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La Riforma Statali e le Grande Guerre in Europa: Cavour, Prussia, Italia e Gran Bretagna, Appunti di Storia Contemporanea

Storia politica d'EuropaStoria moderna d'EuropaStoria Internazionale

Come i rapporti tra stato e chiesa in italia vennero riordinati dalle leggi siccardi e come cavour contribuì all'affermazione del principio 'chiesa in libero stato'. Viene inoltre narrata la seconda guerra di indipendenza italiana e la guerra tra prussia e austria, che portarono all'unificazione di quest'ultima in un impero austro-ungarico. Inoltre, vengono descritte le riforme in gran bretagna e in impero ottomano e la grande guerra, caratterizzata da una guerra di massa e dalla partecipazione di stati extraeuropei.

Cosa imparerai

  • Che leggi riordinarono i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia?
  • Come Cavour contribuì all'affermazione del principio 'Chiesa in libero Stato'?
  • Quali riforme vennero attuate in Gran Bretagna e nell'Impero ottomano?
  • Quali furono le consequenze della seconda guerra di indipendenza italiana per l'Italia e per l'Austria?
  • Come si caratterizzò la Grande Guerra?

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 03/04/2019

luca958
luca958 🇮🇹

4.2

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Scarica La Riforma Statali e le Grande Guerre in Europa: Cavour, Prussia, Italia e Gran Bretagna e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA POLITICA DELL’ETÀ CONTEMPORANEA Prof. Di Nucci (Sabbatucci - Vidotto) 1. Storia e politica: l’età contemporanea come era dei diritti Secondo il professor Di Nucci la storia contemporanea inizia con le rivoluzioni di fine ‘700 (industriale, francese e americana), che costituiscono l’avvento definitivo della modernità. Una particolare “svolta” è costituita dal libro di Sieyés intitolato Che cos’è il Terzo Stato? (1789), che segna il passaggio da una crisi fiscale ad una crisi politica, in quanto da quel momento in poi inizia un’accelerazione di eventi che porta alla decapitazione del Re di Francia. Nel libro, Sieyés identifica il Terzo Stato con l’intera Nazione (quello che non fa parte del Terzo Stato non fa parte neanche della Nazione), espone il principio “una testa, un voto” secondo cui non si doveva più votare per ordini, ma singolarmente e razionalmente, e descrive la libertà come un fatto individuale anziché come un diritto nobiliare: su questi assunti di fondo si baserà, in seguito, la sua proposta di abbandonare gli Stati Generali e di autoproclamarsi assemblea costituente. Grazie al contributo di Siéyes, inoltre, si assiste ad un primo ribaltamento dell’idea di sovranità, che viene “frazionata”: se prima, nelle società di antico regime, il Re era un legibus solutus e la monarchia era assoluta ed ereditaria, a partire dal 1789 la sovranità inizia ad appartenere non più solo al Re, ma anche al popolo. Il 4 agosto del 1789 viene poi abolito il sistema feudale e, di conseguenza, anche i censi, le decime, i tribunali signorili, addirittura i privilegi nobiliari e clericali. Successivamente si afferma il principio di eleggibilità di ogni cittadino ad ogni ufficio e carica (non più acquisibili tramite il diritto di nascita): all’aristocrazia per nascita si sostituisce gradualmente l’aristocrazia per merito, e si concretizza il principio della “parità delle condizioni” teorizzato da Tocqueville, requisito indispensabile ad ogni forma di democrazia. Nell’esperienza storica dell’occidente l’età contemporanea può essere considerata l’età dei diritti e delle libertà, e la storia contemporanea è dunque la storia dell’espansione di tali diritti e libertà in Europa e nel mondo. A dimostrazione di ciò abbiamo esaminato alcuni articoli contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, emanata nel 1789 dai rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale: • art. 3 ― il principio di sovranità risiede nella Nazione; nessuno può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa • art. 6 ― la legge è l’espressione della Volontà Generale, cioè tutti i cittadini hanno diritto di concorrere alla sua formazione; (NB: durante la degenerazione del periodo giacobino: “se qualcuno si rifiutasse di obbedire ad essa, lo si costringerebbe ad essere libero”) • art. 7 ― nessuno può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi previsti dalla legge; questo articolo costituisce un’indiretta ma prepotente affermazione del diritto all’habeas corpus, cioè il diritto al possesso del proprio corpo (presente anche nella Carta di Nizza del 2000). Alla luce di quanto detto finora, si può quindi affermare che alla fine del 1700 il giusnaturalismo non è più richiamato come un principio astratto, ma diventa una “leva di Archimede”, un modello - di derivazione europea - che comporta il riconoscimento e l’affermazione dei diritti naturali dell’essere umano: è questo il filo conduttore di tutta la storia contemporanea. 2. La rivoluzione industriale La rivoluzione industriale può essere considerata la più grande rivoluzione della storia umana dal Neolitico, cioè da quando si passò dalla caccia alla produzione. Il processo di trasformazione iniziò in Inghilterra a metà del ‘700 e si protrasse fino all’inizio dell’800 investendo l’economia, la società e la cultura di tutta l’Europa. Questo mutamento portò a un sistema produttivo moderno, caratterizzato dall’introduzione e dall’uso massiccio delle macchine, le quali sostituirono il lavoro dell’uomo e si configurarono come “nuovi soggetti sociali”; altro elemento centrale fu l’utilizzo di fonti di energia inanimate, che presero il posto degli animali. L’applicazione degli strumenti della tecnica al mondo naturale per trarne il massimo vantaggio fu agevolata da una base culturale (comune a tutta l’Europa) che esaltava la centralità dell’uomo (tradizione cristiana e umanistica) e il progresso (pensiero illuminista). Ci sono motivi ben precisi che spiegano perché la rivoluzione industriale partì dall’Inghilterra: innanzitutto la grande crescita demografica del paese nella seconda metà del ‘700 (scese il tasso di mortalità e aumentò quello di natalità), in secondo luogo la recente rivoluzione agricola (con conseguente crescita della produzione e dell’innovazione tecnologica), poi anche lo stimolo proveniente dai commerci internazionali (settore in cui l’Inghilterra vantava uno storico primato) e la stabilità del sistema politico. La grande trasformazione partì dal settore tessile: il lavoro manuale non era più sufficiente per fronteggiare la domanda di prodotti di lana e cotone, perciò le fasi della filatura e della tessitura furono meccanizzate (navetta volante, macchina da filo, telaio “teorica del pugnale”: reputava vittorie anche le sconfitte, purché si combattesse. Il suo sogno, la cui realizzazione era assai improbabile, era l’unità repubblicana, ostacolata soprattutto dalla presenza della Chiesa cattolica, che influenzava negativamente i contadini (dei quali, non a caso, diffidavano sia i mazziniani che i garibaldini). Un modello più moderato, e quindi più realistico, per il futuro dell’Italia unita fu elaborato da Gioberti: si tratta del modello federale tra gli Stati italiani guidati dal Papa (NB: entusiasmo patriottico intorno alla figura di Pio IX). Il ‘48 in Italia ebbe inizialmente uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei, in quanto il primo obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni (o statuti) fondate sul sistema rappresentativo. Il primo successo rivoluzionario fu ottenuto con la sollevazione di Palermo (12 gennaio), che indusse Ferdinando II di Borbone (il più retrogrado dei regnanti italiani) a concedere una Costituzione al Regno delle Due Sicilie per paura della rivoluzione. Iniziò così il contagio rivoluzionario negli altri “antichi Stati”: concessero le costituzioni anche Leopoldo II di Toscana, Pio IX e Carlo Alberto, che istituì lo Statuto Albertino (rimasto in vigore fino al 31 gennaio 1947; NB: Mussolini non lo abolì, ma lo definì “costumino costituzionale” in senso dispregiativo). 4. I percorsi nazionali delle rivoluzioni europee e il bonapartismo • Impero asburgico = a Vienna venne concesso un Parlamento dell’Impero, in Ungheria le agitazioni assunsero un carattere sempre più indipendentistico, a Praga e in altri territori asburgici aumentarono le rivendicazioni di autonomia: la repressione militare della sollevazione di Praga (giugno ‘48) segnò l’inizio della riscossa del potere imperiale, che riuscì anche a sfruttare a proprio favore la rivalità tra gli slavi e i magiari (dovuta al fatto che gli slavi volevano conservare la propria identità nazionale, mentre i magiari inseguivano il sogno di una “grande Ungheria” che comprendesse tutti i territori slavi appartenenti all’antico regno magiaro). Dopo una nuova repressione a Vienna, salì al trono imperiale Francesco Giuseppe, che sciolse d’autorità il Parlamento e promulgò una costituzione moderata in cui ribadiva la struttura centralistica dell’Impero e, allo stesso tempo, prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto. • Germania = le grandi manifestazioni popolari iniziate a Berlino (marzo ‘48), costrinsero il Re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un Parlamento prussiano, anche se il movimento liberal- democratico conobbe un rapido declino. Poco dopo si riunì un’assemblea costituente con sede a Francoforte e con l’obiettivo di avviare un processo di unificazione nazionale tedesca. Le soluzioni erano due: la “piccolo tedesca”, con la quale si sarebbe costituito il Regno tedesco senza le aree dell’Impero asburgico, e la “grande tedesca”, che prevedeva invece l’unione di Germania e Austria. Prevalse la prima e la corona fu offerta a Federico Guglielmo IV di Prussia, che però rifiutò in modo sprezzante perché sosteneva di essere sovrano per diritto di discendenza e, quindi, non avrebbe potuto accettare di essere incoronato da “un’assemblea di professori e bottegai” (così definì la costituente): a quel punto cadde sia l’assemblea di Francoforte sia l’ipotesi di uno Stato tedesco unitario e costituzionale. • Italia = dopo le spinte insurrezionali iniziate a Palermo, i democratici riportarono in primo piano la questione nazionale, fino ad allora rimasta in ombra. Due eventi furono particolarmente significativi: a Venezia (marzo ‘48) una manifestazione popolare impose al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, tra cui il capo dei democratici Daniele Manin, il quale - insieme a Tommaseo - formò un governo provvisorio e proclamò la Repubblica veneta; a Milano l’insurrezione contro gli austriaci iniziò con l’assalto al palazzo del governo e si protrasse per 5 giorni (le “cinque giornate di Milano”, marzo ‘48), sotto la guida di Carlo Cattaneo, che formò a sua volta un governo provvisorio. In seguito alla cacciata degli austriaci da Venezia e da Milano, anche il Piemonte di Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria: la sua intenzione era quella di attuare il suo progetto egemonico (tipico della monarchia sabauda), ma fu appoggiato da un ingente numero di volontari. Nella guerra anti-austriaca si unirono a Carlo Alberto anche Fernando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX, perciò la guerra piemontese si trasformò nella prima guerra di indipendenza nazionale e federale, combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche. Tuttavia Carlo Alberto dimostrò di essere interessato quasi soltanto all’annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l’irritazione dei democratici e la diffidenza degli altri sovrani, che ritirarono le rispettive truppe lasciandolo praticamente solo; in particolare Pio IX si tirò indietro perché stava combattendo una guerra contro una grande potenza cattolica. Carlo Alberto fu sconfitto il 23 luglio a Custoza e dopo neanche un mese fu firmato l’armistizio con gli austriaci. Il 1848 fu caratterizzato dallo scontro tra due anime: quella liberale moderata (conservatrice) e quella democratica repubblicana (tendenzialmente socialista). Per tenere a bada quest’ultima, Pio IX nominò come primo ministro pontificio Pellegrino Rossi, che però fu ucciso in un attentato; questo evento indusse il papa a fuggire a Gaeta. Così a Roma i democratici presero il sopravvento e, nel gennaio del ‘49, fu eletta a suffragio universale l’assemblea costituente (composta soprattutto da democratici, tra cui anche Mazzini e Garibaldi), che proclamò la Repubblica Romana (9 febbraio) con la “democrazia pura” come forma di governo. L’immediata conseguenza degli eventi di Roma fu la fuga (ancora una volta a Gaeta) di Leopoldo II di Toscana; i poteri effettivi passarono quindi a un triumvirato composto da Montanelli (capo del governo), Guerrazzi (ministro degli interni) e Mazzoni. Nel frattempo Mazzini, profeta dell’unità, aveva proposto di riprendere la guerra contro l’Austria. Carlo Alberto decise di provarci di nuovo, ma venne sconfitto in 4 giorni dalle truppe austriache di Radetzky e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Gli austriaci tornarono dunque ad occupare l’Italia; la resistenza più lunga fu quella della Repubblica Romana, ormai centro della rivoluzione democratica e luogo di incontro di esuli e cospiratori (Mazzini, Garibaldi, Mameli, Saffi, Pisacane, Manara). Pio IX, però, si stava organizzando con le altre potenze cattoliche per ristabilirsi a Roma e per porre fine all’opera di laicizzazione del governo repubblicano: risposero al suo appello l’Austria, la Spagna, il Regno di Napoli e anche la Francia di Luigi Napoleone (per assicurarsi l’appoggio dei cattolici francesi e per prevenire un intervento austriaco). All’inizio di giugno la capitale fu attaccata. Mazzini invitò i volontari accorsi da tutta Italia a “combattere la forza con la forza” e a resistere il più possibile: dopo un mese Roma cadde in mano agli assedianti, ma la difesa della Repubblica ebbe un altissimo valore di testimonianza politica e ideale. I governi rivoluzionari furono quindi sconfitti in tutta Italia, a causa sia dell’impreparazione degli eserciti italiani di fronte a quelli stranieri, sia dell’estraneità delle masse contadine (cioè la stragrande maggioranza della popolazione). Non si possono tuttavia sottovalutare le gesta eroiche dei volontari italiani, che diedero vita ad una vera e propria “epica nazionale” e che fecero emergere il “repubblicanesimo italiano”. Il repubblicanesimo non è solo una forma di Stato, ma un orientamento politico ideologicamente più forte di quello democratico, che esalta la solidarietà comunitaria e la partecipazione allontanandosi dal liberismo. NB: il repubblicanesimo mazziniano adottò come vessillo nazionale il tricolore italiano. • Francia = a partire dal 1849 si accentuò l’evoluzione della situazione politica in senso conservatore, infatti nel dicembre del 1851 Luigi Napoleone effettuò un colpo di Stato ed ottenne un plebiscito per riformare la Costituzione. L’anno successivo fu approvata dal popolo a suffragio universale la restaurazione dell’Impero (con 8mln di voti contro 250mila): Luigi Napoleone Bonaparte carboneria, nel 1858 aveva fatto esplodere delle bombe in un attentato (accentuando l’idealizzazione della figura del “terrorista tirannicida”); prima di andare al patibolo, tuttavia, aveva implorato in una lettera l’imperatore di fare attenzione alla situazione italiana. Napoleone, quindi, durante un incontro segreto con Cavour a Plombièrs, firmò degli accordi che ipotizzavano una nuova divisione della penisola italiana dopo la sconfitta dell’Austria. La seconda guerra di indipendenza italiana scoppiò nell’aprile del 1859 e le sorti del conflitto volsero subito a favore dei franco-piemontesi; ma l’11 luglio dello stesso anno Napoleone III - vista la pressione dell’Op francese, visti gli alti costi della guerra, considerata la minaccia di un intervento della Confederazione germanica a fianco dell’Austria - firmò un armistizio con gli austriaci a Villafranca che assegnava allo Stato sabaudo solo la Lombardia. Questo suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò le dimissioni e fu sostituito dal generale La Marmora; tornò poi al governo nel 1860 e, dopo alcune insurrezioni nell’Italia centro-settentrionale che