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Storia Costituzionale Italiana (MARTUCCI) per esame storia delle istituzioni politiche Sapienz, Dispense di Storia Delle Istituzioni Politiche

Riassunto del libro di Roberto Martucci “Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica” con gli argomenti da studiare per l’esame di Storia delle Istituzioni Politiche (Canale A-L Sapienza università di Roma)

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 24/05/2021

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Scarica Storia Costituzionale Italiana (MARTUCCI) per esame storia delle istituzioni politiche Sapienz e più Dispense in PDF di Storia Delle Istituzioni Politiche solo su Docsity! Con l’affermazione del modello napoleonico abbiamo visto come si arrivasse ad una modifica dei principi costituzionali che avevano caratterizzato l’esperienza rivoluzionaria. Il sistema napoleonico era gestito sostanzialmente dell’esecutivo e vedeva uno scarsissimo ruolo degli organi legislativi. Non c’era una libertà di espressione. I parlamentari erano cooptati dall’esecutivo. Il sistema napoleonico era troppo lontano dai canoni classici del costituzionalismo. Definito modello cesaristico, richiamando l’impero della prima versione dell’età romana, diverrà una fonte di ispirazione per il secondo impero bonapartista introdotto con il colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte. Come assi strategici e fondamentali della struttura francese rimarranno il centralismo amministrativo introdotto da Napoleone con la legge del 28 Piovoso, il Codice civile napoleonico e altre istituzioni come il Consiglio di Stato. Questo garantirà una continuità che in parte compenserà l’instabilità costituzionale dell’800 francese. Sconfitto Napoleone, abbiamo la prima restaurazione con il ritorno dei Borboni. Il sovrano non vuole tornare al sistema previgente. Non si può tornare all’Ancient regime distrutto dai rivoluzionari. Resta in vigore il codice civile napoleonico, che aveva sancito nel testo l’abolizione di tutti i regimi feudali. Rimane anche il centralismo amministrativo. Per quanto riguarda l’aspetto costituzionale, Luigi Napoleone rilascia una costituzione con il meccanismo dell’octroi (concessione). Concede una Charte costituzionale octroyé, ovvero ottriata. Concessa da un sovrano che si pone come grande padre di famiglia per i suoi sudditi. Sarà la base su cui sarà costruito lo statuto Albertino. Nella Charte è rimarcato lo stacco rispetto la dinamica rivoluzionaria che, sia nel caso americano che francese, faceva perno sul potere costituente, completamente assente. Si torna alla concezione di una monarchia di diritto divino, completamente superata nel 1791. “La divina provvidenza, richiamandoci nei nostri stati dopo una lunga assenza, ci ha imposto dei grandi obblighi. Soprattutto quelli di assicurare la pace.” Un altro aspetto importante del preambolo è l’idea che si voglia cancellare quasi l’esperienza rivoluzionaria e rinnovare una continuità temporale con l’epoca precedente. La vicenda costituzionale francese nasce sulla volontà di distruggere il passato. Ora, rispetto a quella rottura, Luigi XVIII interviene con l’idea di cancellare la fase rivoluzionaria e ripristinare la continuità dei tempi. “Abbiamo cancellato dal nostro ricordo, come vorremmo si potesse cancellare dalla storia, tutti i mali che hanno afflitto la patria dalla nostra assenza. Per il libero esercizio della nostra autorità regia, abbiamo fatto concessione ai nostri sudditi della carta costituzionale”. Punti chiave della Carta costituzionale: Prima parte riguardante i diritti dei francesi, suddivisa in 12 articoli che riprendono alcune delle garanzie introdotte dalla rivoluzione: Libertà e diritto di proprietà. C’è la consapevolezza che non si possa tornare all’Ancient Regime pre’89. Rispetto alle dichiarazioni rivoluzionarie, questi diritti sono più sintetici e meno organici. CI sono alcuni punti poi che fanno capire la nuova atmosfera del tempo, ad esempio per quanto riguarda il ruolo della religione. La rivoluzione era stata fortemente laica. Ora viene espresso in questa costituzione il principio della libertà religiosa. Art 5: Ognuno professa la religione con uguale libertà e ottiene la stessa professione. L’art 6: la religione cattolica apostolica romana è la religione di stato. Concetto ripreso integralmente anche dallo Statuto Albertino. Configurazione dei pubblici poteri: Il potere legislativo è affidato a due camere. Una Camera dei deputati elettiva, eletta con un suffragio fortemente censitario, rispetto a quello delle costituzioni del ’91 e del ’95. Su 9mln di maschi adulti, gli elettori sono 100k. Corpo elettorale estremamente ristretto. Non è certamente una costituzione democratica. C’è poi una camera dei Pari, camera dei nobili che viene nominata dal sovrano, senza nessuna elezione. Il sovrano può decidere se nominare i Pari a vita, oppure concedere loro la paria ereditaria. Può stabilire che questi pari possano trasmettere il seggio ai propri discendenti. Non è prevista una responsabilità politica dei ministri del sovrano, ma solo una responsabilità penale. La cosa che più colpisce è ciò che avviene in ambito legislativo. Nella costituzione del ’91, in campo legislativo il diritto di iniziativa delle leggi spettava al parlamento, e il sovrano poteva solo chiedere al parlamento di prendere in considerazione una determinata questione. Nella carta del 1814, abbiamo la stessa situazione, ma a parti invertite. Il potere di iniziativa legislativa spetta al sovrano, e il parlamento ha il diritto di “supplicare” il sovrano. È previsto un veto assoluto e non sospensivo sulle leggi del parlamento. Questo esperimento viene messo a dura prova dai 100 giorni napoleonici. Napoleone, inviato all’isola d’Elba in esilio, divenendone il sovrano, decise di non accontentarsi di questo dominio, ma di tornare sul trono francese. Sbarcò in Francia riprendendo il potere. A quel punto adottò una costituzione di tipo più liberale, la Costituzione dei 100 giorni napoleonici. Per la quale chiese il contributo di Bejamin Constant. Questa esperienza durò poco, in quanto le potenze europee non si fidarono. Napoleone mandò dei proclami a tutta Europa per rassicurare le potenze del fatto che non voleva più invadere l’Europa. Nel 18 Giugno 1815 si ebbe la sconfitta di Waterloo. Napoleone fu inviato nell’isola di Sant’Elena, dove morì nel 18221. A questo punto fu reintrodotta la Charte del 1814. Nella dialettica politica del tempo troviamo diverse correnti che si affrontano. Liberali e ultra-realiste (che vorrebbero che si eliminassero alcune delle eredità lasciate dagli anni della rivoluzione). Una dialettica politica che perdura fino al 1830, quando l’atteggiamento intransigente del nuovo sovrano Carlo X, dalla parte degli ultra-realisti (più realisti del re) porta ad un’esasperazione dei conflitti. Vuole ridimensionare il ruolo del parlamento bicamerale. Tutto questo genera un conflitto che porta all’Insurrezione delle Tre giornate gloriose 27-28-29 Luglio 1830, raffigurate ne La Libertà che guida il popolo di De Lacroix. Carlo X abbandonò il paese. Il parlamento si rivolse ad una nuova figura, Luigi Filippo d’Orleans, cugino di Carlo X, più aperto ai principi del liberalismo, e si assicurò che il nuovo sovrano accettasse una nuova costituzione, che il parlamento stabilì all’indomani della insurrezione. Con questo passaggio abbiamo la nuova Charte del 1830, che si basa sugli stessi meccanismi di quella del ’14, ma introduce delle innovazioni. La riforma del testo della costituzione viene fatta dal parlamento. Rispetto alla concessione di Luigi XVIII, come sovrano chiamato dalla divina provvidenza, abbiamo un parlamento che sottopone al nuovo sovrano la nuova costituzione. Il nuovo regime nasce da una sorta di patto tra parlamento e sovrano. Non si più nell’ambito quindi della costituzione ottriata. Abbiamo un meccanismo simile a quello della rivoluzione inglese del 1688. Ci sono alcune innovazioni importanti. C’è un leggero ampliamento del corpo elettorale per la camera dei deputati (gli elettori salgono a 240k). Si sancisce sul piano religioso l’equiparazione tra le varie confessioni religiose. L’iniziativa legislativa spetta al sovrano ma anche alle camere, che non devono più supplicare il sovrano se volevano che venisse presentato un progetto di legge. Per quanto riguarda la camera dei Pari, nel 1831, si abolisce la paria ereditaria. Hanno una carica esclusivamente vitalizia. Per quanto riguarda la responsabilità dei ministri nei confronti delle camere, resta quella penale. Nel corso della vita costituzionale, com’era avvenuto durante la fase del ‘91-‘92, si cercherà in molte occasioni di utilizzare la responsabilità penale in chiave politica. separazione tra potere esecutivo e legislativo. Si prospettava l’idea di un unico potere basato sulla sovranità popolare, riprendendo parzialmente il filone rousseauiano interpretato in maniera ancora più radicale. Marx scrive La Guerra Civile in Francia, in uno stile di giornalismo di altissimo profilo, in cui analizza tutti i vari fattori e le varie correnti di questa esperienza. Questa riflessione sarà ripresa da Lenin alla vigilia della Rivoluzione russa in Stato e Rivoluzione. In un certo senso, Lenin costruirà l’idea della democrazia sovietica partendo appunto da questa esperienza parigina. Il famoso inno, l’Internazionale, erroneamente definito sovietico, nasce proprio all’indomani della comune, e fu scritta da un comunardo. La contrapposizione tra governo e comune si inasprisce nel corso delle settimane, sotto lo sguardo della Germania. Ci furono atti di violenza da parte sia del governo che dei comunardi. In entrambi i casi si cominciarono a fucilare gli ostaggi, in una spirale di violenza che crebbe di settimana in settimana, fino all’ingresso delle truppe governative a Parigi. Ci fu un vero e proprio massacro. Una delle più violente repressioni delle rivolte popolari. Circa 20k tra uomini donne e bambini furono assassinati dal governo di Thiers. Decine di migliaia di prigionieri furono inviati in carcere o nelle colonie penali francesi. L’assemblea nazionale del ’71 prova a stabilire la nuova configurazione del regime politico. Dà vita alla costituzione del 1875. Non è un testo unico, ma è composta di tre leggi costituzionali. Tre Leggi Costituzionali del 1875. Si rivelerà molto longeva (fino al 1940). Viene introdotto un sistema parlamentare con un parlamento che torna ad essere bicamerale. Camera dei Deputati eletta a suffragio universale maschile, e un Senato che si rinnova di 1/3 ogni tre anni, formato da senatori eletti da collegi di secondo grado formati prevalentemente dai delegati dei consigli municipali. Il senato della quinta repubblica riprenderà il senato della terza repubblica. I senatori sono eletti da collegi di delegati dei consigli municipali. Fu definito da qualcuno il Grande Consiglio dei Comuni di Francia. I collegi erano formati da sindaci, delegati dei comuni e membri della camera dei deputati. Espressione del mondo dei comuni francesi. I poteri delle due camere sono quasi identici, anche se per sciogliere anticipatamente la camera dei deputati è richiesto un parere conforme del senato. Il presidente non può scioglierlo di sua iniziativa senza il consenso del senato. Il senato invece non può essere sciolto. In questo sistema ha un ruolo importante il presidente della repubblica, eletto dal parlamento e non a suffragio universale come avveniva nella seconda repubblica. Almeno nello spirito originario, il presidente è considerato il principale responsabile dell’esecutivo. In realtà, nel corso della prassi politica, sin dai primi anni di attuazione si affermerà invece un modello più vicino al meccanismo britannico. Quello di un governo responsabile solo nei confronti del parlamento. Passerà quindi un’interpretazione di tipo monistico. È la prima costituzione in cui è previsto espressamente che i ministri siano politicamente responsabili nei confronti del parlamento. Si supera il livello della responsabilità penale e viene sancito formalmente il principio di responsabilità politica dei ministri. Questo sistema di superare la crisi della comune, ma è soggetto anch’esso a crisi molto radicali. Una è quella del Boulangismo, ricollegato al generale Boulanger, che si propone in una chiave populista come uomo della provvidenza. Si teme che possa sovvertire il sistema costituzionale. Verrà condannato per complotto. Si recò davanti alla tomba di una delle sue amanti, e si suicidò davanti questa tomba. Il Caso Dreyfus La crisi più radicale è legata al celeberrimo affare Dreyfus. La vicenda del capitano ebreo è molto importante anche per una serie di conseguenze che ebbe nel tempo, anche per il punto di vista di uno sviluppo della creazione di un movimento sionista che condusse alla nascita dello stato di Israele. Lo scontro tra la concezione dei diritti dell’uomo e della ragion di Stato sollevò la questione dell’antisemitismo, molto diffuso anche in Francia, patria dei diritti dell’uomo. Nel 1894 si scopre che un ufficiale francese fornisce informazioni all’ambasciata tedesca. Si fa un’inchiesta e i sospetti cadono sul capitano Dreyfus, perché essendo ebreo viene considerato dai superiori inaffidabile, e colpevole per antonomasia. Si mette in piedi un processo che non