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Storia contemporanea: dalla grande guerra ad oggi - Sabbatucci, Vidotto, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

sono presenti i capitoli dall'1 al 17

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 23/05/2021

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annalisa-tonelli 🇮🇹

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Scarica Storia contemporanea: dalla grande guerra ad oggi - Sabbatucci, Vidotto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Storia contemporanea: dalla Grande Guerra a oggi 1. La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa Venti di guerra L’evoluzione politica e i progressi economici non bastavano a spegnere i conflitti sociali interni ai singoli paesi né a far scomparire le tensioni politiche internazionali. Tra le potenze europee erano ancora vive vecchie e nuove rivalità. L’equilibrio continentale si basava sulla contrapposizione di due blocchi di alleanze: Austria e Germania contro Francia, Russia e Gran Bretagna. La guerra era dunque nell’aria. Per molti giovani la guerra si presentava come la grande occasione per uscire dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà quotidiana. Una reazione a catena Nell’Europa del 1914 esistevano tutte le premesse che rendevano possibile una guerra. Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco uccise con due colpi di pistola l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie. L’attentatore faceva parte di un’organizzazione ultranazionalista che si batteva affinchè la Bosnia entrasse a far parte di una grande Serbia indipendente dall’Impero asburgico. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo. Un attentato terroristico si trasformò così in un caso internazionale e mise in moto una catena di reazioni. Furono le decisioni prese dai governanti e capi militari a trasformare una crisi locale in un conflitto generale. l’Austria compì la prima mossa inviando un durissimo ultimatum alla Serbia. L’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Il governo russo ordinò la mobilitazione delle forze armate, ma questo venne interpretato dal governo tedesco come un atto di ostilità. Così la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne risposta e fu seguito dalla dichiarazione di guerra. La Francia, legata alla Russia, mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con la successiva dichiarazione di guerra alla Francia. Il piano di guerra elaborato dall’allora capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen prevedeva un massiccio attacco contro la Francia, che doveva essere messa fuori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia. Presupposto era il rapido attacco alla Francia. Era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio. I primi contingenti tedeschi invasero il Belgio; la violazione della neutralità belga ebbe un peso decisivo. La Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania. 1914-15: dalla guerra di logoramento alla guerra di posizione Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di trincea: queste sono le caratteristiche di un conflitto che non aveva precedenti. Nessuna tra le potenze in guerra aveva elaborato strategie diverse da quelle della tradizionale guerra di movimento. Furono i tedeschi a puntare su una strategia offensiva, ottenendo una serie di successi importanti. Nel frattempo i russi erano stati sconfitti. La minaccia russa si rilevò tuttavia più seria e indusse i comandi tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte occidentale. I francesi riuscirono a lanciare un improvviso contrattacco e i tedeschi furono costretti a ripiegare. Il piano tedesco poteva dirsi fallito. Alla fine di novembre gli eserciti di erano attestati in trincee improvvisate su un fronte lungo 750 km. In una guerra di questo genere, l’iniziale superiorità militare degli Imperi centrali passava in secondo piano. Diventava essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l’apporto della Russia con il suo potenziale umano. Nell’agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania, mentre la Turchia interveniva in favore degli Imperi centrali. Nel maggio 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria- Ungheria. A fianco della Germania sarebbe intervenuta la Bulgaria, mentre nel campo opposto il Portogallo, la Romania e la Grecia. Decisivo sarebbe risultato l’intervento degli Stati Uniti che si schierarono con l’Intesa. La guerra assunse sempre più un carattere mondiale. 1915: l’intervento dell’Italia L’Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915. Fu una scelta sofferta. Nell’agosto del 1914 il governo presieduto da Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia. Questa decisione aveva trovato concorsi. Cominciò, però, a essere affacciata da alcuni settori poitici l’eventualità opposta: quella di una guerra contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a compimento il processo risorgimentale. Sostenitori di questa linea interventista furono gruppi e partiti della sinistra democratica. Sull’opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi dell’intervento furono i nazionalisti. Schierata su una linea neutralista era invece l’ala più consistente dei liberali. Giolitti non riteneva il paese preparato alla guerra. In maggioranza ostile all’intervento era anche il mondo cattolico. Tra i leader socialisti, solo Mussolini, si schierò a favore dell’intervento. Espulso dal Psi, Mussolini fondò “il Popolo d’Italia”. I neutralisti erano in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo. Il fronte interventista era unito da un obiettivo preciso, la guerra contro l’Austria. Le minoranze interventiste seppero impadronirsi del domino delle piazze. A decidere l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti furono le scelte del capo di governo, del ministro degli Esteri e del re. Il 20 maggio 1915 la Camera approvò, con il voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo. L’Italia dichiarò guerra all’Austria. I fronti di guerra (1915-16) Le forze austro-ungariche si schierarono sulle posizioni difensive. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Cadorna sferrarono 4 sanguinose offensive, senza cogliere alcun successo. Nel 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco. L’offensiva fu faticosamente arrestata. Ma il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da Boselli. Furono combattute altre battaglie sull’Isonzo, senza che fossero ottenuti risultati importanti. Una situazione analoga si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili. Fra il 1915 e il 1916 i soli successi militari furono conseguiti dagli Imperi centrali. Una grande offensiva tedesca costrinse i russi ad abbandonare buona parte della Polonia. Gli austriaci attaccarono la Serbia, che fu invasa. Una spedizioni navale britannica attaccò lo Stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente sulle coste turche. Ma l’impresa si risolse in un fallimento. Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a favore degli Imperi centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dai britannici. riuscirono a guadagnarsi l’appoggio dei contadini. Il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, con la creazione di una polizia politica, la Ceka. Inoltre era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale. Vennero messi fuori legge i partiti d’opposizione e fu reintrodotta la pena di morte. Si procedeva alla riorganizzazione dell’esercito, con il nuovo nome di Armata rossa. Artefice principale dell’operazione fu Trotzkij. La creazione di un esercito efficiente avrebbe consentito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro con i suoi nemici, interni ed esterni. Nasceva un nuovo modello di Stato a partito unico. 1918: la sconfitta degli Imperi centrali Nella fase finale della guerra, per scongiurare la minaccia di una diffusione del modello rivoluzionario bolscevico, gli Stati dell’Intesa accentuarono il carattere ideologico dello scontro, presentandolo come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo. Questa concezione trovò il suo interprete nel presidente americano Wilson, che precisò le linee ispiratrici in un programma di pace i 14 punti. Si proponeva l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti. Si prospettava l’istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle Nazioni. La partita decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. La Germania tentò la sua ultima scommessa impegnando tutte le forze. Gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano sul Piave. Le forze dell’Intesa passarono al contrattacco. Nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta e cominciarono ad arretrare. Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano dall’interno. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci firmarono l’armistizio con l’Italia. La situazione precipitava anche in Germania. I marinai di Kiel si ammutinarono e diedero vita a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. A Berlino un socialdemocratico , Ebert, fu proclamato capo di governo e veniva proclamata la Repubblica. La Germania perdeva, gli stati dell’Intesa uscivano dal conflitto scossi e provati. Vincitori e vinti Nel 1919 nella Reggia di Versailles si aprirono i lavori della conferenza di pace. Rimasero esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano. Le materie più importanti vennero riservati ai “cosiddetti quattro grandi”: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George e l’italiano Orlando. Il nuovo equilibrio doveva tener conto dei principi di democrazia e di giustizia internazionale enunciati nei 14 punti di Wilson. I principi wilsoniani non sempre erano compatibili con l’esigenza di punire gli sconfitti e di premiare i vincitori. Il trattato fu in realtà un’imposizione subita dalla Germania. Dal punto di vista territoriale era prevista la cessione alla Polonia dell’Alta Slesia, la Posnania e la Pomeriana. La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania. Inoltre dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori i danni subiti e fu costretta ad abolire il servizio di leva. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85 mila km2. Un trattamento severo toccò anche all’Ungheria che perse alcuni territori. A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia, furono soprattutto i popoli slavi. I cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia. Gli slavi del sud si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia). Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Gli Stati vincitori non riconobbero la Repubblica dei soviet, mentre furono riconosciute e protette le nuove Repubbliche indipendenti: Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania. L’Europa contava ben otto nuovi Stati. A essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d’Irlanda. Ad assicurare il rispetto dei trattati avrebbe dovuto provvedere la Società delle Nazioni. Il nuovo organismo prevedeva la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti. Grave era l’esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia. Il colpo più duro arrivò proprio dagli Stati Uniti. Il Senato rifiutò di ratificare il trattato di Versailles. Mentre per gli Stati Uniti iniziava una stagione di isolazionismo, la Società delle Nazioni finì con l’essere egemonizzata dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Il mito e la memoria La prima guerra mondiale fu una grande produttrice di miti. La condizione di disagio psicologico dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse di fuga dalla realtà. L’entità senza precedenti delle perdite umane lasciò una traccia profonda e aprì una ferita non rimarginabile nella memoria privata, ma anche nella memoria pubblica. La celebrazione dei morti di guerra era stata rivendicata dalla cultura romantica. Non solo furono eretti grandi mausolei, sorsero monumenti ai caduti e viali della rimembranza. Una forma nuova di celebrazione collettiva fu quella del “militare ignoto”: la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di tutti i combattenti morti. 2. L’eredità della Grande Guerra Le conseguenze economiche della guerra Quella che usciva dalla drammatica esperienza della Grande Guerra era un’Europa sconvolta e trasformata. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono in condizioni di gravissimo dissesto. In Italia, Francia e Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto nazionale lordo, in Gran Bretagna addirittura triplo. Per far fronte a queste spese, i governi erano ricorsi all’aumento delle tasse. Avevano contratto debiti con i paesi amici e soprattutto con gli Stati Uniti. Né le tasse né i prestiti erano stati sufficienti a coprire le spese di guerra. Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un rapido processo inflazionistico, determinando uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali. Rimasero in vita molti apparati burocratici destinati ai compiti più diversi. Si rafforzò la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera iniziativa. Una ripresa delle economie europee era frenata dal calo degli scambi internazionali. Gli Stati Uniti e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei. L’Argentina, il Brasile, il Canada, il Sudafrica e l’Australia avevano sviluppato una propria produzione industriale allentando le dipendenze dall’Europa. Invece della libertà degli scambi auspicata nel programma di Wilson, si ebbe una ripresa di nazionalismo economico e protezionismo. I mutamenti sociali L’espansione dell’industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città nuovi strati di lavoratori donne e ragazzi. C’era un minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate. Le ripercussioni più evidenti si ebbero nel mondo del lavoro: le donne presero spesso il posto degli uomini al fronte, assumendo responsabilità e compiti fino ad allora sostanzialmente preclusi. Anche tra le mura domestiche il loro ruolo cambiò: da esecutrici delle mansioni domestiche a capifamiglia. Il processo di emancipazione ebbe un parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto alle donne: Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. La trasformazione del ruolo della donna suscitò anche forti resistenze. A manifestare preoccupazione furono i reduci di guerra, che temevano di vedere occupati quei posti di lavoro cui credevano di aver diritto. Il problema del trattamento degli ex combattenti e del loro reinserimento nel mondo del lavoro fu tra i più urgenti per le classi dirigenti. Sorsero associazioni di ex combattenti che si mobilitavano in difesa dei propri valori e dei propri interessi. I governanti di tutti i paesi furono larghi di promesse, ma in realtà le provvidenze furono limitate. Risultò accentuata la tendenza alla massificazione. Acquistarono maggior peso le manifestazioni pubbliche basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. Stati nazionali e minoranze La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono per molti popoli il coronamento di lunghe lotte per l’indipendenza. Però l’applicazione dei principi wilsoniani si rivelò problematica. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con confini di classe più che con quelli geografici. L’applicazione del principio di nazionalità non poteva che risultare imperfetta, oltre che difficile. La presenza di gruppi che parlavano lingue diverse, seguivano altre religioni fu sentita come una minaccia. In alcuni casi furono indetti dei plebisciti per decidere l’assegnazione di un territorio. Più spesso si cercò di vincolare gli Stati al rispetto dei diritti delle minoranze. Ma queste norme furono ignorate, anche per l’incapacità della Società delle Nazioni di imporre sanzioni. In alcuni casi si organizzarono scambi di popolazioni. Si sarebbe giunti a quelle che oggi chiamiamo “pulizie etniche”. Il biennio rosso: rivoluzione e controrivoluzione in Europa Tra la fine del 1918 e l’estate del 1920 il movimento operaio europeo fu protagonista di un’impetuosa avanzata politica. I partiti socialisti registrarono incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita ad agitazioni alimentate dalle vicende russe. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, conservatori e moderati mantennero il controllo e la pressione del movimento operaio fu contenuta. Germania, Austria e Ungheria furono teatro di tentativi rivoluzionari, che furono stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi europei. Nel 1918 i bolscevichi avevano abbandonato l’antica denominazione di Partito socialdemocratico, per quella di Partito comunista. La scissione fu sancita con la costruzione di una Internazionale comunista (Comintern). Fu lo stesso Lenin a fissare le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo: i partiti aderenti avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiando il nome in Partito comunista. La rottura fra socialdemocrazia e comunismo era stata segnata dalle vicende che in Germania avevano seguito la proclamazione della Repubblica. Il governo legale era formato da esponenti La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del ’18 e si apriva con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato. La Costituzione collocava al vertice del potere il Congresso dei soviet. Quella che si attuò fra il ’20 e il ’22 fu l’unione alla Repubblica russa delle altre province dell’ex Impero zarista. Quella che dal 1922 prese il nome di Unione delle Repubbliche socialiste e sovietiche (Urss) era una compagine priva di reali meccanismi federativi, e in cui i russi erano la nazionalità dominante. Il potere reale era nelle mani del Partito comunista. Il partito era guidato da un segretario generale; era responsabile delle direttive ideologiche e politiche; controllava la polizia politica Ceka, che colpiva gli oppositori. Come tutti i rivoluzionari, anche i comunisti russi mirarono a cambiare la società nel profondo. Lo sforzo si indirizzò soprattutto in due direzioni: l’alfabetizzazione di massa e la lotta contro la Chiesa ortodossa. Si cercò di collegare la scuola al mondo della produzione. Ci si preoccupò di formare ideologicamente le nuove generazioni. La scristianizzazione fu portata avanti con molta durezza. Il governo rivoluzionario stabilì il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Venne legalizzato l’aborto e proclamata l’assoluta parità tra i sessi. Le tendenze autoritarie si andarono consolidando con l’ascesa al vertice di Stalin. Fu nominato segretario generale del partito nel 1922. Lenin fu colpito dal primo attacco di quella malattia che lo avrebbe portato alla morte. Da allora si aprì una lotta per la successione. A sostenere la necessità di limitare le prerogative dell’apparato fu Trotzskij. Gli altri leader respinsero le sue critiche alla gestione del partito appoggiando la linea di Stalin. Trotzskij attribuiva l’involuzione autoritaria del partito all’isolamento internazionale. Stalin sosteneva che la vittoria del socialismo era possibile e probabile anche in un solo paese e che l’Unione sovietica aveva in sé le forse sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. Una volta