avevano costretto alla fuga i vecchi sovrani, riuscì ad annettere al Piemonte le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana (le quali in un plebiscito si pronunciarono favorevoli alla soluzione unitaria piuttosto che alla creazione di regni separati). I democratici, nel frattempo, erano pronti a rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria nel Mezzogiorno: due mazziniani siciliani esuli in Piemonte - Francesco Crispi e Rosolino Pilo - concepirono il progetto di una spedizione che partisse dalla Sicilia per poi estendersi al continente e si adoperarono per convincere Garibaldi ad assumerne la guida, essendo egli il capo militare più prestigioso del movimento patriottico e l’unico leader capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento unitario. NB: Cavour vedeva nella spedizione un’occasione di rilancio per i mazziniani, tuttavia non fece nulla di serio per impedirla; Vittorio Emanuele II guardava invece con favore l’impresa garibaldina, ma non poté intervenire concretamente in suo aiuto. Tra le varie tesi storiografiche avanzate, c’è anche quella del complotto anglo-sabaudo (la cosiddetta “guerra sporca”), secondo cui la Gran Bretagna sarebbe stata in combutta con la monarchia per tutelare i propri interessi economici nel Mediterraneo e quindi nella penisola. Comunque, seppur preparata in fretta, con pochi mezzi finanziari e con scarso equipaggiamento, l’impresa ebbe inizio nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, quando Mille volontari di diversa provenienza partirono alla volta della Sicilia. Una volta sbarcati trovarono sia le navi inglesi che l’esercito borbonico, il quale rivelò tutta la sua inefficacia (il comandante della nave Stromboli non fece aprire il fuoco contro i garibaldini per paura di colpire gli inglesi); da Marsala arrivarono a Palermo, dove Garibaldi - che si era proclamato dittatore in nome del Re - proclamò la decadenza della monarchia borbonica dopo giorni di duro combattimento. Garibaldi dimostrò grandi doti di combattimento e di strategia militare, in particolare tramite la tecnica della guerriglia che aveva appreso in Sud America, che accrebbero la sua popolarità in tutta Europa. A Palermo si aggiunsero ai Mille più di 15’000 volontari, insieme ai quali Garibaldi riuscì a sbarcare in Calabria e a risalire la penisola, senza che l’esercito borbonico fosse in grado di opporgli un’efficace resistenza; anzi, quest’ultimo era in via di disfacimento e sembrava stesse quasi per arrendersi. Durante l’ingresso trionfale a Napoli (7 settembre 1860) altri volontari si aggiunsero all’esercito garibaldino, addirittura la squadra navale del Re si consegnò. A questo punto Cavour iniziò a temere che Napoli, una volta liberata, potesse trasformarsi in un quartier generale dei democratici e che diventasse la base per una spedizione nello Stato pontificio (questo avrebbe messo in discussione l’assetto monarchico del Regno sabaudo stesso); perciò decise di intervenire militarmente e, dopo aver ottenuto l’assenso di Napoleone III, le sue truppe invasero lo Stato della Chiesa, l’Umbria e le Marche e sconfissero l’esercito pontificio a Castelfidardo. Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borboni nella grande battaglia del Volturno, l’esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Mezzogiorno. Poco dopo, per volontà del governo piemontese, si tennero plebisciti in tutte le province meridionali dove gli elettori dovettero scegliere se accettare o respingere l’annessione allo Stato sabaudo: la maggioranza dei sì fu schiacciante, come anche l’affluenza alle urne. A Garibaldi non restò che attendere l’arrivo dei piemontesi per cedergli ogni responsabilità delle province liberate. L’incontro si svolse a Vairano il 25 ottobre: fu un incontro tra l’esercito regolare ed i patrioti volontari, quindi tra la rivoluzione e la statualità (i garibaldini non furono inseriti nell’esercito per paura di alimentare nuovamente il fuoco rivoluzionario proprio quando la priorità era consolidare l’ordine politico). Una volta consegnato il regno di Napoli al Re, Garibaldi si ritirò a Caprera, dopo aver reso i più grandi servigi che un uomo possa dare all’Italia, e cioè dare agli italiani la fiducia in se stessi laddove erano sempre stati visti come “il popolo che non si batte”. L’impresa dei Mille mise in rilievo anche i limiti di Garibaldi, che fu sì l’eroe fondatore, ma anche un pericolo e, allo stesso tempo, un’alternativa dal punto di vista politico: come già detto si proclamò dittatore e, all’ingresso alla Camera, si presentò con un poncho e una camicia rossa per sottolineare la sua diffidenza. Dopo l’unità egli diventò il leader politico della sinistra, ma tuttora la sua identità politica resta combattuta tra la destra e la sinistra. 6. Le interpretazioni dell’unità d’Italia e il rapporto nord-sud Dopo l’unità prevalse il modello dello Stato centralizzato, nient’altro che una declinazione dello Statuto Albertino in forma parlamentaristica, la quale permetteva ai governi di trovare legittimazione nella maggioranza parlamentare. L’assetto monarchico costituzionale fu preferito a quello federalista perché si temeva di rompere l’unità appena raggiunta. Tuttavia, i mazziniani non si riconobbero mai nel nuovo Stato, in quanto avrebbero voluto l’assetto repubblicano (lo stesso Mazzini non rinunciò mai alla “teorica del pugnale” né alla “dottrina del martirio”). Nella storiografia esistono varie interpretazioni dell’unità italiana. Inizialmente essa venne ampiamente celebrata. In seguito, un’altra corrente interpretativa criticò questo approccio mettendo in risalto il deficit democratico che caratterizzò il processo di unificazione - appellandosi alla scarsa se non nulla partecipazione delle masse - e la ristretta base di legittimazione: i progetti dei patrioti che pensavano di far sorgere il nuovo Stato dalla sola iniziativa popolare non si erano realizzati, anzi, l’Italia unita si presentava come il risultato di un allargamento di uno Stato regionale rivelatosi “forte e fortunato”. Si iniziò poi a parlare di “occasioni mancate” e, soprattutto, di “Risorgimento incompiuto e verticistico” a causa della centralità della figura del Re, sostanzialmente a capo dell’unificazione; nacque così anche l’interpretazione dell’unità come “conquista regia”, espressione coniata da Alfredo Oriani (entrato nella galleria dei precursori del fascismo), cioè come il frutto di una “rivoluzione dell’alto” analoga a quella che, 10 anni dopo, avrebbe portato alla formazione del Reich tedesco. La realtà dei fatti è che lo Stato nazionale italiano nacque dalla combinazione di un’iniziativa dall’alto (= politica di Cavour e della monarchia sabauda) e di un’iniziativa dal basso (= ampio moto di opinione pubblica che portò alle insurrezioni del centro Italia e alla spedizione garibaldina). Un’altra interpretazione è quella fornita da Gramsci, secondo cui l’unità fu una “rivoluzione agraria mancata” perché i democratici non erano riusciti a conquistare le masse contadine, come invece avevano fatto le componenti più estreme dei giacobini durante la rivoluzione francese. Comunque, l’idea dell’Italia unita era di carattere politico-letterale, piuttosto che popolare. Le élite meridionali sapevano che al sud c’era uno Stato da costruire ex novo e lo consideravano, insieme ai democratici, una “realtà da riscattare”, laddove esso agli occhi di alcuni era piuttosto una “realtà di corruzione e camarilla”. Al nord esisteva già un’attività industriale strutturata attorno a vari settori (tessile, siderurgico ecc.): in particolare nel Comasco, in Brianza e a Varese si trovavano addirittura realtà industriali preunitarie di origine rinascimentale. Questo proto- proporzionale al loro numero. NB: Gli Junker fecero della Prussia uno Stato sostanzialmente elitario, pur essendo formalmente autoritario, a tratti autocratico per via della presenza del Re. La Prussia, dopo Jena, procedette ad una riorganizzazione totale dell’esercito sul modello delle truppe napoleoniche, concepito in modo da produrre effetti “nazionalizzanti”: fu introdotta la circoscrizione nazionale obbligatoria (ogni cittadino doveva prestare servizio per 2 anni nell’esercito, per altri 2 nelle truppe di riserva e poi per 14 anni nella milizia territoriale), la partecipazione militare doveva essere sentita come dovere civico affinché si formasse una “nazione in armi”. Tuttavia, la mancanza di un sistema liberal-parlamentare e la presenza ai vertici dello Stato degli Junker non condannarono la nazione all’immobilismo, anzi, i due pilastri dell’autoritarismo politico e del conservatorismo sociale andarono a confluire nella cosiddetta “via prussiana allo sviluppo”, che costituiva il primo modello alternativo a quello britannico democratico-liberale. Lo sviluppo prussiano si concretizzò in un ottimo sistema di comunicazioni (che facilitava gli scambi commerciali), in una rete ferroviaria più sviluppata rispetto alle altre europee, in un’istruzione elementare elevata, in un clamoroso aumento della forza militare; a tutto ciò si aggiunse la forza crescente del nazionalismo tedesco e l’incontro tra gli Junker e la borghesia industriale nell’ambito della “politica di potenza”. La questione del rafforzamento dell’esercito divenne di primaria importanza quando il nuovo sovrano, Guglielmo I, non riuscendo a far approvare in Parlamento la riforma delle forze armate, nominò cancelliere Otto von Bismarck, esponente dell’ala più reazionaria degli Junker, che riformò l’esercito ignorando l’opposizione parlamentare. Lo scopo ultimo di Bismarck era unificare la Germania senza l’Austria o contro di essa, e senza la minima concessione agli ideali rivoluzionari del 1848; per farlo, Bismarck escluse il Parlamento e coinvolse solo il Re, gli Junker e la borghesia (“non è con i discorsi e con le risoluzioni delle maggioranze che si decidono i grandi problemi del nostro tempo”). 8. Il Secondo Reich, la Comune di Parigi, la Terza Repubblica francese e l’Impero austro-ungarico Il passaggio chiave dell’unità tedesca è il fatto che la Prussia non doveva/voleva realizzarla tramite i voti della maggioranza, ma con “il sangue e il ferro”. Il primo ostacolo sulla via dell’unificazione era costituito dall’Austria, che era sia parte (e capo) di un impero plurinazionale sia membro della Confederazione germanica (all’interno della quale aveva da sempre un ruolo di primissimo piano). Il contrasto tra Austria e Prussia si fece acuto nel 1864-65 dopo la guerra dei Ducati, durante la quale le due potenze si erano accordate per strappare 3 Ducati al Re di Danimarca, ma poi entrarono in conflitto tra loro per l’amministrazione dei territori conquistati (NB: sulla questione si espresse anche il Primo Ministro inglese, che la definì incomprensibile). Bismarck, che già respirava l’aria di guerra, si alleò subito con l’Italia e si assicurò la benevola neutralità della Russia e di Napoleone III; dalla parte dell’Austria si schierarono invece molti Stati minori della Confederazione germanica che temevano l’annessione alla Prussia. La guerra iniziò nel giugno 1866: mentre la Prussia doveva combattere su un solo fronte, cioè contro l’Austria, quest’ultima doveva fronteggiare sia la Prussia che l’Italia (sua alleata) e fu sconfitta a Sadowa (in Boemia) dopo appena tre settimane. L’esercito prussiano utilizzò per la prima volta la tecnica innovativa della guerra di movimento, che sfruttava al meglio le ferrovie e che avrebbe reso celebre e temuta la macchina militare tedesca negli anni successivi. Ad agosto fu firmata la pace di Praga, che privò l’Austria del Veneto, ceduto all’Italia. L’Austria si trovò costretta a volgersi ad est, diventando sempre più uno Stato danubiano-balcanico; inoltre, non avendo ancora risolto il problema delle nazionalità che convivevano al suo interno, l’Impero fu diviso in due Stati (1867) - uno austriaco e uno ungarico - e per questo d’ora in poi si parlerà di Impero austro-ungarico. La vittoria contro l’Austria suscitò negli Stati tedeschi un grande entusiasmo e rese il sogno dell’unità finalmente realizzabile; Bismarck riuscì anche a far ratificare da parte del Parlamento le spese militari effettuate fino ad allora dal governo, e la borghesia liberale rinunciò a guidare l’unificazione, affidata definitivamente alla Corona. A questo punto l’ultimo ostacolo all’unità tedesca era costituito dalla Francia di Napoleone III. Il casus belli fu una questione dinastica relativa al trono di Spagna, rimasto vacante dopo un colpo di Stato militare; il governo provvisorio spagnolo aveva offerto la Corona a Leopoldo, un parente del Re di Prussia: la prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventò la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L’opinione pubblica francese insorse e il governo reagì quasi con un ultimatum, inducendo Leopoldo a rifiutare onde evitare di creare conflitti. Dopo un incontro tra Guglielmo I di Prussia e l’ambasciatore francese, Bismarck comunicò alla stampa un telegramma a lui inviato dal Re, manipolando con cura il testo in modo tale da far intendere che il rappresentante di Napoleone III fosse stato bruscamente messo alla porta. Quel comunicato stampa risvegliò la “cultura dell’onore” personale e patriottico nei francesi, che furono investiti da un’ondata di furore nazionalistico concretizzatasi in grandi manifestazioni, tali da spingere Napoleone a dichiarare guerra alla Prussia nel luglio del 1870. Ancora una volta la Prussia usò la tecnica della guerra di movimento, ricorrendo alle ferrovie per spostamenti rapidi delle truppe e allo strumento del telegrafo per comunicazioni e indicazioni ai soldati. Nella prima fase della guerra la battaglia fondamentale fu quella di Sedan (31 agosto), che si rivelò catastrofica per la Francia in quanto Napoleone III fu catturato insieme a molti generali e ufficiali, 17’000 soldati furono uccisi e tutto l’esercito fu fatto prigioniero. Nella seconda fase invece, un radicale francese - Leon Gambetta - ministro della guerra, fuggito dalla catastrofe, rilanciò la “leva di massa” risvegliando il ricordo della grande rivoluzione e proclamò la Terza Repubblica francese (4 settembre). Tuttavia l’esito della guerra non poteva più essere ribaltato, quindi nel gennaio 1871 la Francia fu costretta a chiedere l’armistizio. Il 18 gennaio 1871 Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco con l’appoggio dei principi e proclamò il Secondo Reich all’interno della sala degli specchi della reggia di Versailles, luogo simbolo della potenza dei Re di Francia: fu un evento di grande valore simbolico, che inflisse alla Francia un’umiliazione ancor più pesante di quella della sconfitta militare. Ad aprile fu proclamata una nuova costituzione tedesca che prevedeva il modello federale e l’imperatore, il cancelliere, il capo delle forze armate e il Parlamento (bicamerale) come istituti fondamentali dell’Impero. Il 10 maggio 1871 fu firmata la pace di Francoforte tra la Germania e la Francia, definita “pace cartaginese” a causa delle dure condizioni imposte alla Francia: essa fu costretta a pagare una pesante indennità di guerra (5 miliardi di marchi d’oro) entro 3 anni, a cedere l’Alsazia e la Lorena (importante mutilazione territoriale) e a mantenere truppe d’occupazione tedesche sul proprio territorio fino al pagamento completo dell’indennità. NB: l’indennità, introdotta in questa occasione per la prima volta, andò a sostituire gli antichi bottini di guerra. Dopo la caduta di Napoleone III e la proclamazione della Terza Repubblica, nel 1871 in Francia si tennero le elezioni per l’Assemblea nazionale, composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori; fu chiamato a presiedere il governo Thiers, che subito si affrettò ad aprire trattative con la Germania. Quando furono chiare, però, le condizioni imposte da Bismarck, i radicali protestarono occupando Parigi e rendendo fatale lo scontro tra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e contadina. Il governo inviò delle truppe contro gli insorti e contro la Guardia nazionale (che aveva rifiutato di obbedire e si era schierata con i rivoluzionari); tuttavia trionfarono i manifestanti che costituirono un autogoverno, cioè la Comune. Essa