioni di persone. Questa catastrofe rappresentò un duro colpo per l’immagine del regime sovietico. Lo stesso disagio era sentito fra gli operai. Il punto di maggior tensione fu toccato quando, i primi di marzo del ’21, si ribellarono al governo i marinai di Krondstadt, presso Pietrogrado (la ribellione fu significativa, perché quest’ultimi avevano appoggiato i bolscevichi sin dall’inizio della rivoluzione). Alle richieste dei ribelli, che invocavano maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose con una dura repressione militare. La repressione di questa rivolta dimostrò che, sul piano politico, si stava eccettuando il centralismo, cioè il potere incondizionato del partito e di Lenin. In quello stesso marzo del ’21 si tenne a Mosca il X congresso del Partito comunista, che segnò la fine del comunismo di guerra e la nascita della nuova politica economica (NEP) che aveva l’obiettivo di stimolare la produzione agricola e di favorire l’afflusso dei generi alimentari verso le città. La Nep ebbe delle conseguenze benefiche: ai contadini, che in regime comunismo non avevano alcun interesse a produrre aldilà delle proprie esigenze, si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, dopo aver consegnato agli organi statali una parte del raccolto; le città si andavano ripopolando; la liberalizzazione si estese anche al commercio e alle piccole industrie, anche se lo Stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali. La liberalizzazione del commercio aumentò la disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa di nuovi trafficanti (i nepmen). Inoltre la Nep favorì il riemergere del ceto dei contadini ricchi= i kulaki (che giunsero a controllare il mercato agricolo). Questa manovra economica era stata voluta dallo stesso Lenin, ma nonostante gli apporti positivi di questa nuova politica, la vita per disoccupati e anche lavoratori non era facile (salari bassi/ assenza di organizzazione sindacale): proprio la classe operaia, protagonista della rivoluzione e principale sostegno del regime comunista, risultò la maggiore sacrificata dalle scelte della Nep. L’unione Sovietica: costituzione e società La prima costituzione della Russia rivoluzionaria era stata varata nel ’18 in piena guerra civile. Essa si apriva con una <<Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato>>, dove si proclamava che il potere doveva appartenere unicamente alle masse lavoratrici e ai loro organismi rappresentativi: i soviet (degli operai/dei contadini/dei soldati/). La costituzione prevedeva che il nuovo Stato diventasse una repubblica federale, che rispettasse l’autonomia delle minoranze etniche e che si unisse con altre future repubbliche sovietiche la prospettiva era quella di un’unica repubblica socialista mondiale. In realtà quella che si attuò fu l’unione alla Repubblica russa che comprendeva la Siberia e le province dell’ex Impero zarista (Ucraina, Bielorussia ecc). Nel dicembre del ’22 i congressi dei soviet delle singole repubbliche decisero di dar vita all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS). Il potere supremo era affidato al Congresso dei Soviet dell’Unione; il potere reale era però nelle mani del Partito comunista. Era quest’ultimo a dirigere la politica del governo, a controllare la polizia politica (la Ceka, diventata famosa per i suoi metodi violenti) e a proporre i candidati alle elezioni dei soviet. Questo partito era caratterizzato da un rigido centralismo Si approvò il cosiddetto centralismo democratico: una volta che il partito assumeva una posizione era vietato contrastarlo. Si accentuava così il carattere autoritario del partito. La dittatura del proletariato diventava dittatura di un ristretto numero di dirigenti. Tutto il potere decisionale era nelle mani dei capi partito, di Lenin in particolare (Sintesi: lo Stato finì così con l’essere governato attraverso un apparato fortemente centralizzato, da un gruppo ristretto del Partito bolscevico). Oltre alle strutture politiche ed economiche, i comunisti volevano cambiare la società nel profondo cancellando vecchi valori e tradizioni per creare una nuova cultura adatta alla realtà socialista. I punti principali furono due: l’educazione della gioventù (premessa fondamentale per lo sviluppo economico), e la lotta contro la Chiesa ortodossa (ritenuta incompatibile con i fondamenti materialisti del marxismo). La dura lotta per la scristianizzazione (ci furono confische di beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi), poté dirsi riuscita la Chiesa, già debole, non fu in grado di opporre resistenza. Nonostante culti e credenze non furono del tutto eliminate, la sua influenza fu drasticamente ridimensionata. Fra i primi atti del governo troviamo anche il riconoscimento del solo matrimonio civile e più semplici procedure per il divorzio; Fu legalizzato l’aborto, proclamata la parità fra i sessi, e figli legittimi e illegittimi furono equiparati nelle loro condizioni in generale il regime comunista favorì una notevole liberalizzazione dei costumi. Ma il settore su cui il nuovo regno si impegnò maggiormente fu quello dell’istruzione, che fu resa obbligatoria fino all’età di 15 anni per combattere l’analfabetismo. Dopo aver introdotto nuovi metodi didattici, fu privilegiata l’istruzione tecnica su quella umanistica. Le generazioni dovevano essere anche educati nel pensiero ideologico marxista e per tale scopo vennero incoraggiate le iscrizioni a organizzazioni giovanili del partito (Komsomol). Gli effetti della rivoluzione si fecero sentire anche nel mondo dell’alta cultura: secondo giovani e intellettuali di prestigio la rivoluzione nelle arti doveva consistere, così come nella politica, nella rottura dei canoni tradizionali e nella ricerca di nuove forme espressive gli anni del dopo-rivoluzione rappresentarono una stagione di intensa sperimentazione e di straordinaria fioritura artistica. Ma questa stagione dell’oro ebbe breve durata in quanto dovette far fronte alla crescente indisponibilità del potere politico (che diventava giorno dopo giorno sempre più autoritario). Da Lenin a Stalin: il socialismo in un solo paese Nel 1922 Stalin, ex commissario alle Nazionalità, fu nominato segretario generale del Partito comunista dell’URSS. Poche settimane dopo, Lenin mostrò i primi segni di una malattia che lo porterà alla morte dopo due anni (’24). Si apriva così nel partito un periodo di dure lotte per la successione. Quando ancora era in vita, Lenin aveva controllato saldamente il partito e aveva impedito che i contrasti nel gruppo dirigente degenerassero in veri e propri scontri. Con la sua malattia di Lenin e l’ ascesa di Stalin alla segreteria, le cose cambiarono rapidamente, i dissensi interni si fecero più aspri. Uno dei primi problemi che sorse all’interno del gruppo dirigente riguardava la centralizzazione e burocratizzazione del partito, che avrebbero dato più poteri al segretario Stalin. Protagonista della battaglia volta a limitare tali poteri fu Trotzkij, che era il più autorevole e il più popolare dopo Lenin tra i capi bolscevichi( era stato organizzatore dell’Armata rossa nella guerra civile); ma il “peso morale” di Trotzkij (che a questo puntò guidò l’opposizione di sinistra) si contrapponeva con il “peso politico” di Stalin, il segretario generale, il quale poté rafforzare la sua posizione perché deteneva un potere decisivo sulla società (nonostante non avesse un grande prestigio personale e non godesse nemmeno della fiducia di Lenin, che lo considerava troppo rozzo e autoritario). Lo scontro fra Trotzkij e Stalin (cominciato nel ’23) si fece più aspro dopo la morte di Lenin. Per Trotzkij l’Unione Sovietica doveva accelerare i suoi ritmi di industrializzazione e favorire