offre garanzia di difesa reale. Viene condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo, dopo la cerimonia di degradazione. La vicenda fa esplodere un fortissimo antisemitismo. Questo colpisce molto un giornalista ungherese, Theodor Herzl. Ne rimase talmente colpito che decise di sviluppare una riflessione politica che diede vita al movimento sionista, sulla base del presupposto che se nella stessa Francia dei diritti dell’uomo ci fosse un sentimento antiebraico, l’unica soluzione possibile sarebbe la patria ebraica. L’ufficiale George Picard, anch’egli antisemita, pur manifestando più volte la sua ostilità nei confronti degli ebrei, trovando alcuni documenti si rende conto che Dreyfus sia stato accusato ingiustamente. Picard inizia una sua battaglia cercando di convincere i superiori alla riapertura del processo. La posta in gioco diventa da un lato la difesa di un individuo, con cui si difende il primato dei diritti dell’uomo, e dall’altro la ragion di stato. Non si vuole ammettere che una corte militare abbia sbagliato. Picard continuerà l’indagine entrando in urto con i suoi superiori. Sarà arrestato e finirà anch’egli in prigione. La battaglia sembra senza speranza, ma c’è una forte mobilitazione in parlamento. Emile Zola entra in scena con l’articolo “J’accuse”. Atto di accusa con nomi e cognomi mettendo in rilievo tutte le violazioni compiute da parte della Difesa, in modo tale da essere accusato di diffamazione per poter essere portato di fronte una corte e difendersi. Il caso andò avanti per diversi anni e divise l’opinione pubblica in due schieramenti che si contrapponevano anche con toni molto violenti. Quando si ricorreva a forme di insulto, ci si sfidava a duello. Giornalisti, parlamentari e personaggi in vista dovettero iniziare a prendere lezioni di scherma per le sfide frequenti. I duelli si tenevano solitamente la mattina, al Boi-de-Boulogne di Parigi. In questa vicenda nasce il termine “Intellettuale” a partire dall’articolo di Zola, nei termini di una mobilitazione di uomini di pensiero a favore della difesa dei diritti dell’uomo contro una ragione di stato militare che voleva soffocare la riapertura del processo. È un caso paradigmatico che anticipa molte problematiche del secolo successivo. Sulle sorti di un individuo si gioca l’identità stessa dello stato e del sistema politico. Ci fu un lungo iter processuale che inizialmente riportò una nuova condanna contro Dreyfus e una condanna per diffamazione a Zola, che fuggì in Gran Bretagna per evitare di essere arrestato. Più tardi, quando divenne evidente che si fosse trattato di una macchinazione a suo danno, a Dreyfus fu concessa la grazia e nel 1906 fu riconosciuto innocente dalla corte di cassazione e reintegrato nell’esercito. Politicamente il contesto era cambiato molto. La destra era stata sconfitta, e a seguito del caso Dreyfus era emersa una nuova maggioranza politica imperniata su alcune figure come quella di Clemenceau, direttore del giornale Aurore. La Francia entrò in quella che chiamarono Repubblica Radicale, che avviò un’azione riformatrice, soprattutto nel campo della laicità dello stato e dell’istruzione pubblica, già avviata nei decenni precedenti. Lo Statuto Albertino e il governo del re Lo statuto albertino riprende la costituzione ottriata del 1814. Questa costituzione viene concessa il 4 mar 1848 si colloca nel quadro del movimento politico del ‘48 della prima guerra di indipendenza. Vi sono una serie di costituzioni: nel regno di Napoli divenuto regno delle Due Sicilie, nel granducato di Toscana e persino nel papato. Nel biennio 48-49 vi è la tendenza più radicale che trova espressione a Venezia, dove viene proclamata la repubblica, e a Roma quando nasce la repubblica romana. La repubblica romana del 1848 che sorge a causa della fuga del pontefice nel nov del ‘48 da Roma al Regno di Napoli. Questa esperienza si caratterizza per un grande entusiasmo da parte delle élites patriottiche e sono guidate dall’ala repubblicana guidata da Mazzini e che si ispira in buona misura anche alla tradizione repubblicana francese ed è la repubblica che dovrebbe essere il punto d’avvio di un processo di indipendenza che avrebbe dovuto riguardare tutto il regno. L’esperienza della repubblica romana si scontra con la reazione delle potenze europee dsoprattutto della Francia di Luigi Napoleone Bonaparte eletto alla presidenza della repubblica nel 1849. Una maggioranza conservatrice vuole andare in soccorso al papa e una flotta sbarcò a civitavecchia per porre fine a questa esperienza, in palese violazione dell’art 5 del preambolo della costituzione francese. Questa violazione era talmente evidente che le autorità della repubblica romana fecero affiggere dei cartelli lungo la via aurelia che recitava l’art 5 della costituzione francese come prova della loro palese violazione→ i soldati francesi se ne sbattono. La conquista di roma da parte dei francesi fu più difficile del previsto perché vi era Garibaldi alla guida delle truppe italiane. Le truppe francesi avevano sottovalutato la forza dei romani però riuscirono ad assaltare il gianicolo e alla fine all’inizio di luglio le truppe fecero ingresso in città. Quando però le truppe francesi stavano per prendere possesso di Roma, l’assemblea costituente della repubblica romana emanò la costituzione. Una costituzione fortemente democratica, tra i principi fondamentali vi è che “il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà e la fraternità”. L’eguaglianza diventa il primo degli elementi. Viene ripresa anche l’idea di una missione della repubblica, art 3: “la repubblica con le leggi e con le istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini”. Tutto questo viene però soffocato dai francesi, la prima guerra di indipendenza quindi fallisce. Anche gli statuti concessi dai vari sovrani vengono revocati→ ritorno alla configurazione del potere assolutistica. L’unico stato che mantiene la costituzione concessa dal sovrano è lo statuto piemontese-sabaudo del regno di Sardegna (4 mar 1848, statuto albertino). La nascita dello statuto rappresenta l’esatto opposto di un processo costituente. E’ una costituzione concessa dall’alto e non c’è nessun richiamo alla rappresentanza popolare. Lo statuto albertino nasce all’interno di un organo (il consiglio di conferenza del 3 feb 1848) presieduto dal re Carlo Alberto, cui partecipano i suoi ministri. Perché lo concedono? Sostanzialmente per paura: se non si concede lo statuto, si rischia di andare incontro ad un’esigenza da parte del popolo di una costituzione democratica magari anche repubblicana e forse anche una rivoluzione. Ministro Borelli: “a suo avviso la costituzione è senza dubbio una disgrazia ma si è arrivati al punto di scegliere il male minore per evitarne più grandi”. Conte Gallina (riunione del 7 feb): “egli crede, sebbene con un sentimento di dolore, che siamo arrivati ad un punto in cui non si può più tardare a dare una costituzione”. Nonostante le pressioni dei suoi consiglieri, Carlo Alberto prima di decidere di concedere la costituzione si attarda a capire se sia la scelta migliore o no. Passa una notte (3-4 mar) insonne (re tentenna), alla fine si fa convincere e il 4 mar viene concesso il testo dello statuto albertino. Lo Statuto fondamentale del regno di Sardegna non fu prodotto dall’attività costituente di un’assemblea appositamente convocata, ma venne concesso per iniziativa del re Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Lo Statuto Albertino rientra quindi nel novero delle carte ottriate e ricalca fedelmente il testo promulgato da Luigi XVIII di Borbone nel 1814, all’atto di salire sul trono francese dopo la sconfitta di Napoleone. Lo Statuto non venne definito Costituzione probabilmente per attenuare la sua importanza, al fine di ridimensionare i legami con la tradizione costituzionale americana e francese. Carlo Alberto si era affrettato a dichiarare che si avesse cura di non imitare le altre nazioni in modo servile; tuttavia, il documento che venne fuori dai lavori del Consiglio di Conferenza rappresentava una traduzione impoverita del testo francese del 1814, con alcuni significativi peggioramenti. La Charte francese aveva un impianto razionale: un lungo preambolo di carattere storico-ideologico introduceva settantasei articoli divisi in otto titoletti privi di numero progressivo. L’ordine consequenziale degli articoli attesta una implicita gerarchia dei principi individuati dal legislatore. La Charte si apriva consacrando il principio di uguaglianza(art.1), mentre lo Statuto Albertino sottolinea che la religione cattolica è quella di Stato (art.1). verbale o scritto del re poteva sottrarre un ministro alla responsabilità.Viceversa, lo statuto riconduceva la necessità della firma ministeriale alle leggi e agli atti del Governo (art.67), nulla aggiungendo sui rapporti istituzionali tra re e ministri che erano di fatto determinati dalla personalità del sovrano e dalla sua capacità di imporsi dei limiti. In particolare, l’art.5 dello Statuto Albertino non si limitava a indicare genericamente nel re il capo supremo dello Stato, ma gli attribuiva il comande delle armate di terra e di mare, la titolarità della dichiarazione di guerra, la responsabilità della firma dei trattati internazionali. Inoltre, sollevandolo dall’obbligo di informare integralmente le Camere, poneva le premesse per una politica regia indipendente da quella ufficiale del governo. Anche in questo caso un raffronto testuale sulla tabella sinottica consente di rilevare la distanza abissale che separava lo Statuto dalla Costituzione belga del 1831. Durante le emergenze belliche, la centralità dell’art.5 fu ulteriormente rafforzata dal conferimento al re di una regola delega legislativa a spettro ampio, mediante la quale il Parlamento aveva attribuito al sovrano tutti i poteri legislativi ed esecutivi, su proposta degli stessi ministri responsabili. Il regime dei pieni poteri caratterizza il sistema istituzionale sardo-italiano dalla concessione dello Statuto alla caduta del governo Facta (1922) in modo divergente rispetto alla tradizionale configurazione del governo parlamentare. Le carte del francesi presentavano i Ministri come collaboratori individuali del re, che non costituivano un autonomo collegio o gabinetto. Alcuni decenni più tardi, lo Statuto Albertino avrebbe adottato la medesima soluzione, malgrado nel frattempo la costituzione belga del 1831 avesse valorizzato la collegialità governativa, facendo del consiglio dei ministri il motore costituzionale dello Stato, nella delicata fase delle successioni al trono. Negli atti parlamentari quella collegialità governativa, negata dallo Statuto, darebbe stata registrata dando visibilità a un soggetto collettivo appena evocato nel testo statuario: il governo del re, affiancandogli anche l’espressione di Consiglio dei Ministri, non utilizzata dallo statuto. Già il primo decreto di nomina del ministero Balbo e gli stessi resoconti avrebbero immediatamente menzionato un soggetto politico monocratico extrastatuario indicandolo come l’esponente governativo di maggiore rilievo. Dal canto suo, la scienza costituzionale dell’Ottocento liberale italiano avrebbe bruciato le tappe influenzando le ricostruzioni manualistiche fino ai giorni nostri. Viene infatti accreditata l’avvenuta transizione di leadership governativa dal monarca al premier, retrodatandola ai primi tempi di applicazione dello statuto. Lo statuto viene concesso a ridosso della Prima guerra di Indipendenza. Si avvicendarono ben sei governi, tre dei quali esercitarono le loro attribuzioni in piena guerra, quando il re Carlo Alberto era assente da Torino. È certo che nei cinque mesi di combattimenti effettivi i tre governi guidati da Cesare Balbo, Gabrio Casati e Agostino Chiodo abbiano interagito con le Camere e svolto le proprie funzioni senza che il re, dislocato al Quartier Generale, potesse esercitare le proprie attribuzioni statuarie che risultavano però rafforzate dal conferimento parlamentare dei pieni poteri legislativi ed esecutivi durante le operazioni di guerra. A torino c’è un alter ego del re, il principe Eugenio di Carignano, nominato luogotenente generale del re; egli è abilitato a inaugurare le Sessioni parlamentari e promulgare gli atti legislativi al posto di Carlo Alberto. Nella lunga fase armistiziale che separa in due tronconi la prima guerra di indipendenza (agosto 1848 – marzo 1849) il re è a Torino. Il 21 febbraio 1849 si riunì un Consiglio dei ministri senza Gioberti (dimissionario) che vede attribuire la presidenza al ministro della guerra, Agostino Chiodo. Questo stato di necessità che aveva scisso l’unità dell’esecutivo è stato letto come compiuta transizione al sistema di gabinetto a premiership consolidata. In tal modo, con una forzatura ermeneutica che nei costituzionalisti dell’Ottocento mirava a coprire il re, è stata operata un’inedita compressione dei tempi storici. Questa ha dato per recepita in pochi mesi una forma di governo che in Gran Bretagna si era delineata nell’arco di due secoli, XVIII e XIX. Di qui la difficoltà di pervenire a una lettura coerente degli avvenimenti istituzionali, evitando gli anacronismi e le facili suggestioni. Peraltro, se pensiamo che l’applicazione dello Statuto sia stata quasi immediatamente di tipo parlamentare, privilegiando il rapporto