assunse presto i caratteri di un’esperienza radicalmente rivoluzionaria, come se la rivoluzione francese non fosse mai finita (Cafagna: “è come se fosse durata per tutto il 1800”): i consiglieri (per lo più giovani e privi di esperienza politica), animati dal sacro fuoco dell’idealismo, diedero alla Comune un’impronta radicale socialista, basata sulla non nemici da annientare, poiché tutti condividevano il senso di appartenenza alla stessa comunità nazionale: per questo motivo il paese rimase sempre unito e tale mentalità non fu scossa né dalla rivoluzione francese né dai moti del 1848. Gli schieramenti politici erano due: da una parte i Tories, conservatori e difensori dell’identità britannica (che vantavano elevati consensi anche grazie alla loro opera di tutela degli industriali); dall’altra i Whigs, liberali, inizialmente quasi simpatizzanti per la rivoluzione francese. Questi ultimi, dopo essere rimasti esclusi dal governo per circa 30 anni, rientrarono in scena in qualità di rappresentanti e tutori della “middle class” - composta da imprenditori, mercanti e banchieri - la quale, però, non faceva parte dell’elettorato. La questione posta dai Whigs riguardava la riforma della legge elettorale per la Camera dei Comuni: la riforma che chiedevano non riguardava tanto il reddito, quanto la modifica delle circoscrizioni elettorali. Dopo la rivoluzione industriale e il conseguente urbanesimo, infatti, alcune aree erano diventate grandi borghi, ma si trovavano comunque fuori dalle circoscrizioni (es. Manchester contava 180mila abitanti ma non poteva eleggere neanche un deputato); altre aree, le cosiddette “rotten boroughs” (“borghi putridi”), pur essendo piccoli centri rurali godevano di un ampio potere elettorale (es. Old Sarum con 6 elettori eleggeva 2 parlamentari). I Whigs, con la riforma elettorale come cavallo di battaglia, riuscirono a vincere le elezioni del 1830 e, nel 1832, approvarono il First Reform Act che ridisegnò le circoscrizioni sulla base del nuovo assetto post-urbanesimo: il risultato fu un raddoppiamento del corpo elettorale e un mutamento del suo profilo sociale, in quanto fu riconosciuto il diritto di voto anche alla borghesia capitalistica. Nel periodo successivo al 1848, in piena età vittoriana, l’Inghilterra visse una lunga stagione di prosperità economica e politica, oltre che di grande tranquillità sociale; in quel periodo il Regno Unito era la più progredita tra le potenze europee: il numero degli occupati nell’industria era altissimo, come la produzione di ferro e carbone; la rete ferroviaria e la flotta mercantile erano le migliori d’Europa; in ambito commerciale deteneva il primato mondiale assoluto; l’impero coloniale era già vasto e in via di ulteriore espansione; infine il tasso di analfabetismo era tra i più bassi al mondo. In età vittoriana fu anche consolidato il sistema parlamentare, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento (arbitro assoluto della vita politica); alla Corona spettava un ruolo essenzialmente simbolico dell’identità nazionale. Tuttavia, alla Camera dei Lords - alla quale spettavano molti poteri - si accedeva ancora per via ereditaria o per nomina regia, quindi il parlamentarismo non era propriamente sinonimo di democrazia. Nel 1838 il movimento cartista aveva scritto una “carta del popolo”, pubblicata dai giornali, i cui punti principali erano: il suffragio universale maschile, il voto segreto, l’abolizione del censo come requisito per poter eleggere, l’indennità parlamentare, l’uniformità dei collegi elettorali e l’annualità dei parlamenti. Tuttavia, i cartisti non erano riusciti a trovare una rappresentanza e dunque avevano dato vita a manifestazioni spesso violente, represse dal governo Whig (liberale). Nel 1865 il liberale Gladstone, salito al governo, provò ad ottenere - senza risultati - una legge elettorale che prestasse attenzione anche ai ceti popolari. Fu però Disraeli, ministro delle finanze del nuovo governo Tory, ad approvare la legge di riforma elettorale: egli teorizzò l’esistenza di 2 nazioni all’interno della Gran Bretagna, quella dei ricchi e quella dei poveri; la soluzione non era il liberalismo dottrinario francese, ma piuttosto il tradizionalismo, cioè l’orgoglio di appartenere ad una grande potenza. Perciò l’opera di Disraeli fu quella di integrare le masse nel sistema tramite l’allargamento del diritto di voto: fu così che nel 1867 fu approvato il Second Reform Act, che concesse l’elettorato attivo ai lavoratori urbani di reddito più elevato. Questo sistema funzionò perché trovò forza nel bilanciamento tra gli elementi della tradizione (monarchia e Lords) e gli elementi pratici (governo e Comuni). Se la Gran Bretagna era, nella seconda metà del secolo, la più avanzata sul piano economico e civile, all’altro estremo d’Europa il primato dell’arretratezza spettava senza dubbio alla Russia zarista, caratterizzata da una duplice vocazione: asiatica ed europea. Il suo sistema economico era ancora interamente agricolo (negli anni ‘50 più del 90% della popolazione era occupato nella produzione del grano) e i contadini erano soggetti alla servitù della gleba (quindi comprati e venduti insieme alla terra che coltivavano, subordinati ai proprietari cui dovevano fornire un canone periodico); il lavoro agricolo era organizzato in “mir”, cioè comunità di villaggio, e l’aristocrazia terriera dominava ancora incontrastata. Il sistema politico, invece, era un’autocrazia (basata sul comando di uno solo, lo zar) ed era l’unico completamente privo di istituzioni rappresentative. NB: a questa arretratezza faceva stranamente riscontro una grande vivacità della vita culturale e del dibattito ideologico (Tolstoj, Dostojevskij ed altri intellettuali discutevano di liberalismo, di socialismo, di democrazia ecc.), all’interno del quale c’erano due correnti: da un lato gli occidentalisti, che vedevano nell’adozione dei modelli dei paesi più avanzati l’unico mezzo per risollevare la Russia; dall’altro gli slavofili, che si richiamavano alla religione ortodossa contro il razionalismo e l’individualismo occidentale. L’avvento al trono di Alessandro II alimentò grandi speranze di rinnovamento, in conseguenza di alcune riforme del sovrano. La più importante fu quella che abolì la servitù della gleba (nel 1861) per migliorare le condizioni dei contadini, ma conservò comunque il sistema dei mir; questa riforma però non produsse i risultati sperati perché i contadini diventavano proprietari terrieri attraverso pagamenti a rate, che li portavano all’indebitamento. Un’altra riforma significativa fu quella del sistema giudiziario che introdusse l’autonomia politica dei magistrati e la pubblicità dei processi, ma attivò anche la pratica della censura. Queste riforme portarono alla formazione di un’opinione pubblica russa, che si divise in due correnti: i panslavisti da un lato, i populisti dall’altro. Il populismo, in particolare, che letteralmente significa “andare verso il popolo”, consisteva nel tentativo degli intellettuali di andare nelle campagne e sollecitare i contadini a ribaltare il regime zarista (es. Bakunin); tale tentativo però fu vano, perché i contadini difesero lo zar che li aveva liberati dalla servitù della gleba, rinominandolo Alessandro II “il liberatore”. 11. Nazionalismo e imperialismo A scatenare le tensioni internazionali che sarebbero poi culminate nelle 2 guerre mondiali (definite “una seconda guerra dei 30 anni”) non fu l’imperialismo, ma il nazionalismo, cioè quel fenomeno che si affermò con forza a partire dal 1870 e che esprimeva la volontà di dominio dei paesi più forti ai danni di quelli più deboli. NB: il nazionalismo non va confuso con il patriottismo, sentimento di devozione e amore nei confronti della patria. Alla fine del 1800 iniziò una gara imperialistica tra le potenze europee e mondiali, che si tradusse in una seconda espansione coloniale che interessò soprattutto il continente africano. L’imperialismo fu accompagnato da un profondo mutamento dello spirito pubblico europeo sulla base della lezione tedesca, in particolare quella bismarckiana, secondo cui i rapporti tra le nazioni si risolvevano “col sangue e col ferro”; questo portò alla diffusione di un sentimento di ostilità tra le nazioni, a una generale disposizione all’aggressione e, soprattutto, all’affermazione di una “politica di potenza”. Essa si basava sull’ideologia della lotta, sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare, come se ci fosse il rischio costante di dover fronteggiare una guerra imminente; l’effetto immediato di tutto ciò fu l’instabilità e la precarietà dei rapporti tra le nazioni, che si svolgevano “all’ombra della guerra”, lo spettro che si aggirava ovunque. Dalla fine della guerra dei 30 anni sancita dalla pace di Westfalia, i paesi avevano sempre cercato una composizione pacifica, come era accaduto a Vienna nel 1815 (alla fine delle guerre napoleoniche), dove c’era stato un “concerto” tra Stati, una collaborazione portata avanti con diplomazia e senza scontri, in quanto tutti avevano riconosciuto l’appartenenza alla stessa comunità, cioè l’Europa. tensione: Germania/Francia, Austria-Ungheria/Russia (per la questione balcanica) e Gran Bretagna/Germania. Finché Bismarck rimase al potere, la Germania poté contare sia sulla tendenza dell’Inghilterra a non impegnarsi sul continente europeo (in quanto era presa dai problemi coloniali) sia sul “patto dei tre imperatori”, stipulato nel 1873 tra Germania, Russia e Austria-Ungheria: si trattava di un patto essenzialmente difensivo fondato sulla solidarietà dinastica, il cui scopo era - infatti - tutelare gli equilibri conservatori all’interno dei singoli Stati. L’alleanza aveva però un punto debole, cioè la rivalità tra l’Austria e la Russia. Prima di andare avanti è necessaria una parentesi su un altro protagonista della seconda metà dell’800, cioè l’Impero ottomano. Esso comprendeva l’Europa danubiana, la zona della mezzaluna fertile (dall’Egitto alla Mesopotamia), la penisola arabica ed il Nord Africa; era un Impero in decadenza perché per tutto il 1800 aveva perso territori in seguito alle conquiste delle grandi potenze europee, ma anche perché il sultano non riusciva più a controllare saldamente tutti i territori, i quali godevano quindi di una certa autonomia, generando così forti divisioni interne. A partire dal 1830 l’Impero ottomano aveva attuato una serie di riforme di riorganizzazione (con il contributo degli Stati europei), aveva vissuto un processo di secolarizzazione, aveva adottato lo Stato di diritto, con una legislazione individualista ed egalitaria, ed aveva eliminato le distinzioni religiose; la stagione di riforma aveva condotto addirittura all’approvazione di una costituzione, avvicinando sempre di più l’Impero ai modelli degli Stati nazionali europei (a differenza dell’Islam, che invece perse il treno della modernità). La costituzione fu però abrogata in seguito a rivolte autonomiste dei Balcani. Nel 1877, la Russia intervenne contro la Turchia in qualità di storica protettrice dei popoli slavi e, dopo averla sconfitta, impose la propria supremazia sull’area balcanica: questo contemplava anche la possibilità di creazione di un grande Stato bulgaro, l’indipendenza della Serbia e del Montenegro, e l’autonomia della Bosnia e dell’Erzegovina; perciò fu immediata la reazione dell’Austria e dell’Inghilterra. Allora Bismarck decise di convocare un congresso a Berlino nel 1878 e, grazie alla sua mediazione, le potenze europee giunsero a un accordo che ridimensionava i vantaggi ottenuti dalla Russia: Bosnia ed Erzegovina furono affidate all’Austria, Cipro all’Inghilterra; Serbia, Montenegro e Bulgaria conservarono l’indipendenza; la Germania, che non chiese niente, non ottenne niente; alla Francia fu lasciato il via libera per un’eventuale azione in Tunisia cosicché Bismarck riuscì a creare le premesse per un contrasto tra Francia e Italia. Dopo aver scongiurato il rischio di un conflitto europeo, la diplomazia bismarckiana si impegnò a rinnovare l’alleanza stipulata con il patto dei tre imperatori e, nel 1882, fu costituita la Triplice Alleanza tra la Germania, l’Austria-Ungheria e l’Italia; anch’essa però presentava delle debolezze, quali la rivalità tra l’Austria e l’Italia (per la questione del Trentino e della Venezia Giulia) e quella tra la Russia e l’Austria-Ungheria. La Triplice Alleanza provocò anche un avvicinamento tra la Francia e la Russia, che si svolse nella massima riservatezza e nel segreto, come del resto accadde per tutti gli altri accordi. NB: Nel frattempo si affacciava un nuovo attore politico sulla scena mondiale, cioè il Giappone, coinvolto soprattutto nel colonialismo in Africa e in Asia. Intanto l’Inghilterra portava avanti le sue conquiste coloniali (nel 1882 occupò l’Egitto, la Somalia, il Sudan, il Kenya e l’Uganda per ordine di Gladstone) e, dal 1899 al 1902, fu impegnata nella guerra anglo-boera: gli inglesi miravano ad estendere il loro dominio dalla Colonia del Capo alle repubbliche boere (l’attuale Sudafrica), dove erano stati scoperti grandi giacimenti di oro e diamanti. In questo caso l’imperialismo britannico si andò a scontrare con un nazionalismo locale anch’esso di origine europea (olandese), provocando un conflitto coloniale tra due popoli bianchi e cristiani che si risolse solo dopo una lunga e sanguinosa guerra, vinta dalla Gran Bretagna. L’Italia invece, militarmente ancora molto debole, dovette condurre la sua campagna coloniale nei pochi territori rimasti, cioè quelli della zona del Mar Rosso (Eritrea ed Etiopia), e fu l’unica potenza europea a subire una sconfitta in terre coloniali. (vedi sul libro cap. 9: colonialismo italiano, destra storica, Crispi e De Pretis) 13. La Grande Guerra: cause, schieramenti e battaglie Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, l’Europa visse una fase di grandi contraddizioni: da un lato furono anni di intenso sviluppo economico e di crescita del commercio mondiale, accompagnati da un grande progresso scientifico e tecnologico (seconda rivoluzione industriale); dall’altro lato ci fu un inasprimento delle tensioni internazionali (nazionalismi aggressivi e militarismi esasperati) e si diffuse un crescente senso di insicurezza sul futuro del vecchio continente, i cui Stati si sentivano costantemente minacciati. Fin dai primi del ‘900 c’erano, in ogni paese d’Europa, forze che lavoravano per la guerra e altre che vi si opponevano fortemente; la guerra fu, comunque, il prodotto della combinazione di eventi casuali e di cause profonde, da ricercare negli storici contrasti fra le grandi potenze e nella configurazione del sistema di alleanze (che si venne delineando già dalla fine del XIX secolo, quando era stata costituita la Triplice Alleanza). Uno dei fattori maggiormente determinanti fu la rivalità anglo-tedesca, accompagnata dalla definitiva crisi del sistema bismarckiano. L’uscita di scena di Bismarck nel 1889 segnò la fine della politica dell’equilibrio e l’inizio della cosiddetta “politica mondiale”, con la quale la Germania si impegnò a conquistare il primato della potenza marittima (il suo esercito di terra era già il più temuto): in poco tempo la marina tedesca passò dal sesto al secondo posto nella classifica mondiale degli eserciti di mare. La Germania, che riuscì a conciliare il modello decisionale autocratico e la forza moderna, rappresentava l’unica potenza in ascesa che minacciava l’equilibrio europeo ma, soprattutto, il primato inglese. Per questo motivo l’Inghilterra iniziò ad adottare misure protezioniste, con l’obiettivo di isolare politicamente la Germania: per farlo si avvicinò alla Russia e alla Francia, nonostante fossero storici nemici, con le quali costituì - tra il 1904 e il 1907 - un blocco contrapposto alla Triplice Alleanza, che fu chiamato Triplice Intesa. In Germania questa situazione determinò, anche se non formalmente, una sorta di “sindrome dell’accerchiamento”, e ciò fu causa a sua volta di una maggiore aggressività in politica estera, di una più accentuata spinta al riarmo e di una pericolosa inclinazione alla “guerra preventiva”. Nel frattempo l’Italia, che si era resa conto di non essere una grande potenza all’interno della Triplice Alleanza, decise di