l’estendersi del processo rivoluzionario nell’Occidente capitalistico e soprattutto nei paesi più sviluppati. Contro questa tesi, chiamata rivoluzione permanente, scese in campo lo stesso Stalin. Quest’ultimo sosteneva la teoria del socialismo in un solo paese affermando che fosse <<possibile e probabile>> e che l’Unione Sovietica, in tempi brevi, aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. rappresentava una rottura con quanto era stato affermato dai bolscevichi che da tempo si illudevano circa una rivoluzione mondiale, e offriva al paese un forte senso patriottico. Inoltre le potenze europee decisero di riconoscere lo Stato sovietico e di instaurare con esso normali rapporti diplomatici: questo contribuì a rafforzare le tesi di Stalin e ad emarginare Trotzkij. Una volta sconfitto Trotzkij, venne però meno il principale legame che teneva uniti i suoi avversari: il gruppo dirigente comunista conobbe una nuova drammatica spaccatura. L’occasione dello scontro fu offerta questa volta dal dibattito sulla politica economica. Nel ’25 Zinon’ev e Kamenev (riprendendo le idee di Trotzkij) si pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle campagne, e per un deciso rilancio dell’industrializzazione a spese degli strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla Nep e all’incoraggiamento della piccola impresa agricola, fu sostenuta con decisione da Bucharin, appoggiato da Stalin. Zinon’ev e Kamenev insieme a Trotzkij organizzarono un fronte unico di opposizione. Ma la lotta contro Stalin era perduta in partenza. I leader dell’opposizione furono, nel ’27, espulsi dal partito. Trotzkij iniziò un lungo esilio in Messico (morì qui nel ’40 quando venne ucciso da un sicario di Stalin). Con la sconfitta dell’opposizione di sinistra cominciava una nuova fase che sarebbe stata caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l’Unione Sovietica alla condizione di grande potenza industriale e militare. Capitolo 15- L’eredità della guerra Le trasformazioni sociali La guerra era stata la più grande esperienza di massa mai vissuta in allora nella storia dell’umanità e aveva agito come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali. Tornati alla vita civile, i combattenti si trovarono di fronte a una realtà molto diversa da quella che avevano lasciato. Le donne, insieme ai bambini, erano subentrate nei posti di lavoro, creando, a guerra finita, non pochi problemi per il reinserimento dei reduci. Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani, l’allargamento del lavoro femminile, avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia patriarcale e provocati mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini dei più giovani (le donne tendevano a rendersi più indipendenti dagli uomini, i figli dai padri; c’era minor rispetto le tradizioni, anche l’abbigliamento era più disinvolto e libero; Tutti cercavano momenti di svago nel cinema o nella musica tutti cercavano qualche forma di compenso per le sofferenze subite. Il primo problema urgente che si pose alle classi dirigenti di tutti i paesi fu il reinserimento dei reduci di guerra (nuovo tipo sociale che porta con sé una nuova mentalità fatta di fierezza e di attaccamento alla memoria dei morti, di ostilità verso la politica): sorsero ovunque grandi associazioni di ex combattenti, veri e propri gruppi di pressione, pronti a difendere i propri interessi; ma in realtà le provvidenze dei governi in favore dei combattenti furono piuttosto modeste. Di qui un senso di forte risentimento che fu fra le cause dei fermenti post-bellici. Risultò così bruscamente accentuata la tendenza alla massificazione della politica. Partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti e acquisivano maggior peso le manifestazioni pubbliche basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. Ovunque c’era l’aspirazione di un ordine nuovo, un generico desiderio di pace, democrazia e di giustizia sociale fondato sull’autodeterminazione dei popoli. socialdemocratici a governare il paese, mentre i comunisti tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell’insurrezione. Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore delle campagne e la maggioranza assoluta andò al Partito cristiano-sociale. UngheriaBreve e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria: dove i socialisti, anzichè far blocco con le forze liberali, si unirono ai comunisti per instaurare una Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e dell’aristocrazia agraria. L’esperimento durò poco più di quattro mesi: ai primi di agosto, il regime guidato dal comunista Bela Kun cadde a causa delle forze conservatrici/controrivoluzionarie guidate dall’ammiraglio Horthy e delle truppe rumene, che avevano invaso il paese con l’appoggio di Inghilterra e Francia. Horthy eliminò fisicamente l’opposizione comunista e instaurò il primo regime autoritario d’Europa del dopoguerra(sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri), scatenando un’ondata di “terrore bianco”. La stabilizzazione moderata in Francia e in Gran Bretagna La fine del biennio rosso segnò la sconfitta operaia e la ripresa dei moderati. Allontanandosi il pericolo rivoluzionario, le classi dirigenti si preoccuparono soprattutto di ricostruire i tradizionali equilibri politici e sociali, di frenare i fenomeni inflazionistici e di assicurare una qualche stabilità all’assetto internazionale uscito dalla conferenza della pace. In Francia e Gran Bretagna l’obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto. In Francia e Gran Bretagna l’obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto. In Francia il governo di centro-destra attuò una politica fortemente conservatrice. Solo nella primavera del ’24 i radicali di sinistra, uniti ai socialisti in una coalizione elettorale (il cartello delle sinistre) riuscirono a strappare la maggioranza ai moderati e a portare alla presidenza del Consiglio il loro leader Herriot. Ma l’esperimento ebbe breve durata. Dopo un paio di anni, la guida del governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l’ex presidente della Repubblica Poincarè, che riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale. In questi anni la Francia conobbe un vero boom economico. Più lenta e incerta fu la stabilizzazione economica in Gran Bretagna, il cui apparato produttivo si dimostrava sempre più invecchiato per reggere la concorrenza industriali degli altri Paesi. Il risultato fu un generale ristagno produttivo (l’indice della produzione industriale era ancora pari a quello del ’14) Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese nel dopoguerra (salvo un breve intervallo, quando si affermarono i laburisti). Tornati al potere, i conservatori avviarono una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li porterà a scontrarsi duramente con i sindacati. Nel ‘26 un milione di minatori entrano in sciopero chiedendo l’aumento dei salari. Altre categorie di lavoratori li appoggiarono, ma dopo una lotta durata 7 mesi i minatori dovettero cedere. Il governo conservatore cercò di profittare di questa sconfitta storica per minare le basi stesse dell’opposizione laburista (furono vietati gli scioperi di solidarietà). I laburisti accusarono il colpo, ma riuscirono a risalire la corrente e ad affermarsi nelle elezioni del 1929. Si formò così un nuovo ministero laburista guidato ancora da McDonald, ma destinato anch’esso a vita breve per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30. La repubblica di Weimar La Repubblica nata dalla Costituente di Weimar, rappresentò negli anni ’20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata. Molti erano, tuttavia, i fattori che contribuivano a insidiare la vita