governo-camere, rispetto al nesso re-governo, molti aspetti della storia istituzionale sardo-italiana possono risultare di non facile comprensione. Il licenziamento del governo Minghetti (28 settembre 1864) venne deciso dal re al di fuori di un voto parlamentare. Ma la revoca del presidente del Consiglio da parte del re non rientra nel paradigma del regime parlamentare. Allora, come mai un leader come Minghetti ha accettato di essere esonerato dalla presidenza del Consiglio al di fuori di un voto parlamentare? Le fonti dell’epoca prospettano lo abbia fatto perché il re stava esercitando le sue prerogative statuarie. Considerazioni analoghe potrebbero essere estese al veto espresso da Umberto I nei confronti della nomina a ministro degli esteri del generale Oreste Baratieri nell’abortito governo Zanardelli; alla copertura fornita da Vittorio Emanuele III nei confronti del governo Salandra all’atto dell’entrata in guerra (3 maggio 1915), o del governo Mussolini durante la crisi Matteotti (1924), alla neutralizzazione del governo Facta (28 ottobre 1922) e al licenziamento di Benito Mussolini il 25 luglio 1943. D’altra parte, se la massima che il re “regna ma non governa” era già operativa nel primo decennio di applicazione dello statuto, per quale motivo il governo Cavour non ha impedito a Vittorio Emanuele di assumere il comando supremo nella guerra del 1859 contro l’Austria? Probabilmente perché il presidente del Consiglio voleva evitare di fare la fine di un suo lontano predecessore, silurato e sostituito a tamburo battente da re Carlo Alberto per avere incautamente sollevato la questione del comando supremo. I contenuti forti degli artt. 5,6,9,33,35 e 65: al re capo supremo dello stato è attribuito ● Il potere esecutivo (art.5) ● La nomina a tutte le cariche dello stato (art.6) ● La nomina della totalità dei senatori (art.33) ● Nomina dell’ufficio di presidenza del Senato (art.35) ● Proroga e scioglimento della Camera dei Deputati (art.9) ● Nomina e revoca dei ministri (art.65) Questa supremazia costituzionale del re nel sistema statuario dei poteri pubblici subì una trasformazione che poté accreditare l’impressione di una compiuta parlamentarizzazione della forma di governo italiana, retrodatantola ai mesi immediatamente successivi alla concezione dello Statuto. Tanto da far leggere ancora oggi in termini di inversione di tendenza o tentato colpo di stato qualunque intervento regio, estraneo allo schema ideale, percepito dall’interprete come effettivo. È però possibile prospettare un diverso quadro interpretativo. Se la corona era qualcosa di impersonale e astratto, il re era sempre una figura storicamente determinata e materialmente concreta. L’efficacia dell’azione del re nel complesso funzionamento del sistema dei poteri pubblici era legata a un insieme di fattori: dal quoziente intellettuale all’intuito e alla rapidità di percezione e valutazione degli eventi; dalla personale esperienza di governo alla capacità di sollecitare e mettere a frutto il parere dei collaboratori; dal dominio delle passioni all’abilità nel subordinarle agli interessi di stato. Tutto questo ci riconduce a quello che poteva essere definito il mestiere di re, compito che richiedeva lungo apprendistato preparatorio prima dell’ascesa al trono e poi ferreo senso della misura e dell’autodisciplina. La routine governativa fu la prima a pagare le spese di una carenza di mestiere vissuta sotto forma di disimpiego monarchico dalla gestione immediata degli affari di governo. È possibile ipotizzare che le assenze di Vittorio Emanuele II e poi dei suoi successori alle riunioni di gabinetto fossero divenute sempre più frequenti, fino a trasformare la stessa presenza del re in un’eccezione. In mancanza di indicazioni univoche da parte delle fonti, l’interrogativo va sciolto riaggregando e analizzando i dati a nostra disposizione. La rappresentanza politica secondo lo Statuto: Senato, Camera, elezioni Art.3 il potere legislativo è collettivamente esercitato dal re e da due Camere: il Senato e la Camera dei Deputati. Il bicameralismo statario appare asimmetrico; lo attesterebbe il lessico politico dell’epoca che il Senato (camera alta) potesse essere più importante. Ma si trattava solo di un debito lessicale nei confronti di una lontana e dimenticata tradizione inglese che designava come alta la House of Lords, in alternativa alla House of Commons. Art 24-32: diritti e doveri dei cittadini. Tuttavia rispetto all’elenco delle libertà che oggi sono riconosciute dalla costituzione vi sono pochissimi diritti e moltissime limitazioni. Ex stampa: la stampa è libera regolata da una legge che reprime gli abusi; le bibbie e i testi sacri possono essere stampati solo col permesso del vescovo; quando ci si raduna in luoghi pubblici le riunioni sono soggette alle leggi di polizia. senato: nomina a vita proveniente dal sovrano, il minimo è 40 anni per accedere. Ma bisogna rientrare in 21 categorie (art 33): vescovi e arcivescovi, ministri, alti funzionari dello stato, alti magistrati, vertice dell’amministrazione, 20° Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria; 21° Le persone, che da tre anni pagano tremila lire d’imposizione diretta in ragione de’ loro beni, o della loro industria. I senatori non avevano un numero quindi il sovrano o più spesso il presidente del consiglio consiglia al re di nominare determinate persone senatori in modo tale da avere una maggioranza più modellabile (infornate del re). La scelta non era però del tutto libera, visto che lo Statuto introduceva un vincolo rigido, stabilendo che i senatori potessero essere scelti solo all’interno di ventuno categorie tassative indicate. Basterà tener presente che diciannove di esse abbracciavano tutti i possibili settori dell’alta burocrazia del regno: ecclesiastica, politica, amministrativa, militare e culturale. L’apparente rigidità del vincolo era stata temperata grazie all’inserimento di due categorie residuali che rendevano elevabile alla dignità senatorie quanti avessero “illustrata la patria” o fossero facoltosi possidenti. Proprio gli ampi margini discrezionali consentiti dalle uniche due categorie extraburocratiche avrebbero reso frequente il ricorso a esse nelle nomine senatorie. Del Senato erano membri di diritto i principi reali, purché ventunenni, ai quali era riconosciuto l’alto onore di occupare un seggio immediatamente dopo il presidente (art.34). I senatori, inoltre, fuori del caso di flagrante delitto non potevano essere arrestati, e solo l’assemblea era competente per giudicare dei reati imputati ai suoi membri. Il presidente del senato del regno era direttamente nominato dal re (art.35). forse per questo motivo gli era attribuito il titolo eminentemente onorifico di notaio della Corona che ne faceva l’estensore dei certificati di nascita, matrimonio e morte concernenti la famiglia reale, conservati presso gli archivi del Senato. Tra le nuove figure istituzionali introdotte dallo Statuto Albertino, il presidente del Senato finì con il caratterizzarsi come una delle massime autorità del regno sardo-italiano, anche per la natura semipermanente della carica che ne faceva un interlocutore privilegiato del re. Si pensi alle lunghe presidenze preunitarie del barone Giuseppe Manno e del marchese Cesare Alfieri di Sostegno o a quella postunitaria del conte Gabrio Casati. Mentre la decennale presidenza di Tommaso Tittoni dal 1919 al 1929 pone problemi di altra natura non sufficientemente indagati in sede di ricostruzione storica. A differenza del presidente della Camera che decadeva dalla carica anche in caso di semplice chiusura della sessione parlamentare il presidente del Senato occupava il suo posto per l’intera legislatura, anche a Camere chiuse. La sua non effimera permanenza in carica faceva sì che egli potesse assurgere a eminenza grigia e consigliere effettivo del re, giocando un ruolo Ai fini di una razionalizzazione del lavoro legislaivo, i deputati vengono divisi ogni due mesi per sorteggio in nove Uffici di una cinquantina di componenti; agli Uffici è demandato l’esame preliminare dei disegni di legge. Un secondo esame del provvedimento viene demandato dalla commissione degli uffici, organismo temporaneo formato da un commissario designato da ciascuno dei nove Uffici: la commissione degli Uffici è investita dalla relazione scritta da illustrare in aula. Nel cursus honorum dei deputati in ascesa, l’aver svolto le funzioni di relatore per provvedimenti significativi è titolo di merito per una eventuale futura nomina a ministro. Al microcosmo delle relazioni parlamentari sono riconducibili molte importanti pagine della storia parlamentare dell’Italia Unita. Beneficiando di un retroterra istruttorio poggiato su una documentazione vastissima, aperte agli aspetti comparativi delle questioni e alle soluzioni adottate negli ordinamenti statali europei, ricche di prospetti statistici, dati, commenti, le relazioni parlamentari sono tasselli ineliminabili ai fini della ricostruzione del percorso istituzionale del sessantennio liberale. RIGIDITA’ STATUTO ALBERTINO Alcuni interpreti dicono che lo statuto fosse estremamente flessibile e altri che sia estremamente rigido. Questo perché non prevede norme per la revisione né sarà mai revisionato. Durante il fascismo si introdurranno leggi ordinarie (le leggi fascistissime) che metteranno in secondo piano lo statuto che tuttavia non verrà modificato→ estrema elasticità dello statuto. Responsabilità politica quindi all’inizio non viene accettata, comincia a diventare elemento di analisi con il connubio: alleanza del regno di Sardegna promosso da Cavour (destra moderata dello schieramento politico sabaudo) con la sinistra moderata da Rattazzi per far crollare il movimento di centro di D’Azeglio. L’interpretazione in senso parlamentare è una forma che nasce proprio dal Connubio. Con il Connubio si realizza una nuova maggioranza di centro che emargina le ali estreme: evita che ci siano durante i cambiamenti di governo un’alternanza di schieramenti contrapposti tra dx e sx→ quanto più lontano dalla dialettica politica Whigs e Tories. Anche quando ci sarà il trasformismo si pensa che il governo spetti al partito della maggioranza che occupa il centro e emargina le ali estreme. Cavour→ trasformismo. Magistratura: due modelli che si potevano prendere cioè il common law o quello francese→ L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo. Idea di una magistratura controllata dall’esecutivo poiché l’intero sistema è “sorvegliato” dal ministro della giustizia. ASSENTEISMO PARLAMENTARE L’assenza dei parlamentari dalle più importanti sedute delle Camere diviene presto di dominio pubblico, contribuendo a irrobustire queste istanze antiparlamentari che troveranno poi nei fascismo la loro espressione più determinata. Nel primo sessantennio unitario le presenze raramente lambivano le 400 unità su un numero di seggi tra i 493 e i 508. Giugno 1867 il voto sulla corruzione popolare vide 211 assenti su 493; trasferimento della capitale a Roma (23 dicembre 1870) 211 assenze; istruzione elementare obbligatoria (legge Coppino) 280 assenti, ecc… ma non sempre i dati consentono un’interpretazione sicura. Es. votazione per limitare la possibilità di sciopero (1899): questi provvedimenti vennero contrastati dai socialisti e dai radicali, che ricorsero all’ostruzionismo, che suggerì a Sidney Sonnino (leader della maggioranza che sosteneva il governo) l’idea di modificare il regolamento della Camera per contingentare i tempi dei dibattiti parlamentari. I leader si resero conto degli effetti negativi del fenomeno in questione e stigmatizzarono la tendenza dell’assenteismo, salvo dimenticarsene quando muta il consenso. Tuttavia, tale tendenza va interpretata: l’assenteismo non va esaltato come fenomeno autoreferenziale ma correlato ai numeri della rappresentanza italiana, decisamente sovradimensionata. Torino nel 1848 ha alla Camera ben 208 deputati per una popolazione regnicola di circa 5 milioni di abitanti. Probabilmente, ciò è in parte conseguenza del fatto che quel regno ha molte anime. Non si possono sacrificare le vallate savoiarde, né penalizzare la dimenticata Sardegna. Per non annegare la rappresentanza piemontese nell’universo delle periferie del regno, si finì con l’avere un’assemblea che dopo l’Unità che arriverà a contare 508 deputati dal 1870 e 535 dopo il 1921. Raramente la metà di quei deputati onorò l’aula. La complessiva credibilità della Camera lungo tutta la fase monarchica del regno pagò uno scotto crescente per quella ennesima sottovalutazione del modo di rapportarsi alle strutture istituzionali dello Stato da parte di chi voleva essere professionista della politica. PROROGA DELLE SESSIONI PARLAMENTARI (art.9) Le sessioni parlamentari potevano durare moltissimo tempo ma avere pochissimi giorni di sessione. Grazie al meccanismo della proroga dei lavori parlamentari, questi venivano interrotti in occasione della discussione di questioni scabrose o di ordini del giorno o mozioni ostili al governo, con la promessa di una ripresa della discussione di lì a poche settimane. Ma quando si avvicinava il giorno della riapertura delle Camere, interveniva sovente un Regio decreto di scioglimento della Camera dei deputati e convocazione di nuove elezioni. Il periodo di Crispi fu molto frammentato a causa delle proroghe, che il re