mantenere una posizione tendenzialmente indipendente e, pur essendo alleata con la Germania, non interruppe l’amicizia politica con la Francia. Il dominus della scena politica italiana era Giovanni Giolitti (1903-1914), un liberal democratico che intraprese una serie di riforme progressiste per diminuire la distanza tra le masse e lo Stato e per prevenire l’irruzione del partito socialista: fu introdotto il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, il suffragio universale maschile (riforma elettorale del 1912) e fu stipulato un patto con i cattolici che prevedeva la loro rinnovata partecipazione alla vita politica (temporaneamente interrotta dal non expedit del 1874 pronunciato da Pio IX per ribadire l’intransigenza del papa nei confronti del Regno d’Italia). Viste le grandi imprese coloniali degli altri Stati europei (es. “penetrazione pacifica” della Francia in Marocco) e sotto la pressione dell’opinione pubblica italiana - soprattutto della campagna di stampa dei nazionalisti - Giolitti decise di occupare uno degli ultimi pezzi d’Africa rimasti, cioè la Libia, già conquistata però dalla Turchia. Nel 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia e, dopo 40 giorni combattimento contro i soldati turchi e contro le popolazioni libiche che si rivoltarono alle truppe italiane, conquistò la Libia. Con la pace di Losanna dell’ottobre 1912 l’Italia ottenne anche Rodi e il Dodecaneso. Il governo giolittiano e la sua presunta “dittatura parlamentare” furono duramente criticati durante il congresso socialista che si svolse a Reggio Emilia, al quale partecipò sia una corrente nazionalista (di destra) sia una massimalistico- stesso, concesse pieni poteri al governo e, il 24 maggio 1915, esso dichiarò guerra all’Austria (NB: i socialisti attuarono la formula “né aderire né sabotare”, che costituiva quasi una confessione di impotenza). A giugno, il generale Cadorna intraprese quella che si sarebbe rivelata un’impresa suicida: ordinò alle truppe di dirigersi verso Trieste e Gorizia, dove si svolsero le prime 4 “battaglie dell’Isonzo” (su 11 totali) che terminarono tutte in clamorose sconfitte. L’esercito italiano non ottenne alcun successo a causa della tattica bellica quasi criminale utilizzata da Cadorna, che consisteva nell’inviare masse di combattenti all’assalto al grido “avanti Savoia!” rendendoli, così, facili bersagli per gli austriaci e per le loro temute mitragliatrici. Nel 1916 - anno dell’offensiva tedesca contro la piazzaforte francese di Verdun e della controffensiva da parte degli inglesi sulla Somme (che si risolsero entrambe in una immane carneficina, senza che nessuno conseguisse risultati significativi) - un attacco austriaco colse di sorpresa gli italiani: era lo Strafexpedition, la “spedizione punitiva” contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento. Nello stesso anno furono combattute altre 5 battaglie dell’Isonzo, il cui unico risultato (di valore morale più che strategico) fu la presa di Gorizia. Il 1917 fu da una parte l’anno della svolta, dall’altra l’anno più critico della guerra, durante il quale tutti i paesi coinvolti erano ormai in grande difficoltà. In particolare per l’Italia, il 1917 fu drammatico: dopo una nuova serie di offensive sull’Isonzo, con costi umani pesantissimi e l’esercito esausto, le truppe italiane del generale Cadorna furono annientate il 24 ottobre a Caporetto da un’armata austro- tedesca. Gli attaccanti misero in atto, per la prima volta, la tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare rapidamente in territorio nemico per coglierlo di sorpresa e metterne in crisi lo schieramento. La manovra fu talmente efficace che molte truppe italiane, per evitare l’accerchiamento, dovettero abbandonare le posizioni che mantenevano dall’inizio della guerra; 400mila soldati in ritirata si mescolarono ai profughi civili in Veneto, altri si consegnarono al nemico, altri ancora disertarono; 10mila km² di territorio italiano furono lasciati in mano al nemico, che catturò 300mila prigionieri e una quantità impressionante di armi e munizioni. Una tale catastrofe si verificò perché mancò il comando: Cadorna, i cui errori e la cui impreparazione portarono gli italiani alla disfatta, attribuì la colpa ai politici, alla stampa nazionale e ai socialisti - definiti “nemico interno” in quanto neutralisti - e disse ad un alto ufficiale che non avrebbe potuto fare niente poiché “l’armata brulicava di vermi”, accusando i suoi stessi soldati di vigliaccheria. Dopo Caporetto, il generale Armando Diaz sostituì Cadorna e cercò di risollevare le truppe, concedendo ai soldati licenze più frequenti e maggiori possibilità di svago e risvegliando in essi un forte senso di comunione e di unità nazionale. NB: nacquero anche i cosiddetti Arditi, famosi per il loro coraggio, il cui scopo era combattere contro l’Austria (nemico di sempre); in battaglia dimostravano grandi abilità, anche grazie ai loro vestiti fatti in modo da facilitare l’agilità in combattimento. Nel 1917, le sorti della guerra non erano ancora decise: gli imperi centrali non seppero approfittare della crisi italiana e tutti gli eserciti erano in crisi, in particolar modo quello francese (parte del quale inneggiava alla pace), eccetto quello tedesco (molto coeso e ben addestrato). Si verificarono addirittura dei casi di “sciopero militare” o di veri e propri ammutinamenti e, laddove non ci fossero forme di autentico rifiuto, i soldati manifestavano comunque paura o avversione nei confronti della guerra e versavano in uno stato di rassegnazione e apatia. I governi respinsero anche l’appello del papa Benedetto XV che li invitò a porre fine all’inutile strage e a prendere in considerazione l’ipotesi di una pace senza annessioni. Due fatti nuovi intervennero a mutare il corso della guerra e dell’intera storia mondiale: la rivoluzione russa e l’intervento americano. La prima pose fine al regime zarista, mettendo in moto un processo che avrebbe poi portato al collasso militare della Russia: in breve tempo, la Germania non avrebbe più combattuto su due fronti e sarebbe uscito di scena il nemico principale dell’Austria. L’intervento degli Stati Uniti (aprile 1917) compensò il grave colpo subìto dall’Intesa con il venir meno della Russia e fu determinato dalla ripresa della guerra sottomarina illimitata da parte della Germania. Alla Russia furono imposte durissime condizioni con la pace di Brest-Litovsk (perse circa 1/4 dei suoi territori europei), ma Lenin, capo del neo-governo rivoluzionario, le accettò per dimostrare che la trasformazione della guerra in rivoluzione era davvero possibile, anche se a prezzo elevatissimo. Gli Stati Uniti, che all’inizio possedevano un esercito di soli 200mila soldati e quindi non in grado di competere con quelli europei, riuscirono a portare in Europa circa 3mln di uomini, fornendo un apporto sia militare sia economico (grano, materie prime, cantieri navali efficienti e denaro). Malgrado questi mutamenti, all’inizio del 1918 sussisteva ancora una situazione di sostanziale equilibrio tra i due schieramenti sul piano militare, ed il fronte decisivo era ancora quello francese. Proprio qui la Germania tentò un’ultima grande offensiva alle truppe anglo-francesi, puntando sulla superiorità numerica ottenuta con l’uscita della Russia, pur essendo le popolazioni stremate e le truppe sempre più logorate. L’8 agosto, però, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta nella grande battaglia di Amiens: da quel momento iniziarono ad arretrare e i generali tedeschi capirono di aver ormai perso la guerra. La preoccupazione principale era ormai quella di aprire le trattative per un armistizio che sarebbe stato durissimo, ma che avrebbe permesso alla Germania di concludere la guerra con l’esercito integro e il territorio nazionale intatto; tale compito toccò a un nuovo governo di coalizione democratica, cui seguì una rivoluzione socialdemocratica. La colpa della disfatta fu attribuita al “nemico interno”, cioè ai socialisti, in modo da favorire la nascita del mito della “pugnalata alla schiena” che sarebbe diventato il cavallo di battaglia di Adolf Hitler. La battaglia finale fu quella di Vittorio Veneto (24 ottobre), in cui l’Italia annientò l’esercito austro-ungarico che non riuscì ad organizzare una resistenza, anche a causa del distacco delle varie nazionalità e della frammentazione interna. La Germania perse la guerra che essa stessa aveva fatto scoppiare, senza però essere stata schiacciata militarmente e mutilata nei territori; l’Intesa vinse grazie all’apporto decisivo di una potenza extraeuropea e uscì dal conflitto distrutta a causa dell’immane sforzo sostenuto; i morti furono circa 10mln, i feriti gravi e mutilati 20mln; il peso politico del vecchio continente sulla scena internazionale fu drasticamente ridimensionato. 14. Gli assetti politici nel mondo dopo la prima guerra mondiale 15. La conferenza di Versailles e gli accordi di pace Prima di parlare dei mesi immediatamente successivi alla guerra, è opportuno richiamare l’importante contributo morale e ideale del presidente americano Woodrow Wilson. Egli, già nell’aprile del ‘17, nel momento dell’entrata in guerra, aveva dichiarato solennemente che gli Stati Uniti non avrebbero combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà nei mari violata dai tedeschi, di difendere i diritti delle nazioni e di instaurare un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e sull’accordo “fra i popoli liberi”. Questo rispecchiava appieno la concezione della guerra di Wilson, secondo cui essa era una crociata della democrazia contro l’autoritarismo e contro i disegni egemonici dell’imperialismo tedesco. Nel gennaio del 1918, quasi in risposta all’armistizio russo- tedesco, Wilson precisò le linee guida della sua politica in un organico programma di pace, esposto in un documento di 14 punti. Quest’ultimo invocava l’abolizione della “diplomazia segreta” in nome di una “nuova diplomazia” (di cui egli stesso diede una concreta dimostrazione, essendo stato il primo presidente ad allontanarsi dal suolo americano durante il mandato), chiedeva il ripristino della libertà di navigazione e l’abbassamento delle barriere doganali, ma soprattutto formulava alcune proposte concrete per l’Europa del dopoguerra. Tra queste, la più importante fu quella dell’istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle nazioni, in vista della realizzazione del sogno kantiano di pace perpetua. Essa avrebbe assicurato il rispetto delle norme di convivenza fra i popoli tramite la risoluzione di eventuali 16. La rivoluzione bolscevica Tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, la Russia visse un periodo di modernizzazione e arretratezza allo stesso tempo: accanto al decollo industriale di fine secolo sussisteva un alto tasso di analfabetismo e di mortalità infantile, e il prodotto medio pro-capite era meno della metà di quello degli altri paesi europei. La tensione politica e sociale crebbe quindi pericolosamente e si moltiplicarono le manifestazioni di malcontento; la classe operaia era molto influenzata dal Partito socialdemocratico (fondato da Plechanov), mentre fra i contadini riscuoteva successo la propaganda del Partito socialista rivoluzionario (nato dalla confluenza di gruppi anarchici e populisti). NB: il Partito socialdemocratico russo, nato nel 1898, nel 1903 si divise poi tra menscevichi (Plechanov) e bolscevichi (Lenin). La protesta culminò, nel 1905, in un primo moto rivoluzionario, al quale contribuì anche lo scoppio della guerra russo-giapponese nel 1904; le agitazioni si intensificarono in seguito alla brutale repressione della cosiddetta “domenica di sangue”, cioè quando un corteo di persone dirette al Palazzo d’Inverno per presentare una petizione allo zar fu accolto a fucilate dall’esercito. Di fronte all’incapacità del governo nel riportare l’ordine, sorsero nuovi organismi rivoluzionari detti Soviet (“consigli”), cioè rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro secondo un principio di democrazia diretta simile a quello della Comune di Parigi, che di fatto si trovarono ad esercitare un forte potere in tutta la Russia. Inizialmente, lo zar concesse una costituzione che prevedeva un Parlamento (la Duma); quest’ultimo rappresentava però un ostacolo troppo importante per la restaurazione assolutista e fu sciolto dopo poco tempo. A quel punto la rivoluzione del 1905 venne schiacciata e si risolse con una ripresa dello zarismo (favorita anche dalla passività dei contadini, che non erano interessati a ribaltare il sistema russo). Uno dei principali artefici della restaurazione fu il primo ministro Stolypin, che represse ogni opposizione politica, ma si pose anche il problema di riguadagnare una base di consenso e varò una serie di riforme per migliorare le condizioni dei contadini; il punto chiave della sua politica fu l’abolizione del sistema dei mir, grazie al quale i contadini poterono uscire dalle comunità di villaggio e diventare proprietari della terra che coltivavano. Lo scopo era quello di creare una piccola borghesia rurale, ma riuscì solo in parte: si formò e si ingrandì uno strato di contadini agiati (i kulaki) che provocò un ulteriore radicalizzazione dei contrasti sociali. Già da prima dello scoppio della Grande Guerra, erano in molti a pensare che il regime zarista non potesse resistere a lungo a causa del suo anacronismo; quasi nessuno, però, immaginava che la caduta dell’assolutismo avrebbe dato luogo al più grande evento rivoluzionario della storia dopo la rivoluzione francese. Dopo lo scoppio della guerra, l’impero zarista iniziò pian piano a sgretolarsi non solo a causa dello sviluppo di un forte sentimento patriottico popolare, ma anche perché - pur disponendo di un esercito mastodontico - la Russia non era sufficientemente industrializzata per mobilitarlo efficacemente; inoltre, avendo impegnato gran parte della popolazione maschile nelle operazioni belliche, l’economia era giunta praticamente al collasso perché nessuno si dedicava all’attività portante, cioè l’agricoltura; a causa dello sforzo bellico aumentarono anche i disertori. Nel marzo 1917 (febbraio per il calendario russo) il regime zarista fu definitivamente abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado che, in migliaia, protestarono per il caro-viveri, assaltarono le stazioni di polizia e liberarono i prigionieri politici (gli stessi soldati, appunto, si rifiutarono di sparare contro i manifestanti e fraternizzarono con loro). Fu così sciolta la Duma dello zar, lo zar Nicola II abdicò (fine dinastia Romanov), ma i deputati costituirono un governo provvisorio di orientamento liberale, guidato dall’aristocratico L’vov, il cui obiettivo era continuare la guerra a fianco dell’Intesa e promuovere l’occidentalizzazione politica ed economica del paese. Condividevano questa prospettiva e accettarono di far parte del governo provvisorio i liberal-moderati, i menscevichi (ispirati ai modelli socialdemocratici europei) e i socialisti rivoluzionari; gli unici a rifiutare la partecipazione furono i bolscevichi, convinti che solo la classe operaia avrebbe potuto assumere la guida della trasformazione del paese. Come era accaduto nel 1905, si creò un dualismo di potere perché accanto al potere “legale” del governo si affermò subito quello dei soviet (soprattutto del soviet di Pietrogrado), che si appellavano all’ideale internazionalista rivolgendosi ai contadini. Col ritorno di Lenin dall’esilio (aprile 1917), favorito dalle autorità tedesche che speravano si mettesse alla guida della rivoluzione distruggendo così la Russia, i bolscevichi accentuarono la loro opposizione al governo provvisorio. Appena arrivato a Pietrogrado, Lenin diffuse le cosiddette “Tesi di aprile”, un documento in cui rifiutava il carattere “borghese” della fase rivoluzionaria in atto e ribaltava la teoria marxista: secondo Marx, la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati come risultato del capitalismo giunto al suo ultimo stadio; per Lenin, invece, le condizioni più favorevoli per mettere in crisi il sistema si presentavano in Russia proprio in quanto “anello debole” della catena imperialista. La teoria leninista conciliava giacobinismo e