sconfitto Trotzskij fu deportato e successivamente espulso dall’Urss. Con la sconfitta si chiudeva la prima fase della rivoluzione. Se ne apriva una nuova, caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin. 3. Dopoguerra e fascismo in Italia Le tensioni del dopoguerra L’Italia si trovò a condividere i problemi che la Grande Guerra aveva suscitato in tutta Europa. Rispetto agli altri paesi vincitori, problemi e tensioni si presentavano però in forma più acuta. Quella che usciva dalla guerra era una società inquieta e attraversata da profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento. Le tensioni sociali erano legate al continuo aumento dei prezzi. Le industrie erano investite da un’ondata di scioperi. In Val Padana gli scioperi erano organizzati dalle leghe rosse controllate dai socialisti. Nelle regioni centrali erano attive soprattutto le leghe bianche cattoliche. L’Italia era uscita dalla guerra rafforzata: aveva ottenuto Trento, Trieste e le altre terre irredente; aveva raggiunto i confini naturali segnati dalle Alpi; aveva visto scomparire l’Impero asburgico. Ma c’erano una serie di problemi non previsti. L’Italia avrebbe dovuto annettere anche la Dalmazia, abitata in prevalenza da salvi. Non era prevista invece l’annessione di Fiume, a maggioranza italiana. Tuttavia il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino chiesero l’annessione di Fiume. Tali richieste incontrarono l’opposizione degli alleati, in particolare del presidente degli Stati Uniti, che si sentiva slegato ed estraneo. Per protestare contro l’atteggiamento di Wilson, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles . questo insuccesso segnò la fine del governo di Orlando. Il nuovo ministero presieduto da Nitti si trovò ad affrontare una situazione deteriorata. Si parlò di vittoria mutilata. La manifestazione di questa protesta si ebbe nel 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di D’Annunzio, occuparono la città di Fiume e ne proclamarono l’annessione all’Italia. I partiti e le elezioni del 1919 In questa fase di crisi la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e finì con il perdere l’egemonia . risultarono favorite quelle forze, socialiste e cattoliche. Furono i cattolici a portare il primo fattore di novità, dando vita al Partito Popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito che ebbe il suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e non confessionale. In realtà era strettamente legato alla Chiesa. L’altra grande novità fu la crescita del Partito socialista. Il grosso del Partito socialista era schierato su posizioni apertamente rivoluzionarie. I socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le froze democratico-borghesi. Ferirono il patriottismo e fornirono argomenti ai numerosi gruppi che si formarono nell’immediato dopoguerra. Fra questi movimenti, faceva spicco quello fondato a Milano da Mussolini: i Fasci di combattimento. Il nuovo movimento si schierava a sinistra, ma nel contempo ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. I fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano e conclusosi con l’incendio della sede dell’”Avanti!”. Le prime elezioni politiche del dopoguerra si tennero nel 1919. Furono le prime tenute con il nuovo metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista. I socialisti ottennero un successo clamoroso. Il Partito popolare italiano si affermava come la principale novità. I due vincitori non potevano però coalizzarsi tra loro. L’unica maggioranza possibile era quella basata sull’accordo fra popolari e liberal-democratici. Il ritorno di Giolitti e l’occupazione delle fabbriche Il ministero Nitti sopravvisse fino al 1920, quando fu chiamato Giolitti. I risultati più importanti li ottenne in politica estera, imboccando la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato diretto con la Jugoslavia. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara. Fiume fu dichiarata città libera. Più serie furono le difficoltà sul terreno della politica interna. Il governo impose la liberalizzazione del prezzo del pane e avviò il risanamento del bilancio. I liberali non avevano più la solida maggioranza. Il centro della politica si era spostato dal Parlamento ai partiti. I conflitti sociali del biennio rosso italiano conobbero il loro episodio più drammatico nell’estate e autunno del ’20 con l’agitazione degli operai metalmeccanici. La vertenza vedeva contrapporsi gli industriali del settore, guidati dal sindacato più forte aderente alla Confederazione generale del lavoro (Cgl): la Federazione italiana operai metallurgici (Fiom). Fu la Fiom a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste cui gli industriali posero un netto rifiuto. La Fiom ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche. Prevalse la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano riportare la vertenza nei binari di una lotta sindacale. Tale esito fu favorito dall’iniziativa di Giolitti, che si attenne a una linea di neutralità. Si giunse così ad un accordo per la partecipazione dei sindacati al controllo delle aziende. Le polemiche interne al movimento operaio si intrecciarono con le fratture provocate dal II congresso del Comintern. Così al congresso del Psi, i riformisti non vennero espulsi e fu la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per formare il Partito comunista d’Italia. In questo quadro si inserì lo sviluppo improvviso del movimento fascista. L’offensiva fascista Nelle elezioni del 1919 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato. Tra il 1920-21 il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò a organizzare formazioni paramilitari, le squadre d’azione, e a condurre una lotta spietata contro il movimento socialista. Il 21 novembre 1920 a Bologna gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Per un tragico errore i socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Accursio, gettarono bombe a mano sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste. I socialisti non riuscirono a organizzare reazioni adeguate. I proprietari terrieri scoprirono allora nei Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove reclute. Il fenomeno dello squadrismo dilagò. Le squadre d’azione partivano dalle città e si spostavano in camion per le campagne. Obiettivo delle spedizioni erano, non solo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste che vennero devastate, ma le persone stesse, sottoposte a violenze ripetute. Centinaia di leghe furono sciolte. Mussolini alla conquista del potere Nelle elezioni del maggio del 1921 si concretizzò l’ingresso dei candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali. I fascisti ottennero così una legittimazione, senza rinunciare ai metodi illegali tipici dello squadrismo. La campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari. I risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. La maggior novità fu l’ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale. L’esito delle elezioni mise fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti. Il suo successore Bonomi, tentò di fa uscire il paese dalla guerra civile. Fu firmato il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto rientrava nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico ufficiale. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti. I cosiddetti ras sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione l’autorità di Mussolini. La ricomposizione si ebbe al congresso dei Fasci. I ras conobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito. Nasceva così il Partito nazionale fascista. Il ministro Bonomi cadde e alla guida del governo fu chiamato Facta. Il governo non mise freno alla violenza fascista. Il movimento operaio non seppe opporre all’attacco squadrista né una mobilitazione di massa, né un’iniziativa politica volta ad appoggiare un governo capace di far rispettare le leggi. Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della conquista dello Stato. Mussolini giocò su due tavoli. Intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali. Dall’altro lasciò che l’apparato militare del omicidio e mandati a morte. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera, ad opera di sette tra cui il Ku Klux Klan. Nonostante queste tensioni, la borghesia statunitense rimaneva fiduciosa in una moltiplicazione della ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu frenetica attività della Borsa di New York (Wall Street). I risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato. La domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato interno. L’industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l’aumento delle esportazioni. Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale degli Stati Uniti, il cui indice cominciò a scendere. In una situazione già carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo della Borsa di New York. Il crollo del marcato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma ebbe conseguenze disastrose sull’intera economia nazionale. Il dilagare della crisi La recessione economica di diffuse in tutto il mondo con l’eccezione dell’Unione Sovietica. La diffusione internazionale della crisi era il risultato delle strette relazioni commerciali e finanziarie che univano le diverse aree del mondo e rendevano tutte dipendenti dagli Stati Uniti. L’inasprimento del protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare analoghe misure a difesa della propria bilancia commerciale. La conseguenza fu una contrazione drastica del commercio internazionale. La crisi in Europa Quando la crisi ebbe inizio, i governi dei governi industrializzati si preoccuparono di mettere ordine nei bilanci statali e cercarono di ridurre i deficit tagliando drasticamente la sfera pubblica: vennero ridotti gli stipendi ai pubblici dipendenti, diminuite le prestazioni sociali, imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda interna, aggravando la recessione e la disoccupazione. Il New Deal di Roosevelt Nel novembre 1932 si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Hoover fu sconfitto dal democratico Roosevelt, governatore dello stato di New York. Diventato presidente, avrebbe aperto un nuovo canale di comunicazione con i cittadini: le Conversazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica. Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura, annunciò di voler inaugurare un New Deal nella politica degli Stati Uniti: caratterizzato per un più energico intervento dello Stato nei processi economici. Il New Deal fu avviato nei primi mesi della presidenza di Roosevelt. Si cercò di ristrutturare, con ingenti aiuti pubblici, il sistema creditizio. Furono facilitati i prestiti; furono aumentati i sussidi di disoccupazione. L’Agricultural Adjustment Act si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo. Il National Industrial Recovery Act imponeva alle imprese dei codici di comportamento. Particolare rilievo ebbe l’istituzione della Tennessee Valley Authority, un ente che aveva il compito si sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee. Si intensificò l’impegno nel campo delle riforme sociali. Furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro. Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento sindacale. Il nuovo ruolo dello Stato Prima dello scoppio della grande crisi, l0intervento dei poteri pubblici in economia era stato attuato soprattutto in Europa per favorire l’industrializzazione. Ma la cultura dominante fra gli economisti e gli statisti considerava queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo supporto. La crisi del ’29 fece però sorgere un complesso di problemi la cui soluzione non poteva essere affidata all’iniziativa dei soggetti privati. Ovunque lo Stato assunse nuovi e importanti compiti. Keynes aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Egli riteneva che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di garantire da soli un’utilizzazione ottimale delle risorse. Era compito dello Stato sostenere la domanda con politiche di aumento della spesa pubblica. Nuovi consumi e comunicazioni di massa Dopo il 1929 l’intero Occidente subì un generale processo di impoverimento. Ma questo non impedì che nuove abitudini di vita si affermassero anche in Europa. Il processo di urbanizzazione accelerò lo sviluppo edilizio, che ebbe conseguenze notevoli sul modo di vivere delle masse urbane. La grande crisi determinò un certo miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumo. In Europa l’automobile rimase un bene riservato a pochi. Ma intanto cominciavano a comparire anche le prime vetture popolari (Volkswagen). Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi continuarono ad essere considerati beni di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo. I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l’etere senza ausilio dei fili erano stati realizzati da Marconi. Durante i primi 20 anni del ‘900 la tecnica radiofonica aveva fatto progressi. Il grande salto si ebbe dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, quando la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento di diffusione di informazione. La diffusione della stampa subì un netto rallentamento. La radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di massa e inaugurò un’era nuova nel campo delle telecomunicazioni. Gli anni del trionfo della radio videro anche l’affermazione del cinema. Attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo. Lo sviluppo delle comunicazioni di massa ebbe effetti rivoluzionari. Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite nei nuovi messi di comunicazione. La scienza e la guerra Negli anni ’20 e ’30 l’aeronautica compì in tutti i paesi industrializzati progressi notevoli. L’aviazione civile conobbe un considerevole incremento. Contemporanei furono gli sviluppi dell’aeronautica militare e anche della marina, destinati a svolgere un ruolo decisivo nelle guerre future. La cultura della crisi Le maggiori scuole di pensiero sorte dopo la guerra avevano metodologie e interessi molto distanti fra loro. Nell’ambito delle arti figurative e della musica, proseguì la tendenza alla rottura delle forme canoniche e la ricerca di nuovi moduli espressivi. Continuò la stagione di grandi correnti d’avanguardia. Un ulteriore elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea di questi anni fu rappresentato dalle divisioni politico-ideologiche. Letterati e artisti furono coinvolti nelle grandi contrapposizioni tra liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia. Gli intellettuali furono chiamati non solo a testimoniare, ma a parteggiare apertamente, a prendere posizione e furono mobilitati da partiti e governi. La cultura europea subì anche in modo diretto e drammatico le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari. 5. L’Europa degli anni ’30: totalitarismi e democrazie L’eclissi della democrazia Negli anni ’30 del ‘900 la democrazia visse la sua stagione più buia. In ampi strati dell’opinione pubblica, si era diffusa la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionale e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse quella tra il comunismo sovietico e i regimi autoritari. Furono questi ultimi a conoscere negli anni ’30 il loro periodo di maggiore fortuna. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi, che chiamiamo fascisti, era proporsi come artefici di una propria rivoluzione. Dar vita a un nuovo ordine politico e sociale significava accentramento del potere, struttura gerarchica dello stato, organizzazioni di massa e controllo sull’informazione e sulla cultura. Il fascismo e i regimi ad esso affini esercitarono una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali intermedi. Il fascismo seppe capire la società di massa, ne sfruttò le tecniche e gli strumenti: i messi di propaganda, i canali di informazione e di istruzione, le strutture associative. Fu propria di tutti i regimi la pretesa di dominare in modo totale la società. Totalitarismo e politiche razziali Un elemento caratterizzante dei regimi totalitari fu la scarsa o nulla considerazione del valore della vita umane e della dignità. Si affermò la tendenza a risolvere i problemi col ricorso sistematico alla forza, deportazioni, campi di concentramento e sterminio. Tutto ciò contribuiva a creare un atteggiamento diffuso che vedeva nella comunità nazionale, un’entità collettiva, un organismo la cui integrità andava tutelata, anche a prezzo dell’espulsione di qualsiasi corpo estraneo. In questo quadro si spiega la fortuna dell’eugenetica, che sosteneva la necessità di un perfezionamento non spontaneo della specie umana attraverso pratiche. Il passaggio a una diffusa pratica di eliminazione fisica dei soggetti ritenuti estranei alla comunità, pericolosi o semplicemente inadatti si ebbe nei regimi totalitari. Nella Germania nazista l’adozione di misure di sterilizzazione forzata e soppressione di individui malati si inquadrava nel progetto di una società basata sulla purezza della razza eletta. Nell’Unione Sovietica di Stalin le vittime erano scelte su basi ideologiche e di classe. Ma anche intere popolazioni furono deportate e in larga parte sterminate. Alla base di questi orrori c’erano storie diverse,ma un’unica idea di espellere ogni elemento di diversità. L’ascesa del nazismo Negli anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali antifascisti guardavano con interesse e speranza all’Unione Sovietica. La decisione di porre fine alla Nep fu presa da Stalin tra il ’27 e il ’28. L’idea dell’industrializzazione si univa alla convinzione che solo un deciso impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell’Urss una grande potenza militare. Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di una economia totalmente collettivizzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta. A partire dal ’29 i kulaki furono espropriati delle terre, bestiame e mezzi di produzione e inquadrati a forza nelle fattorie collettive. Tutti coloro che si opponevano alle requisizioni furono considerati nemici del popolo. Migliaia furono i fucilati, milioni di contadini furono deportati e chiusi in campi di lavoro forzato. Il vero scopo di quella che lo stesso Stalin definì una rivoluzione dall’alto era favorire l’industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Questi risultati furono consentiti dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia. L’eco di questi successi varcò i confini dell’Urss galvanizzando i comunisti di tutto il mondo. Pochi si resero conto che il clima era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin. Lo stalinismo, le grandi purghe, i processi Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco, Stalin finì con l’assumere in Urss un ruolo di capo assoluto. La letteratura, il cinema, la musica e le arti figurative furono sottoposti a un regime di rigida censura e costretti a svolgere una funzione propagandistico-pedagogica del realismo socialista. Stalin non si limitò a combattere i nemici della rivoluzione, ma eliminò buona parte del gruppo dirigente comunista e tutti coloro che considerava rivali reali o potenziali. Cominciava così la stagione delle grandi purghe, sempre giustificate con la necessità di combattere traditori e nemici di classe. Milioni di persone furono deportate nei numerosi campi di lavoro chiamati Lager. Peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi. Ma anche molti stretti collaboratori del dittatore. Trotzskij fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin. Le grandi purghe provocarono notevole impressione in Occidente. Però la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo, perché era troppo prezioso il contributo dell’Unione Sovietica e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo. Così l’immagine di Stalin riuscì a passare indenne. Le democrazie e i fronti popolari La prima importante decisione del governo nazista fu il ritiro della delegazione tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze cercavano di giungere a un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni. Queste decisioni destarono allarme in tutta l’Europa. Anche l’Italia fascista dovette preoccuparsi per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria gruppi nazisti ispirati da Berlino tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss, Mussolini reagì immediatamente facendo schierare 4 divisioni al confine italo-austriaco. Hitler fu costretto a far marcia indietro. Nel 1935 Hitler reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles. I rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per ribadire la validità dei trattati. Mentre si accordava, Mussolini stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico, dando avvio al riavvicinamento fra Italia e Germania. I successi di Hitler indussero Stalin a intraprendere la strada della cooperazione internazionale. L’Urss entrò nella Società delle Nazioni e stipulò un’alleanza militare con la Francia. La nuova parola d’ordine del Comintern fu quella della lotta al fascismo. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti con gli altri partiti operai, ma anche con le forze democratico-borghesi allo scopo di appoggiare i governi democratici. L’avvicinamento tra l’Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare, nel ’35, l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia, né poterono impedire che nel ’36 Hitler violasse un’altra clausola del trattato di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania. La passività mostrata dalle democrazie avrebbe incoraggiato i piani aggressivi di Hitler. Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo. nel febbraio 1936 una coalizione di fronte popolare comprendente anche i comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. In Francia il netto successo elettorale delle sinistre aprì la strada a una formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto dall’esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Blum. Gli operai dell’industria diedero vita a un’imponente ondata di scioperi e di occupazioni di fabbriche, strappando la firma degli storici accordi di Palazzo Matignon, che prevedevano aumenti salariali, riduzione della settimana lavorativa e 15 giorni di ferie pagate. Divenuto bersaglio della violenta ostilità degli ambienti industriali e finanziari, oltre che delle ricorrenti minacce dell’estrema destra, il governo Blum si dimise nel giugno del ’37. La guerra civile in Spagna Fra il 1936 e il 1939 la Spagna fu sconvolta da una guerra civile: uno scontro tra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. La Spagna aveva attraversato un periodo di grave instabilità, che aveva visto succedersi un fallito colpo di Stato militare e una violenza insurrezionale anarchica. La Spagna era l’unico paese al mondo in cui il maggiore sindacato fosse controllato dagli anarchici. Ma era anche uno degli stati in cui più di faceva sentire il peso dell’aristocrazia terriera ed era strettamente legata a una Chiesa, schierata su posizioni conservatrici e tradizionaliste. Queste tensioni condizionarono anche la vita politica della Spagna repubblicana, che pure si era data, nel 1932, una costituzione democratica. Il quadro delle forze in campo non era diverso da altri paesi europei: a sinistra c’era un forte partito socialista, ma anche gli anarchici; al centro i partiti di ispirazione radicale e democratico-repubblicana. Ma queste forze politiche, divise su tutto, erano accomunate da una concezione strumentale della democrazia. Quando nel febbraio 1936 le sinistre unite in una coalizione si affermarono alle elezioni politiche, le tensioni esplosero. Le masse proletarie vissero la vittoria come l’inizio di una rivoluzione. I gruppi di destra risposero con la violenza squadristica. Un gruppo di militari decise di ribellarsi al governo repubblicano. L’evento scatenante fu l’uccisione, da parte dei poliziotti repubblicani, dell’esponente monarchico-conservatore Sotelo. A guidare la ribellione fu Francisco Franco. Ciò che fece pendere la bilancia a favore ei nazionalisti di Franco fu il comportamento delle potenze europee. Italia e Germania aiutarono massicciamente gli insorti franchisti. Nessun aiuto venne invece alla Repubblica da parte delle forze democratiche. L’unico stato ad aiutare la repubblica fu l’Urss, che rifornì il governo spagnolo di materiale bellico e favorì la formazione di brigate internazionali. Inferiori agli avversari sul piano militare, i repubblicani erano anche indeboliti politicamente dalle loro divisioni interne. La sorte della guerra fu segnata dalla primavera del ’38, quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio controllato dai repubblicani separando Madrid dalla Catalogna. All’inizio del ’39 i nazionalisti sferrarono l’offensiva finale che si concluse con la caduta di Madrid. L’Europa verso la guerra Il fattore scatenante dell’accresciuta tensione fu la politica della Germania hitleriana. Hitler sperò fino all’ultimo di poter evitare uno scontro con la Gran Bretagna, a patto che quest’ultima lasciasse campo libero alle mire tedesche in Europa centro-orientale. In questa speranza fu incoraggiato dalla linea seguita dai britannici, quando la guida del governo fu affidata a Chamberlain, sostenitore convinto della pacificazione. La più coerente opposizione venne da un’esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Churchill, convinti che l’unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi anche a costo di affrontare subito la guerra. La Francia fu attraversata da una crisi morale. La paura della Germania era più sentita che in Gran Bretagna. Più forte era la paura per una nuova guerra. Così la Francia si adattò a una politica timida, subalterna a quella della Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di successi. Un successo clamoroso Hitler lo ottenne nel marzo 1938 con l’annessione dell’Austria al Reich tedesco. Mussolini rinunciò a opporsi. La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione, quella riguardante i Sudeti, tre milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Hitler agì mobilitando i nazisti locali e spingendoli a fare richieste all’indirizzo del governo ceco. Hitler mirava all’annessione. Due volte Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso. Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Urss esclusa). Chamberlain e il primo ministro francese accettarono un progetto presentato dall’Italia che prevedeva l’annessione al Reich dell’intero territorio dei Sudeti. Ai cecoslovacchi non restò che accettare. Accordandosi con Hitler sulla testa della Cecoslovacchia, le potenze democratiche avevano distrutto la loro stessa credibilità. 6. Il regime fascista in Italia Lo stato fascista Nella storia dei regimi autoritari, il fascismo italiano occupa un posto di grande rilievo per una questione di priorità cronologica. Nella seconda metà degli anni ’20, quando il Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo stato fascista era una realtà. L’apparato dello Stato ebbe fin dall’inizio una netta preponderanza sulla macchina del partito. Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti assai più che degli organi locali del Partito fascista. Nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo incontrava alcuni ostacoli: il maggiore era rappresentato dalla Chiesa. Non era facile governare contro la chiesa o senza trovare qualche accordo. Mussolini cercò un’intesa con il Vaticano. Le trattative si conclusero l’11 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome dei palazzi del Laterano. I patti lateranensi si articolavano in tre parti: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine spregiudicata. In questo piano rientrava anche l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, sancito dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. Credendo di potersi servire dell’amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler. Nel maggio del 1939, si decise la firma di un formale patto di alleanza con la Germania, il patto d’acciaio. La stretta totalitaria e le leggi razziali A suscitare preoccupazione era il nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini. L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era l’amicizia con la Germania. Il duce auspicava imprese militari e ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della borghesia, come atteggiamento mentale che doveva essere estirpato. Per avvicinarsi a questo obiettivo, il regime doveva diventare più totalitario. Da qui scaturirono alcune modifiche, dalla creazione di un Ministero per la Cultura popolare all’accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dell’ampliamento delle funzioni del Partito fascista alla sostituzione della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci. La manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l’introduzione, nel 1938, di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei. Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell’orgoglio razziale e di fornirgli un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma le leggi razziali furono accolte con indifferenza o con perplessità e aprirono un serio contrasto con la Chiesa. L’unico settore della società in cui le aspirazioni totalitarie ottennero qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni del regime si abituarono a pensare fascista. Solo con lo scoppio del conflitto il fascismo cominciò a perdere il sostegno sul quale più contava: quello dei giovani. L’antifascismo italiano Per coloro che intendevano opporsi alla dittatura, restavano aperte solo due strade: l’esilio all’estero e l’agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall’inizio quest’ultima furono soprattutto i comunisti. Anche gli altri gruppi antifascisti cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse all’estero. Nel 1927 questi gruppi si federarono in un’organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista. Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione erano i comunisti. Togliatti, il leader era anche un dirigente di primo piano della Terza Internazionale. Era dunque inevitabile che il Pci si allineasse alla strategia dettata da Mosca. 7. Il declino degli imperi coloniali La crisi dell’egemonia europea Negli anni ’20 e ’30 del ‘900 l’egemonia europea sugli altri continenti cominciò a indebolirsi. Le potenze europee non avevano più le risorse economiche e le capacità militari necessarie per mantenere il controllo sui loro sterminati imperi. Nel corso della prima guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia avevano fatto ampio ricorso all’aiuto dei loro territori d’oltremare. Africani, indocinesi e caraibici avevano combattuto nell’esercito francese. La Gran Bretagna aveva mobilitato indiani e uomini dai dominions bianchi: Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. La partecipazione alla guerra e il contatto con le altre culture politiche fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici avevano fatto crescere nei popoli extraeuropei la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti. Rivoluzione e modernizzazione in Turchia L’Impero turco fu ridimensionato. Fu tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran Bretagna e Francia. La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un generale, Kemal, a assumere la guida del movimento di riscossa nazionale. Britannici e francesi rinunciarono ai propri progetti e lasciarono la Grecia a vedersela da sola contro i turchi. L’esercito turco sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse a evacuare la zona di Smirne. La Turchia ebbe riconosciuta la sua sovranità su tutta l’Anatolia. Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno stato nazionale laico. Venne abolito il sultanato e fu proclamata la repubblica. Nominato presidente con poteri semidittatoriali, Kemal si impegnò a fondo in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello stato. Nazionalismo arabo e sionismo Il crollo dell’Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze nelle regioni del Medio Oriente. In questa regione, abitata quasi per intero da popolazioni arabe di religione musulmana, gli impegni presi durante la guerra dalle potenze dell’Intesa determinarono una situazione quanto mai intricata. Un impegno totalmente disatteso fu quello assunto dalle potenze vincitrici nei confronti dei curdi, un popolo musulmano non arabo che viveva in un ampio territorio montuoso oggi diviso tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. La promessa di un Kurdistan indipendente non si realizzò. Il nazionalismo arabo era un movimento in embrione, legato al prestigio dei capi tribali. Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Ali, emiro della Mecca e fondatore della dinastia hashemita, promettendo l’appoggio alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l’Arabia, la Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare con l’Impero ottomano. Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine in una guerra santa contro i turchi. Le vere intenzioni della Gran Bretagna erano diverse, perché il governo doveva tener conto degli interessi della Francia in quella regione. Francesi e britannici firmarono un patto segreto, gli accordi Sykes-Picot, per la spartizione di tutta la zona compresa fra la Turchia e la penisola arabica. Nonostante le proteste degli arabi, la spartizione si realizzò. Come compenso la Gran Bretagna creò due nuovi stati, governati dalla dinastia hashemita: l’Iraq e la Transgiordania. Nel 1932 nacque l’Arabia Saudita, fondata dal sovrano Ibn Saud, che aveva sottratto alla dinastia hashemita il controllo dei luoghi santi dell’Islam. In Palestina il governo britannico aveva riconosciuto con una dichiarazione ufficiale del ministro degli Esteri Balfour, il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico. La Dichiarazione Balfour mirava a legittimare l’immigrazione sionista. Tra 1920-21 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi. Il flusso degli immigrati ebrei aumentarono rapidamente, suscitando ulteriori tensioni. Era l’inizio di un conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei decenni successivi, prolungandosi per tutto il ‘900 e oltre. La lotta per l’indipendenza in India Una tappa importante nel processo di graduale smobilitazione dell’Impero britannico fu rappresentata dalla Conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926 e nella quale i dominions bianchi furono ricostruiti come comunità autonome ed eguali in seno all’Impero. Il paese in cui il processo di emancipazione assunse un valore esemplare fu senza dubbio l’India. Durante il primo conflitto mondiale il governo britannico aveva premiato il lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra, promettendo una crescente associazione degli indiani a ogni ramo dell’amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno. Queste promesse non bastarono a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. In seno al Congresso nazionale indiano, riscuoteva sempre maggiori consensi la predicazione di un nuovo e prestigioso leader indipendentista, Gandhi. Adottando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla non violenza e sul rifiuto di qualsiasi collaborazione con i dominatori. Acquistò popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa. Nel 1919 con il Government of India Act venne riconosciuto maggiore spazio agli indiani. Fu attuato un limitato decentramento. Questi provvedimenti non valsero a fermare la marcia dell’India verso la piena indipendenza. La guerra civile in Cina Per tutta la prima metà del ‘900, lo stato più popoloso del mondo, la Cina, fu sconvolto e paralizzato da una lunga e sanguinosa guerra civile. La Repubblica democratica del 1911 ebbe vita travagliata. Il suo padre fondatore fu costretto all’esilio e il regime autoritario imposto non riuscì ad assicurare tranquillità. La Cina precipitò in una situazione di semi-anarchia. La decisione, presa dalla Cina nell’agosto 1917, di intervenire nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa non servì a mutare la situazione. Alla conferenza di pace la Cina fu sacrificata. Questa ennesima umiliazione ebbe l’effetto di risvegliare l’agitazione nazionalistica. La lotta intrapresa contro il governo centrale da Sun Yat-sen, che nel ’21 formò un proprio governo a Canton, ebbe l’appoggio del Partito comunista cinese, fondato da Mao Zedong. Anche l’Unione Sovietica inviò aiuti. L’alleanza tra nazionalisti e comunisti non sopravvisse alla morte di Sun Yat-sen. Il suo successore Chiang Kai- shek era molto meno aperto alle istanze di riforma sociale. Le milizie operaie furono affrontate e sconfitte dalle truppe di Chiang Kai-shek. Il Partito comunista fu messo fuori legge e molti dirigenti furono incarcerati. Chiang Kai-shek cerò di riorganizzare l’apparato statale secondo modelli di autoritarismo. Nel 1931 i giapponesi invasero la Manciuria, da tempo oggetto delle loro mire, e vi crearono uno stato fantoccio, il Manchukuo. L’iniziativa manifestata nell’occasione dal governo di Chiang Kai-shek e lo scarso appoggio fornito dalle potenze occidentali diedero nuovo spazio all’azione dei comunisti, che potevano presentarsi come i soli autentici difensori della nazione. Decisiva per le fortune del partito comunista fu la strategia di Mao Zedong. I comunisti fecero numerosi proseliti fra i contadini e allargarono le loro basi. Fu fondata addirittura una Repubblica sovietica cinese. Chiang Kai-shek decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti. Con quella che poi sarebbe passata alla storia e all’epopea rivoluzionaria come la lunga marcia, Mao Zedong riuscì a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostruire il partito. Si giunse così a un accordo tra comunisti e nazionalisti: si impegnavano a costruire un fronte unito contro il nemico giapponese. La disfatta della Francia e la resistenza della Gran Bretagna L’attacco tedesco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane. L’esercito francese era il più consistente e armato d’Europa. A provocare la sconfitta furono gli errori dei suoi comandi, ancora legati a una concezione statica di guerra. Lasciando scoperto il confine con il Belgio, i tedeschi iniziarono l’attacco. Vennero invasi anche l’Olanda e il Lussemburgo. Solo un momentaneo arresto dell’offensiva consentì al grosso delle forze britanniche un difficile reimbarco. Per i britannici la ritirata rappresentò la possibilità di continuare la lotta. Ma per la Francia la sconfitta era irreparabile. Il governo presieduto da Reynaud fu costretto a dimettersi. Divenne presidente del consiglio Petain, che aprì immediatamente le trattative per l’armistizio. Invano il generale De Gaulle lanciò da Londra un appello ai francesi per incitarli a continuare a combattere. L’armistizio fu firmato il 22 giugno 1940. Il governo, che stabilì la sua sede nella città di Vichy, conservava la sua sovranità su una zona, oltre che sulle colonie. Parigi e il resto della Francia restavano sotto l’occupazione tedesca. Il regime di Vichy vide progressivamente restringersi i suoi margini di autonomia e si ridusse al rango di Stato satellite della Germania hitleriana. Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che il 3 luglio una flotta francese fu attaccata e distrutta da quella britannica per evitare che cadesse in mano ai tedeschi. Dal giugno 1940 la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania. Churchill, chiamato nel maggio del ’40, dopo le dimissioni di Chamberlain, a guidare un nuovo governo enunciò subito il suo programma: la guerra per mare, per terra e per l’aria, con tutte le nostre energie. Hitler dava via all’operazione Leone marino per l’invasione della Gran Bretagna. Premessa essenziale per la riuscita del piano era il dominio dell’aria. Londra fu rapidamente bombardata. Gli attacchi furono però efficacemente contrastati; la Gran Bretagna non si era piegata. La battaglia d’Inghilterra aveva dato una tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del mezzo aereo. L’Italia e la guerra parallela L’inadempienza agli impegni del patto d’acciaio era giustificata con l’impreparazione. Ma nel maggio 1940, di fronte al crollo della Francia, Mussolini pensò che l’esito del conflitto fosse deciso. Così cambiò orientamento ed entrò in guerra contro Francia e Gran Bretagna. L’offensiva sulle Alpi contro la Francia si risolse in una disastrosa prova di inefficienza. Non diversamente andarono le cose in Africa settentrionale. Mussolini convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra parallela, rifiutò l’offerta d’aiuto da parte della Germania. Nell’ottobre 1940 l’esercito italiano, muovendo dall’Albania, attaccava improvvisamente la Grecia. Alla fine di novembre i greci passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare. Nel dicembre ’40 i britannici passarono al contrattacco sul fronte libico e conquistarono l’intera Cirenaica, infliggendo agli italiani la perdita di 140 mila uomini tra morti, feriti e prigionieri. Mussolini fu costretto ad accettare l’aiuto della Germania. Equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega, il generale Rommel, le truppe dell’Asse cominciarono una lunga controffensiva che portò alla riconquista della Cirenaica. Ma intanto l’Africa orientale italiana stava cadendo nelle mani della Gran Bretagna. Fu un altro durissimo colpo. Anche nei Balcani il fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la strada all’intervento in forze della Germania. L’Italia si trovò a svolgere assieme alla Germania il ruolo di potenza occupante nei Balcani, vedendosi assegnare una parte della Slovenia, ampie zone della Croazia, della Dalmazia e del Montenegro e gran parte del territorio greco. Hitler non aveva più rivali in Europa. E poteva concentrare il grosso delle sue forze verso l’obiettivo più ambito: la conquista dello spazio vitale a Est ai danni dell’Urss. 1941: l’entrata in guerra di Urss e Stati Uniti Stalin si illuse che Hitler non avrebbe scatenato l’attacco a est prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941 l’offensiva tedesca scattò su un fronte lungo 1600 km , i sovietici furono colti impreparati. Le armate del Reich penetrarono e l’offensiva continuò travolgendo ogni resistenza. Ma l’attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi e fu bloccato. In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, Hitler aveva mancato l’obiettivo di mettere fuori causa l’Urss. Guidata personalmente da Stalin, la guerra difensiva risultò efficace. La guerra meccanizzata si trasformava in una guerra di usura, la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale. Tanto più nel momento in cui gli Stati Uniti si schieravano a fianco di Gran Bretagna e Urss. Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania. Gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e Italia. In giugno la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all’Islanda i convogli che trasportavano aiuti a nazioni alleate e autorizzata a rispondere a eventuali attacchi. Questa politica ebbe il suo suggello ufficiale nell’incontro fra Roosevelt e Churchill. Frutto dell’incontro fu la Carta Atlantica. A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu però l’aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell’emisfero orientale e il principale alleato asiatico di Germania e Italia. Il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche. Quando i giapponesi invasero l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. Il governo giapponese scelse la strada della guerra. L’aviazione giapponese attaccò la flotta statunitense ancorata a Pearl Harbor. I giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si erano prefissati ed erano in grado di minacciare l’Australia e l’India. Anche Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti. Il conflitto diventava mondiale. Gli anglo-americani e i sovietici si posero subito il problema di elaborare una strategia comune. Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a Washington, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone sottoscrissero il patto nelle Nazioni Unite. Resistenza e collaborazionismo nei paesi occupati Nella primavera/estate del 1942 le potenze dell’Asse Roma Berlino Tokyo raggiunsero la loro massima espansione territoriale. All’interno di questo blocco l’Italia aveva un ruolo marginale. Il cuore pulsante era la Germania. Mentre il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti dei paesi soggetti al dominio coloniale, la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei popoli. I progetti hitleriani prevedevano solo la totale subordinazione, se non addirittura lo sterminio. Un trattamento particolarmente duro fu riservato ai popoli slavi, considerati razza inferiore e destinati, nei piani di Hitler, a una condizione di semischiavitù. Questo sistema di dominio costrinse i tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe; suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione e sollevò contro la Germania nazista un’ondata di odio. Episodi di resistenza all’occupazione nazista si manifestarono già nella prima fase della guerra. Le file della Resistenza si ingrossarono dopo l’attacco tedesco all’Urss. In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fu una parte più o meno consistente della popolazione che accettò di collaborare con i dominatori. In alcuni paesi i tedeschi si servirono di esponenti dei fascismi locali. La Shoah Ancor prima che il conflitto mondiale avesse inizio, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare definitivamente la Germania dalla presenza degli ebrei. Prima i massacri indiscriminati, poi la deportazione degli ebrei, dopo cominciò a essere praticata in modo sistematico l’eliminazione fisica dei deportati. Cominciava così quell’operazione di sterminio, di genocidio pianificato definita Shoah. Inizialmente furono reparti speciali delle SS a eseguire fucilazioni di massa, ma questa procedura richiedeva tempi troppo lunghi e in più poteva provocare qualche resistenza. Dall’inizio del dicembre 1941 erano state impiegate camere a gas mobili su autocarri diesel in cui gli ebrei venivano uccisi dall’ossido di carbonio dei motori. Era iniziata la costruzione del primo campo di sterminio, cui seguirono quelli di Treblinka, Majdanek e Auschwitz-Birkenau. I più deboli sarebbero stati vittime della selezione naturale durante i lavori forzati, mentre gli elementi più validi sarebbero stati opportunamente trattati, ossia eliminati quando non fossero stati più in grado di lavorare. I corpi venivano poi bruciati nei forni crematori o seppelliti in grandi fosse comuni. Alle vittime ebree si dovevano aggiungere anche gli zingari, sinti e rom. Nei campi affluivano anche molti prigionieri sovietici. Questa gigantesca operazione di sterminio sottrasse truppe e risorse all’impegno bellico tedesco. L’ossessione ideologica antiebraica non si spense nemmeno negli ultimi mesi di guerra. I superstiti delle eliminazioni furono costretti a lunghe marce nel gelo dell’inverno 1945 per abbandonare i Lager minacciati dall’avanzata sovietica e anche per occultare l’infamia che vi era stata perpetrata. Le battaglie decisive Fra il 1942 e 1943 l’avanzata delle potenze dell’Asse si arrestò e la guerra subì una svolta. I primi segni di un’inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico. Dopo che nel febbraio ’43 le truppe da sbarco americane ebbero conquistato l’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni offensive, limitandosi a difendere le posizioni raggiunte. Gli Stati Uniti iniziarono una lente riconquista. I rapporti di forza cambiarono anche nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fino ad allora un’efficace guerra sottomarina. Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite. A segnare la svolta furono due grandi battaglie di terra in Egitto e in Russia. Nell’estate del 1943, in Nord Africa, le truppe italo-tedesche comandate da Rommel erano arrivate a circa 100 km da Alessandria. Britannici e italo-tedeschi si affrontarono in una serie di sanguinosi scontri. Il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva. Gli italo-tedeschi cominciavano una lunga ritirata. Ancora più decisivo fu lo scontro tra tedeschi e sovietici, sul Volga, dove le armate tedesche misero sotto assedio la città. I sovietici contrattaccarono efficacemente e chiusero i tedeschi in una morsa. Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando così un’intera armata che fu costretta ad arrendersi. La controffensiva Mosca nell’ottobre ’44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza dei paesi balcanici. Un progetto che non teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati. I tre grandi si incontrarono ancora in Urss e fu stabilito che la Germania sarebbe stata divisa provvisoriamente in quattro zone: francese, britannica, statunitense e sovietica. Inoltre i popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni. L’Urss si impegnò a entrare in guerra contro il Giappone. Mentre i grandi discutevano era già scattata l’offensiva finale. Gli anglo-americani riprendevano l’iniziativa sul fronte occidentale. I sovietici erano già a poche decine di km da Berlino. Gli anglo-americani penetravano in profondità in territorio tedesco. Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l’isola d’Elba e si congiungevano con i sovietici che stavano accerchiando Berlino. In questi stessi giorni crollava anche il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre gli alleati sfondavano la linea gotica, il Cln lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il nemico in ritirata, e i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini fu catturato e fucilato dai partigiani. Il suo cadavere fu appeso per i piedi ed esposto a Milano. Hitler si suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata spostata la sede del governo, lasciando la presidenza all’ammiraglio Doniz, che offrì subito la resa. Restava aperto solo il fronte del Pacifico. Gli americani attaccarono in forze il Giappone. Il nuovo presidente americano Truman decise di impiegare contro il Giappone la nuova arma totale, la bomba nucleare. La decisione di Truman serviva ad abbreviare la guerra, ma aveva anche lo scopo di offrire al mondo la dimostrazione della potenza militare americana. Il 6 agosto 1945, un bombardiere sganciava la prima bomba atomica su Hiroshima. Tre gironi dopo l’operazione fu ripetuta a Nagasaki. Le conseguenze furono spaventose per gli effetti di lungo periodo. L’imperatore Hirohito offrì agli alleati la resa. Il 2 settembre 1945 si concludeva così il secondo conflitto mondiale. 9. L’età della guerra fredda La nascita dell’Onu La seconda guerra mondiale si concludeva con un bilancio di perdite umane che non aveva precedenti. A ciò contribuì un duplice trauma morale: da un lato quello derivante dalle agghiaccianti rivelazioni sui crimini nazisti e sul genocidio degli ebrei; dall’altro quello provocato dall’apparizione della bomba atomica. Questa terribile lezione produsse un generale desiderio di fondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali. Il risultato più importante fu la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Fondata nel 1945 si presentava all’inizio come un prolungamento di quel patto delle Nazioni Unite. L’obiettivo era però quello di dar vita a una organizzazione permanente. Lo statuto dell’Onu porta l’impronta di due diverse concezioni: l’utopia democratica di Wilson e l’approccio realistico di Roosevelt. I principi dell’universalità e dell’uguaglianza fra le nazioni si realizzarono nell’Assemblea generale degli Stati membri. Il meccanismo del direttorio è alla base del Consiglio di sicurezza, organo permanente che ha il potere di prendere decisioni vincolanti fino all’intervento armato. Il Consiglio si compone di 15 membri: le 5 maggiori potenze vincitrici (Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina) sono membri permanenti, gli altri 10 sono elette a turno. Ciascuno dei membri permanenti gode di un diritto di veto. Al fianco di questi organi, operano altri enti: l’Unesco, l’Unicef, la Corte internazionale di giustizia con sede all’Aja per risolvere le controversie fra gli Stati. Parallelo al progetto fu il tentativo di aggiornare e codificare il diritto internazionale, includendovi un settore penale. Gli alleati costruirono a guerra conclusa tribunali militari. I processi che ne seguirono, Norimberga e Tokyo, si conclusero con numerose condanne a morte. Sotto l’impulso degli Stati Uniti, la rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche al campo economico. L’opera di riforma fu improntata agli interessi del capitalismo americano, che tendeva a creare un mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Con gli accordi di Woods fu creato il Fondo monetario internazionale, cui gli stati membri potessero attingere in caso di necessità. Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta internazionale. Al Fondo monetario fu affiancata la Banca Mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati. Questi organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività dalla mancata adesione dell’Urss. D’altra parte gli Stati Uniti rafforzarono il loro controllo sulle economie occidentali. I nuovi equilibri mondiali La guerra segnò un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali. La Gran Bretagna avviò un graduale ritiro dalle responsabilità mondiali. L’Europa perse definitivamente la sua centralità. A un ruolo egemonico potevano aspirare solo 2 stati: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Usa e Urss avevano combattuto assieme contro le potenze fasciste, avevano provato insieme a gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione dell’Onu. Ma erano emerse divergenze profonde. Gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell’economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali. L’Unione Sovietica pretendeva la punizione degli Stati aggressori. Questa esigenza di sicurezza si traduceva per l’Urss nella richiesta di spingere le proprie frontiere il più possibile a Ovest e di non avere regimi ostili negli Stati confinanti. Roosevelt morì e con lui tramontò il grande disegno di cooperazione fra Occidente e Urss. Truman meno aperto alle istanze di Stalin. Nei paesi occupati dall’Armata rossa le possibilità che l’influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano praticamente nulle. Per imporsi l’Urss punta sui partiti comunisti locali. Churchill pronunciò un discorso in cui denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale. Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler. La grande alleanza era in frantumi. I lavori della conferenza di pace si interruppero. Furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche, parte della Polonia dell’est e della Prussia; la Polonia si rifaceva a ovest a spese della Germania. Fra il 1946-47 i contrasti si approfondirono. Gli Stati Uniti si dichiararono pronti a intervenire militarmente in sostegno di questi paesi, minacciati da nuove mire espansionistiche dell’Urss. Si parlò di teoria del contenimento. L’equilibrio Usa-Urss si trasformava in un rapporto conflittuale tra le sue superpotenze, che avrebbe dato origine a un nuovo sistema: un blocco occidentale, che riconosceva l’egemonia politica e culturale degli Usa e un blocco orientale, guidato dall’Urss e organizzato secondo i principi del comunismo e dell’economia pianificata. Cominciava la guerra fredda, combattuta con le armi dell’ideologia e della propaganda. Nella guerra fredda, le due superpotenze non si combatterono mai direttamente, soprattutto perché anche l’Urss si dotò dell’arma nucleare. La contrapposizione globale fra Usa e Urss ebbe infatti di lungo periodo sulla vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa. Ricostruzione e riforme Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi, l’influenza degli Stati Uniti assumeva anche le forme di una egemonia culturale. L’imitazione dei modelli di vita d’oltreoceano diede corpo a un rapporto intenso. Gli Stati Uniti si impegnarono per rilanciare le economie dei paesi europei. Fu lanciato l’European Recovery Program, il Piano Marshall. Esso riversò 13 miliardi di dollari tra prestiti e aiuti materiali. In Francia politiche sociali furono varate dal governo presieduto da De Gaulle e dai successivi governi di coalizione. In Italia gli strumenti di intervento sull’economia introdotti durante il fascismo furono mantenuti a vita. In Gran Bretagna nelle elezioni del luglio 1945, Churchill fu battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò le industrie, introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale. Furono gettate le basi di uno Stato sociale o Welfare State che aveva l’ambizione di assistere il cittadino. Queste riforme erano state già proposte in un celebre rapporto del 1942 dall’economista di Beveridge. Il piano Beveridge avrebbe costituito un modello per molti paesi industrializzati dall’Occidente. L’Urss e le democrazie popolari Il piano Marshall aveva come destinatari tutti i paesi europei, compresi quelli dell’est. Ma i sovietici respinsero il progetto e imposero di fare altrettanto ai paesi dell’Europa orientale. I comunisti dell’Occidente si mobilitarono contro il piano. Le elezioni furono condizionate e manipolate. L’iniziativa privata fu cancellata o fortemente limitata e tutte le attività economiche furono portate sotto il controllo pubblico. Il meccanismo, sperimentato dapprima in Polonia e in Germania orientale, fu successivamente applicato a Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania. La Cecoslovacchia in politica estera seguiva una linea non ostile all’Urss. Il governo guidato dal leader comunista Gottwald si fondava sull’alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe quando si trattò di decidere circa l’accettazione del piano Marshall. I comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, costringendo il Presidente della Repubblica ad affidare il potere a un nuovo governo. Nel caso della Jugoslavia i comunisti, sotto la guida di Tito, si imposero al potere. Nel giugno 1948 si manifestarono le ambizioni jugoslave si svolgere un ruolo guida tra i Balcani. Accusati da Stalin di deviazionismo, i comunisti jugoslavi furono espulsi dal Cominform. Completamente isolata la dirigenza jugoslava cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi. Sul piano dell’organizzazione politica, il modello jugoslavo non si differenziava da altre democrazie popolari, basato sulla ferrea dittatura del Partito comunista. La Germania era divisa in 4 zone di occupazione. La capitale Berlino era a sua volta divisa in 4 zone. Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono l’integrazione dello loro zone, liberalizzando l’economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall. Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. I sovietici chiusero gli accessi alla città. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città finchè i sovietici si risolsero a togliere il blocco. Furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca. La risposta sovietica fu la formazione, nella parte orientale, di una Repubblica democratica tedesca. Nell’aprile del 1949 fu firmato a Washington il Patto atlantico, un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada. Il patto Gli anni ’60 vedono due leader che si trovano alla testa di due superpotenze: Kruscev e Kennedy. Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi col riferimento a una nuova frontiera spirituale, culturale e scientifica. In politica interna lo slancio riformatore si ridusse in un forte incremento della spesa pubblica, ma anche nel sostegno al movimento guidato dal pastore Martin Luther King. Il primo incontro tra Kennedy e Kruscev, dedicato al problema di Berlino ovest, si risolse in un fallimento. I sovietici risposero con la costruzione di un muro, chiudendo l’unico varco praticabile e rendendo impossibili le fughe, fino ad allora molto frequenti. Il confronto più drammatico ebbe per oggetto l’isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro. La presenza di uno Stato ostile a meno di 200 km fu sentita negli Stati Uniti come una minaccia. Kennedy tentò di soffocare il regime cubano. Nella tensione creatasi si inserì l’Unione Sovietica, che offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l’installazione nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba. Alla fine Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi. In cambio gli Stati Uniti si impegnavano ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Nel 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera. Nel 1964 Kruscev fu estromesso da tutte le sue cariche e sostituito da una nuova direzione collegiale. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas, Texas, in un attentato. A Kennedy subentrò Johnson. Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca Fra il 1964 e il 1975 gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra nel Vietnam. Gli accordi di Ginevra del ’54 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: a nord comunisti, a sud un regime semidittatoriale appoggiato dagli Stati Uniti. Contro il governo del Sud si sviluppò un movimento di guerriglia, i Vietcong. Gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del sud un contingente di consiglieri militari che si ingrossò. Sotto la presidenza Johnson la presenza Usa in Vietnam compì un salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. La continua dilatazione dell’impegno militare americano non fu sufficiente a domare la lotta dei Vietcong. L’esercito statunitense entrò in una profonda crisi. Negli Stati Uniti, infatti, il conflitto vietnamita apparve come una guerra fondamentalmente ingiusta. Vi furono manifestazioni di protesta. Nel ’68 i Vietcong lanciarono una grande offensiva. Johnson decise di sospendere i bombardamenti. Il suo successore Nixon avviò negoziati ufficiali e ridusse progressivamente l’impegno militare americano. Ma allargò le operazioni belliche agli stati confinanti, nel tentativo di tagliare ai Vietcong le vie di rifornimento. Solo nel gennaio 1973 americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio. Tutta l’Indocina era così diventata comunista. Gli Stati Uniti dovettero registrare la prima grave sconfitta di tutta la loro storia. Mentre la superpotenza americana si logorava nell’avventura vietnamita, l’Unione Sovietica doveva confrontarsi con le inquietudini dei paesi satelliti. Il gruppo dirigente guidato dal nuovo segretario Breznev, accentuò la repressione. La linea della coesistenza con l’Occidente non fu mai messa in discussione, ma si accompagnò a una politica di riarmo. Fu ribadito il vincolo di subordinazione che doveva legare allo Stato-guida i paesi satelliti dell’Europa orientale: solo la Romania, sotto la guida di Ceausescu, riuscì a conquistare una certa autonomia. Nel gennaio 1968 salì alla segretaria del partito comunista cecoslovacco Dubcek. Egli cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e politico. Fu sentita come una minaccia intollerabile dal gruppo dirigente dell’Urss. Il 21 agosto 1968, reparti corazzati dell’Urss occuparono Praga e il resto del paese. Gli uomini della primavera di Praga furono emarginati, costretti a emigrare o a cercarsi un lavoro manuale, e sostituiti con elementi fidati. La Cina di Mao Zedong La seconda potenza comunista, la Cina di Mao Zedong, accentuava i tratti radicali del suo regime. La Cina tendeva a contestare il suo statu quo internazionale, ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari, proporsi come guida. Nel corso degli anni ’50 il regime comunista aveva nazionalizzato i settori industriale e commerciale e aveva obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative. Per accelerare il rilancio della produzioni agricola, la dirigenza comunista varò la strategia del grande balzo in avanti. Le cooperative furono riunite in comuni popolari. L’intera popolazione fu sottoposta a un controllo. I risultati furono fallimentari. I sovietici criticarono la strategia del grande balzo in avanti. L’Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza nel campo nucleare, motivando il rifiuto con l’avventurismo dei dirigenti cinesi. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati lungo il fiume Ussuri. Il fallimento del grande balzo in vanti diede spazio alle componenti meno ostili dell’Urss, rappresentate da Liu Shao-chi. Mao ricorse a una forma di lotta inedita, si appellò ai giovani esortandoli a ribellarsi. Si scatenò così una rivolta generazionale orchestrata dall’alto. Gruppi di giovani guardie rosse mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e funzionari: molti di questi furono internati in campi di rieducazione e sottoposti a torture fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvissero. Lo stesso Mao Zedong cominciò a porre un freno al movimento da lui scatenato. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fra i capi comunisti cinesi, fu proprio lui ad avviare una linea di normalizzazione. Dal momento che i rapporti con l’Urss restavano pessimi, la nuova linea si tradusse in un’apertura agli Stati Uniti. Nel 1971 il maresciallo Lin Piao scomparve in un incidente. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva. 10.La decolonizzazione e il Terzo Mondo La crisi degli imperi coloniali Il processo di decolonizzazione ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale: nei fronti extraeuropei i gruppi nazionalisti si impegnarono a fianco dell’uno o dell’altro schieramento e rimasero mobilitati politicamente e militarmente per battersi contro il dominio coloniale. Con la Carta Atlantica del 1941, gli alleati avevano proclamato il diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo da cui intendono essere retti. Il principio di autodeterminazione dei popoli si impose come base internazionale. La Gran Bretagna, che aveva sempre praticato forme di dominio indiretto, avviò un ritiro graduale dalle colonie: i popoli soggetti furono preparati all’indipendenza mediante la concessione di Costituzioni e di organismi rappresentativi. In questo modo cercava di trasformare l’impero in una comunità di nazioni sovrane, liberamente associate nel Commonwealth. La Francia invece oppose resistenza ai movimenti indipendentisti e pretendeva di riunire la madrepatria e le colonie in un’unica compagine politica. Il rapporto dell’Europa per i popoli afroasiatici rimase comunque importante; l’eredità coloniale lasciò tracce durevoli. Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi. Il risultato fu quasi ovunque la prevalenza dei regimi autoritari. L’indipendenza dell’India Il processo di emancipazione ebbe la sua prima e fondamentale tappa nel 1947, quando la Gran Bretagna accettò di privarsi del pezzo più importante del suo impero: il subcontinente indiano. Negli anni fra le 2 guerre era cresciuto in India un forte movimento indipendentista, sotto la guida di Gandhi. Durante il secondo conflitto mondiale, la maggioranza degli indiani aveva contribuito allo sforzo bellico britannico. Nel contempo il Partito del congresso aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica, strappando la promessa di concedere all’India la condizione di dominion, cioè un’indipendenza di fatto. A guerra finita si aprirono i negoziati. L’esito fu diverso da quello auspicato fa Gandhi, che si era battuto per uno stato unitario laico dove potessero convivere i diversi gruppi religiosi. La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio stato, che fu accordata dai britannici. Nacquero così 2 stati: l’Unione indiana, a maggioranza indù e il Pakistan musulmano. La creazione di due stati non impedì il moltiplicarsi degli scontri fra le due comunità. Primo capo del governo dell’India indipendente, Nehru rimase fino alla sua morte alla guida di un paese sempre gravato da immensi problemi interni. Tuttavia le istituzioni democratico-parlamentari riuscirono a consolidarsi. Più travagliata fu la vicenda politica del Pakistan, dove la vita democratica fu interrotta da dittature militari e correnti islamiche integraliste. Nel 1971 lo Stato dovette subire la secessione della sua parte orientale che diede vita alla Repubblica del Bangladesh. Le guerre d’Indocina In tutto il sud-est asiatico il processo di emancipazione si intrecciò con lo scontro fra le forze nazionalista, alleate con l’Occidente e i movimenti comunisti. In Birmania e in Malesia, entrambe colonie britanniche, indipendenti del 1948 e 1957, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta. In Indonesia il movimento nazionalista guidato da Sukarno ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1949 e cercò di seguire una politica autonoma. Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto. Nel regno di Thailandia le forze moderate mantennero il potere in un alternarsi di regimi militari e governi civili. Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l’indipendenza nel 1946, governi di carattere spesso autoritario dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dai gruppi separatisti musulmani. Una prevalenza dei comunisti si ebbe negli stati sorti dalla dissoluzione dell’impero francese in Indocina. Nel Vietnam i comunisti, sotto la guida di Ho Chi-minh, avevano assunto un ruolo preminente nella Lega per l’indipendenza. Nel 1945, Ho Chi-minh proclamò l’indipendenza dalla Francia e la nascita della Repubblica democratica del Vietnam. I francesi non riconobbero il nuovo Stato e cominciò un lungo scontro. Gli accordi di Ginevra sancirono il ritiro dei francesi e la divisione del Vietnam in due Stati: uno comunista al Nord, l’altro filo-occidentale a Sud. A questo punto la crisi indocinese veniva a inserirsi nel contrasto est-ovest, che si sarebbe concluso con la storica sconfitta degli americani. Il mondo arabo e la nascita di Israele con i militari palestinesi che furono costretti a riparare nel Libano. Da allora l’Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale. Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore fu Sadat. Deciso a recuperare il Sinai, preparò il confronto con Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe egiziane investirono le linee israeliane. Ma Israele riuscì a respingere gli attaccanti. Con la mediazione degli Stati Uniti, giunse a un cessate il fuoco. Gravi furono le conseguenze a livello internazionale: la chiusura del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi contro i paesi occidentali amici di Israele diedero alla crisi una dimensione globale. Tradizionalismo e modernizzazione in Turchia e Iran Rimasta neutrale per quasi tutta la durata del secondo conflitto mondiale, la Repubblica turca aderì al sistema di alleanze occidentale e divenne membro della Nato per sottrarsi all’influenza della vicina Unione Sovietica. Sul piano interno, continuò a muoversi entro le linee tracciate da Ataturk. Nel secondo dopoguerra le maglie del controllo sui cittadini si allargarono e fu concessa tolleranza nei confronti delle tradizionali forme di culto. Protagonista di questa fase fu Menderes. Ma nel 1960 fu mandato a morte per un colpo di stato militare. Da allora la Turchia visse una vita agiata. Anche l’Iran aveva intrapreso un percorso di modernizzazione sotto la monarchia di Reza Pahlavi. Durante la seconda guerra mondiale il paese fu sottoposto alla duplice occupazione di britannici e sovietici, che nel 1941 imposero allo scià di abdicare in favore del figlio. Il giovane monarca continuò con metodi autoritari, ma si avvicinò alle potenze occidentali. Un tentativo di svolta si ebbe nel 1951, quando divenne primo ministro Mohammed Mossadeq, fautore di una democratizzazione. La decisione di nazionalizzare l’industria petrolifera provocò la reazione del governo britannico, che ottenne la collaborazione degli Stati Uniti. Un colpo di stato militare organizzato dai servizi segreti anglo-americani depose il primo ministro e restituì il potere assoluto allo scià. L’indipendenza dell’Africa nera Per i paesi dell’Africa a sud della fascia sahariana l’emancipazione fui più tardiva. La stagione dell’emancipazione africana si aprì nei territori britannici con l’indipendenza del Ghana nel 1957. Fra le colonie francesi la prima ad affrancarsi fu la Guinea nel ’58. Nel ’60, l’anno dell’Africa, ottennero lì indipendenza ben 17 nuovi stati. Il cammino verso l’indipendenza fu più travagliato dove erano in gioco più interessi o dove era più consistente la presenza dei coloni bianchi. Il Kenya fu insanguinato dalla violenta campagna terroristica condotta da Mau-Mau, cui rispose un’altrettanto spietata repressione da parte dei britannici. La minoranza bianca, il 7%, non esitò a rompere con la Gran Bretagna: il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l’indipendenza e l’uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980 il paese fu restituito alla maggioranza nera e prese il nome di Zimbabwe. Ultima roccaforte del potere bianco nel continente rimaneva l’Unione Sudafricana, dominio britannico. Qui il dominio della forte minoranza bianca si reggeva su un regime di segregazione razziale, l’apartheid, che portò all’uscita del Sudafrica dal Commonwealth e a numerose condanne da parte dell’Onu. Solo nell’ultimo decennio del secolo si sarebbe giunti a una soluzione pacifica. Un caso di decolonizzazione drammatica fu quella del Congo, lasciato dalla dominazione belga in condizioni di spaventosa arretratezza. L’indipendenza, concessa del 1960, si accompagnò a una sanguinosa guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga , appoggiata dalle compagnie minerarie belghe. L‘unità del paese fu faticosamente ristabilita solo con l’intervento di truppe delle Nazioni Unite. In Nigeria, il tentativo secessionista del Biafra, fu sanguinosamente represso. In Etiopia si inasprirono le lotte degli indipendentisti in Eritrea, inglobata dall’Etiopia nel 1947. Questi conflitti misero in drammatica evidenza l’intrinseca fragilità degli Stati africani e delle loro istituzioni. Il tentativo di imporre strutture da Stato-nazione a popolazioni eterogenee incontrò difficoltà. All’instabilità politica si aggiungeva una condizione di grave debolezza economica, che rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industrializzati. Contro queste forme di neocolonialismo si fecero più forti le spinte di una decolonizzazione radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall’Unione Europea. La scelta del modello socialista, tuttavia, non risparmiò gli stessi problemi: povertà cronica, carestie, disgregazione sociale, emarginazione dal mercato mondiale. Il Terzo mondo: non allineamento e sottosviluppo Nel 1955 si riunirono a Bandung i rappresentanti di 29 stati afroasiatici che avevano appena raggiunto l’indipendenza. La conferenza si concluse con l’approvazione di un documento che proclamava l’eguaglianza fra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze. Ciò che univa questi paesi era l’idea di condividere un’eredità e di essere portatori di comuni interessi e aspirazioni, di far parte di un Terzo Mondo. Si tennero periodicamente altre riunioni, in cui di cercò di rinsaldare il legame tra i paesi terzi. In una conferenza che si tenne a Belgrado i principali leader, Nehru, Nasser e Tito, lanciarono la formula del non allineamento: gli Stati del Terzo Mondo si proponevano come protagonisti di una politica di neutralismo attivo, destinato a erodere l’egemonia delle superpotenze. Man mano che il movimento si allargava, si accentuava la sua eterogeneità. I paesi di nuova indipendenza presentavano alcune caratteristiche comuni: la carenza di strutture industriali, l’arretratezza dell’agricoltura, la crescente emarginazione delle grandi correnti degli scambi internazionali, la drammatica sproporzione fra le risorse disponibili e una popolazione in continuo aumento. Da tutto ciò emergeva un quadro di povertà. Masse di diseredati si riversavano nelle bidonvilles. L’agglomeramento dell’orizzonte mondiale provocato dalla decolonizzazione fece si che la povertà di massa che affliggeva i due terzi della popolazione del globo non potesse più essere considerata come una condizione naturale, ma diventasse una smentita a quel principio di uguaglianza. Questa problematica fu amplificata dall’atteggiamento rivendicazionista assunto dalla maggior parte dei paesi del Terzo Mondo nei confronti dell’occidente, accusato di aver costruito il suo benessere sullo sfruttamento, e dunque chiamato a condividere questo benessere con i paesi più poveri. Dittature e populismi in America Latina Al movimento dei non allineati parteciparono quasi tutti i paesi dell’America Latina. Alcuni di quei paesi avevano già avviato un processo di