attuava all’improvviso. Anche nel decennio giolittiano il periodo di chiusura della Camera è di una certa rilevanza. Dal 20 febbraio 1902 al 29 settembre 1913 la Camera tenne 1568 sedute, che senza le proroghe si sarebbero potuti concentrare in 4 anni. CAVOUR Le scelte istituzionali del Regno di Sardegna saranno confermate con l’unità d’ Italia. Con Cavour, con la legge del 1853, si ha la nascita dell’amministrazione ministeriale in senso moderno, come la conosciamo oggi. Il punto di riferimento è sempre l’esperienza francese della rivoluzione e ancor di più quella napoleonica. L’amministrazione ministeriale è fondata da strutture definite articolazioni. Il sistema di accesso all’amministrazione prevedeva reclutamento basato su un periodo di volontariato di due anni si entrava a seguito di un tirocinio di due anni con l’idea che dopo questo il giovane potesse seguire tutti i gradini della scala gerarchica. “L’impiegato pubblico deve giurare di esercitare le proprie funzioni al solo scopo del bene inseparabile del re e della patria” pertanto doveva giurare fedeltà al re e allo statuto fedeltà nei confronti del sovrano, della monarchia (escludendo qualsiasi altro tipo di forma di governo) e dello statuto. Durante il fascismo si manterrà questa teoria ma si aggiungerà specificazione di adesione ai valori del nuovo regime seppur sempre con la formula di fedeltà al re e del bene inseparabile del re dalla patria. livello territoriale, sempre secondo il modello napoleonico, prevalse scelta di tipo centralistico nell’organizzazione amministrativa con la legge del 1848; si guarda pertanto al modello centralistico francese e non a quello britannico. Il territorio era suddiviso in 4 livelli, di cui i due principali erano le province (inizialmente chiamate divisioni) e i comuni. Il sindaco era di nomina regia pertanto aveva una duplice funzione: rappresentare l’identità e le richieste dei cittadini ma era anche una sorta di funzionario dello stato perciò doveva tener conto delle direttive dall’alto i quanto nominato dal sovrano. Quando i comuni iniziarono ad essere tanti il sovrano non poteva eleggere personalmente i sindaci perciò lo faceva su suggerimento del potere esecutivo. Nella provincia viene introdotta la figura del prefetto (inizialmente chiamato intendente generale, poi governatore). Nel 1861 creazione dello stato unitario ovvero unificazione dei vari stati che componevano il territorio salvo lo stato Pontificio che resta indipendente fino al 1870 e il territorio di Venezia e Friuli sotto dominazione austriaca fino al 1866 (guerra di indipendenza). Non si crea però una fusione delle realtà esistenti ma si ha una continuità tra stato sabaudo del Regno di Sardegna e nuovo stato unitario. I repubblicani avrebbero voluto creare una Repubblica unitaria con la conseguente convocazione di un’assemblea costituente per dare al nuovo stato una costituzione accettata da tutti (come accadde negli USA). Avvenne invece l’estensione del modello monarchico dello Statuto Albertino dal Regno di Sardegna a tutta l’Italia. Il sovrano era Vittorio Emanuele II (nome evidenzia continuità dinastica rispetto al Regno di Sardegna). Un altro aspetto indicativo di suddetta continuazione è la numerazione delle legislature parlamentari che parte dal 1848 e non si interrompe con l’unificazione ma prosegue. LEGGI ELETTORALI Anche la legge elettorale resta invariata con la conseguenza che la rappresentanza politica coprirà solo una piccola parte della popolazione (con i plebisciti si tentò di ricorrere ad una sorta di suffragio universale ma quando si decide di mantenere legge elettorale questa estensione viene messa da parte lasciando sistema censitario. Plebiscito: i cittadini vengono chiamati ad esprimersi su adesione del nuovo stato sempre con idea di continuità con lo stato sabaudo; “il popolo vuole Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II capo istituzionale e i suoi legittimi discendenti?”). L’Italia del 1861 contava 22milioni di abitanti di cui solo 418mila elettori ovvero l’1,9% degli abitanti totali e il 7% dei cittadini maschi adulti dell’epoca. 3 leggi elettorali: 1. A suffragio censitario (1848-82) – utilizzato solo da Milano, Venezia, Firenze e Roma. 2. A suffragio allargato (1882-1913) 3. A suffragio universale maschile (1913-21) Il profondo malessere sociale porterà all’adesione all’impresa garibaldina sia per una sorta di delusione nei confronti del nuovo stato, sia perché si comincia a far leva sul servizio militare obbligatorio, sia per il ritorno di forze legittimiste che richiamano alla dinastia borbonica spodestata si avrà la rivolta del brigantaggio. I diritti politici erano attribuiti a una ristretta aliquota i sudditi maschi di età superiore ai 25 anni. In teoria la maggiore età era di 21 anni, ma i giovani non potevano allontanarsi dalla casa materna senza il consenso dei genitori prima dei 25 anni. I diritti politici venivano riconosciuti solo ai cittadini maschi ultraventticinquenni alfabetizzati e assoggettati a un’imposta diretta annua di almeno 40 lire (art.1). imposta dimezzata per gli abitanti di Nizza, Savoia e Liguria (art.1), per laureati, notai, avvocati, ufficiali subalterni in pensione, impiegati civili a riposo con trattamento annuo di 600-1200 lire (art.4); capitani marittimi e direttori di stabilimenti industriali con almeno 30 operai (art.6); imprenditori e commercianti per l’ammissione all’esercizio del diritto di voto facevano valere il valore locativo dei locali adibti ad abitazione o esercizio commerciale (art.5). Art.39 statuto: la Camera elettiva è composta di deputati scelti dai collegi elettorali conformemente alla legge. Negli anni 60 dell’800 si ha unificazione amministrativa. Con la lege del 2 arile 1865 unificazione civilistica. Non si ha nuovo codice penale nel regno a causa del Granducato di Toscana che prima dell’unificazione aveva abolito pena capitale pertanto chiede la pena di morte non venga applicata e ottiene di non inserire codice penale (si avrà solo nel 1890 con il Codice Zanardelli). Dopo il 1875 i governi furono affaticati da continue interruzioni: dimissioni, crisi di governo, eventi imponderabili che allontanavano sempre di più la conclusione dei lavori di commissioni sempre diverse. Furono quindi necessari sei anni e la risolutezza di Zanardelli per arrivare a un risultato apprezzabile. L’italiano è parlato solo dalla classe colta che sa leggere e scrivere (formata con i classici di Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni) analfabetismo dilagante, si parla dialetto ovunque. Perciò, nel 1859, la legge Casati introduce il ciclo obbligatorio di scuola elementare per due anni che insegni per lo meno a leggere e scrivere per combattere l’analfabetismo. Strumenti pesi e misure molto diversificati, non c’era sistema metrico decimale, si usavano diversi sistemi e per molte persone il sistema metrico decimale creava confusione. Con la legge del 28 luglio 1861 si unificarono pesi e misure in tutto il territorio e stabilendo anche delle tavole di ragguaglio, ovvero comparazione delle varie misure. Al momento dell’unificazione si hanno inoltre ben 6 diversi sistemi monetari e ben 236 tipi di monete metalliche. Con la legge del 24 agosto 1861 avviene unificazione monetaria con la lira. Inizialmente prevalgono le monete, poi inizia circolazione banconote in modo lento. Viene inoltre perfezionato sistema di imposte con la creazione di un sistema fiscale unitario del regno. Chi fa parte dell’amministrazione unitaria? continuità rispetto a stato sabaudo. Nei primi due decenni l’amministrazione, soprattutto a livello di vertici, era composta prevalentemente da personale di origine settentrionale, soprattutto piemontese e ligure (proviene da Regno di Sardegna). Questo perché innanzitutto la capitale d’Italia era Torino e non era semplice dal sud raggiungerla (la classe dirigente cerca di offrire posti a gente del sud ottenendo spesso resistenza nel trasferirsi al nord), inoltre la realtà italiana era molto variegata perciò la classe italiana preferisce avvalersi di personale già consolidato quale quello del Regno di Sardegna appunto e degli stati che si erano uniti per primi allo stesso per affidarsi ad una prassi burocratica già consolidata. Maggiore integrazione si ebbe con il trasferimento della capitale prima a Firenze e poi a Roma dopo la Breccia di Porta Pia. Roma però presentò altri problemi. Nel 1870 la classe dirigente trovò che lo stato pontificio fosse lo stato organizzato in maniera peggiore. Il sovrano fu ospitato al Quirinale, il parlamento a palazzo Montecitorio che diventa subito sede della camera dei deputati (aula fatiscente costruita nel cortile, tutta il legno perciò fredda d’inverno e calda d’estate). Problemi principali riguardano ministeri, occorreva trovare alloggi per impiegati, uffici ecc. Furono requisiti dei conventi e molti impiegati andarono a lavorare nelle celle monastiche. La sede ministeriale più prestigiosa doveva essere quella del ministero degli esteri poiché si ricevevano diplomatici di altri paesi. Fu scelta come prima sede il palazzo della Consulta, di fronte al quirinale per sancire a livello simbolico rapporto col sovrano capo della diplomazia. Successivamente, nel 1822, palazzo Chigi fino al 1959. Il presidente del consiglio stava nella sede del ministero dell’interno, inizialmente palazzo Grassi (?????), dopo la prima guerra mondiale al Viminale, dopo la seconda guerra mondiale a palazzo Chigi (1959). Fu creato ministero delle finanze, scelta simbolica poiché sede vicino a porta pia, via XX settembre, dov’era avvenuta l’entrata dei bersaglieri nella capitale. RIFORMA ZANARDELLI La legge Zanardelli del 24 settembre 1882 abbassò la soglia di accesso al voto ai maschi maggiorenni di grado di saper leggere e scrivere (aver completato le scuole elementari). Erano esonerati dall’onere di fornire la prova di alfabetizzazione le categorie di professionisti e pubblici funzionari, nonché i decorati al valor civile e militare e i reduci ai quali fu riconosciuto con brevetto speciale il diritto di fregiarsi della medaglia commemorativa delle guerre per l’indipendenza e l’unità d’Italia (art.2). Erano ammessi all’elettorato tutti gli altri cittadini maggiorenni iscritti nei ruoli delle imposte dirette per la somma annua i lire 19,80; criterio che venne contestato in sede parlamentare da quanti ritenevano che il riferimento censitario dovesse essere assolutamente abbandonato, non corrispondendo ai principi sui quali deve essere fondato il potere elettorale politico in uno Stato moderno. Grazie alla riforma Zanardelli i 620k elettori del 1880 furono portati due anni dopo a oltre due milioni di capifamiglia. In realtà, il suffragio nuovo avrebbe permesso un sapiente consolidamento delle clientele. Sotto gli occhi dell’incauto Zanardelli era stata fatta scivolare una disposizione transitoria, l’art.100, che consentiva di presumere la capacità di leggere e scrivere. Sarebbe bastato presentarsi davanti a un notaio con due testimoni, redigento per iscritto una domanda alla giunta comunale con cui chiedere il proprio inserimento nelle liste elettorali. D’altra parte, la corte di cassazione di Roma aveva sentenziato che per escludere la qualifica di analfabeta bastasse scrivere il cognome del candidato sulla propria scheda elettorale. RIFORMA GIOLITTI Il primo decennio del Novecento riporta all’ordine del giorno il tema dell’allargamento del suffragio. Toccò a Giolitti presentare un’ampia riforma, grazie alla quale stemperare l’ostilità di socialisti e repubblicani nei confronti della imminente avventura coloniale in Libia. Il progetto di Giolitti, depositato alla Camera il 9 giugno 1911, venne subito deferito al vaglio degli Uffici; la commissione degli Uffici presentò la relazione il 27 marzo 1912. La legge venne approvata il 20 giugno 1912. I maschi ventunenni e alfabetizzati godevano dei diritti politici; il diritto di voto era esteso a tutti i cittadini che avessero già prestato il servizio militare; al compimento del trentesimo anno di età il diritto di voto si estendeva anche ai cittadini analfabeti. Il corpo elettorale arrivò a 8 milioni. In base alla legge furono effettuate le elezioni del 26 ottobre, con ballottaggio il 2 novembre 1919. Dopo la Grande Guerra il sistema proporzionale sostituì quello maggioritario a due turni e il diritto di voto fu garantito ai maschi maggiorenni ed esteso a tutti i minorenni che avessero prestato servizio militare nei corpi mobilitati. L’approvazione della legge 15 agosto 1919 fu merito del governo Nitti; essa portò gli elettori a 11mln. Nitti fu anche l’unico ministro degli Interni de sessantennio liberale a non ingerirsi nelle elezioni cosicché nella camera uscita dalle elezioni del 16 novembre 1919 i deputati ministeriali frantumati in varie sigle si ridussero a 248, mentre si registrò un clamoroso successo socialista con 156 deputati. Il neonato Partito Popolare, fondato da Don Luigi Sturzo, ebbe 100 deputati. Tornato al potere il 15 giugno 1920, Giolitti gestì le elezioni del maggio 1921 che si svolsero in un clima esacerbato da due anni di scontri e violenze che contrapposero i fascisti ai socialisti e ai popolari. Strumento dell’anziano statista liberale furono le liste di blocco nazionale che amalgamavano al loro interno rispettabili ex deputati e candidati fascisti. Seconda