democratica e a indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente motivo di debolezza stava nell’accentuata frammentazione dei gruppi politici. Tuttavia erano molti i fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente motivo di debolezza stava nell’accentuata frammentazione dei gruppi politici. La socialdemocrazia si era riunificata in un unico partito con la confluenza dell’Uspd. La Spd rimase per un intero decennio il partito più forte ma non riuscì mai ad allargare i suoi consensi al di là del tradizionale elettorato operaio. La diffidenza nei confronti del sistema democratico coinvolgeva non solo i gruppetti dell’estrema destra sovversiva ma anche buona parte della media e della piccola borghesia l’opinione pubblica borghese, in particolare, nutriva diffidenza per un sistema democratico che considerava indissolubilmente associato alla sconfitta. Il problema delle riparazioni alimentò l’instabilità della Repubblica di Weimar, provocando, sul piano economico, una gravissima crisi del marco i tedeschi avrebbero dovuto pagare una cifra spaventosa che li avrebbe costretti a privarsi, per quasi mezzo secolo, di un quarto del loro prodotto nazionale. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò in tutta la Germania un’ondata di proteste: i gruppi dell’estrema destra nazionalista, fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler, scatenarono una vera e propria offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori. I governi di coalizione che si succedettero fra il ’21 e il ’23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni, ma furono costretti ad aumentare la stampa di carta moneta. Il risultato fu che in pochi mesi il valore del marco precipitò dando luogo a un rapidissimo processo di inflazione. La crisi della Ruhr Nel gennaio del ’23 la Francia e il Belgio inviarono truppe nel bacino della Ruhr (la zona più ricca/ vitale e industrializzata della Germania), in risposta al fallimento della Repubblica di Weimar a continuare il suo pagamento delle riparazioni in natura. Impossibilitato a reagire militarmente, il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Intanto gruppi clandestini, formati per lo più da membri dei disciolti corpi franchi, organizzarono attentati e sabotaggi contro i franco-belgi, che reagirono con fucilazioni e arresti di massa. Per le già dissestate finanze tedesche, l’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo finanziario: il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili e il suo potere d’acquisto fu praticamente annullato. Nel momento più drammatico della crisi, la classe dirigente trovò però la forza di reagire si formò un governo di grande coalizione presieduto da Stresemann. Quest’ultimo era convinto che la Germania poteva riprendersi solo attraverso accordi con le potenze vincitrici: pertanto ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Vi furono tentativi insurrezionali contro il governo centrale: ad Amburgo da parte dell’estrema sinistra; e a Monaco dall’estrema destra (complotto capeggiato da Hitler). Entrambi furono duramente repressi e Hitler condannato a 5 anni di carcere. Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico. Nel ’23 fu emessa una nuova moneta (il cosiddetto Rentenmark= marco di rendita) il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania. Nel frattempo, fu avviata una politica deflazionistica (basata cioè sulla limitazione della spesa pubblica e sull’aumento delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un ritorno alla normalità monetaria. Ma la vera stabilizzazione sarebbe arrivata solo con un accordo con i vincitori sulle riparazioni. L’accordo fu trovato e si basava sul piano elaborato da Dawes secondo cui la Germania avrebbe rispettato i suoi impegni se la sua macchina produttiva fosse funzionante al meglio; il piano prevedeva anche che gli Usa sovvenzionassero lo Stato tedesco con una serie di prestiti. La Germania rientrava così in possesso della Ruhr e otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa economica. La crisi della Ruhr e la grande inflazione avevano però lasciato segni profondi nella società tedesca. La grande coalizione di Stresemann si ruppe già a fine del ’23. Le elezioni del ’24 videro un calo dei partiti democratici e l’avanzata delle due estreme (comunisti e tedesco-nazionali). Un anno dopo, nelle elezioni presidenziali, convocate per eleggere il successore di Ebert, vede l’affermarsi del vecchio maresciallo Hinderburg (già capo dell’esercito e simbolo del passato imperiale). Negli successivi, grazie alla ripresa economica, la situazione politica si andò stabilizzando. I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al ’28; dopo di che riassunsero il potere i socialdemocratici. Stresemann conservò ininterrottamente fino alla sua morte (’29) la carica di ministro degli Esteri, assicurando la continuità di collaborazione con le potenze vincitrici. La ricerca della distensione in Europa Il varo del piano Dawes segnò una svolta importante nei rapporti internazionali. Dell’assetto europeo, la Francia era stata la principale se non unica garante, dacché si era sentita tradita dai propri alleati e aveva quindi cercato di costruirsi da sola un proprio sistema di sicurezza legando a sé con una rete di alleanze tutti quei paesi dell’Europa centro-orientale che erano stati avvantaggiati dai trattati di Versailles: la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania (questa alleanza fu chiamata Piccola Intesa). Il timore di una rivincita tedesca era vivo nella coscienza di tutti e delle alleanze non sarebbero stati sufficienti da qui l’impegno quasi fanatico dei governanti francesi nell’esigere il pagamento delle riparazioni per inginocchiare/indebolire economicamente la Germania. I rapporti di tensione con la Germania subirono un allentamento nel 1924 con l’accettazione del piano Dawes da parte dei due governi, che prevedeva la collaborazione tra le due potenze ex-nemiche (che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Stresemann e nel ministro degli Esteri francese Briand). L’obiettivo comune era quello raggiungere una sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell’intesa franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell’ottobre ’25, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Belgio e Francia delle frontiere comuni tracciati a Versailles e nell’impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle nazioni e nel ’29 un nuovo piano elaborato dal finanziere americano Owen Young ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni e ne graduò il pagamento in 60 anni. La distensione dei rapporti franco-tedeschi aprì nuove prospettive di pace per l’Europa e il mondo intero. Nell’estate del ’28 i rappresentati di 15 stati (fra cui Germania e Unione Sovietica), riuniti a Parigi, firmarono un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie. La firma del Patto di Parigi (o patto Briand-Kellogg) e il varo del piano Young rappresentarono il punto più alto della fase di distensione internazionale che caratterizzò la seconda metà degli anni ’20. Tuttavia, in coincidenza con la grande crisi economica, questa stagione si interruppe bruscamente, a causa anche della costruzione di un imponente complesso di fortificazioni difensive da parte della Francia lungo il confine con la Germania (la cosiddetta linea Maginot): era il segno più evidente dell’esaurirsi dello spirito della sicurezza collettiva. CAPITOLO 16-Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo Con la vittoria, l’Italia (così come gli altri Paesi vincitori) dovette affrontare i mille problemi che la grande guerra aveva lasciato dietro di sé. L’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: deficit gravissimo nel bilancio statale, inflazione ecc. Tutti i settori della società erano in fermento: la classe operaia reclamava maggior potere e manifestava tendenze rivoluzionarie; i contadini tornavano dal fronte decisi a ottenere le promesse fatte dalla classe dirigente; i ceti medi tendevano a difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici. Questi problemi erano comuni a tutti i Paesi vincitori, ma si presentava in forma più acuta in Italia per la fragilità delle strutture economiche e politiche: il processo di democratizzazione era appena agli inizi (infatti il suffragio universale maschile era stato applicato per la prima volta solo nel ’13) e la classe dirigente, non riuscendo a dominare i fermenti sociali, perse sua egemonia risultarono invece favorite le forze socialiste e cattoliche, che non erano compromesse con la responsabilità della guerra. Cattolici, socialisti e fascisti • Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, dando vita nel ’19 a una nuova formazione politica, il Partito Popolare Italiano con a capo Don Luigi Sturzo. Il nuovo partito si presentava con un programma di impostazione democratica e, pur ispirandosi apertamente alla dottrina cattolica, si dichiarava aconfessionale. In realtà il Ppi era legato alla l’originario programma radical-democratico e fondarsi su strutture paramilitari (le squadre di azione) e a lottare contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. Nel frattempo le leghe socialiste avevano creato un sistema apparentemente intaccabile, nato quasi spontaneamente sull’onda delle lotte dei braccianti. Ma questo sistema celava non pochi motivi di debolezza: il contrasto fra la strategia delle organizzazione socialiste (che miravano alla socializzazione della terra) e gli interessi delle categorie intermedie (mezzadri, piccoli affittuari che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei braccianti e trasformarsi in proprietari). Le cose cambiarono nel momento in cui l’offensiva fascista aprì le prime brecce nelle organizzazioni rosse. L’atto di nascita del fascismo agrario viene individuato nei fatti di Palazzo d’Accursio (a Bologna) a novembre del ’20, quando i fascisti impedirono la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri dentro e fuori il municipio: i socialisti, incaricati a difendere il palazzo comunale, spararono sulla folla composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. I socialisti furono colti di sorpresa e non riuscirono a reagire adeguatamente. I proprietari terrieri scoprirono nei fasci uno strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarle generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute. Nel giro di pochi mesi il fenomeno dello squadrismo (= fenomeno politico-sociale verificatosi in Italia a partire dal 1919 che consistette nell'uso di squadre d'azione paramilitari armate che avevano lo scopo di intimidire e reprimere gli avversari politici, specialmente quelli appartenenti al movimento operaio) dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche in Toscana, Umbria e in grandi città del Centro-Nord. Immune dal contagio fascista rimase per il momento solo il Mezzogiorno (ad eccezione della Puglia). L’offensiva squadrista ovunque aveva le stesse caratteristiche: le squadre partivano dalle città e si spostavano in camion verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano i municipi, le camere del lavoro, le sedi delle leghe, le case del popolo che vennero devastati e incendiati. Molte amministrazioni <<rosse>> della Valle Padana furono costrette a dimettersi, centinaia di leghe furono sciolte o indotte ad aderire a nuove organizzazioni costituite dagli stessi fascisti. Il successo travolgente dell’offensiva fascista è da ricercarsi sia nei fattori militari, ma anche nella neutralità o addirittura sostegno della classe dirigente, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i <rossi>. Lo stesso Giolitti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensava di servirsi del movimento fascista per contrastare il socialismo e per assorbirlo nella maggioranza liberale. Nel ’21 furono convocate le elezioni per favorire l’ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali. I risultati delusero chi aveva voluto le elezioni: i socialisti ottennero il 25% dei voti, i popolari (Partito popolare italiano di orientamento cristiano- democratico) addirittura si rafforzarono. In definitiva, faceva il loro ingresso alla camera 35 deputati fascisti capeggiati da Mussolini. L’agonia dello Stato liberale L’esito delle elezioni di luglio portò Giolitti a dimettersi. Il suo successore Bonomi, tentò di fari uscire il paese dalla guerra civile con la firma di un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva nella rinuncia alla violenza da ambo le parti. I socialisti, in particolare, accettavano di scogliere gli arditi del popolo, ossia gruppi militanti di sinistra che si erano organizzati spontaneamente per opporsi allo squadrismo. Mussolini accettò il patto solo per inserirsi nel gioco politico ufficiale e per timore di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia però non era condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras. Quest’ultimi sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione la leadership di Mussolini. Egli a questo punto al congresso dei fasci tenutosi a Roma sconfessò il patto per trasformare il movimento fascista in un vero e proprio partito nasce il Partito nazionale fascista (Pnf), con alla guida Mussolini. Nel ’22 la guida del governo fu affidata a Luigi Facta, un giolittiano che diede vita ad una costituzione poco autoritariaA causa di ciò, lo Stato liberale entrò nella sua fase culminante dando ulteriore spazio alla violenza squadrista: il fascismo si rese protagonista, a partire da quell’anno, di operazioni sempre più ampie e clamorose che coinvolgevano intere province. All’offensiva del fascismo i socialisti non seppero opporre risposte efficaci; anzi, in un congresso tenutosi a Roma i riformisti guidati da Turati abbandonarono il Psi per fondare il nuovo Partito Socialista Unitario (Psu). La marcia su Roma Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo era costretto a porsi il problema della conquista dello stato. Mussolini giocò su due tavoli: quello della manovra politica (guadagnando la simpatia di molti) e quello della violenza armata. Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su Roma (per conquistare il potere centrale) fissato al 27 Ottobre 1922. Per quanto numerose, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate e non in grado di affrontare uno scontro con l’esercito regolare, piuttosto di servirsi di questo come mezzo di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e della neutralità della corona. In effetti fu l’atteggiamento del re a risultare decisivo. Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare la proclamazione dello stato d’assedio cioè il passaggio dei poteri alle autorità militari. Il rifiuto del re aprì alle camice nere la strada di Roma. Mussolini chiese di presiedere il governo. La mattina del 30 Ottobre Mussolini fu ricevuto dal re, la crisi si era dunque risolta i fascisti gridarono al trionfo. Ma nessuno poteva sapere che il cambio di governo presto sarebbe diventato un cambio di regime. Verso lo Stato autoritario Assunto il potere, Mussolini continuò ad alternare la linea dura alla linea morbida. Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran Consiglio del Fascismo, il raccordo tra partito e governo che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista. Un mese dopo, le squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (un corpo armato che doveva disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei ras). L’istituzionalizzazione della milizia non servì a far cessare le violenze contro gli oppositori: le vittime principali furono i comunisti, costretti ad una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze furono disastrose: il numero degli scioperi scese e i salari subirono una costante riduzione. La compressione salariale era una componente importante della politica economica del governo, che mirò soprattutto a restituire libertà d’azione all’iniziativa privata (politica liberista). Furono alleggerite le tasse gravanti le imprese, il servizio telefonico fu privatizzato, si cercò di contenere la spesa pubblica con numerosi licenziamenti. Sul piano economico, la politica liberista (impersonata dal ministro delle Finanze De Stefani) ottenne discreti successi: vi fu un aumento della produzione industriale e agricola, e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Un sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica, che riconobbero nel fascismo il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista. Dal canto suo Mussolini, che prima adottò una linea anticlericale, si mostrò disposto a importanti concessioni. Fu varata anche una riforma scolastica (da Giovanni Gentile) che prevedeva l’insegnamento della religione nelle scuole e l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi. La prima vittima dell’avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare (Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari; anche don Sturzo lasciò il Ppi). Ora Mussolini aveva il problema di rafforzare la sua maggioranza parlamentare. A questo scopo fu varata la nuova legge elettorale maggioritaria: la legge avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa ( almeno 25% dei voti) assegnandole i 2/3 dei seggi disponibili. Alle elezioni del ’24, i fascisti erano in posizione dominante; le forze antifasciste erano profondamente divise: i due partiti socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali di opposizione si presentarono ciascuno con proprie liste, il che significava una sicura sconfitta. Nonostante il vantaggio iniziale, il fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari. Il successo nelle elezioni rafforzò la posizione di Mussolini e alimentò le speranze dei fiancheggiatori (alleati liberali e cattolici) che speravano in un’evoluzione del fascismo in senso liberal-conservatore. Ma poco più di 2 mesi dalle elezioni, un evento tragico ed inatteso mutò bruscamente lo scenario. Il 10 giugno 1924 il deputato Giacomo Matteotti (segretario del Partito Socialista Unitario, formazione nata da una scissione del Partito Socialista Italiano) fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi ed ucciso a pugnalate. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla camera una durissima denuncia contro il fascismo. La sua scomparsa suscitò nell’opinione pubblica un ondata di indignazione contro il fascismo ed il suo capo. Il regime, che era parso inattaccabile qualche giorno prima, parve per un momento isolato e sull’orlo del crollo. L’unica iniziativa concreta presa dai gruppi d’opposizione fu quella di astenersi dai lavori parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La secessione dell’Aventino (come fu definita da un termine della storia romana), aveva un indubbio significato ideale, ma di per se era priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti aventiniani si limitarono infatti a sperare nell’intervento della corona. Ma il re non intervenne, e i fiancheggiatori non tolsero il loro sostegno. Per venire incontro alle loro richieste, Mussolini accettò di dimettersi da ministro degli Interni. Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista rifluì. Il 3 gennaio del ’25, in un discorso alla camera, Mussolini dichiarò chiusa la <<questione morale>> e minacciò apertamente di usare la forza contro le opposizioni. Nei giorni successivi un ondata di arresti, perquisizioni e sequestri si abbatterono sui partiti di opposizione e sui loro organi di stampa. La crisi Matteotti aveva accelerato il passaggio da un governo autoritario ad una vera e propria dittatura. La dittatura a viso aperto Con la svolta del 3 gennaio, la scelta era tra fascismo ed antifascismo. Ad un <<Manifesto degli intellettuali del fascismo>> diffuso per iniziativa di Giovanni Gentile, gli antifascisti risposero con un <<contromanifesto>> redatto da Benedetto Croce. Molti esponenti antifascisti furono esiliati, gli organi di stampa dei partiti antifascisti furono messi nell’impossibilità di funzionare. Una serie di falliti attentati alla vita di Mussolini servì a creare il clima adatto al varo della nuova legislazione destinata a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale: la prima importante legge costituzionale del regime fu quella del dicembre 1925 che rafforzava i poteri del capo del governo; nel ’26 una legge sindacale proibì lo sciopero; furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime. Fu reintrodotta la pena di morte contro i colpevoli di reati contro la sicurezza dello stato, con un Tribunale speciale per la difesa dello Stato. La legge elettorale del ’28 introduceva il sistema della lista unica e lasciava agli elettori solo la scelta di accettarlo o respingerlo in blocco. Le leggi fascistissime del ’26 avevano messo fine alla parabola dello stato liberale nato con l’unità d’Italia ed avevano dato vita ad un nuovo regime in cui tutti i poteri erano nelle mani di un solo uomo. CAPITOLO 17- LA GRANDE CRISI ECONOMICA: ECONOMIA E SOCIETÀ NEGLI ANNI ‘30 Alla fine degli anni ’20 il mondo stava superando i traumi del primo conflitto mondiale. I rapporti fra le maggiori potenze si erano distesi, l’economia dell’Occidente aveva ripreso a svilupparsi. In questo quadro di prosperità, si abbatté una crisi economica imprevista e catastrofica. Scoppiata negli USA nell’autunno del ’29, la grande crisi fece sentire i suoi effetti anche sulle società occidentali, mettendo in modo una catena di eventi che avrebbe portato a un nuovo conflitto mondiale. Durante la guerra gli USA, che avevano concesso cospicui prestiti ai loro alleati in Europa, diventando il maggiore esportatore di capitali. A guerra finita, il dollaro era la nuova moneta forte dell’economia mondiale. Dopo il biennio ’20-‘21, cominciò per gli USA un periodo di grande prosperità. Tuttavia, nonostante gli incrementi produttivi, il numero degli occupanti e dell’industria calò sensibilmente a causa della cosiddetta disoccupazione tecnologica; parallelamente andava invece crescendo l’occupazione nel settore dei servizi. L’espansione industriale portò anche notevoli mutamenti nell’organizzazione della vita quotidiana: cominciarono a diffondersi le bloccare alcune riforme; Roosevelt reagì modificandole). In conclusione, l’azione del nuovo presidente americano dimostrò che l’intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della crisi anche se non riuscì pienamente nel suo intento, ossia ridare slancio all’iniziativa economica dei privati. Solo con l’avvento della seconda guerra mondiale l’economia americana si riprese completamente. Il nuovo ruolo dello Stato La crisi del ’29 portò i governi, a cominciare da quello americano, a potenziare l’intervento statale per rispondere alle urgenze del momento. Il capitalismo liberale, fondato sull’autonoma iniziativa di soggetti individuali, fu sostituito da nuove forme di <<capitalismo diretto>> che comportava alcune limitazioni alle scelte dei privati. Ma queste limitazioni non intaccarono il principio del profitto, che restava scopo finale dell’attività economica. Da ruolo di sostegno esterno, lo Stato passò al ruolo di sostegno attivo dell’espansione