crescita economica, favorito dal calo delle esportazioni degli Usa e degli stati europei. Quando però questa congiuntura favorevole cessò, riemersero i problemi di un’antica arretratezza, accentuati dalla crescente indipendenza degli Stati Uniti.. essi assunsero una funzione di tutela sull’intero continente. Sotto il loro impulso fu creata nel 1948 l’Organizzazione degli Stati americani, che doveva realizzare una cooperazione economica, ma aveva anche un preciso scopo politico: impedire la penetrazione comunista. A farsi interpreti delle spinte al cambiamento furono i ceti medi urbani. Di stampo populista fu il regime instaurato in Argentina da Juan Domingo Peron. Egli avviò una politica di incentivi all’industria e di aumenti salariali. La politica peronista ebbe successo finchè durò la congiuntura favorevole del periodo postbellico. Osteggiato dai conservatori, dai vertici delle forze armate e dalle gerarchie ecclesiastiche, Peron fu rovesciato nel 1955 da un colpo di stato militare. Da allora il paese visse anni agiati. Nel 1972 furono gli stessi militari a sollecitare il ritorno in patria dell’esule Peron. Rieletto fallì completamente nel compito di riportare l’ordine del paese. Né meglio di lui seppe fare la sua seconda moglie, Isabelita. Nel 1976 i militari decisero di riprendere in mano il potere. La dittatura militare usò metodi estremamente brutali, ma nemmeno il pugno di ferro dei militari servì a rimettere in sesto l’economia. Simili furono le vicende in Brasile, dove si era sviluppato il primo esperimento di governo populista. Vargas rovesciato nel 1945, tornò al potere nel ’50. Ma nel 1954 si suicidò. I suoi successori seguirono una politica di non allineamento, ma non riuscirono a cancellare i gravissimi squilibri di un paese caratterizzato dalla presenza di vaste zone di arretratezza. Nel 1964 un nuovo colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti riportò al potere i militari. Assunse enorme rilievo la vicenda di Cuba, dove il regime corrotto e dittatoriale di Fulgencio Batista fu rovesciato nel 1959 da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Castro avviò subito una riforma agraria che colpiva il monopolio esercitato dalla United Fruit Company sulla coltivazione della canna da zucchero. Gli Stati Uniti assunsero un atteggiamento ostile e iniziarono un boicottaggio economico verso l’isola, imponendo l’embargo. Castro si rivolse all’Urss, che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano. Il regime cubano si orientò sempre più decisamente in senso comunista e venne istituito un partito unico. Per la prima volta il un paese vicinissimo agli Stati Uniti, si affermava un regime marxista e filosovietico. Divenne celebre lo slogan “creare due, tre, cento Vietnam” coniato da Ernesto Che Guevara. Egli fu catturato e ucciso in Bolivia. La sfida rivoluzionaria ebbe l’effetto di inasprire le tensioni interne nei paesi latino- americani. Nella prima metà degli anni ’70, i militari assunsero il potere anche in paesi di tradizione democratica. Fu il caso dell’Uruguay. Ma la vicenda più emblematica fu quella del Cile, dove il socialista Allende aveva assunto la presidenza. Egli tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e riforme sociali, ma dovette scontrarsi con una situazione economica ai limiti del dissesto e con l’aperta ostilità degli Stati Uniti. Nel 1973 fu rovesciato da un colpo di stato militare e ucciso. Il potere fu assunto da Pinochet, che diede vita a un regime dai tratti duramente autoritari. 11.L’Italia repubblicana L’Italia nel 1945 Fra il 1945 e il 1949 l’Italia, guidata dai partiti che si erano opposti al regime mussoliniano, si diede un nuovo ordinamento repubblicano, una nuova Costituzione e un nuovo sistema politico. È stata definita Prima Repubblica. Con la fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale, ma la sua situazione era quella di un paese materialmente devastato. La fame, la mancanza di alloggi e l’elevata disoccupazione contribuirono a rendere precaria la situazione dell’ordine pubblico. Un serio problema era costituito da quegli ex partigiani che Dall’inizio del ’48, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita in vista delle elezioni. Caratteristica fu la polarizzazione fra due schieramenti: quello governativo, guidato dalla Dc e quello dell’opposizione, in cui Psi e Pci si presentavano con liste comuni. Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi potè giovarsi dell’aiuto della Chiesa e degli Stati Uniti. Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori, ma la loro propaganda fu danneggiata da una stretta adesione alla causa dell’Urss. Le elezioni si risolsero in un travolgente successo del partito cattolico. L’insofferenza dei militanti di sinistra per questo risultato esplose tre mesi dopo le elezioni, quando il segretario comunista Togliatti fu ferito da un giovane di destra che gli sparò. I militanti dei partiti di sinistra scesero in piazza. Un’altra conseguenza fu la rottura all’interno della Cgil. La decisone della maggioranza social comunista di proclamare uno sciopero in segno di protesta contro l’attentato a Togliatti, fornì alla componente cattolica l’occasione per dar vita a una nuova confederazione, la Cisl (Confederazione italiana sindacati lavoratori). I sindacalisti repubblicani e socialdemocratici fondarono la Uil (Unione italiana del lavoro). Mentre le sinistre si impegnavano in un’impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuò una manovra economica che aveva come scopi la fine dell’inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La linea Einaudi ottenne i risultati che si era prefissata. L’operazione ebbe però forti costi sociali. L’adozione di un modello di sviluppo fondato sull’iniziativa privata era anche il risultato di una crescente integrazione con le economie dell’Occidente capitalistico. L’adesione al Patto atlantico (Nato) fu approvata dal Parlamento nel marzo del 1949. De Gasperi e il centrismo La Dc mantenne l’alleanza con i partiti laici minori; appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica di Einaudi; associò i suoi governi presieduti da De Gasperi, rappresentanti del Pil, del Pri e del Psdi. Fu questa la formula del centrismo. Componente essenziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che rafforzasse la base di consenso popolare. L’iniziativa più importante fu la riforma agraria. Essa costituiva il primo tentativo di modifica dell’assetto fondiario. La riforma non servì a contenere quel fenomeno di migrazione delle campagne. Nell’agosto 1950 fu varata un’altra legge importante: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale. La disoccupazione si mantenne su livelli elevati. La politica economica del governo continuava a basarsi sull’austerità finanziaria e sul contenimento dei consumi privati. I partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le classi operaie e il governo intensificò l’uso dei mezzi repressivi. Comunisti e socialisti furono schedati e a volte discriminati negli impieghi pubblici. De Gasperi e i suoi alleati tentarono di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali. Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel gruppo di partiti apparentati che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Fu ribattezzata dalle sinistre legge truffa. Nelle elezioni che si tennero, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta. Il premio di maggioranza non scattò, e dopo le elezioni la legge fu abrogata. Uscito di scena De Gasperi, i successivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla maggioranza centrista. La crescita economica si consolidava. E si rafforzavano di pari passo i legami con l’Europa più avanzata, poi ribaditi dall’adesione italiana alla Comunità europea. Nel 1955 fu presentato in Parlamento il piano Vanoni, che indicava tra gli obiettivi l’assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario tra Nord e Sud. Una novità importante fu l’insediamento della Corte Costituzionale. Essa avrebbe svolto una funzione importante nell’adeguare la vecchia legislazione ai principi costituzionali. Nella Democrazia Cristiana emergeva la nuova generazione cresciuta nell’Azione cattolica. Il principale esponente, Fanfani,cerò di rafforzare la struttura organizzativa del partito, collegandolo alle imprese di stato, in particolare all’Eni di Enrico Mattei. Nel ’56 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l’attività delle aziende di stato. Il miracolo economico Già dall’inizio degli anni ’50, l’economia italiana aveva iniziato a crescere. Questo processo giunse al culmine fra il 1958 e il 1963: gli anni del miracolo economico. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera. Nei settori siderurgico, meccanico e chimico la crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni degli elettrodomestici e dell’abbigliamento. La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei prezzi contribuirono a rafforzare l’immagine di un’Italia ormai avviata verso le nuove prospettive di benessere. Limitata, invece, fu la modernizzazione delle attività agricole. La crescita economica si accompagnò a un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Negli anni del boom, la società italiana subì una serie di trasformazioni. Si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Il fenomeno più importante fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne alle città. Il ceto dei coltivatori diretti subì una drastica riduzione, mentre aumentavano la piccola borghesia urbana e la classe operaia. Le grandi migrazioni interne e la rapida urbanizzazione erano il segno di un progresso economico del paese: l’emigrazione verso l’estero si ridusse fino a scomparire. Ma i costi umani e sociali furono pesanti. Tuttavia le differenze nei comportamenti sociali cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio la diffusione di alcuni costumi di massa. La televisione e l’automobile furono gli strumenti e i simboli di questo cambiamento. La televisione era anche un veicolo attraverso cui passavano una lingua comune e nuovi modelli culturali di massa. Il boom della motorizzazione coincise con il grande successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat: la Seicento e la Cinquecento. Il centro-sinistra e le riforme I mutamenti economici e sociali si accompagnarono all’allargamento delle basi del sistema politico, con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. L’apertura a sinistra fu a lungo osteggiata dalla destra economica e da una larga parte della Democrazia cristiana. Perplessità si manifestarono anche in Vaticano e negli ambienti diplomatici statunitensi, prima dell’avvento di Kennedy. Nel 1960 il presidente del Consiglio Tambroni, non riuscendo a trovare l’accordo con socialdemocratici e repubblicani, formò ugualmente un governo composto da soli democristiani con l’appoggio determinante del Movimento sociale italiano. La decisione suscitò un’autentica rivolta popolare. Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Fu formato un nuovo governo presieduto da Fanfani, che ottenne l’astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento. La nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc, grazie alla sapiente regia del segretario Aldo Moro. Un nuovo governo Fanfani si presentò con un programma concordato con il Psi. Esso prevedeva la realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ordinamento regionale, la tassazione dei titoli azionari e la nazionalizzazione dell’industria elettrica. La nazionalizzazione dell’industria elettrica fu portata a compimento con la creazione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). L’attuazione delle regioni, temuta dalla Dc, fu rinviata. Alle elezioni del ’63, la perdita di voti di democristiani e socialisti, vide il rafforzamento dei comunisti. Un governo di centro-sinistra organico si formò sotto la presidenza di Moro. Venne eletto Presidente della Repubblica Antonio Segni. Se la Dc riuscì a mantenere la sua unità, il Psi pagò la partecipazione al governo con una scissione: la minoranza di sinistra, che si opponeva alla scelta governativa, diede vita al Partito socialista di unità proletaria. All’indebolimento dei socialisti faceva riscontro la crescita del Pci. I funerali di Togliatti furono un esempio di larghissimo seguito. 12.La civiltà dei consumi La crescita demografica Il mondo in cui oggi viviamo è circa venti volte più popolato rispetto a quello di 3 secoli fa. In alcuni paesi la ripresa demografica si era avviata già nel ‘700. Questa tendenza si accentuò all’indomani della seconda guerra mondiale. In vent’anni gli abitanti della terra aumentarono del 50%. La crescita della popolazione non si distribuì in modo omogeneo. Negli Stati del Terzo Mondo il regime demografico tipico delle società arretrate, alti tassi di natalità e mortalità, fu modificato solo per quanto riguarda la mortalità, che cadde in seguito alla diffusione delle pratiche mediche e igieniche. Di conseguenza la popolazione crebbe. Nei paesi industrializzati, la fase di slancio demografico si protese per tutto il decennio successivo alla fine del conflitto mondiale: il baby boom. Dopo la metà degli anni ’50, riprese la tendenza al calo della natalità. Questo fenomeno si accompagnò a processi di modernizzazione, collegandosi alla mentalità: l’incremento del lavoro femminile, i costi crescenti per l’educazione, la ristrettezza degli spazi abitativi. La tendenza alla pianificazione familiare fu favorita dalla diffusione delle nuove pratiche anticoncezionali. La rapida liberalizzazione dei comportamenti sessuali si dovette alla drastica riduzione del rischio di gravidanze indesiderate. Il boom economico L’età dell’oro vide l’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone vivere tra il 1950 e il 1973 una crescita rapida e costante. Il boom cominciò negli Stati Uniti. La crescita americana trainò la ripresa dell’Europa e del Giappone. Gli equilibri tra i paesi a capitalismo avanzato mutarono e gli Stati Uniti, pur conservando il primato, videro ridursi le distanze dai propri alleati. L’espansione si basò principalmente sull’industria. L’agricoltura ebbe uno sviluppo più lento. Crebbe la quota degli addetti al settore terziario. Il tasso di disoccupazione scese sotto il 2 %. Lo sviluppo potè giovarsi di alcune condizioni favorevoli: la crescita della popolazione, l’allargamento della domanda di beni, di abitazioni, di strutture sociali, la disponibilità di scoperte scientifiche e di innovazioni, la concentrazione delle imprese, i notevoli risparmi accumulati dai cittadini. Importantissima risultò anche l’opera dei governi. Il volume degli scambi aumentò, grazie alla migliore efficienza dei mezzi e delle tecniche di trasporto, alla politica di liberalizzazione e all’opera di organismi internazionali o di accordi interstatali. Il boom non rimase circoscritto. Proprio questa dimensione globale l’occupazione dell’Università di Berkeley, si intrecciò con la protesta contro la guerra del Vietnam. Mentre la protesta studentesca ebbe un carattere pacifico, la mobilitazione dei neri, egemonizzata da Martin Luther King, esplose fra il 1965 e il 1967 in una serie di rivolte dei ghetti neri. La rivolta giovanile si estese ai maggiori paesi europei e anche in Giappone. Per l’ampiezza e per la simultaneità delle proteste, il Sessantotto assunse un significato simbolico. Le lotte del ’68 lasciarono un segno profondo nella società occidentale. Il nuovo femminismo La grande ondata di contestazione si accompagnò a un rilancio della questione femminile. Il permeare di ostacoli al pieno conseguimento della parità dimostrava che il problema principale non stava nelle leggi, quanto negli equilibri e nei ruoli interni alla famiglia tradizionale e soprattutto in un’immagine convenzionale, ereditata dalla cultura tradizionale e riproposta dalla pubblicità e dai mass media, che confinava la donna a un ruolo subalterno. Questa problematica fu al centro della nuova corrente femminista che ebbe origine negli Stati Uniti alla metà degli anni ’60. Netto era il cambio di impostazione per la radicalità degli obiettivi e per la novità dei metodi di lotta. Nel corso degli anni ’70 il movimento allargò ovunque il suo seguito. Da una parte si insisteva sulla parità con l’uomo; dall’altra si tornava a rivendicare la specificità femminile. Chiesa e società: il Concilio Vaticano II La società consumista trovò un critico severo nella Chiesa di Roma. I cattolici costituivano la più numerosa tra le comunità di credenti. Ma non potevano non guardare con preoccupazione al progressivo declino delle pratiche religiose tradizionali, all’affermarsi di mentalità e valori tipicamente materialisti, al diffondersi di comportamenti e consumi contrari agli insegnamenti della Chiesa. Il mondo cattolico maturò un’accettazione, ma fece anche proprio il principio della libertà religiosa come diritto fondamentale. Il nuovo corso ebbe inizio con il pontificato di Giovanni XXIII. Il nuovo papa cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa. Fu favorito sia dalla sua grande popolarità, sia dalla congiuntura internazionale di quegli anni: gli anni di Kruscev e Kennedy e della distensione fra le due superpotenze. La svolta fu sancita in due celebri encicliche. Nella prima, la Mater et Magistra, il papa condannava l’egoismo dei ceti privilegiati e dei paesi ricchi, per incoraggiare il riformismo. La seconda, Pacem in Terris, era dedicata ai rapporti internazionali e conteneva una proposta di dialogo con le religioni non cattoliche. L’atto più importante fu la convocazione del Concilio ecumenico Vaticano II, che si prolungò per oltre 3 anni sotto il pontificato di Paolo VI, che continuò e consolidò la svolta. La Chiesa uscì rinnovata sia nell’organizzazione interna, sia nella liturgia: l’innovazione più importante fu l’introduzione della messa nelle lingue nazionali anziché in latino. Nacquero in molti paesi nuove correnti e nuovi movimenti. Gruppi cattolici del dissenso si formarono in Italia e Francia. In America Latina la partecipazione dei sacerdoti e di gruppi cattolici alla lotta contro le dittature e le oligarchie fu all’origine di una nuova teologia, la teologia della liberazione. Questa fu ufficialmente condannata dalla Chiesa. Le novità introdotte dal Concilio suscitarono la reazione di Marcel Lefebvre: i seguaci contestavano non solo le innovazioni, ma lo spirito del Concilio. Il movimento tradizionalista diede vita a un vero e proprio scisma nel 1988. 