parte Prima Guerra Mondiale: l’Italia fa parte della triplice alleanza, che però è di carattere difensivo e l'Italia non si sente di entrare in guerra. Neppure la Grande Guerra determinò una stabilizzazione ministeriale. Si avvicendarono tre governi: Salandra, Boselli e Orlando. La gestione della guerra incrementò il ruolo dell’esecutivo, investito dalle camere dei pieni poteri, ridimensionando il Parlamento. Ma presto emerge una contrapposizione tra interventisti e neutralisti. Gli interventisti ritengono che sia necessario per acquisire i restanti territori di Trento e Trieste, e inoltre non si può tener fuori per il prestigio internazionale. Tra i neutralisti troviamo la maggioranza dei socialisti, i cattolici, e i liberali giolittiani. Giolitti riteneva che i territori potevano essere concessi dall’Austria anche senza un intervento militare. Tra gli interventisti abbiamo i repubblicani, la minoranza socialista (socialisti riformisti), Benito Mussolini (ex direttore dell’Avanti), i nazionalisti. I quotidiani, in specie il Corriere della Sera, sono a favore dell’entrata in guerra. Ci stanno sia correnti di entrata in guerra con la triplice intesa, o la triplice alleanza. Il parlamento ha una maggioranza neutralista, con i liberali giolittiani (anche se ora il presidente del consiglio è Salandra). Si pensava poi che la guerra sarebbe stata breve, ma nell’aprile/maggio del 1915 era già evidente che la guerra sarebbe durata a lungo, e avrebbe comportato perdite ingenti. Il 26 aprile 1915 il re, Salandra e Sonnino stipulano, all’insaputa del Parlamento, con le potenze dell’intesa, il patto di Londra. Questo per via delle concessioni territoriali di Trento, Bolzano, Trieste. L’Istria e la Dalmazia non avevano una sistemazione ancora definita. Giolitti propendeva per la neutralità perché l’esperienza in Libia aveva dimostrato l’incapacità dei generali italiani a gestire un conflitto modesto. Alla guerra si arrivò mediante un ribaltamento di alleanze: dalla triplice ci si ritrovò a fianco di Francia, Russia e Regno Unito. Vittorio Emanuele III e Sonnino volevano fortemente la guerra. 20 maggio 1915: la camera dei deputati in un clima di entusiasmo patriottico votò con 407 voti a favore contro 74 contrari i pieni poteri al governo. Anche i deputati giolittiani, per paura, votarono a favore. I pieni poteri consentirono ai gabinetti di guerra nei 41 mesi di conflitto di irrobustire la prassi della legislazione per decreto che, fino ad allora, non aveva conosciuto a cui siamo abituati. Si instaurava l’idea che l’Italia potesse fare a meno della Camera dei Deputati, ma alla luce dei fatti si trattò solo di un perfezionamento della proroga della sessione parlamentare. Si sperimenta ora la violenza politica, portata avanti da Gabriele d’Annunzio, personaggio chiave delle gloriose giornate di maggio; ovvero gruppi che assaltano i neutralisti, i parlamentari che si oppongono alla guerra. Abbiamo anche la demonizzazione dell’avversario, chi è neutralista viene deriso e non va rispettato. Emerge poi la comunicazione basata su una figura carismatica. È fondamentale ora il ruolo del sovrano, perché si sperimentano tutti i limiti della parlamentarizzazione. Questo perché il re conferma il suo pieno sostegno al governo e dunque ai patti di Londra. Il re invita Salandra a non dimettersi e presentarsi alle camere, e minaccia di abdicare se il parlamento non avesse 26 febbraio 1922: quando entrò in crisi il Gabinetto Bonomi, incapace di tenere sotto controllo la violenza delle squadre fasciste, Giolitti si guardò bene a mettersi a disposizione del re. Giolitti suggerì a Vittorio Emanuele III di nominare Presidente del Consiglio un suo luogotenente, l’avvocato Facta, che coniugava una modestissima esperienza ministeriale con una riconosciuta incapacità. Non è escluso che con questa mossa Giolitti intendesse essere sicuro di poter tornare al potere quando lo avesse voluto, a crisi passata. Nel frattempo, sarebbe stato a Cavour, in Piemonte, mantenendo con la capitale sporadici contatti. Posto alla guida di due deboli formazioni governative restate in carica due brevi periodi di cinque e tre mesi, Luigi Facta non ha cessato mai di coltivare l’idea di poter succedere a se stesso in un governo di coaizione di cui Benito Mussolini era ministro degli interni. 23 marzo 1919: si riunisce a Milano un congresso di Fasci di Combattimento. L’iniziativa della riunione era stata assunta dal quotidiano “Il popolo d’Italia”, fondato verso la fine del 1914, per favorire l’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Francia e Inghilterra. Parteciparono alla riunione gli ex combattenti già inquadrati negli Arditi, gli agitatori di matrice futurista, i redattori del giornale “Il Popolo d’Italia”; da questa miscela sarebbe venuto fuori un movimento antipolitico di massa, capace di dialogare con l’universo degli ex combattenti e veramente rappresentativo dell’Italia di Vittorio Veneto: una Nazione che dopo aver vinto la guerra cercava una classe dirigente in grado di misurarsi con i problemi della pace. Di fronte avevano una classe governativa stanza, incapace di esprimere nuove leaderships, e i partiti politici di massa (socialisti e popolari) che dopo aver avversato la guerra da posizioni neutraliste sembrava trasferissero la loro opposizione da chi quella guerra l’aveva provocata (re, Salandra e Sonnino) ai milioni di ex combattenti che l’avevano combattuta in trincea. I fascisti vedevano nei governanti e nei deputati dell’opposizione socialista e popolare i nemici da battere. Rapidamente, i fasci di combattimento divennero un movimento di massa che superava i 320k iscritti, inquadrati militarmente e presenti in quasi tutto il territorio nazionale. In tal modo, Mussolini era divenuto il punto di riferimento di un settore doppiamente determinante per l’opinione pubblica: i giovani e gli ex combattenti. Questa enorme massa non si sentiva infatti rappresentata dalla classe dirigente, che non aveva mantenuto le sue promesse. Il programma iniziale del movimento creato da Mussolini, pur assumendo già delle posizioni nazionaliste, non era ancora ben definito; aveva un’anima che sembrava preludere a soluzioni di tipo repubblicano; si faceva portatore di rivendicazioni sociali. Tra il 1920/21, nelle campagne della Padania, in particolar modo in Emilia-Romagna, le squadre fasciste vengono utilizzate dagli agrari contro le organizzazioni di contadini e braccianti. Questo dà origine allo squadrismo con una passività molto spesso delle autorità pubbliche. Il fascismo si afferma in particolar modo al centro-nord, soprattutto in Emilia-Romagna e in Toscana. Ma a questo punto, lo squadrismo non si limita più all’assalto delle leghe contadine o dei sindacati operai, e punta a colpire uno dei centri di forza del socialismo, ovvero le municipalità. Anche qui non c’è una volontà di reagire a queste violenze da parte delle autorità pubbliche, ma si adotta un atteggiamento di super partes con la conseguenza che quando questi comuni vengono assaltati, vengono molto spesso commissariati. In questo contesto, si svolgono delle nuove elezioni nel maggio 1921. Le elezioni avvengono in un clima abbastanza infuocato con i socialisti che rispondono con milizie alle violenze fasciste; basti pensare che durante il giorno delle elezioni muoiono 29 persone. I socialisti comunque mantengono una forte presenza con ben 124 seggi, 115 seggi al Partito Popolare e 15 ai comunisti. Questo conduce Mussolini ad interrogarsi su come avviare la sua marcia al potere. Nel novembre 1921, i Fasci si trasformano in Partito nazionale fascista che ha una base sociale con più di duecentomila iscritti, tra cui moltissimi ex combattenti. Per quanto riguardale forze di opposizione, di fronte a questa progressione della violenza fascista, si trova sempre più divisa. Infatti, il partito socialista si trova spaccato tra la corrente radicale dei massimalisti e quella più riformista del leader storico Filippo Turati e Giacomo Matteotti. Queste due ali alla fine si scindono e Matteotti, nell’ottobre 1922, fonda il Partito socialista unitario. A loro volta, comunisti e socialisti sono ai ferri corti. Nel 1922, l’incarico di formare il nuovo governo viene affidato a Luigi Facta, di stampo giolittiano, ma persona poco energica. A questo punto, si profila il momento decisivo che porta Mussolini al potere, la marcia su Roma. 20 settembre 1922: parlando al Teatro Sociale di Udine, Benito Mussolini aveva lanciato la parola d’ordine della Marcia su Roma, rivendicandone le ascendenze risorgimentali e garibaldine. A partire da questi giorni, si diffonde in tutta Italia la voce di una imminente quanto illegale presa del potere da parte fascista, malgrado le quotidiane smentite del Popolo d’Italia. Mussolini sta giocando le sue carte con grande abilità: da un lato accentua l’organizzazione militare delle squadre ed esaltando il lato militare dei Fasci; dall’altro, con l’Italia ministeriale, sta trattando in segreto e abilmente. Egli ha da tempo avviato trattative dirette con Giolitti, Facta e Nitti che, pure, sembrerebbe il più lontano da un accordo con il Fascismo. Mussolini fa a tutti la stessa promessa: il fascismo è interessato a un governo di coalizione e chiede solo quattro o cinque ministri, ma non gli affari interni. Quanto a lui, Mussolini resterà fuori dalla compagine ministeriale per dedicarsi al partito e pacificare il paese. Ognuno di questi eminenti personaggi crede di poter realizzare immediati vantaggi tramite la “ministerializzazione” del fascismo. Ma il gioco di Mussolini è più complesso: all’interno del gabinetto Facta dispone dell’avvocato Vincenzo Riccio, ministro dei lavori pubblici, che lo informa di tutto ciò che accade e che, da un momento all’altro, dovrà dimettersi per scatenare una reazione a catena che porterà alla crisi di governo definitiva. Mussolini vuole creare un contesto intimidatorio che faciliti la sua chiamata al governo, ma non in sottordine dei vecchi leader. Un quadrumvirato insurrezionale si installa a Perugia (De Bono, De Vecchi, Bianchi, Balbo) mentre Mussolini resta a Milano in contatto continuo con i suoi 4 liberali: Giolitti, Facta, Salandra, Lusignoli. Quando il re torna il 27 ottobre a Roma, il governo Facta si dimette ma il re respinge le dimissioni. Il governo in realtà non era più nella pienezza dei suoi poteri perché Facta ha chiesto ai colleghi di mettere a suoi disposizione i loro portafogli ministeriali. Nelle giornate tra il 26 e il 28 ottobre, abbiamo dei nuovi assalti in diverse città di Italia, che in alcuni casi colpiscono anche le prefetture. Secondo i calcoli più precisi, i fascisti presenti erano 16mila, provenienti soprattutto dall’Emilia-Romagna e dalla Toscana. Ma, a 100 km dalla capitale c’era una barriera militare, predisposta dall’esercito al fine di bloccare gli assalti. In questo contesto, il 27 ottobre Facta decide di rassegnare le proprie dimissioni, le quale vengono rifiutate da Vittorio Emanuele III. Solo quando la situazione sembra annunciare una svolta insurrezionale (28 ottobre) Facta convoca i ministri dimissionari e li convince ad approvare il decreto di stato d’assedio che prevede il passaggio automatico di tutti i poteri all’autorità militare. Non è presente la firma del re a causa dell’urgenza. L’esercito si muove senza incontrare resistenze. Ma il re finisce per rifiutare la firma del decreto, accettando le dimissioni del gabinetto. In 20 ore Salandra si accorge di essere stato giocato (Mussolini non entra nella coalizione) e si trae da parte. Il 30 ottobre Benito Mussolini è a Roma su formale invito del re, gli sottopone la lista dei ministri, e il 31 ottobre è Presidente del Consiglio. Nel dibattito storiografico, il discorso sulla marcia su Roma rimane ancora oggi aperto. Il Martucci sembra giustificare la scelta del re, mettendo l’accento sul fatto che lo stato d’assedio era generalizzato; i militari, poi, sarebbero stati leali al sovrano? Non c’è da dimenticare, infatti, che all’interno dell’esercito vi era una certa simpatia verso il movimento fascista. Emilio Gentile, nella sua interpretazione della marcia su Roma, afferma che le squadre fasciste si sarebbero sicuramente disperse e l’esercito avrebbe avuto partita vinta. Inoltre, secondo Gentile, i provvedimenti decisi dal governo, prima di deliberare lo stato d’assedio, se applicati in maniera precisa, sarebbero stati sufficienti a stroncare sul nascere i moti insurrezionali. Guerrieri è vicino alla posizione di Gentile. Un atteggiamento più reattivo da parte dello Stato avrebbe dovuto esserci già mesi prima e quindi ha posto esso stesso la base per la marcia su Roma. Fondamentale rilevanza hanno poi, secondo il prof, le responsabilità del sovrano. È importante sottolineare, infatti, il fatto che si conferma, ancora una volta, il ruolo fondamentale del re sul piano istituzionale. Dal punto di vista delle forze della sinistra, i loro scontri interni indebolivano ulteriormente il fronte degli oppositori al fascismo; i liberali, invece, avevano giocato un ruolo determinante, introducendo candidati fascisti nei blocchi nazionale del 1921. L’entrata degli squadristi nella capitale provocò 22 morti; in alcuni quartieri, come quello di San Lorenzo, ci fu una durissima lotta contro le squadre; devastazioni dei giornali e delle case di esponenti non allineati con