populismo e sosteneva che, per avere successo, una rivoluzione dovesse far ricorso al terrore (la Comune di Parigi aveva fallito, secondo Lenin, proprio a causa del mancato uso della violenza). Mentre la situazione si andava via via radicalizzando, i soldati e l’opinione pubblica erano sempre più favorevoli all’uscita dal conflitto. Il successore al governo di L’vov - che aveva registrato alcuni successi contro tentativi insurrezionali dei bolscevichi - fu Kerenskij. I bolscevichi contribuirono alla sconfitta del tentativo di colpo di Stato di Kornilov, comandante dell’esercito (che intimò Kerenskij di passare i poteri ai militari), e ne uscirono ulteriormente rafforzati, infatti ottennero la maggioranza nei soviet di Mosca e Pietrogrado. I bolscevichi decisero di rovesciare con la forza il governo Kerenskij il 23 ottobre durante una riunione del comitato centrale del partito; alla decisione di Lenin, che incontrò molte opposizioni, era favorevole anche un altro leader di prestigio noto con lo pseudonimo di Trotzkij, presidente della sinistra menscevica e mente militare dell’insurrezione. Il giorno dopo i soldati rivoluzionari circondarono e isolarono il Palazzo d’Inverno senza incontrare alcuna resistenza da coloro che erano incaricati di difenderlo, Kerenskij fuggì e fu proclamata la repubblica socialista. La presa del Palazzo d’Inverno divenne l’episodio simbolo della rivoluzione, come era stata la presa della Bastiglia del 1789 (NB: non si trattò però di una vera e propria rivoluzione socialista, ma piuttosto di un “colpo di mano”). Una volta al potere, Lenin emanò subito tre decreti fondamentali: l’uscita dalla guerra e la pace senza annessioni, la socializzazione della terra e il governo del Consiglio dei commissari del popolo (composto esclusivamente da bolscevichi, di cui lo stesso Lenin era presidente). Alle elezioni per l’Assemblea costituente (dicembre 1917) i socialisti rivoluzionari ottennero un grande successo: questa era la “prima prova” di democrazia per i bolscevichi, che persero e decisero così di sciogliere l’assemblea, ritenuta un’istituzione ormai superata dai soviet. Il mito di un autogoverno popolare durò pochissimo, in quanto i bolscevichi non tardarono ad instaurare una vera e propria dittatura dopo aver attuato una rivoluzione dall’alto: centralizzazione dei poteri, repressione delle opposizioni, militarizzazione del paese, istituzione di una polizia segreta (Ceka). L’uscita della Russia dalla guerra, sancita dal trattato di Brest-Litovsk, provocò l’intervento militare dell’Intesa in appoggio alle “armate bianche” costituite dalle truppe ribelli al governo: fu soprattutto questa situazione a spingere i bolscevichi a passare alla dittatura. Grazie alla riorganizzazione dell’esercito operata con la costituzione dell’Armata rossa, il governo rivoluzionario riuscì a prevalere. Non potendo contare sull’appoggio delle altre forze politiche, estromesse con violenza, né sulla collaborazione dei più alti strati sociali, i bolscevichi diedero vita al più grande fenomeno di emigrazione politica (= esodi volontari) mai verificatosi fino ad allora; convinti di poter conquistare in tempi brevi il consenso delle masse popolari, applicarono il modello leninista “Stato e rivoluzione”, che prevedeva un autogoverno delle masse secondo i principi di democrazia diretta sperimentati nei Roma, cioè una gigantesca mobilitazione di un partito in armi (non in forma di insurrezione né di rivoluzione) verso la sede del potere centrale, partita il 28 ottobre 1922 da Perugia (NB: Mussolini era a Milano, pronto a fuggire in Svizzera in caso di fallimento). I fascisti non puntavano tanto al successo militare (essendo equipaggiati in modo approssimativo) quanto a usare la mobilitazione come strumento di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla neutralità del Re. In effetti, dopo le dimissioni di Facta, avvenute proprio il 27 ottobre, Vittorio Emanuele III non firmò il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio (= passaggio dei poteri alle autorità militari) e spianò così la strada alle camicie nere. I motivi di tale decisione rimasero un mistero; forse per mancata fiducia nei confronti dei vertici militari, forse per evitare che scorresse sangue italiano in una guerra civile. Una volta al potere, Mussolini attuò una politica autoritaria (soprattutto contro il movimento operaio) e creò nuovi istituti come il Gran consiglio del fascismo (che costituiva il raccordo tra partito e Stato) e la Milizia, incompatibili con i principi liberali; allo stesso tempo, però, continuò a promettere la “normalizzazione” e a collaborare con forze politiche non fasciste (ad esempio non formò un Parlamento con soli fascisti). Egli ottenne anche il sostegno dei cattolici, che riconoscevano al fascismo il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista, a prescindere dagli orientamenti ideologici. Le principali riforme del primo periodo mussoliniano furono: la riforma scolastica di Gentile (che introduceva l’insegnamento della religione nelle scuole e l’esame di Stato alla fine di ogni ciclo di studi) e la riforma elettorale Acerbo (che conferiva un premio di maggioranza - cioè i 2/3 dei seggi disponibili - alla lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti, infatti fu definita “legge truffa”). Le elezioni del 1924 (che rafforzarono ulteriormente la posizione di Mussolini) si svolsero in un clima di terrore generale, caratterizzato da violenze nei confronti degli avversari politici e da brogli elettorali, denunciati dal deputato socialista Matteotti, il quale pronunciò un durissimo discorso contro il fascismo e, per questo, fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi e poi ucciso. Questo fatto generò nell’opinione pubblica un’ondata di indignazione e gettò improvvisamente il fascismo in una situazione di isolamento; Mussolini contrattaccò con un discorso alla Camera, tenuto il 3 gennaio del 1925, in cui dichiarò la “dittatura aperta” e minacciò apertamente di usare la forza contro le opposizioni al regime. In questo modo l’omicidio Matteotti non fu la causa della fine del fascismo, ma piuttosto l’occasione per passare da un governo autoritario a una vera e propria dittatura. Tra il 1925-26 fu attuata un’opera capillare di “fascistizzazione” della stampa e di persecuzione degli antifascisti, favorita dalla pubblicazione di manifesti ideologici da parte di intellettuali come Giovanni Gentile e Benedetto Croce. La vicenda “inaugurale” del regime fu l’emanazione delle “leggi fascistissime”, che prevedevano un rafforzamento dei poteri del capo del governo rispetto al Parlamento, il divieto di sciopero, lo scioglimento di tutti i partiti antifascisti e la reintroduzione della pena di morte per i “reati contro la sicurezza statale” (per giudicare questi reati fu anche istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato). Nel 1928 fu inoltre costituzionalizzato il Gran consiglio, che riduceva le prerogative della monarchia (già quasi nulle); con i Patti lateranensi dell’11 febbraio 1929, oltre a porre fine alla “questione romana” iniziata nel 1871 con le leggi guarentigie, Mussolini riconobbe espressamente l’influenza della Chiesa, che costituiva - insieme alla presenza del Re - un limite ai propositi totalitari del regime. Proprio a causa di questi due limiti al suo monopolio, il fascismo fu definito “totalitarismo imperfetto”; i tre principali caratteri del totalitarismo, secondo la Arendt, sono la presenza dell’uso del terrore su larga scala, il “nemico oggettivo” dello Stato e il delitto possibile (cioè il sospetto del delitto): tutti caratteri tipici non del fascismo, ma del nazismo, al quale però il fascismo si avvicinò a partire dal 1936, con la campagna d’Etiopia, l’uso dei gas in guerra, la persecuzione dopo le leggi razziali (forse per lusingare l’alleato. NB: Hitler era davvero convinto della congiura ebraica per il dominio del mondo, quindi presentava una forma folle di coerenza; Mussolini non ci credeva, eppure sacrificò migliaia di ebrei per rendere più salda l’alleanza). Anni del fascismo: ideologia tradizionalistica (Dio, patria, famiglia) ma aspirante alla creazione di un “uomo nuovo”, consenso della piccole e media borghesia, controllo della scuola e dalla cultura, indottrinamento della popolazione fin dai primi anni di vita, uso dei mezzi di comunicazione di massa ai fini del consenso (radio e cinema: “film d’evasione”), modello economico corporativo-protezionistico e intervento statale massiccio, produzione bellica post-crisi del ‘29, aspirazioni imperiali (aggressione all’Etiopia, 1935), avvicinamento alla Germania (asse Roma-Berlino) come mezzo di pressione su Francia e Inghilterra ma che poi si rivelò una subordinazione alle scelte di Hitler, opposizione antifascista (ex popolari e liberali) silenziosa e clandestina, politica dell’autarchia (autosufficienza economica in caso di guerra). 18. La Germania di Weimar e l’avvento del nazionalsocialismo Nel gennaio 1919 in Germania si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente e il risultato fu l’affermazione dei socialdemocratici come partito più forte, poiché erano l’unica grande forza organizzata presente nel paese dopo la dissoluzione dell’esercito. Tuttavia, non riuscirono ad ottenere la maggioranza assoluta e stipularono un accordo con i cattolici e i democratici, il quale rese possibile l’elezione di Ebert (socialdemocratico) alla presidenza della Repubblica. Si formò così un governo di coalizione a direzione socialdemocratica e fu varata la nuova costituzione repubblicana-democratica, che prevedeva il mantenimento della struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un PdR eletto direttamente dal popolo. Tale costituzione fu varata a Weimar, luogo simbolo della tradizione tedesca in quanto città natale di Bach, Nietzsche ecc.; l’elezione diretta del PdR era stata proposta da Max Weber come contrappeso ai molti poteri conferiti al Parlamento (NB: l’art. 48 prevedeva che il PdR potesse sospendere i diritti fondamentali garantiti dalla costituzione stessa). La costituzione, tuttavia, non bastò di per sé a riportare la tranquillità nel paese, turbato da tentativi rivoluzionari da parte di operai e soldati e dalla minaccia dell’estrema destra. Quest’ultima, i cui esponenti erano soprattutto ex militari e capi dell’esercito, diffuse sempre di più la leggenda della “pugnalata alla schiena”, secondo cui l’esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese (cioè dai socialisti) durante la guerra. Era un mito privo di qualsiasi fondamento, ma che gettò ugualmente discredito sulla Repubblica - nata dalla sconfitta - e sulla classe dirigente socialdemocratica, che infatti perse le elezioni successive (e dovette cedere il governo ai cattolici di centro). Inoltre, furono rivolte pesanti accuse agli ebrei, anch’essi definiti un “nemico interno”, che gettarono il seme dell’odio tedesco antisemita. A peggiorare la situazione fu l’annuncio dell’entità delle riparazioni di guerra imposte alla Germania, che scatenò un’ulteriore ondata di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalista, fra i quali avanzava il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler, attuarono una vera e propria offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori: furono uccisi sia il ministro delle finanze, colpevole di aver firmato l’armistizio, sia il ministro degli esteri (Rathenau), che si stava adoperando per accordarsi con le potenze vincitrici. Un altro evento significativo e determinante si verificò nel gennaio 1923, quando la Francia e il Belgio, col pretesto del mancato adempimento ad alcune riparazioni, occuparono il bacino della Ruhr, la zona più ricca e industrializzata di tutta la Germania e quindi vitale per l’economia tedesca. Non potendo reagire militarmente, il governo tedesco incoraggiò una forma di “resistenza passiva” da parte degli operai e degli imprenditori, che abbandonarono le fabbriche rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. La crisi tedesca precipitò in seguito a questa vicenda e l’inflazione raggiunse livelli impensabili (la caduta del marco colpì tutte le fasce sociali); nonostante la crisi senza precedenti, alla Germania non fu concesso alcun aiuto. Questo contesto così critico diede luogo a tentativi insurrezionali da parte marzo, Himmler annunciò la costruzione di un campo di concentramento a Monaco che avrebbe contenuto tutti gli oppositori. L’obiettivo era ormai l’abolizione del Parlamento che, peraltro, con una legge suicida aveva conferito al governo i pieni poteri: solo la Spd aveva votato contraria, infatti fu sciolta per “alto tradimento” senza riuscire a esprimere alcuna forma di resistenza, nonostante fosse stata per anni il partito operaio più forte d’Europa. In poco tempo sparirono anche tutti gli altri partiti, compresi quelli che avevano favorito l’avvento del nazismo. I due ostacoli rimasti erano l’ala estremista del nazismo, cioè le SA (non disposte a sottomettersi al controllo dei poteri legali), e il presidente Hindenburg che impersonava la vecchia destra. Per prevenire le SA, già da qualche anno Hitler aveva formato una sua milizia personale, le SS (“squadre di difesa”), perché temeva che la loro autonomia dal partito potesse espandersi troppo; il problema fu poi risolto definitivamente nella cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” (vedi lez. succ.). 19. La radicalizzazione del regime nazista: verso lo scoppio della Seconda guerra mondiale Tra il 30 giugno e il 2 luglio 1934 si consumò un massacro che sconvolse il mondo civile: nella “notte dei lunghi coltelli”, Hitler guidò un attacco contro le SA e arresto Röhm, il loro capo, che fu poi assassinato insieme a tutti gli altri dalle SS. In cambio di Röhm, Hitler chiese l’assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg: quando questi morì, si ritrovò quindi a ricoprire contemporaneamente le due cariche di cancelliere e capo dello Stato (NB: ciò comportava l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà). Con la conquista della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime tracce del sistema repubblicano, sostituito dal Terzo Reich (il “terzo Impero”, dopo il Sacro Romano Impero e quello nato nel 1871), nel quale si realizzava pienamente il “principio del capo” non solo come guida del popolo, ma anche e soprattutto come fonte suprema del diritto. Il capo era fornito di quel potere che Max Weber aveva definito “carismatico”, in quanto fondato su una presunta qualità straordinaria e sulla consapevolezza di una missione da compiere in nome di tutto il popolo. In sintesi, la società nazista era caratterizzata dai seguenti elementi: • Organizzazioni di massa e “comunità di popolo” = le organizzazioni erano collegate al partito unico e avevano il compito di trasformare l’insieme dei cittadini in una “comunità di popolo” compatta e disciplinata. Dalla comunità erano esclusi gli “antinazionali” - cioè gli stranieri o i cittadini di discendenza non ariana - e gli ebrei, contro i quali la propaganda nazista riuscì a diffondere sentimenti di forte ostilità. Una delle principali organizzazioni di massa era il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati e si basava sul motto “la forza attraverso la gioia”: il nazismo acquistava i consensi dei lavoratori rendendo accoglienti le situazioni di lavoro (alleggeriva il carico lavorativo, concedeva più ferie, migliorava le condizioni igienico-sanitarie, organizzava addirittura viaggi per premiare i più meritevoli, seguendo il principio economico del “via libera ai bravi”). Tramite le organizzazioni giovanili, che facevano capo alla Hitlerjugend, il partito indottrinava i giovani fin dai primi anni di vita nel tentativo di creare una popolazione pre-programmata e che fosse conforme alle esigenze del regime. • Passaggio da un’economia di pace ad un’economia di guerra = Hitler raggiunse un regime di piena occupazione anche tramite l’aumento delle spese militari per il riarmo, che costituivano il 58% del bilancio statale e che impegnavano quasi tutti i settori produttivi. • Ideale “del sangue e della terra” = oltre a concentrarsi sulla preparazione bellica, Hitler si preoccupò di rivalutare il mondo contadino