13.Anni di cambiamento La fine dell’età dell’oro: la crisi petrolifera All’inizio degli anni ’70, si interruppe il ciclo espansivo dell’economia mondiale. La svolta fu segnata soprattutto da due eventi. Il primo, nel 1971, fu la scelta degli Stati Uniti di sospendere la convertibilità del dollaro in oro. Era il segno delle difficoltà dell’economia americana, ma era anche l’inizio di una lunga fase di instabilità internazionale. Ancora più gravida di conseguenze fu la decisione presa dai principali paesi produttori di petrolio nel 1973, in seguito alla guerra arabo- israeliana, di quadruplicarne il prezzo. Lo shock petrolifero colpì tutti i paesi industrializzati e fu il fattore scatenante di una crisi economica. Ovunque tra il ’74 e il ’75, la produzione industriale fece registrare un brusco calo. La recessione si accompagnò a una crescita dell’inflazione. Sul piano sociale la conseguenza più grave fu la crescita della disoccupazione, anche se in Europa occidentale, il problema era reso meno drammatico dalla presenza di numerosi ammortizzatori sociali. A subire gli effetti della crisi fu lo stesso modello di Welfare State, che cominciò a mostrare chiari segni di difficoltà. La crescita continua della spesa pubblica, costrinse i governi a portare a livelli sempre più alti la pressione fiscale, suscitando critiche. L’avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna con Margaret Thatcher e l’elezione in America del repubblicano Reagan, furono anche il prodotto di questo mutamento. La crisi petrolifera contribuì a rendere instabile lo stesso quadro politico mondiale. I problemi dell’ambiente Il primo problema che la crisi petrolifera rese evidente fu quello del carattere limitato delle risorse naturali. Alla protesta ideologica contro la civiltà dei consumi si sovrappose una critica animata dei movimento ambientalisti. Il degrado dell’ambiente aveva radici lontane, ma si era aggravato. L’eccezionale sviluppo economico comportò il consumo di una quantità straordinaria di energia. Se dunque si voleva continuare a sostenere la crescita economica, appariva necessario abbassare i consumi o utilizzare fonti di energia alternative. I governi da un lato adottarono politiche di risparmio energetico, dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia. Alcuni Stati puntarono sullo sviluppo delle centrali nucleari, contestate dagli ecologisti, come dimostrò nel 1986 il caso della centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina. Altrove si riscoprì il carbone o si avviò lo sfruttamento dell’energia solare ed eolica. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, l’emergenza ambientale sembrò ridimensionarsi. Una nuova fase di crescita produttiva e di euforia finanziaria riportò nel mondo dell’economia un clima di diffuso ottimismo. Non per questo venne meno l’attenzione per i problemi ecologici. La ricerca di uno sviluppo sostenibile restò al centro. La Commissione sull’ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite affermava che lo sviluppo deve rispondere ai bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future. Anche i governi avviarono politiche ambientaliste. Nel 1997, di fronte alle sempre più evidenti conseguenze del cambiamento climatico, un vertice internazionale elaborò il Protocollo di Kyoto, che aveva lo scopo di obbligare gli Stati a ridurre le emissioni di anidride carbonica. Questo programma non fu condiviso da Stati Uniti, Cina e India. Crisi delle ideologie e terrorismo Le trasformazioni economiche e sociali si accompagnarono a un mutamento delle ideologie e della cultura politica. Negli anni ’60 e nei primi anni ’70 la cultura di sinistra era stata la cultura egemone. A partire agli anni dello shock petrolifero, queste certezze cominciarono a venir meno. Nei paesi comunisti era evidente l’incapacità del modello collettivistico. L’Unione Sovietica vedeva appannarsi la sua immagine. Alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale cominciarono a prendere le distanze dall’Urss. Si parlò di grande riflusso, per indicare la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione politica e sociale. La generale caduta della tensione politica finì con il lasciare isolate le componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile. Si assistette così a una drammatica esplosione di terrorismo politico: le Brigate rosse in Italia, la Raf in Germania, il gruppo di Action directe in Francia. Queste formazioni colpivano con gesti esemplari quei personaggi o quelle istituzioni che ai loro occhi si identificavano col sistema da abbattere. Un terrorismo diverso, ispirato nel modello organizzativo ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo o a quelli nati dalle lotte delle minoranze etniche. Poco seguiti dalle masse, i gruppi terroristici furono sconfitti. Ma il terrorismo come fenomeno internazionale, spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati, non scomparve e si espresse attraverso una serie di azioni sanguinose. Il 13 maggio 1981 papa Giovanni Paolo II fu gravemente ferito in piazza San Pietro da un terrorista turco. Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan Negli anni ’70, gli Stati Uniti attraversarono una delle fasi più difficili della loro storia. Il repubblicano Nixon pose fine all’impegno militare in Vietnam, ma fu travolto nel caso Watergate, dove alcuni collaboratori del presidente avevano condotto un’operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico. Messo sotto accusa, Nixon fu costretto a dimettersi. Il democratico Carter, dopo due anni di presidenza, cercò di promuovere una politica fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani: se da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss, dall’altro fu criticata perché lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli Stati Uniti, in particolare in Iran. Nelle elezioni del 1980, Carter fu sconfitto fa Reagan. Egli si presentò con un programma liberista, basato sulla riduzione delle tasse e della spesa pubblica; promise una linea più dura nei confronti dell’Urss. Il successo si dovette anche al buon andamento dell’economia. Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì un elemento essenziale nella strategia do Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Stati Uniti. Gli Usa intensificarono la fornitura di armi e materiali ai gruppi armati che combattevano contro i regimi filocomunisti sia in America Latina, sia in Afghanistan; e intervennero con azioni punitive contro i paesi accusati di favorire il terrorismo: clamoroso fu l’attacco contro la Libia di Gheddafi nel 1986. La linea interventista seguita da Reagan e dal suo vicepresidente e successore Bush, non impedì il dialogo con l’Unione Sovietica. L’Unione Sovietica: da Breznev a Gorbacev Tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’80, gli anni del potere incontrastato del segretario Breznev, l’Unione Sovietica vide accentuarsi il declino economico e politico. Si inasprì l’attività repressiva nei confronti degli intellettuali dissidenti. Nel 1975 l’Urss partecipò alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e ne sottoscrisse gli accordi. Il movimento di guerriglia di ispirazione maoista si era reso protagonista di una serie di azioni sanguinose. In Colombia la minaccia più grave era costituita dall’attività dei grandi trafficati di droga. I narcotrafficanti potevano condizionare l’operato dei poteri locali e degli stessi governi. Un fattore di tensione fu costituito, negli anni ’80, dagli avvenimenti del Nicaragua, dove un gruppo rivoluzionario di sinistra, il movimento sandinista, prese il potere nel 1979. Gli Stati Uniti non intervennero. Ma quando il nuovo regime accentuò i suoi tratti socialisti, si creò una forte tensione, sfociata nell’appoggio degli Usa ai movimenti armati antisandinisti. Nel 1989 si giunse a una tregua, in cambio della promessa del governo di convocare libere elezioni. Queste furono vinte dal fronte delle opposizioni antisandiniste. La sconfitta dei sandinisti accentuava l’isolamento di Cuba, dove il regime di Fidel Castro era messo in seria difficoltà dal collasso dell’Urss. Nuovi conflitti nell’Asia comunista Dopo la conquista, nel 1975, di Saigon, i nordvietnamiti ignorarono le promesse di riconciliazione fra le due metà del paese. Nel 1978 la numerosa comunità di origine cinese fu espropriata dei suoi averi. Centinaia di migliaia di persone abbandonarono il paese. Più tragiche furono le vicende della vicina Cambogia, dove i guerriglieri comunisti misero in atto esperimenti di rivoluzione. Nell’intento di cancellare ogni traccia della vecchia società consumarono uno spaventoso massacro, eliminando fisicamente coloro che avevano servito sotto il regime precedente, provocando anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e mezzo di comuni cittadini. Geloso della propria indipendenza, e appoggiato dalla Cina, il regime di Pol Pot costituiva un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre l’intera Indocina sotto la sua influenza. Nel dicembre 1978, 200 mila soldati vietnamiti invadevano il paese e vi installavano un governo amico rovesciando quello dei khemer rossi, i quali, con il sostegno della Cina, avrebbero continuato per parecchi anni a dar vita a un’ostinata guerriglia. I cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel Vietnam del nord, infliggendo notevoli danni. Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell’Onu, le forze vietnamite cominciarono a ritirarsi. Si giunse a un accordo e alla convocazione delle libere elezioni. La Cina dopo Mao Dopo la morte di Mao Zedong, nel 1976, si aprì nella Cina comunista un processo di revisione interna. Artefice principale della demaoizzazione fu Deng Xiaoping, che condusse la lotta contro gli ultimi eredi politici della rivoluzione culturale, prima di assumere ufficialmente, nel 1981, la guida del partito e dello Stato. Deng Xiaoping capovolse la linea di Mao e promosse profonde modifiche. Si formarono nuovi strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e commercianti, mentre si affermavano, soprattutto fra le generazioni più giovani, modelli di vita di tipo consumistico. Proprio il contrasto fra modernizzazione e il mantenimento della struttura burocratico-autoritaria fu all’origine di contestazioni. Protagonisti della protesta furono gli studenti dell’Università di Pechino, che diedero vita, a una serie di imponenti e pacifiche manifestazioni di piazza. Il gruppo dirigente comunista rispose con una brutale repressione militare. Nel giugno 1989 l’intervento dell’esercito contro i manifestanti riuniti in piazza Tienanmen la si risolse in un massacro. La protesta, però, influì solo marginalmente nei rapporti commerciali fra la Cina e l’Occidente. Il regime cinese sarebbe riuscito così a sopravvivere e sarebbe diventato il teatro di un inedito esperimento di rilancio dell’economia di mercato. Il Giappone: successi economici e debolezza politica Fra i numerosi miracoli economici quello del Giappone fu il più straordinario. Il Giappone era diventato la terza potenza economica al mondo dopo Usa e Urss. All’inizio degli anni ’80, la sua industria conquistava i mercati di tutto il mondo e la sua potenza finanziaria preoccupava gli stessi Stati Uniti. La crisi petrolifera provocò la prima brusca caduta. La crisi fu superata. Ma sul piano politico la tradizionale stabilità fu messa a dura prova da una serie di scandali finanziari. Il Giappone vedeva crescere le pressioni da parte dei suoi alleati per un maggior contributo alle spese per la propria difesa e per le attività delle Nazioni Unite. 14.La caduta dei comunismi in Europa Un impero in crisi Nell’ultimo decennio del ‘900, l’equilibrio tra Usa e Urss si ruppe. Se la crisi si verificò, ciò fu dovuto alla sconfitta dell’Urss nella competizione dell’Occidente sul terreno dello sviluppo, del benessere economico e della stessa giustizia sociale. Ma il fattore che rese la crisi irreversibile fu l’impossibilità di riformare un sistema che si era fino ad allora tenuto in piedi grazie al suo carattere chiuso e al potere deterrente dell’apparato repressivo e della forza militare. Nel momento in cui il riformismo di Gorbacev aprì le prime brecce nel sistema, l’intera costruzione crollò. Gli effetti del nuovo atteggiamento dell’Urss si fecero sentire in tutta l’Europa orientale. A profittarne per prima fu la Polonia. Fra il 1980-81 era nato un sindacato indipendente di ispirazione cattolica, chiamato Solidarnosc, guidato da Walesa. Con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1978, del polacco Wojtyla (Giovanni Paolo II), si spiega l’iniziale tolleranza manifestata dalle autorità comuniste nei confronti del sindacato indipendente. La tolleranza aveva limiti invalicabili. Nel 1981 Jaruzelski assunse la guida del governo e del Partito operaio polacco. Di fronte al ruolo politico crescente di Solidarnosc, Jaruzelski assunse pieni poteri e mise fuori legge Solidarnosc. In seguito allentò le misure repressive e cercò di riallacciare il dialogo con la Chiesa. Dopo la svolta di Gorbacev, il dialogo s’intensificò, fino al’apertura di un negoziato. Ne uscì un accordo che prevedeva libere elezioni, che videro la schiacciante vittoria di Solidarnosc. Al governo salì Mazowiecki. Jaruzelski restò alla presidenza della repubblica. Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che fra il 1989-90 avrebbe messo in crisi l’intero sistema delle democrazie popolari. Il primo paese a seguire la Polonia fu l’Ungheria. Nell’89 i nuovi dirigenti comunisti legalizzarono i partiti e indussero libere elezioni. La decisione più importante fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l’Austria. Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca A partire dall’estate dell’89, decine di migliaia di cittadini della Germania comunista abbandonarono il loro paese per raggiungere la Repubblica federale attraverso l’Ungheria e l’Austria. La fuga in massa mise in crisi il regime comunista. La sera del 9 novembre 1989, dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale aveva annunciato il ripristino della libertà di circolazione fra le due metà di Berlino, un numero crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti, li oltrepassò e infine cominciò a smantellare materialmente il muro. Il crollo del Muro rappresentò simbolicamente la fine della guerra fredda. Nel marzo 1990 si tennero libere elezioni nella Germania dell’Est. La vittoria andò ai cristiano-democratici che, in accordo con la Germania Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di un’entità statale. In questa situazione si inserì l’azione del governo guidata da Kohl, che riuscì a preparare in pochi mesi la riunificazione del paese. I due governi tedeschi firmarono un trattato per l’unificazione economica e monetaria. Il 3 ottobre 1990 entrò in vigore il trattato di unificazione politica. Fu una decisione costosa per la Repubblica federale, come faticosa sarebbe stata l’integrazione delle aree orientali e delle loro industrie tecnologicamente arretrate nella ben più dinamica economia dell’Ovest. Dopo oltre un quarantennio di divisione, la Germania tornava a essere uno Stato unitario, il più forte economicamente e politicamente dell’intero continente europeo. La fine delle democrazie popolari L’abbattimento della cortina di ferro provocò la caduta di tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale. In Cecoslovacchia, nel 1989, il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Havel, un democratico. I regimi comunisti caddero in Ungheria, Bulgaria, Albania. Fece eccezione la Romania, dove la dittatura di Ceausescu fu travolta da un’insurrezione popolare. Ceausescu fu catturato e messo a morte. I paesi ex satelliti dell’Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione dell’apparato produttivo in funzione del mercato. Sul piano politico, il ritorno alla democrazia portò proliferazione di forze politiche, vecchie e nuove. I gruppi dirigenti comunisti furono per lo più sconfitti nelle prime elezioni libere, ma in alcuni paesi ritornarono al potere sotto nuove denominazioni. La dissoluzione dell’Urss L’Unione Sovietica aveva perso il suo impero esterno. Nel 1990 la stessa Repubblica russa rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse Eltsin, confermato da un’elezione popolare a suffragio diretto. La crisi dell’Urss si acutizzò fra il ’90 e il ’91. Gorbacev cercò di mediare fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni dell’ala intransigente del partito. Questo fragile equilibrio si ruppe nel 1991, quando un gruppo di esponenti della dirigenza sovietica tentò un colpo di Stato. I congiurati sequestrarono Gorbacev, sperando di strappargli un’adesione al progetto di restaurazione del vecchio regime. Ma il colpo fallì. A Mosca una grande folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una sanguinosa repressione e un’ingloriosa ritirata. Decisivo fu il ruolo di Eltsin, che si propose come il vero detentore del potere. Il fallimento del golpe accelerò la crisi dell’autorità centrale. L’Urss era un impero plurinazionale. Le riforme di Gorbacev, aprendo spazi, diede vita anche alle rivendicazioni nazionali. Le prime a muoversi erano state le Repubbliche baltiche. Ma movimenti analoghi si svilupparono anche nelle Repubbliche caucasiche. Fra il 1990-91 tutte queste Repubbliche, insieme alla Moldavia proclamarono la loro indipendenza. Lo stesso fecero Ucraina e Bielorussia. Gorbacev tentò di bloccare questo processo rilanciando l’idea di un nuovo trattato di unione che assicurasse almeno l’esistenza dell’Urss. La sua iniziativa però fu scavalcata dai presidenti delle Repubbliche slave, che si accordarono su una comunità di Stati sovrani. Nel 1991 i far circolare il denaro creò nuove occasioni di arricchimento. Nel ’97 la disoccupazione scese. Fra il ’98 e il ’99 la posizione del presidente fu minacciata dall’emergere di accuse relative alla sua vita privata, ma anche ai metodi usati nella raccolta di fondi per la campagna elettorale. Queste accuse rischiarono di incrinare l’immagine pubblica di Clinton, ma non ne scalfirono la popolarità interna. Nel novembre 2000 le elezioni presidenziali portarono alla vittoria Bush junior. I primi atti della nuova presidenza si ispirarono a una linea conservatrice in politica interna e orientata, in politica esterna, a una più esclusiva tutela degli interessi nazionali. La strategia neoisolazionista di Bush junior non potè attuarsi a pieno: il traumatico attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001 avrebbe costretto gli Stati Uniti a un impegno su scala mondiale, in nome della lotta contro il terrorismo. 