le posizioni del fascismo. A questo punto, Benito Mussolini sale al governo, a soli 39 anni; rimarrà il più giovane presidente del Consiglio fino all’ascesa di Matteo Renzi. Alla luce delle elezioni svolte nel 1921, però, Mussolini ha solo 36 deputati e forma, così, un governo di colazione con cinque ministri fascisti e altri esponenti liberali e popolari. L’idea che si trattasse di un momento transitorio era molto diffusa e proprio per questo motivo si decise di appoggiare il nuovo governo. Che non fosse realmente così, però, Mussolini lo dimostra già con il famoso discorso del bivacco, tenuto il 16 novembre 1922. La narrazione che Mussolini fa, in questa sede, dell’episodio della marcia su Roma è quella di una manifestazione di forza che ha gestito in maniera del tutto autonoma, imponendosi lui stesso dei limiti. Afferma, inoltre, che la base di legittimazione a questa nuova esperienza governativa non sia tanto il voto di fiducia, quanto piuttosto la marcia su Roma. Da una parte, Mussolini si mostra così sprezzante nei confronti del Parlamento, ma d’altra parte pronuncia delle parole di grande rispetto nei confronti del sovrano, colui che ha saputo evitare lo scoppio di una vera e propria guerra civile. Infine, presenta il fascismo come una sorta di erede delle virtù belliche che gli italiani hanno mostrato nel contesto della Pima guerra mondiale. La fiducia viene concessa al nuovo governo con un ampio margine: 306 a favore e 116 contrari. STATO D’ASSEDIO Strumento di intervento straordinario deciso dal governo a tutela dell’ordine pubblico in situazioni di emergenza estrema. Il governo lo aveva usato 5 volte: 1862, 1894, 1898, 1908, tramite regio decreto, mentre nel 1863 era stato adottato con una legge (Legge Pica) in vigore nel Mezzogiorno continentale, finalizzata alla repressione del brigantaggio. In tutti i casi, la dichiarazione di stato d’assedio implicava l’immediata nomina di generali quali Regi Commissari in ognuna delle province interessate al provvedimento. Essi subentravano ai prefetti in tutte le loro attribuzioni civili. La documentazione relativa al grande stato d’assedio del 1862 ci dice che il varo del provvedimento ebbe una serie di conseguenza collaterali di impatto notevole sul funzionamento delle istituzioni e sulla stessa vita quotidiana degli abitanti delle province interessate. La crisi del 1922 aveva caratteri strutturali e non congiunturali, visto che essa era connotata dall’incapacità della classe politica giolittiano-salandrina di esprimere un’energica leadership. Un eventuale governo presieduto dai generali Caviglia o Diaz avrebbe dovuto fare un passo indietro, cedendo il potere a un governo civile nell’arco di un biennio: in tal modo, il problema sarebbe stato solo differito ma non risolto. Il governo istituito da Mussolini è un Gabinetto di coalizione. Questo governo è il risultato dello spoglio di tre liste di personalità tra le quali figurano nomi di primo piano come i sindacalisti di area socialista Baldesi e Buozzi e l’economista liberale Einaudi. Alla fine risulta costituita una compagine ministeriale che comprende liberali di varia tendenza e popolari degasperiani e in cui il presidente del consiglio è titolare degli Interni e ha l’interim degli Affari esteri. Accanto a lui siedono due fascisti: Oviglio alla giustizia e De Stefani alle finanze. Il re ha posto al suo fianco Diaz alla guerra e Thaon de Revel alla Marina. 16 novembre 1922: Mussolini parla alla Camera, segnando il primo e significativo strappo rispetto alla tradizione precedente: non era mai accaduto che in Italia un consesso rappresentativo venisse apostrofato con tanta alterità e veemenza; dalla sottolineatura dell’irrilevanza dell’appoggio parlamentare alla minaccia di scioglimento della Camera che metteva fine a tante carriere parlamentari. Il discorso è di grande efficacia e rende perfettamente il clima di quei giorni, con la sapiente miscela di bluff insurrezionale e di investitura regia che è alla base del gabinetto Mussolini. Il discorso è poi ancora oggi noto per alcuni passaggi intimidatori nei quali mussolini infierisce sui deputati chiarendo all’assemblea che la sua particolare posizione di Camera giolittiana uscita da elezioni ormai politicamente lontane la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni. Mussolini rivendica la continuità con Salandra perché per la seconda volta il paese ha saputo darsi un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento. Ma questo nuovo esecutivo deve farsi carico della cessazione immediata della violenza, anche di quella fascista. PIENI POTERI: il conferimento dei pieni poteri legislativi al governo si configura nell’ordinamento sardo- italiano come un istituto extra costituzionale, sul quale a lungo la dottrina pubblicistica contemporanea si interroga, chiedendosi se esso possa o meno introdurre un vulnus nella ordinaria ripartizione della funzione legislativa tra Camere e capo dello Stato. Il regime dei pieni poteri si configura in deroga agli artt. 3 e 55 dello Statuto Albertino. Per motivi straordinari, il governo del re assume l’iniziativa di chiedere alle Camere un’abilitazione generale all’esercizio della funzione legislativa, per un tempo imitato e per materie che all’apparenza risultano tassativamente indicate, anche se in realtà esse sono tanto vaste da non poter essere circoscritte. Prima del fascismo il governo aveva chiesto i pieni poteri in cinque circostanze: 1848, 1859, 1865, 1866 e 1915. L. 759/1948: il solco venne aperto con procedura non corretta dal governo Casati, presidente del Governo dopo le Cinque Giornate di Milano. Il governo si servì della delega per varare vari provvedimenti, tra cui il decreto 7 ottobre 1748 n. 897 relativo al nuovo ordinamento di comuni e province. Con la riapertura del parlamento, interrogato da Cadorna il governo dichiara cessate le facoltà straordinarie in virtù dela riconvocazione delle Camere, ma in realtà continua a far pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale altre leggi emanate in virtù dei poteri straordinari, fino a che su proposta del deputato Albini, il Parlamento non pone ufficialmente termine a questa abilitazione. Alla ripresa delle ostilità (1849) il ministro Rattazzi chiede ancora poteri speciali per neutralizzare le fazioni interne. Nell’imminenza della seconda guerra di indipendenza Cavour è però sicuro che le Camere avrebbero rifiutato di conferire al re i pieni poteri. Alla fine, i pieni poteri vennero conferiti al re e non direttamente al governo. L. 25 aprile 1859 n. 3345: predisposta da Cavour per accelerare l’annessione delle province da acquisire con la guerra, fagocitando i cessati stati dell’Italia centrale senza affrontare l’opposizione della destr legittimista della Camera. Viceversa, essa viene utilizzata quando le ostilità sono chiuse e la firma del trattato di Zurigo rende imminente la convocazione delle Camere. Per di più la legge sui pieni poteri consente al nuovo governo La Marmora di varare una massa ingente di atti normativi, tra i quali spiccano i nuovi codici, la legge di pubblica sicurezza, l’ordinamento di comuni e province, l’ordinamento giudiziario, la riforma del Consiglio di Stato, l’istituzione della Corte dei Conti, il riassetto della scuola, sanità e lavori pubblici. L. 20 marzo 1867 n. 2245: unificazione amministrativa del regno. La terza guerra d’indipendenza rinvigorisce la prassi: il 20 giugno 1866 il presidente del consiglio Ricasoli chiede poteri straordinari per disciplinare con regi decreti ambiti diversissimi: dall’economia ai culti alla tutela straordinaria della pubblica sicurezza. Approvata il 21 e 23 giugno, la legge 28 giugno 1866 n.2987 consente un pesante intervento sull’asse ecclesiastico, unita a un’ulteriore stretta impositiva che fa salire ulteriormente la già pesante pressione fiscale. Per la legge del 1866 gli avvocati Mario Mancini e Ugo Galeotti utilizzano l’espressione “via crucis” delle libertà costituzionali. L’eversione dell’asse ecclesiastico ebbe conseguenze antipopolari ampiamente sottovalutate che pesarono sul rapporto governanti-governati. Viene infatti colpito in modo duro il sistema di assistenza e carità gestito dalla Chiesa cattolica attraverso diocesi e conventi, ma senza varare un intervento surrogativo. Anche la grande guerra del 1915-18 conosce il regime dei pieni poteri, concessi il 20 maggio 1915 con una legge racchiusa in un solo articolo che abbraccia materie vastissime. Gli effetti del conferimento dei pieni poteri si fanno sentire provocando il ricorso sempre più abnorme alla decretazione legislativa d’urgenza. Si passa così dai cento decreti del 1914 ai duecentoventuno del 1915, che si riducono a 348 nel 1918. Mussolini presidente del consiglio alla fine del suo discorso ufficiale del 16 novembre 1922 chiede i pieni poteri. La Camera glieli concede per un anno, fino al 31 dicembre 1923. I decreti emanati dal Gabinetto Mussolini trattano otto gruppi di provvedimenti gestiti dal ministro delle finanze De Stefani, e miranti a una razionalizzazione degli apparati amministrativi. 1. Accoramento per fusione di alcuni ministeri e nascita dei ministeri dell’Economia nazionale, delle Finanze e delle Comunicazioni. 2. Soppressione dei ministeri delle terre liberate, del lavoro e previdenza sociale. 3. Smobilitazione amministrativa: riduzione del personale eccedente. 4. La ragioneria generale dello stato assume il controllo delle ragionerie centrali dei ministeri. 5. Istituzione del Provveditorato generale dello stato che accentra tutte le forniture dell’amministrazione. 6. Privatizzazione di alcuni servizi pubblici. 7. Riforma dell’ordinamento gerarchico della PA. 8. Nuova legge sullo stato giuridico dei dipendenti pubblici: il rapporto di pubblico impiego si distingue nettamente dal rapporto di lavoro privato. Il nuovo anno vede Mussolini entrare nei panni di presidente del Consiglio. Il re lo incontra regolarmente due volte a settimana nel Quirinale. Egli appare a Vittorio Emanuele III come un esperto della macchina dello Stato, un equilibrato e abile conoscitore di leggi, un espositore esemplare. Il biennio 1923-24 assiste anche al consolidamento del nuovo governo e a una prima costituzionalizzazione delle strutture del movimento fascista. Viste oggi, quelle misure tendoro a ridurre l’influenza dei capi locali e ad assorbire l’illegalismo delle squadre fasciste. Il tutto avvenne in un contesto di legalità intimidatoria, dove il governo si serve di una raffica di provvedimenti amministrativi per colpire non solo la stampa d’opposizione ma quella poco ortodossa. Ne farà ad esempio le spese il Corriere della Sera di Luigi Albertini. Dell’avvenuta istituzione del Gran Consiglio del Fascismo si dà comunicazione il giorno 11 gennaio 1923 attraverso il “popolo d’Italia”, che gli attribuisce riunioni mensili a data fissa dando anche conto della sua composizione interna: tutti i ministri fascisti e i membri della direzione del PNF, ai quali si aggiungono gli altri importanti personaggi tra i quali spicca il Direttore generale della Pubblica Sicurezza De Bono. A Mussolini viene immediatamente mossa la contestazione che si trattasse di un inutile doppione del Consiglio dei Ministri; per Aquarone, il Gran Consiglio funzionò da camera di compensazione, sotto il controllo diretto e rigoroso di Mussolini, delle diverse tendenze espresse dai capi più influenti, in attesa di assumere rilevanza costituzionale cinque anni più tardi per poi giocare un ruolo decisivo nella liquidazione del regime, il 25 luglio 1923, dopo anni di funzionamento intermittente. Il corpo armato viene istituito con delibera adottata dal Consiglio dei ministri il 14 gennaio 1923, senza che siano registrate opposizioni o semplici osservazioni da parte dei ministri liberali presenti nel governo né degli stessi ministri militari che rappresentano il re. variamente associata alle fasi militari del Risorgimento, chiamata ad inquadrare l’entusiasmo cittadino, la Guardia Nazionale costituì un insieme di baionette intelligenti, come furono immediatamente chiamate, destinato a entrare in crisi con la normalizzazione degli anni Settanta dell’Ottocento, fino alla definitiva eliminazione nel 1876. Corpo di polizia gratuito a disposizione dei Municipi, inquadrava obbligatoriamente tuti i cittadini in possesso dei requisiti per l’elettorato amministrativo ed era considerato dai costituzionalisti dell’epoca. Nel corso del 1923 il Partito Nazionale Fascista si interroga sulla riforma dello Stato, a partire dal Progetto Bianchi. Al centro dell’iniziativa c’è il tentativo di razionalizzare i rapporti governo/Camere, in modo da evitare che l’esecutivo potesse diventare ostaggio della propria maggioranza: dunque, un voto di fiducia a inizio legislatura e una delega ad agire configurando il presidente del consiglio alla stregua di un cancelliere. Si trattava di dare uno sbocco legislativo a un meccanismo che garantisse il governo del presidente, insediato in modo costituzionalmente ineccepibile dal re che aveva conferito l’incarico al leader espresso da un largo settore dell’opinione pubblica e che aveva beneficiato del voto di fiducia delle camere e del conferimento dei pieni poteri. Su questa proposta si scatenò una spietata critica da parte della stampa d’opposizione e dello stesso Corriere della Sera, che mostravano di non gradire una stabilizzazione dell’esecutivo, malgrado il precedente sessantennio fosse stato segnato da crisi di governo endemiche. La stampa non governativa era turbata dall’idea che una volta insediato un governo, non lo si potesse rimandare a casa per resipiscenza di una parte dei deputati della coalizione. Da parte governativa la replica non si fece attendere e nel suo comunicato dell’8 gennaio l’Agenzia italiana ritenne opportuno ricordare che il mutamento continuo dei governi è il peggio disastro che possa capitare al paese. 