che, per ottenere consensi, fu inserito nella comunità di popolo. Questo ideale rifletteva e colpiva lo stato d’animo popolare che rifiutava la civiltà moderna e che rimpiangeva la società preindustriale. Venne anche introdotto un sentimento di uguaglianza tra tutti i cittadini tedeschi, che serviva a rafforzare la solidarietà e l’appartenenza cameratista ed esisteva anche all’interno dell’esercito (le gerarchie funzionavano solo sul campo di battaglia, fuori no). • Idea della famiglia nazionalsocialista = la perfetta donna nazista doveva avere un ruolo attivo e pubblico come cittadina militante. • Progetto di nazificazione della società = per diffondere l’utopia antimoderna il regime si serviva di mezzi modernissimi. Il governo nazista fu il primo ad istituire in tempo di pace un Ministero per la Propaganda (affidato a Goebbels) che divenne uno dei principali centri di potere; la stampa fu sottoposta a controlli severissimi e inglobata in un unico apparato dipendente dal ministero. Gli intellettuali furono inquadrati nella Camera di cultura del Reich e cacciati dal paese nel caso di mancata adesione al regime. Si organizzavano, inoltre, come momenti massimi di propaganda, delle cerimonie-spettacolo con scenografie solenni e suggestive, nelle quali il cittadino doveva trovare momenti di socializzazione - seppur forzata - e di pubblica sacralità (per questo tale fenomeno fu definito “una religione laica”). • Apparato repressivo e terroristico = per rendere nullo il dissenso furono istituite varie organizzazioni di polizia, da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, oltre alle onnipresenti SS, che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini, rinchiudendo e annientando gli oppositori nei lager. Quanto detto finora basta per spiegare la limitatezza del dissenso, ma non è sufficiente per capire le dimensioni del consenso al regime, che furono superiori a quelle ottenute da qualsiasi altro totalitarismo. Una prima spiegazione sta nel fatto che Hitler, smontando la costruzione di Versailles e rendendo la Germania nuovamente protagonista della politica europea, stimolò l’orgoglio patriottico- nazionalistico dei tedeschi e gli fece provare la sensazione della rivincita. Un altro fattore decisivo fu la sorprendente ripresa economica: l’economia fu liberata dal peso delle riparazioni di guerra, la produzione industriale e l’occupazione superarono i livelli del 1928, i lavori pubblici furono massicci e tutto questo diede l’immagine di una Germania nuova e più forte di prima. Il regime cercò, infine, di incoraggiare in ogni modo l’iniziativa privata e il settore imprenditoriale/industriale, vincolandoli allo stesso tempo all’obiettivo di fondo: porre il paese in condizione di affrontare una guerra. Nel 1935 la svolta totalitaria giunse al suo apice con le leggi di Norimberga, apertamente discriminanti, i cui punti principali erano 3: la legge sulla bandiera del Reich, la legge sulla cittadinanza e la legge del sangue e dell’onore tedesco. Queste leggi tolsero agli ebrei la parità dei diritti (conquistata nel 1848) e proibirono i matrimoni tra ebrei e non ebrei; alla discriminazione “legale” si accompagnò una crescente emarginazione sociale, che spinse molti di essi ad abbandonare la Germania. NB: l’odio antisemita portò alla concettualizzazione hitleriana del “giudeo bolscevismo” che alimentava la tesi della congiura ebraica (molti dirigenti bolscevichi, tra cui lo stesso Trotzkij, erano ebrei). La persecuzione degli ebrei subì una forte accelerazione a partire dal 1938, quando fu ordinato l’obbligo di denunciare i beni di proprietà ebrea (preludio della confisca) e l’obbligo per gli ebrei di essere marchiati con una “j” sui documenti (NB: ci furono frequenti episodi di corruzione da parte dei funzionari del partito, che spesso si appropriavano dei beni confiscati). Tra il 9 e il 10 novembre di quell’anno i nazisti uccisero decine di ebrei, ne arrestarono e internarono quasi 30mila e distrussero sinagoghe e abitazioni, in quella che fu chiamata “notte dei cristalli” per via delle molte vetrine di negozi ebrei infrante dai dimostranti. Con una legge emanata poco dopo, gli ebrei furono cacciati dalle scuole e da tutte le istituzioni: l’obiettivo era sradicarli da ogni ambito della società tedesca rendendo la loro vita impossibile, cioè privandoli del lavoro e dell’istruzione e accusandoli di cospirare contro il Reich. Questa politica razziale venne approvata e appoggiata dalla maggior parte della popolazione tedesca, poiché rafforzava l’idea di appartenenza e di purezza della razza. La degenerazione definitiva avvenne a guerra mondiale già iniziata, quando Hitler concepì il progetto mostruoso di una “soluzione finale” del questione polacca senza rischiare di dover combattere una guerra su due fronti. Il patto, inoltre, prevedeva uno smembramento della Polonia sulla base di un protocollo segreto: la Germania avrebbe ottenuto la parte occidentale e Danzica, mentre alla Russia sarebbe spettata la parte orientale e la Finlandia. In realtà non si trattò di una semplice spartizione territoriale, quanto piuttosto di un vero e proprio progetto di denazionalizzazione della Polonia da parte di entrambe le potenze, che miravano a “decapitarla” tramite i gruppi operativi (infatti i primi ad essere uccisi furono i membri della classe dirigente, cioè notai, professori, medici, ufficiali, banchieri ecc.). NB: la Russia non riconobbe mai le proprie responsabilità nel massacro della popolazione polacca e diede la colpa ai nazisti fino al crollo dell’Unione Sovietica. Le truppe tedesche attaccarono la Polonia il 1º settembre 1939. La Francia e la Gran Bretagna reagirono dichiarando guerra alla Germania, l’Armata Rossa occupò la Polonia orientale e la Finlandia, mentre l’Italia proclamò inizialmente la “non belligeranza”. La Germania sconfisse la Polonia nel giro di poche settimane, dimostrando un’efficienza bellica che spaventò il mondo intero: fu questa la prima applicazione della “guerra lampo”, che prevedeva l’uso contemporaneo dell’aviazione e delle forze corazzate. Nel frattempo i russi, attenendosi alle clausole segrete del patto Molotov- Ribbentrop, occuparono la zona orientale del paese imponendo uno spietato regime di occupazione e mettendo fine alla Repubblica polacca. Nel novembre 1939, il teatro di guerra si spostò inaspettatamente nell’Europa del Nord: la Russia attaccò la Finlandia nella cosiddetta “guerra bianca” (‘39-’40), che si concluse con la sconfitta dei finlandesi e la cessione di una parte di territorio meridionale; la Germania lanciò un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia (aprile ‘40), conquistandole entrambe (NB: il comando della Norvegia fu poi assunto da Quisling, che fu un esempio di “governo fantoccio” poiché era a tutti gli effetti una marionetta dei nazisti). Tutto ciò avvenne senza il minimo intervento o reazione da parte delle democrazie occidentali, in particolare Francia e Inghilterra, che vissero una fase di attesa definita dai francesi “guerra strana” o “guerra finta”, la quale permise ai tedeschi di riorganizzarsi in vista dello scontro decisivo. In Francia prevaleva un atteggiamento sostanzialmente difensivista: il governo, che temeva la vendetta della Germania, aveva fatto costruire una linea di difesa, la linea Maginot, ma per costruirla erano state trascurate le produzioni belliche e quindi l’esercito non era pronto a combattere. La centrale elettrica dell’intera linea Maginot si trovava, però, in Svizzera, quindi ai tedeschi bastò metterla fuori uso per sfondare la più imponente barriera difensiva mai costruita. L’offensiva tedesca sul fronte occidentale ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse in un nuovo impressionante successo, stavolta contro l’esercito francese, il più numeroso e il più armato d’Europa. La Francia, infatti, non cadde per un’inferiorità in uomini o in mezzi, ma per la combinazione di alcuni fattori: gli errori dei comandanti (ancora legati ad una concezione troppo statica della guerra), l’inaspettato attacco dal Belgio (un confine lasciato scoperto dalla linea difensiva), la crisi democratica interna e l’opinione pubblica conflittuale. I tedeschi, che iniziarono l’attacco violando la neutralità di alcuni territori come il Belgio e il Lussemburgo (“colpo di falce”), attraversarono velocemente la foresta delle Ardenne (che i francesi ritenevano invalicabile dai carri armati) e - in poco più di un mese - entrarono a Parigi. Non solo era stato sconfitto l’esercito francese, ma l’intera classe politica-amministrativa fuggì a sud insieme ai 3/4 dei parigini, mentre i tedeschi sfilavano sui campi Elisi e, ancora una volta, umiliavano la Francia nel suo stesso territorio. Il governo francese si trasferì a Bordeaux e dove dovette scegliere se continuare a combattere o arrendersi; alla fine fu costretto a firmare l’armistizio che, oltre a porre fine alla Terza Repubblica nata 60 anni prima, prevedeva una frammentazione del paese: il governo poté conservare la sua autorità solo sulla parte centro-meridionale, con sede a Vichy, mentre il resto della Francia rimase sotto l’occupazione tedesca. A Vichy fu instaurato un governo collaborazionista affidato a Pétain, che si ridusse al rango di Stato- satellite della Germania hitleriana (Pétain: “non sono riuscito ad essere la vostra lancia, cercherò di essere il vostro scudo). NB: il generale De Gaulle, in un famoso discorso, pronunciò queste parole: “qualunque cosa accada, la fiamma della resistenza francese non deve spegnarsi e non si spegnerà”. 21. L’imbarbarimento della guerra e lo sterminio degli ebrei Nel giugno del 1940, Mussolini, convinto che la guerra stesse ormai per finire e di fronte alla prospettiva di una vittoria ottenuta con il minimo sforzo, annunciò alla folla l’entrata in guerra dell’Italia contro “le democrazie reazionarie dell’occidente” (in privato parlò di “qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”). La prima offensiva fu rivolta alla Francia e, pur essendo quest’ultima un avversario praticamente già sconfitto, l’Italia dimostrò da subito una grave inefficienza; nella battaglia contro gli inglesi nel Mediterraneo, poi, la flotta italiana subì due successive sconfitte. Inoltre, per dimostrare che non stava combattendo una guerra subordinata né coincidente con quella tedesca, Mussolini intraprese una cosiddetta “guerra parallela” contro la Grecia, pur non essendo in grado di affrontarla. La campagna di Grecia, infatti, si concluse con esito fallimentare e l’immagine guerriera di Mussolini fu ulteriormente compromessa dagli insuccessi in Africa; egli fu così costretto ad accettare l’aiuto della Germania, che inviò in Cirenaica il generale Rommel e contribuì a riconquistarla. L’Africa orientale italiana (Eritrea, Etiopia e Somalia) cadde però nelle mani degli inglesi. Mussolini, dopo aver subito un altro durissimo colpo, dovette rinunciare al sogno della guerra parallela. Rimasta sola a combattere contro le potenze nazi-fasciste, l’Inghilterra, sotto la guida del primo ministro Winston Churchill, riuscì a respingere il tentativo tedesco di invadere le isole britanniche. La battaglia d’Inghilterra dell’estate ‘40, combattuta soprattutto nell’aria tramite la “guerra aerea”, segnò così la prima battuta d’arresto per la Germania. Il programma di Churchill era chiaro: una sola politica, “la guerra per mare, per terra e nell’aria” e un solo obiettivo, “la vittoria a tutti i costi”. La guerra entrò in una nuova fase quando, all’inizio dell’estate 1941, i tedeschi attaccarono l’Unione Sovietica aprendo un altro fronte in Europa orientale; a quel punto l’Inghilterra non fu più sola a combattere e lo scontro ideologico si radicalizzò col venir meno del patto fra nazismo e regime sovietico. La conquista della Russia avrebbe significato, per Hitler, la conquista del potere mondiale. L’offensiva, denominata “operazione Barbarossa”, colse di sorpresa i russi, in quanto Stalin pensava che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia senza aver prima chiuso la partita con l’Inghilterra. In due settimane l’esercito tedesco (che aveva mobilitato ben 3 armate) penetrò in territorio russo per centinaia di km e fece fuori 600mila avversari, ma fu bloccato poco prima di Mosca dal maltempo e dovette fermarsi a causa del fango. In seguito i tedeschi avrebbero affermato che, se non avessero dovuto aiutare gli italiani, l’attacco sarebbe stato sferrato prima e non avrebbero incontrato il maltempo. All’inizio dell’inverno, gran parte dell’esercito di Hitler era immobilizzato nelle pianure russe e non era riuscito ad assediare Mosca; la guerra, da quel momento, si trasformò in una “guerra di usura” in cui l’elemento decisivo era la capacità di compensare il logoramento degli uomini e dei materiali. In una guerra di questo tipo la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale, in quanto non contava più la superiorità tecnica e strategica e, soprattutto, di lì a poco la massima potenza industriale del mondo si sarebbe schierata a fianco di Inghilterra e Urss. Il 14 agosto 1941, il presidente americano Roosevelt e Churchill scrissero la “carta atlantica”, un documento dove ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita. Si trattò essenzialmente di una risposta al “patto Tripartito” siglato nel settembre del ‘40 tra Germania, Italia e Giappone, principale potenza dell’emisfero orientale con aspirazioni colonialiste in tutta l’Asia. L’entrata in guerra degli USA, che fino ad allora non erano intervenuti, fu un segnale di difesa delle democrazie contro i totalitarismi e un evento di grande valore simbolico e morale (guerra del bene contro il male). Il conflitto mondiale proseguiva però in Estremo Oriente, dove il Giappone continuava a combattere; il nuovo presidente americano Truman, di fronte al rifiuto giapponese di arrendersi e ad attacchi kamikaze sulle navi statunitensi, decise di impiegare contro il nemico la nuova arma “totale”, la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, che fu sganciata su Hiroshima il 6 agosto del ‘45 e tre giorni dopo su Nagasaki. I morti furono circa 200mila, le radiazioni continuarono a contaminare le città per lungo tempo e gli Stati Uniti dimostrarono al mondo di essere la più forte potenza militare. Dopo che l’Urss aveva anch’essa dichiarato guerra al Giappone, l’imperatore offrì agli alleati la resa senza condizioni. Con la firma dell’armistizio (2 settembre) finì il secondo conflitto mondiale, che costò 50mln di vite umane e si caratterizzò come guerra “totale” per il radicale scontro ideologico tra i due schieramenti, per la spaventosa mobilitazione di cittadini (militari e civili), per le nuove armi e tecniche di guerra impiegate dentro e fuori dal campo di battaglia, per la tragicità delle conseguenze civili, nazionali e internazionali. 