economica. Ciò avvenne in forme diverse da paese a paese. La pubblicazione da parte dell’economista inglese Keynes del volume “Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale” aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Keynes, le cui linee economiche rispecchiavano quelle di Roosevelt, riteneva che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di consentire da soli un’utilizzazione ottimale delle risorse e soprattutto attribuì allo stato il compito di accrescere il volume della domanda effettiva, manovrando in senso espansivo la spesa pubblica. A questo punto era necessario abbandonare il mito del pareggio del bilancio: . La spesa pubblica poteva essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio e con l’aumento della quantità di moneta in circolazione. Politiche analoghe sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale. I nuovi consumi Dopo il ’29, l’intero Occidente industrializzato subì un generale processo di impoverimento, ma ciò non impedì lo sviluppo di nuovi modelli di consumo che si erano affermanti negli Usa negli anni ’20. Nel corso degli anni ’30 il processo di urbanizzazione accelerò (a causa della grave crisi del sette agricolo). Crescita delle città significava sviluppo del settore edilizio. Le case di nuova costruzione erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre si trovavano generalmente in periferia e questo rese necessario lo sviluppo di trasporti pubblici (tram, autobus) e la stessa motorizzazione privata. La produzione di veicoli a motore fece registrare notevoli progressi (anche se restò lontana dai livelli statunitensi: in Europa l’automobile rimase un bene di pochi). Lo stesso discorso si può fare con la produzione di elettrodomestici, anch’essi riservati a pochi (quelli più costosi, come frigoriferi e scaldabagni). Più ampia diffusione, anche fra i ceti medio-inferiori, ebbero altri apparecchi domestici come il ferro da stiro, la cucina a gas e la radio. Lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo, per le sue caratteristiche di mezzo di svago e allo stesso tempo di informazione, anche per la classe popolare. Il successo della radio causò un notevole declino del settore giornalistico la radio è più pratica, non richiede sforzi di attenzione, può esser ascoltata in qualsiasi momento e le notizie giungono più tempestivamente. Il giornale, che rimaneva legata alla classe alta della popolazione, cominciò a puntare più sull’immagine: di qui lo sviluppo delle riviste illustrate, dove la fotografia prevale sui testi. Ma in generale, la radio segnò una nuova era nel campo delle telecomunicazioni perché venne utilizzata anche come strumento politico e di addottrinamento. Contemporaneamente allo sviluppo della radio, si vide l’affermazione di un’altra forma di comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema. Con il boom del cinema nacque il fenomeno del <<divismo>> di massa, ossia quel rapporto di attrazione che lega il pubblico agli attori più popolari. Attraverso il cinema si potevano divulgare anche messaggi ideologici e visioni del mondo (una forma di propaganda diretta era quella affidata ai cinegiornali, proiettati nelle sale cinematografiche prima dello spettacolo) [Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione]. Insomma lo sviluppo delle comunicazioni di massa rivoluzionò tutti i settori dell’attività umana. La radio e il cinema erano capaci di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale (fu in questo periodo che lo sport i trasformò in esibizione, perdendo il suo carattere dilettantistico). Negli anni ’20 e ’30 vennero fatte alcune scoperte scientifiche destinate a segnare la storia del XX secolo: anzitutto quella dell’energia nucleare (che avrebbe portato alla costruzione della bomba atomica). Sul piano delle applicazioni belliche della scienza, sono da ricordare i grandi sviluppi dell’aeronautica civile e militare (gli aerei divennero più sicuri e più rapidi), destinata a svolgere un ruolo decisivo nella successiva guerra mondiale. La cultura della crisi Anche sul piano culturale, gli anni ’20 e ’30 furono anni di crisi e mutamenti profondi. Si accentuò in questo periodo fenomeni di disgregazione e perdita dell’unità. Le correnti di pensiero sorte dopo la guerra erano indipendenti e non si influenzarono. Lo stesso discorso vale per la letteratura e le arti figurative: ci fu la tendenza di rottura con le forme canoniche e la ricerca di nuovi moduli espressivi. Continuò la stagione delle correnti d’avanguardia che trovarono un pubblico molto più ampio che in passato. Ai movimenti già affermatisi prima della Grande Guerra (l’astrattismo, il futurismo e l’espressionismo), se ne aggiunsero nuovi altri come il surrealismo (espressione antiborghese). Ma nessuna di queste correnti può prevalere sulle altre per rappresentare quella determinata epoca e momento storico-culturale. Un ulteriore elemento di disgregazione della cultura europea di questi anni fu rappresentato dalle divisioni politico-ideologiche: letterati e artisti, che nonostante celavano il loro pensiero politico riguardante le vicende sociali contemporanee, furono fortemente coinvolti nelle grandi contrapposizioni tra liberalismo borghese e comunismo marxista, fra fascismo e democrazia. Essi furono chiamati a testimoniare e a prendere posizioni su singoli problemi (fu allora che si diffuse l’uso dei pubblici manifesti), furono mobilitati e usati da partiti e governi. Divisa dalla radicalizzazione ideologica e politica, la cultura europea subì le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari. Se la dittatura staliniana provocò al scomparsa fisica di una parte non trascurabile dell’intellettualità russa, il regime nazista in Germania costrinse all’esilio centinaia di intellettuali, sopratutti ebrei. Questo provocò l’emigrazione degli intellettuali (in America ma non solo) e l’impoverimento culturale dell’Europa. CAPITOLO 18-L’età dei totalitarismi Durante gli anni ’30 la democrazia europea visse il suo momento più nero. Con la grande crisi, si diffuse la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e il benessere dei cittadini. I regimi autoritari, in quest’ultimi anni, conobbero il loro periodo di maggior fortuna. Caratteristica fondamentale dei regimi, che convenzionalmente chiamiamo fascisti, era di proporsi come artefici di una rivoluzione e di un nuovo ordine politico. sul piano dell’organizzazione politica prevedevano: accentramento del potere nelle mani di un capo, rigido controllo sull’informazione e sulla cultura. Sul piano economico e sociale invece il fascismo prevedeva un complessivo rafforzamento dell’intervento statale. Mentre le classi popolari e la grande borghesia si piegarono di malavoglia ai regimi autoritari, i ceti medi appoggiarono in maniera anche entusiasta il fascismo, che pareva offrire una prospettiva nuova ed emozionante. Per quanto riguarda il rapporto con le masse, il fascismo, più di ogni altro regime, seppe capire e controllare la società di massa sfruttandone gli strumenti propagandistici l’intento è quello di dominare in modo totale la società e di condizionare comportamenti e mentalità dei cittadini. Tutti i regimi con queste caratteristiche furono definiti totalitari. La crisi della Repubblica di Weimar e l’avvento del Nazismo Nel novembre del ’23 cominciò la lenta ma imprevedibile ascesa di Hitler, passato in meno di 10 anni da capo di una minuscola formazione politica (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) a capo del governo. Fino al ’29 infatti il partito Nazionalsocialista rimase marginale e fondava la sua forza soprattutto su una forte organizzazione armata: le SA. Dopo aver tentato e fallito nell’organizzare un colpo di