6 giugno 1923 LEGGE ACERBO: esso aboliva i collegi elettorali a base provinciale o interprovinciale introdotti dal’art.1 della legge Nitti 15 agosto 1919 n.1401. al loro posto vi sarebbe stato un collegio unico nazionale nel quale i seggi sarebbero stati ripartiti nella misura dei due terzi delle liste di minoranza. Veniva cioè introdotto un robusto premio di maggioranza a favore di chi avesse vinto le elezioni; salva restando l’applicazione della proporzionale a tutti gli schieramenti in lizza, qualora nessun partito avesse superato la soglia del 25% dei suffragi. Il successivo passaggio parlamentare vede come protagonisti i maggiori esponenti del liberalismo governativo prefascista. Per l’esame del disegno i legge, il presidente della Camera Franco De Nicola insedia una commissione formata da 18 deputati, scelti in base a criteri giudicati severamente in sede di ricostruzione storica. Le sinistre vi sono sottorappresentate mentre risultano sovradimensionati i liberali di ogni tendenza, ma tutti favorevoli al governo in carica, a cominciare dai quattro ex presidenti del Consiglio che accettano di entrare in Commissione: Giolitti, Salandra, Orlando e Bonomi. La commissione aveva il compito di riferire sopra un disegno di legge che ci si propone come un espediente che il governo ritiene il più adatto a soddisfare quella che pare la maggior esigenza dell’attuale momento politico: garantire la stabilità e la sicurezza di un governo che abbia vigore e tempo di menare a compimento la restaurazione della pace interna e dell’erario pubblico. 25 gennaio 1924: Vittorio Emanuele III scioglie la Camera dei deputati; le elezioni sono indette per il 6 aprile e la prima riunione di insediamento della nuova camera viene fissata 48 giorni dopo, consentendo al governo di fare a meno del Parlamento per un quadrimestre. Con un quorum del 25% dei voti era scontata la vittoria ministeriale; anche perché il controllo del ministero degli Interni aveva sempre garantito la superamento dei modelli costituzionali di derivazione sette-ottocentesca. Ritenendone gli epigoni condannati dalla storia, nell’Italia di Mussolini non poteva esserci posto per i deputati dei partiti prefascisti. Questi 18 anni producono gradualmente un’irreversibile modifica della forma di governo nel senso di un sensibile rafforzamento del vertice esecutivo, di un contemporaneo azzeramento del sistema dei partiti e della definitiva attribuzione di caratteristiche fasciste al sistema dei poteri pubblici. Ne costituisce un emblema l’elevazione del fascio littorio a simbolo dello stato. 1925-26 LEGGI FASCISTISSIME: leggi a difesa dello stato che fanno del primo ministro l’interlocutore istituzionale del re, rafforzandone le prerogative e azzerando la collegialità governativa. 1928: il Gran Consiglio del Fascismo assume il rilievo di organo costituzionale abilitato a selezionare la lista bloccata per l’elezione della camera dei deputati; esso è chiamato a pronunciarsi sulla successione al trono e sulle candidature a capo del governo. 1928-38 la camera dei deputati vive due lustri plebiscitari prima di venir trasformata in un organismo a composizione automatica: una specie di senato del regime, di cui si è membri di diritto in quanto dirigenti dei fasci locali o delle corporazioni. 1929: PATTI LATERANENSI. Conciliazione tra lo stato e la Chiesa Cattolica. I patti aprono la strada alla normalizzazione dei rapporti e al concordato tra Italia e Santa Sede. Alla stagione progettuale del fascismo istituzionale appartiene anche la codificazione: essa sopravvive tutt’ora, parzialmente emendata dagli interventi della Corte Costituzionale dopo il 1956. La guerra in Etiopia e la successiva proclamazione dell’Impero, nel 1936, introducono elementi di frizione ai vertici dello stato, proprio nel momento in cui si registra il massimo consenso del Regime. Quella vittoria militare che riequilibra e attenua le frustrazioni di Dogali e Adua esalta oltre misura Mussolni, facendogli accarezzare probabilmente l’idea che il regime trionfante possa fare anche a meno del re. È in tale contesto che esplode la crisi dei due Primi marescialli (1938), destinata a incrinare le relazioni tra Vittorio Emanuele III e Mussolini. A quest’ultimo la Diarchia comincia a stare stretta, inducendolo a ripensare a sbocchi istituzionali repubblicani nella forma di una dittatura del duce. Ma visto che la collaborazione con il re non viene troncata, anche quella formulata da Mussolini resta solo un’ipotesi controfattuale che non trova neppure un inizio di esecuzione nella prassi di governo. Durante la crisi Matteotti, il 4 settembre 1924, l’Italia costituzionale fu posta in stato di allarme perché Mussolini aveva dato il via agli studi per la riforma dello statuto. Egli aveva insediato una commissione di quindici componenti con il compito di mettere a fuoco i problemi relativi al rafforzamento dello stato in alcuni settori di estrema delicatezza (legislativo, stampa, credito, ecc.) la commissione dei 15 che venne creata per le modifiche tiene la sua prima riunione a Palazzo Venezia nel secondo anniversario della marcia su Roma (28 ttobre 1924). I quindici non avevano il compito di sovvertire la costituzione ma di completarla e rinnovarla. Sui. Temi della rappresentanza degli interessi e della riforma si sviluppa immediatamente un vivace dibattito che vede gli studiosi di area fascista intervenire sulla stampa o attraverso opere monografiche; ma gli sviluppi della crisi Matteotti e lo stesso discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 rendono ben presto inutili i lavori dei quindici, suggerendo una statalizzazione di quello che fino a quel momento è stato un organismo interni del partito. 31 gennaio 1925: un decreto del presidente del consiglio dei ministri istituisce una commissione di studio sui problemi dello stato. La commissione dei 18 (dei Soloni) si riallaccia a quella dei quindici confermandone i componenti, compreso il presidente, che resta Giovanni Gentile, più altri 4. Il gruppo si riunisce per cinque mesi: il 5 luglio il presidente può trasmettere a Mussolini i risultati dei lavori, accompagnandoli con una lettera in cui ribadisc la necessaria affiliazione del fascismo allo stato monarchico risorgimentale. Stato risorgimentale: rappresenta per la commissione una solida base su cui edificare lo stato della rivoluzione fascista; si trattava di liberale quell’antica e veneranda base costituzionale dello stato italiano dalle soprastrutture che lentamente le si erano sovrapposte e che l’avevano fatt servire a dini lontani del pensiero dei fondatori. La relazione Sui rapporti fra potere esecutivo e legislativo firmata da Barone (6 ottobre 1925) scontentò tutti proprio per la sua impostazione generale, tesa a lasciar salvo nelle sue linee fondamentale l’ordinamento politico vigente, reinterpretato in chiave protostatuaria. Questo significava centralità del re, fonte di legittimazione di un governo da lui nominato e revocato al di fuori di qualunque intervento parlamentare. Il bicameralismo dei diciotto passa per la equiparazione assoluta. Di camera e senato, lasciando a quest’ultimo il carattere di proiezione della corona, con il suggerimento di estendere le ventuno categorie senatorie previste dallo statuto in modo da aprirsi alle migliori espressioni della società civile. Quanto alla Camera dei deputati, si segue la proposta dei quindici affiancando ai collegi territoriali dei collegi istituzionali sulla base delle categorie. Accantonate senza pentimenti le proposte dei Soloni, il governo si muove per contro proprio nelle direzioni della fascistizzazione interna, delle riforme e costituzionali e delle norme Penali speciali. 12 gennaio 1925: Mussolini presenta alla camera un disegno di legge in materia di associazioni. Apparentemente, il progetto sembra finalizzato all’acquisizione di una specie di banca-dati, riservando le sanzioni solo a chi viola l’obbligo di consegnare le informazioni richieste o aderisce a organizzazioni di tipo segreto. In realtà, il provvedimento costituisce la prima risposta istituzionale all’Aventino, predispone una mappatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno, delinea un cammino irto di infrazioni possibili, tutte penalizzate con lo scioglimento e con sanzioni dirette contro gli associati. Tutti i corpi collettivi operanti in Italia hanno l’obbligo di. Consegnare statuti, atti costitutivi, regolamenti interni, elenchi di soci e dirigenti. In caso di omessa dichiarazione il prefetto procede allo scioglimento, mentre sanzioni detentive indeterminate e sanzioni pecuniarie pesanti sono stabilite a carico degli associati contravventori; con la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Per cinque anni qualora siano state date scientemente notizie false ed incomplete. Al personale dello Stato e degli enti di ogni ordine e grado è vietata l’iscrizione ad associazioni segrete o vincolate al segreto. Approvato senza difficoltà dalla camera, il progetto diventa legge il 26 novembre 1925 (n. 2029). 28 maggio 1925: il presidente del consiglio aveva presentato un secondo disegno di legge, concernente la dispensa dal servizio dei funzionari statali in base agli elastici criteri dell’art.1: fino al 31 dicembre 1926 il governo aveva facoltà di dispensare dal servizio i funzionari, impiegati e militari da qualsiasi amministrazione dello stato per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio fuori che non diano garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri. Il provvedimento aveva finalità epurati e tendeva a compattare l’apparato istituzionale in modo da farlo identificare con il progetto istituzionale fascista. La burocrazia è un esercito. Il primo vero intervento in materia costituzionale è rappresentato dal disegno di legge d’iniziativa governativa presentato dallo stesso Mussolini il 18 novembre 1925. Da un certo punto di vista il progetto dà forma legislativa alla situazione di fatto esistente da circa due anni, con la sempre maggiore preminenza del presidente sugli altri ministri. I ministri cessano infatti di essere colleghe del presidente del consiglio e si configurano quasi alla stregua di subordinati gerarchici. Con questo progetto muore ufficialmente la figura del presidente del Consiglio primus inter partes rispetto gli altri colleghi di Gabinetto e nasce una figura istituzionale ibrida, che sembrerebbe in parte assimilabile a quella del premier britannico se il contemporaneo ridimensionamento delle camere non facesse pensare a qualcos’altro. Legge 24 dicembre 1925 n.2263: attribuzione delle prerogative del capo del governo. 10 articoli che in parte esplicitano funzioni già delineatesi nella prassi del sessantennio unitario e rafforzate in direzione sempre più premierale nel triennio del “fascismo parlamentare”. Il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo. Il presidente del Consiglio cessa di essere definito tale e diviene primo ministro segretario di stato. Art 1 il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo. Costituito dal primo ministro e i ministri, segretari di stato. Art.2 il capo del governo Primo Ministro segretario di Stato è nominato e revocato dal re ed è responsabile verso il re dell’indirizzo generale politico del governo. Nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno senza l’approvazione del capo del governo. Questo segna un arretramento enorme. I ministri hanno doppia responsailità verso il re e verso il primo ministro Art.4 con regio decreto può essere affidata al Capo del Governo la direzione di uno o più ministeri. In tal caso con suo decreto egli può delegare al suo sottosegretario di stato parte delle attribuzioni del Ministro. Questo “super ministro” va quindi a disporre di 7dicasteri e sarebbe autorizzato all’art.4 c.2 ad azzerare in se stesso l’intera collegialità del consiglio dei ministri. Diventa interlocutore monocratico del re. Ma questa diarchia esecutiva non è priva di pericoli per il ministro. Avendo tagliato qualunque legame istituzionale con la camera, il primo ministro Mussolini finisce per trasformarsi in soggetto monocratico fortemente autoreferenziale e in ostaggio del re che lo nomina e lo revoca. La garanzia del capo del fascismo come capo del governo è dunque assicurata da una garanzia di tipo prepolitico la quale si affida la sopravvivenza del capo del governo. Legge 31 gennaio 1926 n.100: facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. La ratifica parlamentare dei decreti legge viene estesa a 2 anni. Può essere considerata un necessario corollario della precedente legge 24 dicembre 1925 n.2263. L legge recepisce una tendenza in atto dagli anni della grande guerra, disciplinando la vasta materia dei regolamenti organizzativi dei pubblici uffici e della decretazione provvisori, con conversione in legge nell’arco dei due anni successivi. Si vieta lo sciopero. I sindacati riconosciuti sono solo quelli fascisti, quindi viene meno la libertà sindacale. Legge 4 febbraio 1926 n.237: riserva la nuova normativa ai comuni con popolazione inferiori ai cinquemila abitanti. Sette mesi più tardi l’istituto podestarile viene esteso a tutti i comuni del regno. Al sindaco subentra il podestà, nominato con decreto reale senza alcun limite. Il prefetto ha invece la facoltà d trasferirlo in qualsiasi comune della provincia, come anche di proporre al ministero degli Interni la sua revoca. Legge 3 settembre 1926 n.1910 adatta le disposizioni della legge 237 ai comuni medi e grandi. Il podestà viene affiancato da un vice-podestà di nomina ministeriale, nel caso la popolazione oscilli tra i ventimila e i centomila abitanti; i vice podestà diventano due per le città che abbiano più di centomila abitanti. La nomina dei membri della consulta municipale resta di competenza del prefetto, se la città ha meno di centomila abitanti; diventa invece di competenza ministeriale quando le supera. Apparentemente, le leggi del 1926 recidono i legami tra gli abitanti delle città e i loro rappresentanti. Regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 dà al paese il. Nuovo testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Questo rafforzamento del potere prefettizio sarebbe stato un mezzo per arginare l’inframmettenza dei gerarchi restaurando in tal modo l’autorità dello stato. Si tratta di una lettura condivisibile, a patto che si consideri come la restaurazione dell’autorità equivalga alla criminalizzazione dell’attività politico- associativa dissidente e non solo chiaramente antifascista. 