15.L’Unione europea Il progetto europeo tra utopia e realismo La fine della seconda guerra mondiale aveva privato l’Europa del suo ruolo di centro della politica mondiale. Da questa situazione era nata la prospettiva federalista, fondata su una federazione politica che portasse in tempi brevi agli Stati Uniti d’Europa. Apparve presto evidente che, in un’Europa divisa in due dalla cortina di ferro, il progetto unitario non poteva che riguardare la sola metà occidentale. Prevalse così un approccio più concreto, detto funzionalista e che privilegiava la messa in comune di funzioni e compiti specifici, trasferendone la gestione dalle autorità nazionali a quelle comunitarie. L’allargamento della Cee Fra il 1973 e il 1986, la Comunità economica europea nata nel 1957 allargò i suoi confini e raddoppiò il numero dei suoi membri. L’ingresso dei nuovi membri fu un passo in avanti. Nell’immediato, però, l’allargamento suscitava nuovi problemi nella gestione delle politiche comunitarie e faceva risaltare le distanze economiche e culturali. Nel 1974 a Parigi, si decise che i capi di governo dei paesi membri si sarebbero incontrati, con scadenze regolari, dando vita al Congresso europeo. Contemporaneamente si stabilì che il Parlamento europeo sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, in base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi. L’elezione popolare e l’organizzazione per correnti politiche conferirono all’organismo un maggiore peso. Le prime elezioni per il Parlamento europeo si tennero nel 1979. Entrò in funzione il Sistema monetario europeo (Sme), un sistema di cambi fissi fra le monete dei paesi membri. La creazione dell’Unione europea I membri della comunità europea decisero di dare nuovo impulso al processo di integrazione. Il primo passo importante, nel 1985, fu la firma degli accordi di Schengen, che impegnavano gli Stati membri ad abolire entro 10 anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone. Nel 1986 fu sottoscritto l’Atto unico europeo. si stabiliva che entro il 1992 sarebbero state rimosse le barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e si introduceva il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo dei ministri. Le direttive dell’Atto unico divennero esecutive con la firma del trattato di Maastricht nel 1992. Questo trattato istituiva l’Unione europea, allargava le sue aree di competenza e sanciva la completa unificazione dei mercati. Si prevedeva una politica estera e di sicurezza comune, che però non riuscì a esercitare un ruolo incisivo. La decisione più significativa fu l’impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune e di una Banca centrale europea. Si stabiliva, come condizione per l’adesione all’Unione monetaria, l’adeguamento di parametri comuni, che avrebbero dovuto garantire la solidità e la credibilità finanziaria dell’Unione. L’euro e le politiche di austerità Nel 1993 Gran Bretagna e Italia furono costrette a svalutare le loro monete. Inoltre gli sforzi dei governi per adeguarsi ai parametri di Maastricht mediante tagli alla spesa pubblica provocarono proteste diffuse. Le politiche restrittive aggravarono la crisi dei sistemi di Welfare. Per tutti gli anni ’90 la disoccupazione mantenne livelli molto alti. I tanto discussi parametri europei ebbero effetti salutari sulle politiche economiche di quei paesi che sembravano più lontani dagli obiettivi fissati. Nel 1998 venne inaugurata l’Unione monetaria europea e venne istituita la Banca centrale europea. Si fissò al 1° gennaio 1999 l’entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, che però entrò in vigore interamente il 1° gennaio 2002. L’avvio della circolazione dell’euro rappresentò il segno più tangibile dei progressi raggiunti nel processo di integrazione europea. 16.Il nodo del Medio Oriente Un’area contesa Dopo la fine della guerra fredda, i principali focolai di tensione si manifestarono in Medio Oriente. Nella seconda metà del ‘900 ci furono nuovi motivi di scontro. Il primo fattore era costituito dal crescente interesse del mondo industrializzato per la risorsa petrolio. Un interesse si accrebbe dopo la guerra del Kippur e la conseguenze crisi petrolifera. Il secondo fattore fu l’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano per la Palestina. Il terzo fattore fu la rinascita, in forme nuove e aggressive, del fondamentalismo islamico: quella corrente che, sulla base di un’interpretazione rigida delle norme del Corano, mirava a una re islamizzazione della società e chiamava i musulmani alla jihad contro gli infedeli r gli eretici. A partire dagli ultimi decenni del ‘900, il rilancio dell’islam fondamentalista si accompagnò al riacutizzarsi delle antiche divisioni religiose interne al mondo islamico: sunniti e sciiti. Le fratture religiose avrebbero contribuito ad accrescere le tensioni fra due delle potenze economiche e militari dell’area: l’Iran e l’Arabia Saudita. La pace fra Egitto e Israele Il conflitto arabo-israeliano vide nuove e promettenti prospettive di soluzione nella seconda metà degli anni ’70, per iniziativa del presidente egiziano Sadat. La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli Stati Uniti: nel 1974-75, Sadat attuò un rovesciamento di alleanze, espellendo i sovietici dall’Egitto e imprimendo alla sua politica un orientamento filo-occidentale. Nel 1977 il presidente egiziano si recò a Gerusalemme e formulò la sua offerta di pace. Il governo israeliano, guidato da Begin, accolse la proposta. Si aprirono negoziati con mediazione del presidente americano Carter. Nel 1978, Begin e Sadat si incontrarono a Camp David e sottoscrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace, firmato poi alla Casa Bianca nel 1979. Si trattava di una svolta storica. Ma le cose andarono diversamente: la scelta di Sadat fu condannata dalla maggioranza degli Stati arabi e il presidente egiziano, nel 1981, fu ucciso al Cairo in un attentato. La rivoluzione iraniana Alla fine del 20° secolo le democrazie occidentali e i regimi postcomunisti, si trovarono a fronteggiare una nuova sfida globale: quella dell’islam radicale e fondamentalista. Il rilancio del fondamentalismo prese le mosse da due eventi verificatisi nel 1979: l’intervento sovietico in Afghanistan e la rivoluzione scoppiata in Iran. Governato con metodi autoritari, l’Iran era stato un pilastro fondamentale della presenza occidentale in Medio Oriente e un importante fornitore di petrolio. Negli anni ’60 lo scià aveva avviato una politica di modernizzazione, senza riuscire ad assicurare significativi progressi. Questa politica suscitò una crescente opposizione. Lo scià tentò di fermare la rivolta con sanguinose repressioni. Ma nel 1979, abbandonato anche dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. Intento rientrava nella capitale Teheran Khomeini, autorità spirituale dei musulmani sciiti. In Iran si instaurò una Repubblica islamica di stampo teocratico guidata dal clero sciita. Rigidamente tradizionalista e oscurantista in materia di costumi e di controllo sulla vita privata, il nuovo regime entrò in contrasto con gli Stati Uniti. Per oltre un anno il personale dell’ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da militanti islamici. Gli ostaggi furono liberati solo dopo una lunga trattativa e dopo il fallimento di un’azione di forza ordinata da Carter. Isolato internazionalmente l’Iran fu attaccato nel 1980 dall’Iraq. La guerra si protrasse per 8 anni e si risolse in una spaventosa carneficina: il cessate il fuoco stabilito grazie all’Onu nel 1988, trovò i contendenti sulle stesse posizioni dell’inizio del conflitto. La guerra del Golfo Nel 1990 Saddam Hussein, dittatore del’Iraq, invase l’Emirato del Kuwait, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, e ne proclamò l’annessione alla Repubblica irachena. L’invasione del Kuwait fu condannata dalle Nazioni Unite che decretarono l’embargo nei confronti dell’aggressore. Gli Stati Uniti inviarono in Arabia Saudita un corpo di spedizione con lo scopo di difendere gli Stati arabi minacciati e di costringere Saddam Hussein al ritiro. Alla spedizione si unirono anche Stati europei. Decisivo fu l’atteggiamento dell’Unione Sovietica: Gorbacev non si oppose all’intervento armato. Il dittatore iracheno cercò di stabilire un collegamento tra l’occupazione del Kuwait e il problema dei territori palestinesi, presentandosi come vendicatore delle masse arabe oppresse. L’appello trovò eco fra le masse di molti paesi arabi. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvava una risoluzione che imponeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait entro il 15 gennaio 1991. Nella notte tra 16 e 17 gennaio la forza multinazionale scatenò un violento attacco aereo. Saddam rispose lanciando missili con testate esplosive sulle città dell’Arabia Saudita e di Israele. Dopo 40 giorni di bombardamenti, scattò l’offensiva di terra contro le forze irachene. L’esercito iracheno cedette abbandonando il Kuwait, non prima di averne incendiato gli impianti petroliferi. Ottenuto lo scopo principale, il presidente Bush decise di arrestare l’offensiva. Gli Stati Uniti risultavano vincitori e si imposero come supremi garanti degli equilibri mondiali. Contando su questo prestigio, cercarono di profittare della situazione favorevole per rilanciare il processo di pace in tutta l’area mediorientale. consolidò il suo ruolo di maggior partito di opposizione. Con le elezioni del 1968 l’unico intervento di rilievo fu la liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie. Nel 1970 furono approvati i provvedimenti relativi all’istituzione delle regioni e si tennero anche le prime elezioni regionali. Fu approvata in Parlamento la legge Fortuna-Baslini che introduceva in Italia l’istituto del divorzio. Violenza politica e crisi economica Il 12 dicembre 1969 un bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. Un evento traumatico che aprì per l’Italia una lunga stagione di violenze e attentati. L’opinione pubblica individuò nell’estrema destra fascista la matrice politica della strage. La conferma di una minaccia alle istituzioni venne, nel 1970, dalla rivolta di Reggio Calabria: una violenta sommossa popolare che traeva spunto dalla mancata designazione della città come capoluogo di regione. L’impotenza dimostrata dai poteri pubblici rifletteva profonde divisioni all’interno del governo. Dopo le elezioni politiche del 1972, si tentò il ritorno a una formula centrista, con il governo guidato da Andreotti. Ma l’esperimento ebbe breve durata e la crisi petrolifera aggravò la situazione economica. A tutto questo si aggiungeva un crescente disagio morale, provocato da scandali in cui furono coinvolti imprenditori ed esponenti delle forze di governo: questi ultimi messi sotto accusa per aver riscosso tangenti destinate ai partiti. Nel 1974, la nuova legge sul divorzio, approvata nel ’70, fu sottoposta a referendum abrogativo per iniziativa di gruppi cattolici. Il netto successo dei divorzisti mostrò che la società italiana era cambiata. Questi mutamenti trovarono riscontro in due leggi del 1975: la riforma del diritto di famiglia, che sanciva la parità giuridica fra i coniugi; e l’abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni. Nel ’78 il Parlamento approvò una nuova legge sull’aborto, che legalizzava l’interruzione volontaria della gravidanza. A cogliere i frutti politici di questa stagione fu soprattutto il Pci. Nel 1973 Berlinguer sostenne la necessità di giungere a un compromesso storico, ossia un accordo tra le forze comuniste, socialiste e cattoliche. Il carattere moderato di Berlinguer, fece del Pci il principale luogo di incontro delle istanze di trasformazione della società italiana. Lo si vide nelle elezioni del 1976, dove il Pci toccò il suo massimo storico avvicinandosi alle percentuali della Dc. La sconfitta portò alla crisi del gruppo dirigente socialista e all’ascesa alla segreteria di Craxi. Terrorismo e solidarietà nazionale L’esito delle elezioni del ’76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Si giunse alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti. Cominciava la breve stagione di governi di solidarietà nazionale, basati su maggioranze allargate. Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, nero (destra) e rosso (sinistra), erano diversi nel modo di operare. Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, con il probabile scopo di diffondere il panico e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia a Brescia nel ’74, l’attentato al treno Italicus, sulla linea Firenze e Bologna. Il 2 agosto del 1980 si consumò l’attentato più sanguinoso, quello alla stazione di Bologna, che provocò più di 80 morti. Per i terroristi di sinistra, in gran parte giovani provenienti dal movimento studentesco, dai gruppi extraparlamentari e dai partiti della sinistra storica, l’azione armata si presentava come un atto esemplare, come un messaggio destinato alla classe operaia, al fine di mobilitarla per il rovesciamento del sistema capitalistico. Fra il ’72 e il ’75 ci furono sequestri di dirigenti industriali e di magistrati. Nel 1976, con l’uccisione di Coco e ei due uomini della sua scorta, si giunse all’assassinio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate Rosse. Negli stessi anni in cui si doveva fronteggiare il terrorismo di sinistra, il governo si confrontò con la crisi economica. L’inflazione era dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, ma anche alla dilatazione dei consumi e della spesa pubblica. Nei primi mesi del 1977, un nuovo movimento di studenti universitari diede luogo occupazioni di università e a violenti scontri di piazza. Protagonisti degli scontri furono i gruppi di Autonomia operaia. Bersaglio principale fu la sinistra tradizionale. Nel 1978 le Brigate Rosse misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo , il giorno della presentazione in Parlamento di un nuovo governo, un commando brigatista rapì Aldo Moro, uccidendo i 5 uomini della sua scorta. A quella giornata seguirono i 55 giorni di attesa e di polemiche di fronte alla sofferta decisione del governo di non trattare con i terroristi per il rilascio di Moro. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo corpo fu abbandonato nel bagagliaio di un’auto in una strada del centro di Roma. Questo delitto evidenziò la gravità del fenomeno terroristico. Nel difficile clima politico dopo l’assassinio di Moro, il governo cercò di avviare il risanamento dell’economia. La situazione finanziaria diede segni di miglioramento. La legge del ’78 sull’equo canone avrebbe prodotto risultati disastrosi. La riforma sanitaria, che sanciva la gratuità delle cure per tutti e riordinava la medicina pubblica, affidandone la gestione ad appositi organismi dipendenti dalle regioni, si sarebbe rivelata fonte di inefficienza. Nel complesso la politica di solidarietà nazionale non produsse risultati adeguati. In questi anni continuarono a verificarsi episodi di corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni, nel 1978, il capo dello Stato, Giovanni Leone, accusato ingiustamente. Al suo posto fu eletto Pertini. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista creava le condizioni per una ripresa dell’alleanza fra il Psi e i partiti di centro. Politica, economia e società negli anni ‘80 I risultati delle elezioni del ’79 fecero registrare significativi mutamenti nel panorama politico. Il Pci registrò una forte perdita; la Dc subì una netta sconfitta nelle elezioni dell’83; il Psi raccolse risultati deludenti. L’unica strada praticabile fu il ritorno alla coalizione di centro-sinistra, allargata anche al Partito liberale, in una nuova formula di governo definita Pentapartito. Per la prima volta la Dc cedette la guida del governo a Craxi. Fra i primi atti significativi del governo socialista, va ricordata la firma, nel 1984, di un nuovo concordato con la Santa Sede. L’esperienza di Craxi si sarebbe caratterizzata per il tentativo di potenziare il ruolo del presidente del Consiglio e di affermare una presenza dell’Italia nella politica internazionale. Significativo fu il confronto con gli Stati Uniti, dove il governo italiano rifiutò di consegnare alle autorità statunitensi i quattro palestinesi responsabili del sequestro della motonave Achille Lauro e dell’uccisione di un cittadino americano. Nell’autunno 1980 i sindacati subirono la loro prima sconfitta, nella vertenza apertasi con la Fiat su problema della riduzione della manodopera. L’azienda torinese riuscì a imporre le proprie scelte, con l’imprevisto aiuto di una mobilitazione di piazza, la cosiddetta marcia dei quarantamila, che sfilarono in corteo a Torino chiedendo il ritorno all’ordine. Da quell’episodio ebbe inizio un progressivo ridimensionamento del ruolo del sindacato. Restava irrisolta la questione del controllo della spesa pubblica. Queste difficoltà vennero in parte compensate da una ripresa dell’economia. Il sistema economico italiano manifestò nel decennio ’80-90 una vitalità notevole. Il fenomeno si spiegava con la crescita dell’economia sommersa, ossia quella miriade di piccole imprese disseminate nella provincia italiana e caratterizzate da alta produttività, da bassi costi e da una notevole capacità di adattamento alle esigenze di mercato. Un’espansione articolata caratterizzò il settore terziario. Il fenomeno della corruzione si fece vivo negli anni ’80 con lo scandalo della Loggia P2: una specie di branca segreta della Massoneria, inserita nel mondo politico, nella burocrazia e nei vertici militari e sospettata di perseguire il fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato. Il dilagare delle organizzazioni criminali (mafia, camorra, ‘ndrangheta) si configurava come aperta sfida ai poteri dello stato. L’episodio più drammatico fu nel 1982 l’assassinio di Dalla Chiesa, inviato come prefetto a Palermo per coordinare il contrasto alla mafia. Esiti positivi ebbe la lotta contro il terrorismo di sinistra. La svolta nel 1980 accadde quando alcuni terroristi arrestati decisero di denunciare i compagni in libertà. Il numero di pentiti andò aumentando, grazie a una legge che concedeva forti sconti di pena come compenso per il contributo alle indagini. I principali gruppi clandestini cessarono di esistere. La crisi del sistema politico La fine dell’emergenza terroristica non servì a restituire credibilità e popolarità a un ceto politico che appariva in un equilibrio instabile. Tutto questo alimentava un senso di sfiducia nei confronti dei partiti. L’accordo che, nel ’85, consentì l’elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Cossiga non evitò il riproporsi dei contrasti fra Psi e Dc. Si giunse nel 1987 alla crisi del governo Craxi. La maggiore novità fu l’apparizione di nuovi gruppi: il movimento dei Verdi su una piattaforma ambientalista; le Leghe regionali, poi riunite nella Lega Nord sotto la guida di Bossi. Una difficile transizione È consuetudine indicare con Seconda Repubblica l’assetto politico-istituzionale in Italia nella prima metà degli anni ’90. Segnali negativi venivano dall’economia: a partire dal 1990 la crescita del decennio precedente si interruppe. Molte imprese italiane perdevano competitività sui mercati internazionali. La prima novità fu la trasformazione del Pci nel Partito democratico della sinistra (Pds). Si consolidavano nel settentrione le posizioni della Lega Nord. Il presidente della Repubblica Cossiga si rese protagonista di una serie di polemiche con le forze politiche e dichiarò apertamente la sua volontà di contribuire a cambiare il sistema di cui egli stesso era il più alto rappresentante. Le elezioni del 1992 registrarono clamorose novità. Venivano sconfitti la Dc e il Pds, mentre il Psi subiva una leggera flessione. Crescevano, invece, le forze politiche nuove. Il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica Scalfaro. Un nuovo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L’inchiesta Mani pulite svelava un diffuso sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici che fu denominato Tangentopoli. Destinatari principali erano la Dc e il Psi. Il sistema delle tangenti rivelava una penetrazione capillare che aggravava la crisi dei partiti. Fra il 1992 e il 1993, numerosi esponenti politici, a cominciare da Craxi, furono raggiunti da avvisi di garanzia, ovvero notifiche dell’avvio di indagini emesse dai magistrati inquirenti, e costretti ad abbandonare
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