Stato a Monaco di Baviera, Hitler aveva cercato di dare al partito un volto più <<rispettabile>>. Il programma nazista prevedeva: la denuncia del trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova e grande Germania, l’adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei. I suoi progetti a lungo termine vennero esposti in un libro scritto nei mesi di carcere dal titolo Mein Kampf (=La mia battaglia), destinato a diventare il testo sacro del nazismo. Centrale nei piani di Hitler era l’utopia nazionalista e razzista: antisemita e sostenitore del darwinismo sociale, egli credeva nell’esistenza di una razza superiore e conquistatrice (quella ariana) incarnata solo dal popolo tedesco, che avrebbe dovuto dominare sul mondo intero. Per realizzare questo sogno era necessario dapprima schiacciare i nemici interni: anzitutto gli ebrei (responsabili della sconfitta tedesca nella Grande Guerra e della crisi economica) e i bolscevichi (causa della decadenza della civiltà europea). Una volta sconfitti, avrebbero dovuto recuperare perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi (ricerca dello spazio vitale). Inizialmente questo programma estremista raccolse scarsi consensi; solo con la grande crisi, la maggior parte dei tedeschi ridotti alla fame, perse ogni fiducia nella Repubblica. I nazisti sfruttarono la situazione per uscire dal loro isolamento e far leva sulle paure e sulla rabbia della borghesia, dei ceti medi e dei disoccupati. L’adesione al nazismo avrebbe significato protezione e sicurezza anche materiale. Alle elezioni del ’30, i nazisti ebbero un notevole incremento che segnerà l’inizio del declino della Repubblica di Weimar. I partiti fedeli alla Repubblica (socialdemocratici, cattolici del Centro, democratici) non disponevano più della maggioranza. Il cancelliere Brünig governò per altri due anni duranti i quali il governo si indebolì ulteriormente, mentre la situazione economica andava sempre di più precipitando. Quando la crisi raggiunse il suo apice (’32), le città divennero teatro di scontri sanguinosi tra nazisti e comunisti. Con le elezioni per la presidenza della Repubblica, i partiti democratici appoggiarono la rielezione dell’85enne Hindenburg. Alle elezioni del ’32 i nazisti si affermarono come primo partito tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito e lo stesso Hindenburg finirono col convincesi che senza di loro non era possibile governare. Pertanto il 30 gennaio del ’33, Hitler fu chiamato dal Presidente Hindenburg a guidare il governo. Il consolidamento del potere di Hitler A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere più autoritario di quello che Mussolini avrebbe esercitato in Italia. L’occasione di una prima repressione fu offerta dall’incendio appiccato a Reichstag, il Parlamento nazionale (a fine febbraio). Fu arrestato un comunista olandese, colpevole dell’incendio ciò fornì al governo il pretesto per un’imponente operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali che annullavano le libertà di stampa e di riunione. Hitler mirava ormai all’abolizione del parlamento, ed il parlamento appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di legiferare e quello di modificare la costituzione. L’unica opposizione, la Spd (partito socialdemocratico tedesco), fu sciolta e annientata senza nemmeno riuscire a esprimere una resistenza organizzata (fu accusata di alto tradimento). Successivamente, il Partito tedesco-nazionale e il Centro cattolico si autosciolsero su pressione dei nazisti. Hitler a luglio varò una leggein cui proclamava che il Partito nazionalsocialista era l’unico consentito in Germania. Hitler realizzò parte del suo programma; ma restavano ancora due ostacoli: da un lato l’ala estremista del nazismo (rappresentata dalle SA) sempre più autonoma; dall’altra la vecchia destra conservatrice (rappresentata dai capi dell’esercito e dal presidente Hindenburg) che chiedevano di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate. Hitler, che temeva l’autonomia delle SA, decise di risolvere il problema nel modo più drastico: in quella che sarà ricordata come “la notte dei lungi coltelli”, il capo delle SA (insieme a tutto il suo Lo sforzo atto ad industrializzare il paese fu pagato assai caro dagli operai, che furono sottoposti ad una disciplina severissima. Ma i lavoratori, incentivati sia materialmente che moralmente, erano disposti a sopportare questi sacrifici. Chi contribuiva di più alla crescita della produzione veniva promosso e premiato (il titolo più ambito era quello di <<eroe del lavoro>>). Nacque un vero e proprio movimento che prese il nome di stachanovismo, ossia una competizione tra lavoratori. Lo stalinismo Sorretto dal consenso di milioni di lavoratori che vedevano in lui l’artefice dell’industrializzazione, Stalin assunse in URSS lo stesso ruolo di capo carismatico svolto nello stesso periodo da dittatori di opposta sponda ideologica. Era l’autorità politica suprema e depositario della dottrina marxista- lenista. Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione, anche in URSS furono sottoposti a stretto controllo: essi dovevano limitarsi alla descrizione idealizzata della realtà sovietica (realismo sociale) letteratura, cinema, musica, arti e persino le scienze naturali furono sottoposte a rigide censure. La macchina del terrore di Stalin aveva già iniziato a funzionare negli anni del piano quinquennale. Vittime principali i contadini, commercianti, tecnici ecc. Il periodo delle <<grandi purghe>> cominciò però nel ’34, quando l’assassinio di Serjei Kirov esponente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per un imponente ondata di arresti che colpirono anche gli stessi quadri del partito. Negli anni successivi le purghe non cessarono, giustificate dalla necessità di combattere nemici interni. Si trattò di una enorme repressione poliziesca: le vittime furono prelevate e deportate nei campi di concentramento. Nessun settore della società fu risparmiato: professionisti, intellettuali, tecnici e scienziati scomparvero a decine di migliaia nei lager. Nel ’40 lo stesso Trotzkij fu ucciso da un sicario di Stalin. Le grandi purghe e le uccisioni nei lager provocarono una certa impressione in Occidente. La crisi della sicurezza collettiva e i fronti popolari Salito al potere, Hitler decise di ritirare la delegazione tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra dove le grandi potenze cercavano di raggiungere un accordo sulla limitazione degli armamenti; seguì pochi giorni dopo il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni. Queste decisioni allarmarono tutta l’Europa Nel ’34 gruppi nazisti uccisero il cancelliere Dullfuss, al fine di preparare l’unificazione tra Austria e Germania. Mussolini reagì schierando 4 divisioni al confine italo-austriaco ed Hitler, che non era ancora pronto per una guerra, fu costretto a fare marcia indietro. Nel ’35 viene reintrodotta in Germania la coscrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles. Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per condannare il riarmo tedesco, fu questa l’ultima manifestazione di solidarietà tra le potenze vincitrici. Pochi mesi dopo, l’aggressione italiana all’Etiopia avrebbe rotto il fronte di Stresa e dato avvio a un processo di riavvicinamento italo-tedesco. I successi di Hitler spinsero l’URSS ad entrare nella Società delle nazioni e a stipulare un alleanza militare con la Francia (’35). Questa brusca svolta diplomatica ebbe come ragione quella della lotta contro al fascismo, indicato come principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti con gli altri partiti operai, con le forze democratico-borghesi, di favorire la nascita di fronti popolari (larghe coalizioni), lasciando in secondo piano gli obiettivi socialisti e appoggiando i governi democratici decisi a combattere il fascismo. Nel ’36, una coalizione di Fronte popolar, comprendente anche comunisti, vinse le elezioni in Spagna; Lo stesso avvenne in Francia, lo stesso anno. L’insediamento del primo governo socialista nella storia francese, fu motivo di entusiasmo popolare: gli operai dell’industria diedero vita a ondate di scioperi e occupazioni di fabbriche grazie ai quali ottennero la firma degli accordi di Palazzo Matignon, che prevedevano aumenti salariali, concessioni di 15 giorni di ferie pagate e riduzione delle ore di lavoro. Questi accordi tuttavia portano l’economia francese, che ancora non si era ripresa dalla grande depressione, al declino. Iniziò un processo inflazionistico che costrinsero i governi di fronte popolare a due svalutazioni del franco. Nel ’38 l’esperienza del Fronte popolare poté dirsi conclusa. La guerra civile in Spagna Fra il ’36 e il ’39, la Spagna fu sconvolta da una drammatica e sanguinosa guerra civile, che si trasformò i in uno scontro fra democrazia e fascismo. Con la fine della dittatura di Primo Riveira (=caduta monarchia), la Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale. Quando infatti nel ’36 le sinistre unite in una coalizione di Fronte popolare (comunisti, socialisti e repubblicani) si affermarono nelle elezioni politiche, la tensione esplose in tutto il paese le masse proletarie vissero la vittoria come l’inizio di una rivoluzione sociale; la vecchia classe dominante si espresse, invece, nella violenza squadristica affidata ai gruppi fascisti della Falange, e poi in un nuovo colpo di Stato promosso dai militari. Iniziata nel luglio del ’36, e guidata da Francisco Franco, la ribellione ebbe la sua forza nelle truppe coloniali marocco-spagnole. I ribelli assunsero anzitutto il controllo di gran parte della Spagna Occidentale. Ma le forze repubblicane riuscirono a mantenere il controllo del nord-est (le più ricche e industrializzate) grazie anche a numerosi corpi volontari. Franco venne aiutato dal comportamento delle potenze europee: Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Nessun aiuto venne dalle potenze democratiche: i governi inglesi si tennero a una rigida neutralità (che mal nascondeva una certa simpatia per i nazionalisti=franchisti). La Francia, per timore di uni scontro aperto con i fascisti, si astenne da ogni aiuto palese e promossero un accordo generale fra le grandi potenze per il non interevento. L’accordo fu però rispettato solo da Francia e Gran Bretagna. L’unico Stato a portare un aiuto efficace alla Repubblica fu l’Urss, che fornì materiale bellico e la formazione di Brigate Internazionali: reparti di volontari antifascisti provenienti da tutte le Nazioni e di diverse tendenze politiche (tra cui l’americano Hemingway e l’inglese Orwell). Tuttavia i repubblicani rimanevano inferiori sul piano militare e anche politiche, a causa delle loro divisioni interne. Mentre Franco diede vita ad un unico partito chiamato Falange nazionalista con l’appoggio della Chiesa, della borghesia moderata e dell’aristocrazia terriera (destra), il Fronte popolare vedeva allontanarsi molti settori della borghesia progressista, spaventati dalla violenza a cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i nazionalisti mettevano in piedi uno stato dai chiari connotati autoritari, i repubblicani si scontravano tra loro sull’organizzazione della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente vivace era il contrasto che divideva gli anarchici e comunisti (quest’ultimi favorevoli a una linea moderata). Il contrasto assunse toni drammatici nel ’37, quando a Barcellona gli anarchici si scontrarono con i comunisti e l’esercito repubblicano. I comunisti, legati all’Urss, nonostante la loro modesta consistenza numerica, prevalsero sugli anarchici adottando metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin. Le divisioni nel fronte repubblicano facilitarono l’offensiva delle forze nazionaliste. La sorte della guerra fu segnata nel ’38 quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato dai repubblicani, separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da tutti gli appoggi, la Repubblica spagnola resistettero ancora per un anno, fino a quando all’inizio del ’39, i nazionalisti sferrarono l’offensiva finale che si concluse con la caduta di Madrid (durò tre anni). La guerra civile spagnola rappresentò il preludio della secondo grande conflitto, perché ne prefigurò in parte gli schieramenti (Urss e democrazie contro gli Stati fascisti) e perché in Spagna furono adottati per la prima volta tecniche di guerra che il mondo avrebbe presto sperimentato su ben più ampia scala. L’Europa verso la catastrofe Nel suo disegno di espansione ,Hitler sperò di poter evitare uno scontro con l’Inghilterra a patto che questa gli lasciasse campo libero in Europa centro orientale. Questa speranza fu incoraggiata dalla linea del capo del governo inglese Chamberlain, sostenitore di quella che fu chiamata la politica dell’appeasement, una politica basata sul presupposto che era possibile placare Hitler, accontentandolo nelle sue rivendicazioni più ragionevoli. Ma il presupposto era sbagliato, poiché i programmi di Hitler non erano ragionevoli. Ma questa politica riscosse comunque successo nella classe dirigente e nell’opinione pubblica francese, incline al pacifismo. La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain fu quella di una minoranza di conservatori con a capo Winston Churchill, che sosteneva che l’unico mosso per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione ad ogni sua richiesta, anche a costo di affrontare una guerra. In Francia, invece, la paura di entrare in guerra con Germania era molto più sentita che in Inghilterra, per cui si adottò una politica timida sostanzialmente subalterna a quella inglese. La non reazione di Francia e Inghilterra portò i primi successi della Germania, senza ricorrere al riarmo. Il primo successo clamoroso di Hitler avvenne nel 1938 con l’annessione (Anschluss) dell’Austria al Reich tedesco, obiettivo che aveva fallito nel ’34 a causa della resistenza italiana (questa volta Mussolini rinuncò ad opporsi). Chiusa la questione austriaca, Hitler si concentrò sulla questione dei Sudati, ossia gli oltre 3 milioni di tedeschi che vivevano in Cecoslovacchia. In realtà Hitler mirava all’annessione della regione dei Sudati e alla distruzione dello Stato cecoslovacco. Uno Stato democratico, industrializzato e forte militarmente. Ma un aiuto concreto per la Repubblica cera era problematico, in quanto non confinava né con Francia né con Russia ; l’Urss sarebbe intervenuta solo se la Francia avesse fatto altrettanto. E il governo inglese decise nuovamente di accontentare Hitler in quella che era la sua “ultima richiesta”. A Monaco di Baviera, a fine settembre del ’39, Chamberlain ed il primo ministro francese Daladier, accettarono un progetto presentato dall’Italia che accoglieva le richieste tedesche di annessione al Reich dei territori dei Sudeti. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza, dovettero accettare l’accordo che portava allo sgretolamento della loro Repubblica. I sovietici, anch’essi fuori dalle trattative, capirono che tra le potenze europee non poteva esserci un sostegno concreto: pertanto abbandonò la politica di alleanza con le democrazie adottata negli ultimi anni. Chamberlain, Daladier e lo stesso Mussolini furono accolti al rientro in patria da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare ed acclamati come salvatori della pace, che tuttavia si rivelerà precaria.
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