5 novembre 1926: PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLO STATO. Si configurano come una legge penale speciale, integrativa del codice penale Zanardelli del 1889, accompagnata da una disposizione giurisdizionale di una certa rilevanza. Con la legge poi del 25 novembre n.2008, qualunque attentato diretto contro le persone del re, del reggente, della regina, del principe ereditario e del primo ministro viene sanzionato co una pena di morte; con la facoltà del giudice dii limitarsi ad irrogare una pena vaniante dai 15 ai 30 ani nel caso avesse dovuto tener conto di circostanze attenuanti. L’istigazione all’attentato diventa reato autonomo punito con la reclusione da 15 a 30 anni. Si configura poi come reato la ricostituzione, anche sotto forma o nome diverso, di associazioni o partiti disciolti dall’autorità di pubblica sicurezza, con 27 febbraio 1929: il gran consiglio approva per acclamazione la lista dei 400 candidati politici da proporre al plebiscito del popolo italiano il 24 marzo dell’anno VII della rivoluzione fascista. La percentuale di votanti conosce un significativo incremento passando all’89,63%. Le nuove elezioni si svolgono nel marzo 1929. Questa legge comporta anche una riduzione del suffragio. Per essere elettore occorrono alcuni requisiti: essere iscritti ai sindacati, dipendenti pubblici, pagare 100 lire di imposte dirette, essere membri del clero cattolico, avere dei titoli di stato. Si va da 11 milione a 9 milioni di elettori. Modalità di voto: venivano consegnate due schede, una con la bandiera italiana con scritto “si” e una bianca con scritto “no”. Si lasciava nell’urna la scheda scelta, e quella da rifiutare nella cabina. Sono elezioni plebiscitarie, che il regime vuole per far vedere che il fascismo gode di grande consenso nel paese. C'è una grande propaganda anche attraverso i cinema. Non viene esposto nessun programma per il futuro, ma si chiede il consenso solo sulle realizzazioni fatte fino a quel momento dal regime. Un quotidiano “il giornale d’Italia” descrive la giornata elettorale. Nel marzo del 1929, si chiude anche la questione romana con i Patti Lateranensi e si hanno i risultati delle elezioni. Alle elezioni si sono presentati l’89% degli elettori. 98% di sì, l’1.5% di no. Con questa legge elettorale, il gran consiglio del fascismo assume un ruolo maggiore, e aumenta ancora con la costituzionalizzazione del gran consiglio. Si stabilisce che il suo parere diventa obbligatorio su tutte le questioni di carattere costituzionali. Come ad esempio la successione al trono, l’ordinamento corporativo ecc. Doveva anche tener aggiornata la lista dei nomi da presentare al sovrano, in caso di vacanza del capo del governo. Questa disposizione rimase lettera morta visto che Mussolini non aveva intenzione di avere una successione. La XXVIII legislatura del 1929, vede insediarsi due nuovi vertici istituzionali: alla camera viene eletto presidente Giovanni Giuriati, al Senato Federzoni. Regio decreto 19 gennaio 1934 convoca il nuovo plebiscito per il 25 marzo 1934; gli elettori hanno a disposizione due schede ma solo quella per il sì è colorata, quindi si comprende subito per chi si ha votato. Il no è pari allo 0,15%. Il 1938 segna una nuova svolta e il regime si sente tanto solido da poter fare a meno anche del consenso plebiscitario. Il 7 ottobre 1938 il gran consiglio del fascismo mette fine ai dibattiti della riforma della rappresentanza licenziando un disegno di legge sull’istituzione di una camera dei fasci e delle corporazioni che avrebbe preso il posto della statuaria camera dei deputati. Nella nuova camera avrebbero preso posto dei consiglieri nazionali in luogo dei vecchi deputati; essi sarebbero stati designati automaticamente in virtù della funzione svolta: membri del consiglio nazionale del PNF, del consiglio nazionale delle corporazioni e del gran consiglio del fascismo. Presentato da Mussolini all’approvazione della camera dei deputati il 29 novembre 1938 e all’approvazione del senato il 14 dicembre, il progetto diventa legge (n.129) il 19 gennaio 1939. Con l’articolo 1, la camera dei deputati viene soppressa fino alla fine della legislatura. 1938 leggi razziali: si tratta di un adeguamento alla politica antisemita di Hitler. Però esse non possono essere ridotte solo a un compiacimento al nazismo. Non faceva parte delle basi ideologiche fasciste l’antisemitismo, ma era presente già il razzismo, che diventa evidente durante la guerra di Etiopia. La razza ariana va protetta contro la corruzione attraverso rapporti di razze inferiori. Il 18 settembre 1938 Mussolini tiene un discorso sul problema ebraico. Viene fatto un censimento degli ebrei, e comincia l’emarginazione che sarà alla base delle persecuzioni durante la guerra. STRUTTURE DELLO STATO FASCISTA Già con il primo governo del ‘22 Mussolini immette un personale fascista nella PA e nel settore dei prefetti in particolare. Anche nel caso dei prefetti però non si avrà una totale omologazione, perché manterrà anche prefetti di carriera. Mussolini alla fine preferisce arrivare a un compromesso con le élite amministrative già presenti. Viene introdotta una forma di epurazione, che si concentra con licenziamenti nelle ferrovie e nelle poste, perché c’era simpatia verso il partito socialista. Si arriverà poi anche a un’epurazione politica, ma di livello limitato. La struttura ministeriale quindi rimane sostanzialmente quella dello stato liberale. Nel 1932 con un decreto del capo del governo, si stabilisce l’obbligo di iscrizione al partito fascista per l’ammissione agli impieghi pubblici. 1931: si introduce il giuramento dei professori universitari al fascismo. All'epoca c’erano 1200 docenti, solo 11 rifiutarono di prestare giuramento, e 3 richiedono il collocamento a riposo, tra cui Vittorio Emanuele Orlandi. Molti docenti si rivolsero a Benedetto Croce per come comportarsi riguardo questo giuramento, se aderire o meno. Croce consigliò a molti di rimanere all’università con la motivazione che è meglio giurare al fascismo e continuare a formare le persone che non sono allineate al regime, anziché andar via lasciando il posto a docenti fascisti che avrebbero indottrinato gli studenti. Nonostante ciò, questo risultato fu un punto di forza per il regime. Il giuramento era particolarmente impegnativo, interveniva sulla funzione del docente. Si chiedeva di osservare lealmente lo Statuto e le leggi statali, adempiere ai doveri accademici con il proposito di formare cittadini devoti alla patria e al regime fascista. Si implicava che il docente si impegnasse nella sua pratica dell’insegnamento egli volesse formare cittadini allineati al fascismo. Ci sono cambiamenti anche nella vita quotidiana. C'è una grande battaglia contro il “lei”, bisognava usare il “voi”. Questo sia negli atti che nella vita quotidiana. Si sostituisce il saluto romano alla stretta di mano. Si rifiutano anche le parole straniere, avviene un’italianizzazione forzata di vari termini. Ad esempio “chauffeur” diventa “autista”, “bilancio” in alternativa a “budget”, “dubbing” diventa “doppiaggio”, “cocktail” diventa “arlecchino”, “dancing” diventa “danzatoio”, invece di “flirtare” si diceva “fiorellare”, “tennis” con “gioco della racchetta”. Viene creata la facoltà di scienze politiche nel 1925. Il progetto deriva da studi emersi già nell’età liberale. Le donne non vennero inserite nell’amministrazione, ha un ruolo solo a carattere familiare. Per quanto riguarda il lavoro operaio o nei campi, può lavorare solo in questioni di necessità. Invece negli uffici pubblici, si riteneva che il lavoro non fosse una necessità, e dunque la donna non poteva accedervi. Decreto 1938 si stabilisce una percentuale massima del 10% di assunzione delle donne negli uffici pubblici e privati. Per i privati, si stabiliva che se c’erano delle donne in più del 10% dovevano venire licenziate entro 3 anni. Per il diritto di voto alle amministrative, le donne madri o vedove di caduti in guerra ottengono nel novembre del 1925 l’inclusione alle liste elettorali nelle amministrazioni locali. Questa norma però non entrò mai in vigore, visto che subito dopo vennero abolite le elezioni ai consigli provinciali e comunali. RAPPORTO CENTRO-PERIFERIA A livello generale, cambia il concetto di rappresentanza. Riforma del comune: con due leggi del ‘26 viene sostituito il sindaco elettivo. Abbiamo il podestà ora, che non viene più eletto ma scelto dall’alto tramite decreto reale. Si scioglie anche l’ANCI. Il fascismo introdusse nuove provincie. Nel 1927 ne vengono create 17, tra cui Viterbo, Frosinone, poi Littoria che diventerà Latina. Si crea un organo monocratico nelle provincie che si chiama “Preside”, esso viene coadiuvato dal “Rettorato”, entrambi nominati da decreto reale. 1925 si crea il governatorato di Roma, con un governatore di nomina regia. Con il fascismo abbiamo un’ulteriore valorizzazione dei Prefetti. Nel momento di dissapori tra prefetti e segretari di partito a livello locale, Mussolini prende le parti dei primi, ritenuti la massima autorità del regime a livello provinciale. I segretari di partito dovevano adeguarsi ai prefetti, quindi. Il corporativismo era una delle più importanti bandiere ideologiche del fascismo, considerate necessarie per porre fine alle lotte di classe. Nel 1927 si pubblica la Carta del lavoro. 1930 si crea il consiglio nazionale delle corporazioni. Febbraio 1934 si istituiscono 22 corporazioni. Il sistema corporativo si è caratterizzato per moltissima retorica e poca sostanza, al contrario degli enti pubblici: diventano una presenza nell’economia e nella società. Da una parte si richiedono degli attestati di partecipazione al fascismo dall’altro Mussolini mantiene una sorta di compromesso con l’apparato burocratico tradizionale. I ministeri rimangono quelli dell’età giolittiana. Due fasi dell’economia: • prima: fase di tipo liberista, il compito principale del fascismo è quello di liberarsi il più possibile da questa macchina statale così pesante come quella della guerra→ si vuole mettere fine all’interventismo della guerra e si riduce il numero di dipendenti pubblici • seconda, dopo la crisi di Wall Street: ritorno ad un’idea di interventismo pubblico. Si parla di amministrazione parallela = ha dei canali paralleli a quelli tradizionali della burocrazia ministeriale. Si manifesta in due modi: o l’azienda di stato: ex ferrovie, rientra nell’ambito dello stato o enti pubblici: ha personalità giuridica autonoma rispetto a quella dello stato, modello che ha più fortuna. Alberto Beneduce. I più importanti sono creati negli anni ‘30: IMI 1931, IRI 1933. Sono elementi centrali contro la crisi economica, soprattutto l’IRI e ha un ruolo centrale per tutta la politica economica del fascismo. Tra Mussolini e Beneduce si instaura un rapporto molto stretto. Beneduce diventa colui che immagina e progetta le linee di fondo della politica economica degli anni ‘30. IRI anche protagonista di una importante riforma dello statuto della Banca d'Italia con la quale le viene fornito un grande potere di revisione dei conti pubblici. Dal punto di vista della selezione del personale si cerca un personale molto ben preparato e competente. Nasce l’INFPS, INFAIL. Molti altri enti, alcuni di natura molto tecnico-settoriale e altri di natura fortemente propagandistica→ il principio della competenza non tiene ex gioventù italiana del littorio creata nel ‘37 e racchiude tutte le organizzazioni giovanili fasciste. Anche il CONI preesistente al fascismo ma fascistizzato nel 26: per il fascismo lo sport è strumento di propaganda. Istituto LUCE, l’EIAR (-- > RAI).
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