22. I nuovi assetti politici mondiali nel secondo dopoguerra 23. Il consolidamento dell’assetto bipolare e i sitemi politici europei nel secondo dopoguerra: Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia, Germania federale e Italia Durante la conferenza di San Francisco, che durò da aprile a giugno del 1945, le potenze decisero come ricostruire il mondo dopo una guerra così tragica. Innanzitutto, al posto della vecchia e screditata Società delle nazioni fu istituita l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) con l’obiettivo di “salvare le generazioni future dal flagello della guerra” e di “impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli”, affinché nessuno prevalesse più sull’altro. Lo statuto dell’ONU, basato sui principi della Carta atlantica e con un’impronta democratica wilsoniana, prevede al suo interno alcuni organi come l’Assemblea generale degli Stati membri (che rispecchia i principi di universalità e uguaglianza) e il Consiglio di sicurezza. Quest’ultimo è un organo permanente che riflette il meccanismo del “direttorio”, ha sede a New York e si presenta come una sorta di “governo mondiale”; è composto da 15 membri, di cui 5 sono membri permanenti di diritto e sono le potenze vincitrici (USA, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina), mentre gli altri vengono eletti a turno fra gli altri Stati. La seconda guerra mondiale sancì la crisi definitiva della supremazia europea e l’emergere di due superpotenze, USA e Urss: nacque così un nuovo equilibrio internazionale di tipo bipolare. I due grandi blocchi erano, ovviamente, gli Stati Uniti da un lato e l’Unione Sovietica dall’altro. Il messaggio americano era quello dell’espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di concorrenza economica e di ampia libertà personale, in base a un’etica del successo a sfondo individualistico. Il messaggio sovietico, di contro, era quello della trasformazione dei vecchi assetti politico-sociali in nome del modello collettivistico, fondato sul partito unico e sulla pianificazione centralizzata, nonché su un’etica anti- individualista della disciplina e del sacrificio. Tale bipolarismo era molto evidente in Europa, dove la divisione fra area “socialista” e area “capitalistica” rispecchiava le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti (USA e Urss). Gli Stati Uniti, essendo stati i promotori e i garanti di un nuovo sistema mondiale (anche alla luce del processo di Norimberga contro i capi nazisti), diventarono per gli europei il più grande punto di riferimento non solo materiale (per la ricostruzione e per la difesa), ma anche ideale e culturale: l’imitazione dei modelli di vita d’oltreoceano contribuì a dar vita al “sogno americano” che prese forma in quegli anni. Gli USA apparivano come l’unico paese in grado di dare speranze e gioia di vivere a tutti gli europei, usciti dalla guerra privi di ottimismo, orfani di valori e bisognosi di nuove certezze. Il contrasto tra USA e Urss si era già delineato nel diverso approccio ai problemi della pace: mentre gli americani puntavano più alla ricostruzione e alla creazione di un nuovo ordine che non alla punizione dei vinti, i sovietici - che avevano subito le maggiori perdite (20mln di morti solo nell’esercito) - volevano il loro riscatto in termini politici, economici e di sicurezza. Roosevelt fu l’unico presidente americano che si illuse di poter mantenere un dialogo aperto con Stalin; da Truman in poi, gli USA si irrigidirono nei confronti dell’Urss, portando così all’inevitabile declino della “grande alleanza”. Durante la presidenza Truman, infatti, si andò sviluppando una vera e propria ossessione anticomunista, che culminò in una schedatura massiccia dei cittadini (circa 3mln) per controllare eventuali infiltrazioni dei comunisti all’interno delle istituzioni statunitensi (il cosiddetto “maccartismo”). La “dottrina Truman” prevedeva, inoltre, l’applicazione della teoria del containment, cioè il contenimento dell’espansionismo dell’Urss anche a costo di applicare le maniere forti, al fine di “sostenere i popoli liberi nella resistenza all’asservimento”. Nel 1947 gli Stati Uniti lanciarono un vasto programma di aiuti economici all’Europa, che prese il nome di piano Marshall (dal segretario di Stato che l’aveva ideato); i sovietici interpretarono questo piano come un modo per assoggettare l’Europa agli USA e respingere l’influenza russa, perciò lo rifiutarono e imposero ai loro “satelliti” di fare altrettanto. Grazie al piano Marshall e ai 13 miliardi giunti dall’America, l’Europa non solo fu ricostruita, ma superò i livelli produttivi dell’anteguerra in un quadro di economia liberista; questo contribuì a rafforzare le tendenze politiche moderate e ad attenuare i conflitti sociali, in vista di nuove prospettive di benessere generale. La tensione tra USA e Urss aumentò quando Stalin, come implicita risposta alle iniziative occidentali, istituì il Cominform - Ufficio d’informazione dei partiti comunisti, una sorta di riedizione della Terza Internazionale. A questo punto il dialogo tra le due superpotenze cessò definitivamente. L’apice della tensione all’interno di questa “guerra fredda”, così definita perché non fu mai combattuta fisicamente, fu raggiunto quando Stalin ordinò il “blocco di Berlino”: per impedire la rinascita di un forte Stato tedesco grazie agli aiuti americani e la sua integrazione nel blocco occidentale, decise di chiudere gli accessi alla capitale tedesca rendendo impossibile il rifornimento e nella speranza che gli occidentali abbandonassero la zona ovest da loro occupata. La crisi, nonostante i presupposti, non si risolse con le armi, ma con un gigantesco ponte aereo organizzato dagli americani per rifornire la città dall’alto (giornali: “oggi piove cioccolato a Berlino!”), finché nel ‘49 i sovietici sciolsero il blocco. Furono poi unificate le tre zone occidentali della Germania (a San Francisco si era deciso di dividerla in 4 zone) e fu proclamata la Repubblica federale tedesca; la risposta sovietica fu la creazione di una Repubblica democratica tedesca nella zona orientale. La scissione dell’Europa e del mondo intero in due blocchi contrapposti era ormai completa, e fu definitivamente sancita da due alleanze militari: il Patto atlantico e il Patto di Varsavia. Il Patto atlantico, firmato a Washington nell’aprile del 1949, era un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa occidentale (tra cui Grecia, Turchia e Germania federale), gli USA e il Canada; si fondava sulla fede comune nella democrazia e prevedeva un dispositivo militare composto da contingenti dei singoli paesi, la Nato. Il Patto di Varsavia era anch’esso un’alleanza militare tra Urss e paesi satelliti, firmato nel 1955 in seguito all’adesione della Germania federale al Patto atlantico. Situazione politica, economica e sociale nelle potenze principali durante il dopoguerra: • Unione Sovietica = le necessità della ricostruzione e la sfida del confronto con l’occidente furono, per lo stalinismo, un’occasione per accentuare i suoi connotati autocratici e repressivi. L’intera vita nazionale fu subordinata alle esigenze della ricostruzione, da attuare senza aiuti esterni e quindi estremamente più faticosa; nonostante questo, la ripresa fu molto rapida e la produzione superò del 70% quella del ‘40 (anche se il prezzo fu il sacrificio del tenore di vita dell’intera popolazione). Oltre che una potenza economica, l’Urss diventò anche una potenza militare: nel 1949 fece esplodere la sua prima un punto di svolta nel processo della decolonizzazione (messo in moto dalla seconda guerra mondiale). La rivoluzione determinò da un lato la rinascita della Cina come Stato indipendente dopo la guerra civile, dall’altro l’affermazione di un modello di società comunista diverso da quello russo in quella che divenne a tutti gli effetti una grande potenza (contava, da sola, 1/4 della popolazione mondiale). Nel 1937 i comunisti di Mao Tse-tung e i nazionalisti di Chang Kai- shek avevano stretto un’alleanza contro l’aggressione giapponese; tale alleanza, tuttavia, entrò in crisi a partire dal 1941, quando il governo Chang - approfittando dell’impegno del Giappone contro gli USA durante la guerra nel Pacifico - cominciò a trascurare la lotta contro gli occupanti per prepararsi alla lotta finale contro i comunisti cinesi. L’incapacità di fronteggiare la guerra cino- giapponese non fece che aumentare il discredito del regime, che aveva ormai perso il contatto con gli strati più dinamici della società e concentrava le risorse nella repressione del dissenso interno. I comunisti, invece, nei territori da loro controllati, non solo combattevano efficacemente i giapponesi, ma rafforzarono i legami con le masse contadine e con i ceti medi grazie alla strategia di Mao. Nel 1945 riprese così la guerra civile, al termine della quale prevalsero i comunisti che, nell’ottobre del 1949, proclamarono a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese. Essa fu subito riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti, che continuavano a considerare come unico governo cinese legittimo quello instaurato a Taiwan da Chang sotto la protezione della flotta americana. Nel 1950 la Cina di Mao stipulò con l’Unione Sovietica un “trattato di amicizia e di mutua assistenza”, allargando i confini del campo socialista al più vasto e popoloso Stato dell’Asia. • Corea = in base agli accordi tra gli alleati, analogamente a quanto era accaduto a Berlino, il paese (già a lungo conteso fra Cina e Giappone) era stato diviso in due zone delimitate dal 38º parallelo: la Corea del Nord era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, appoggiato da Urss e Cina; in Corea del Sud si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli USA. La tensione tra le due Coree, dovuta alle rispettive rivendicazioni di sovranità sull’intero territorio nazionale, culminò nel giugno del 1950, quando le forze nordcoreane - appoggiate e armate dai sovietici - invasero il Sud per annetterlo. Di fronte alla conferma delle mire espansionistiche del blocco comunista, Truman inviò un forte contingente di truppe (sotto la bandiera dell’Onu) in difesa della Corea del Sud. NB: gli americani minacciarono addirittura di usare la bomba atomica. La Cina di Mao inviò a sua volta rinforzi in difesa dei comunisti, che respinsero gli americani proprio sul confine del 38º parallelo. Infine, Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord e, nel 1953, fu firmato l’armistizio che ripristinava la situazione precedente allo scontro. La seconda guerra mondiale sancì la definitiva crisi del colonialismo, iniziato nella seconda metà del 1800, nonché l’affermazione, a livello internazionale, del principio di autodeterminazione dei popoli. L’Asia precedette di quasi 10 anni il continente africano nella liberazione dal dominio coloniale, a causa del carattere più avanzato dell’organizzazione politica e della struttura sociale. • India = l’indipendenza dell’India fu la prima e la più importante tappa del processo di decolonizzazione. Il movimento nazionalista indiano, che chiedeva l’emancipazione dalla Gran Bretagna, si organizzò nel Partito del Congresso (1920) e riscosse sempre più consensi grazie alla predicazione di un nuovo leader indipendentista, Mohandas Gandhi. La sua dottrina si basava sulla pratica della non-violenza e della resistenza passiva come nuove forme di lotta, tramite le quali egli riuscì a coniugare la battaglia per l’indipendenza con quella per la rottura del sistema delle caste. Durante la seconda guerra mondiale, il Partito del Congresso promosse un movimento di resistenza non violenta alla guerra, strappando agli inglesi la promessa di concedere all’India lo status di dominion, che equivaleva all’indipendenza di fatto. Dopo la fine della guerra, la Gran Bretagna aprì i negoziati per il trasferimento della sovranità; allo stesso tempo, però, si verificò un’importante rottura: da un lato, Gandhi e il Partito del Congresso si battevano per uno Stato unitario laico in cui potessero convivere pacificamente indù (300 mln) e musulmani (100mln); dall’altro, questi ultimi si opposero e fondarono la Lega musulmana, chiedendo la costituzione di uno Stato musulmano autonomo. In seguito a gravi scontri fra le due comunità, causati soprattutto dalla forte identità religiosa dei musulmani, il governo inglese decise che l’unica soluzione possibile era una divisione dell’India in due Stati autonomi, che nacquero nell’agosto 1947: l’Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, collocato all’estremità occidentale del paese. Neanche la creazione di due Stati, tuttavia, pose fine agli scontri, che assunsero quasi le proporzioni di una guerra: il movimento di liberazione nazionale affermatosi con mezzi pacifici si concluse, così, con un esodo di massa tutt’altro che pacifico (17mln di persone si trasferirono da uno Stato all’altro e i morti furono circa 100mila). Senza contare, poi, le due guerre che India e Pakistan combatterono negli anni successivi per il controllo della regione del Kashmir, musulmana ma assegnata all’Unione Indiana; lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di violenza e di odio religioso che tanto aveva combattuto, infatti fu assassinato da un estremista indù che lo riteneva troppo “morbido” nei confronti dei musulmani. • Vietnam = nella colonia francese del Vietnam, i comunisti - sotto la guida di Ho Chi-minh - assunsero un ruolo di preminenza all’interno della Lega per l’indipendenza, formata nel ‘41 dal concorso di tutte le forze patriottiche. Nel 1945 Ho Chi-minh proclamò la Repubblica democratica del Vietnam, ma i francesi non riconobbero il nuovo Stato e rioccuparono la parte meridionale del paese. Scoppiò così una dura guerra tra i francesi e i vietnamiti, che si concluse solo nel 1954 con la vittoria dei secondi; gli accordi di Ginevra, stipulati poco tempo dopo, obbligarono i francesi a ritirarsi da tutta la penisola indocinese - quindi anche dal Laos e dalla Cambogia - e sancirono la divisione del Vietnam in due Stati: uno filo-comunista al nord e l’altro filo-occidentale al sud. Ancora una volta, come era accaduto in Cina, la crisi indocinese si inserì nel contrasti Est (socialismo) vs. Ovest (capitalismo). 25. La situazione geopolitica nel Medio Oriente e la nascita di Israele Il Medio Oriente, regione di grande importanza strategica ed economica, già dai primi decenni del secolo aveva visto svilupparsi un movimento nazionale arabo, inizialmente rivolto contro la dominazione ottomana e poi indirizzato soprattutto contro le potenze europee. Il caso eclatante di inizio ‘900 fu quello dell’Egitto, il più popoloso ed importante fra i paesi del Nord Africa. L’Egitto era una monarchia parlamentare che si trovava sotto il protettorato britannico, ma che nel 1922 fu trasformato in regno autonomo e nel ‘36 ottenne la piena indipendenza pur restando nell’orbita dell’Inghilterra, la quale conservò il controllo militare del Canale di Suez. Il compromesso con gli inglesi non esaurì, però, la spinta nazionalista: il legame tra la monarchia egiziana e la Gran Bretagna (sistema di governo sempre più corrotto e inefficiente) continuava ad essere contestato dalle opposizioni, in particolare dalla setta dei Fratelli musulmani, che era formata dalle forze integraliste islamiche e puntava ad uno Stato islamico basato sui principi della Shari’a (“legge islamica”). Ma la scossa decisiva venne dall’esercito, poiché nel 1952 un Comitato di ufficiali liberi guidato da Nasser assunse il potere e rovesciò la monarchia tramite un colpo di Stato; fu instaurato un regime laico, vagamente socialista e tendente alla modernizzazione, con i Fratelli musulmani all’opposizione. Il movimento nazionale arabo non coinvolse, chiaramente, solo l’Egitto, ma anche il resto del Medio Oriente. All’interno del movimento confluivano due componenti: da un lato quella tradizionalista, che proponeva una “islamizzazione” della società tramite Sovietica, divenuta grande protettrice dell’Egitto, e gli Stati Uniti, sostenitori di Israele. Nel 1967 scoppiò la cosiddetta “guerra dei sei giorni” a causa di una falsa informazione che l’Urss inviò al presidente egiziano Nasser: gli dissero che Israele stava mettendo insieme le truppe sul confine siriano, portando Nasser a chiudere l’unica via d’accesso di Israele sul Mar Rosso. Israele rispose alla provocazione con un duro attacco preventivo, durante il quale i caccia israeliani non solo distrussero l’intera aviazione egiziana, di fabbricazione russa, ma colpirono anche gli aerei siriani e giordani. Lo scontro, quindi, si concluse con la completa vittoria di Israele e con una pesantissima sconfitta arabo-egiziana, senza alcun intervento militare sovietico; inoltre segnò il declino della presidenza Nasser. Gli Stati moderati della zona si riunirono nell’Olp (1959), l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, per tutelare i regimi arabi; l’Olp pose le sue basi in Giordania, dove creò una sorta di Stato nello Stato. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane e siriane attaccarono di sorpresa Israele, decise a recuperare il Sinai; dopo una difficoltà iniziale, però, Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto anche grazie agli indiretti aiuti americani (rifornimenti di armi), che gli permisero di contrattaccare. Sul piano territoriale la “guerra del Kippur” non apportò alcun cambiamento significativo, ma ebbe comunque importanti risvolti politici e psicologici: da un lato, infatti, fu scosso il mito dell’invincibilità di Israele, dall’altro cominciò una crisi globale in seguito alla chiusura del Canale di Suez e al blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi contro i paesi occidentali amici di Israele. Lo shock petrolifero colpì ampiamente tutti i paesi industrializzati, soprattutto quelli che dipendevano dalle importazioni per il loro fabbisogno energetico; unito alla fase di instabilità monetaria internazionale, questo scatenò una grave crisi economica sulle cui cause si discute tuttora. Accanto all’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano per la Palestina e accanto all’accresciuto interesse del mondo industrializzato per la risorsa petrolio, negli ultimi decenni del 1900 la centralità strategica del Medio Oriente fu accentuata dalla rinascita del fondamentalismo islamico, in forme nuove e più aggressive. Questi tre fattori avrebbero trasformato il Medio Oriente nell’area più conflittuale del pianeta e nella minaccia più seria alla pace mondiale. Per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano, dopo la metà degli anni ‘70 sembrarono aprirsi nuove prospettive di pace: il presidente egiziano Sadat si convinse della necessità di far uscire il suo paese da un perenne stato di guerra, così congelò i rapporti con l’Urss e si avvicinò agli USA per imprimere alla sua politica un segno filo-occidentale. Nel novembre 1977 si recò personalmente al Parlamento israeliano a Gerusalemme dove formulò la sua offerta di pace, che fu accolta dal governo israeliano. Si arrivò così agli accordi di Camp David (1978), in cui, con la mediazione del presidente americano Carter, l’Egitto ottenne la restituzione del Sinai da parte di Israele e i due Stati stipularono un trattato di pace. Si trattò di una svolta storica, che ruppe l’isolamento di Israele e che permise per la prima volta il riconoscimento di uno Stato non islamico da parte di uno Stato arabo. Gli altri Stati arabi, però, condannarono la scelta di Sadat, che fu ucciso al Cairo in un attentato organizzato da un gruppo integralista islamico. In Iran (l’antica Persia) una rivoluzione rovesciò il regime monarchico, ritenuto corrotto e filo-occidentale, e instaurò una repubblica di stampo teocratico e fondamentalista guidata dall’ayatollah Khomeini, massima autorità dei musulmani sciiti in quanto impersonava l’essenza pura dell’Islam, quello cioè non contaminato dalla tradizione. Khomeini si dimostrò fin da subito violentemente anti-occidentale e anti-americano, infatti accusò gli Stati Uniti di aver sostenuto lo scià e di avergli offerto ospitalità dopo la sua fuga; per oltre un anno il personale dell’ambasciata americana a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici che agivano col pieno appoggio del governo. L’Iran di Khomeini, quindi, rappresentò la rottura definitiva tra l’Islam e l’occidente e fu il primo Stato formalmente islamico (il manifesto fondativo fu il libro Stato islamico scritto dallo stesso Khomeini). La Repubblica islamica instaurata dall’ayatollah nel 1979 presentava un carattere ibrido e si configurava come uno Stato “duale”: gli organi elettivi e il Presidente della Repubblica erano di fatto assoggettati a una rete di comitati religiosi, come ad esempio i Guardiani della Costituzione; la costituzione era improntata sui modelli occidentali, ma ne ribaltava i contenuti, cancellando i principi del 1779 e affermando la prevalenza della religione islamica sulle leggi dello Stato. Khomeini lasciò in eredità al mondo musulmano l’antitesi tra l’Islam e la tradizione occidentale, eredità che contribuì alla radicalizzazione di quello stesso mondo. L’ossessione anti-occidentale e la visione degli Stati Uniti come “il grande Satana” furono fattori determinanti nello sviluppo dell’islamismo radicale, che non prevede alcuna disponibilità al compromesso o alla mediazione e invoca alla “guerra santa” (jihad) contro l’occidente. L’Iran, che si era posto in una situazione di isolamento internazionale, fu attaccato nel settembre 1980 dal vicino Iraq di Saddam Hussein, che interpretava l’Islam in modo molto più moderato e laico e voleva approfittare della situazione per impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi tra i due Stati. La guerra tra Iraq e Iran durò 8 anni e si risolse in un’inutile carneficina. Nel 1990, Saddam Hussein decise di invadere il Kuwait, affacciato sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio tradizionalmente filo-occidentale; l’annessione del Kuwait alla Repubblica irachena provocò, nel ‘91, la risposta di una coalizione militare guidata dagli Stati Uniti che agiva sotto la bandiera dell’Onu. Alla fine della “guerra del Golfo” gli USA vinsero, ma il regime di Saddam rimase in piedi. I palestinesi, nel frattempo, continuavano la loro diaspora permanente in seguito alla nascita di Israele. Nel “settembre nero” 1970, l’Olp estese la lotta terroristica sul piano internazionale con una serie di dirottamenti aerei e attentati clamorosi, come quello attuato alle Olimpiadi di Monaco (‘72) in cui furono rapiti 11 atleti israeliani. 27. L’evoluzione dei sistemi politici occidentali tra gli anni ‘60 e ‘70: USA, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia (vedi anche lez. successiva) Nel corso degli anni ‘50, i maggiori Stati dell’Europa occidentale vissero il difficile passaggio dalla condizione di grandi potenze a quella di potenze di secondo rango, dipendenti per la loro sicurezza e per il loro benessere dall’alleato d’oltreoceano. Mentre in Francia, come vedremo, questo trapasso avvenne in modo agitato, in Gran Bretagna la smobilitazione dell’Impero avvenne senza eccessivi traumi e i conservatori (rimasti al governo dal ‘51 al ‘64) non smantellarono l’edificio del Welfare State costruito dai precedenti governi laburisti; nonostante questo, l’economia britannica subì un progressivo declino che si trasformò in vero e proprio ristagno, accanto al grande dinamismo che, invece, si manifestò negli altri Stati. La ripresa più spettacolare fu quella della Germania federale, dove i governi cristiano-democratici applicarono con ottimi risultati un modello di economia sociale di mercato, che combinava gli interventi sociali con un’ispirazione di fondo liberistica e individualistica. Il prodotto nazionale tedesco crebbe al ritmo del 6% annuo, la disoccupazione fu quasi completamente riassorbita e il marco, drasticamente svalutato nel ‘49, divenne la più forte tra le monete europee. Fu possibile raggiungere tali risultati grazie alla disponibilità di manodopera fornita dai profughi (3mln fuggiti dalla Germania est), alla moderazione dei sindacati e alla notevole stabilità politica; furono messi fuori legge i comunisti e i neonazisti e i partiti maggiori erano uniti dalla comune accettazione delle regole liberal-democratiche. Negli anni ‘60, dunque, la Germania federale faceva ormai di nuovo parte delle nazioni sovrane dell’Europa occidentale, le quali videro svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità reciproca. L’idea di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica era condivisa dai leader di diversi paesi e di diversa estrazione ideologica: conservatori come Churchill, cattolici come De Gasperi, socialisti come Blum, tutti erano favorevoli al processo di integrazione. La prima La Russia, al contrario delle altre potenze europee, non aveva ancora superato la fase autoritaria: l’economia era pianificata, chiusa e con scambi commerciali minimi, quindi non in grado di progredire; il potere continuava ad essere in mano al partito unico, che fu abolito solo da Gorbachev; lo sfruttamento di risorse umane e materiali era massiccio e si mirava ad una industrializzazione intensiva all’interno di un paese prevalentemente contadino. Inoltre, il gigantesco complesso militare e industriale costituiva di fatto uno Stato dentro lo Stato; per mantenerlo era necessario esporre il resto della popolazione a duri sacrifici, e chi ne faceva parte viveva in “città chiuse” e apparteneva all’élite (esistevano addirittura dei passaporti interni). L’obiettivo di questo sforzo disumano a cui fu sottoposta un’intera nazione era, chiaramente, quello di tenere il passo nella competizione con l’occidente. Il carattere autarchico dell’economia russa portò il paese al collasso: il sistema crollò perché i criteri oggettivi economici (come l’analisi costi/benefici) vennero sostituiti da criteri soggettivi politici che non miravano al bene del paese. Seppur senza l’uso del terrore, l’Unione Sovietica presentava ancora i caratteri del regime totalitario di inizio ‘900. I pianificatori centrali individuavano prodotti di necessità sociale su cui investire la maggior parte delle risorse, favorendo così la monopolizzazione delle imprese; un’immensità di mafie burocratiche e imperi locali sfuggivano al controllo del potere centrale, e gli organismi periferici del partito erano dominati da “clan familiari”. Per tutti gli anni ‘70 questi gravi problemi interni furono mascherati da Brezhnev, i cui progetti prevedevano un ampliamento della sfera di influenza sovietica in tutti i continenti. Egli era, tuttavia, nient’altro che un burattino del complesso militare. Teneva in piedi il sistema sfruttando le risorse naturali: tale sfruttamento provocava anche vere e proprie catastrofi (come quella dell’esplosione nucleare di Chernobyl, causata in parte dall’incompetenza degli operai - fenomeno diffusissimo in tutto il paese - e in parte dalla scarsa qualità dei macchinari forniti). L’avvento al potere di Gorbachev (1985) come segretario del partito, il primo a non aver vissuto lo stalinismo, segnò una svolta radicale per l’Unione Sovietica e per l’intero mondo comunista. Egli improntò la sua politica economica sull’idea di perestrojka, cioè di riforma, proponendo l’introduzione nel sistema socialista di alcuni elementi dell’economia di mercato. Una volta eletto presidente dell’Urss, Gorbachev attuò, come promesso, le riforme economiche di liberalizzazione interna; esse, tuttavia, si rivelarono inadeguate e sollevarono numerosi movimenti indipendentisti, come quello delle tre repubbliche baltiche e quello delle repubbliche caucasiche. La stessa Repubblica russa, guida e centro motore dell’intero sistema sovietico, rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla presidenza Eltsin. Le riforme, insieme al processo interno avviato da Gorbachev all’insegna della glasnost (“trasparenza”, in senso più lato “libertà d’espressione”), permisero il rilancio del dialogo con l’occidente. In seguito a una serie di incontri tra i leader sovietici e quelli statunitensi, si instaurò un clima di distensione internazionale che consentì alcuni accordi tra le due superpotenze sulla limitazione degli armamenti. Il declino dell’Urss conobbe una brusca accelerazione nel decennio successivo. Non solo la politica di Gorbachev fallì, ma si ampliò significativamente il sindacato indipendente Solidarnosc, nato in Polonia ed estesosi alle altre democrazie popolari. La disgregazione fu inevitabile in seguito ad un fallito colpo di Stato, tentato nell’agosto del ‘91 dai rappresentanti del vecchio regime. Alla fine del 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere, dopo un processo di ribaltamento avvenuto all’interno del sistema stesso. 29. Il sistema politico italiano dalla democrazia proporzionalistica a quella maggioritaria Nella tradizione italiana, i partiti, fin dalla loro ricomparsa sulla scena politica dopo il ventennio fascista, hanno sempre giocato un ruolo di grande rilevanza. Dopo l’8 settembre essi rappresentavano l’unica risorsa democratica utilizzabile come guida del processo di transizione verso un nuovo sistema politico, che sarebbe nato su due pilastri: il parlamentarismo, per scongiurare il rischio dell’avvento di un nuovo duce e per recuperare gli anni in cui il Parlamento era stato spogliato dei propri poteri, e il proporzionalismo, per assicurare la rappresentanza di una pluralità di interessi e di culture politiche. Il ritorno alla dialettica democratica determinò una grande crescita della partecipazione politica, infatti gli iscritti ai partiti più forti si misuravano in centinaia di migliaia. Le forze in campo in vista delle nuove e libere elezioni erano pressoché le stesse che avevano partecipato alla lotta politica negli anni tra la prima guerra mondiale e la dittatura: il Partito socialista di Pietro Nenni, il Partito comunista di Togliatti (che traeva visibilità e forza dal contributo offerto all’antifascismo), la Democrazia cristiana di De Gasperi (partito principale del fronte moderato), il Partito liberale e il Partito repubblicano. Dopo il governo Parri, primo governo dell’Italia liberata, nel ‘45 la guida passò al democristiano De Gasperi, che segnò una svolta moderata nella politica italiana. Egli formò un ministero “monocolore” da cui estromise socialisti e comunisti, in seguito ad un accrescimento delle tensioni tra i partiti della coalizione antifascista; negli anni del “centrismo” (‘48-’53) prestò molta attenzione ai problemi sociali, varò una riforma agraria e istituì la Cassa per il Mezzogiorno (cioè un nuovo ente pubblico avente come scopo la promozione e lo sviluppo economico delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale di infrastrutture) per ridurre il dualismo nord/sud. Nel 1954 si affermò una nuova generazione all’interno della Dc con la segreteria Fanfani, il cui modello organizzativo ricalcava quello comunista. Fanfani si dimostrò più attento all’intervento dello Stato nell’economia e più sensibile ai problemi degli strati meno agiati della popolazione. Tra il 1958 e il 1963 l’Italia attraversò una fase di grande crescita e sviluppo, definita “miracolo economico”, che mutò in senso industriale il volto del paese; al boom dell’industria si accompagnarono i due grandi fenomeni dell’esodo dal sud al nord e dell’urbanizzazione; con la televisione si ebbe per la prima volta un’unificazione linguistica; l’automobile, altro simbolo del miracolo, ebbe una diffusione di massa. La svolta non fu solo economica, ma anche politica, infatti i socialisti rientrarono nell’area della maggioranza. Nel ‘63 si formò il primo governo di centro-sinistra organico, presieduto da Aldo Moro, leader della Dc. In questa fase furono varati due importanti provvedimenti: la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’istituzione della scuola media obbligatoria. Gli anni successivi furono invece caratterizzati dall’esplosione della contestazione studentesca, dalla nascita di gruppi extraparlamentari e dalle agitazioni operaie del cosiddetto “autunno caldo”, che si conclusero con forti aumenti salariali e con un rafforzamento dei sindacati (Statuto dei lavoratori). Dopo anni di terrorismo di destra e di sinistra, culminati nel rapimento e nell’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse (1978), furono varate altre leggi di contenuto sociale, che prevedevano misure per assicurare il sistema pensionistico e l’istituzione del servizio sanitario nazionale. Il problema, all’epoca poco considerato anzi del tutto sottovalutato, era che l’aumento della spesa pubblica non veniva compensato dalle entrate: nel 1983 la spesa era raddoppiata, senza che si registrasse però un analogo aumento della pressione fiscale. Questo determinò un notevole aumento del debito pubblico, e la responsabilità è da ricondurre senza dubbio ai partiti, che non si interessarono più di tanto alla provenienza delle risorse ma si concentrarono piuttosto sul loro utilizzo a tratti “sfrenato”. L’Italia, in altre parole, si caratterizzava come uno Stato sociale “distributivo” che mirava a fornire alla popolazione quante più risorse possibili (“tutto a tutti”). Negli anni ‘80 si assistette all’emergere di nuovi movimenti ostili al sistema dei partiti, ad esempio la Lega Nord, che irruppe nella politica italiana facendo leva su quella frazione di elettorato già “fidelizzato” in precedenza dalla Dc. Nei primi anni ‘90 il ceto politico italiano fu delegittimato dalle inchieste della magistratura, inerenti, ad esempio, allo scandalo di Tangentopoli (si scoprì che gli appalti pubblici erano pilotati in cambio di tangenti, spartite poi tra i partiti di governo). La via più rapida per la riforma e la moralizzazione della politica sembrò a molti,
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