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STORIA CRITICA DELLA PSICOTERAPIA – Riassunto COMPLETO e DETTAGLIATO, Sintesi del corso di Psicologia Clinica

Riassunto COMPLETO e DETTAGLIATO dell'ultima edizione del libro "STORIA CRITICA DELLA PSICOTERAPIA", perfetto per sostenere in modo ottimalee l'esame senza la consultazione del libro originale. Vi chiedo il favore di commentare per farmi sapere come vi siete trovati: avendoci messo molto impegno, ci tengo molto. :) Buono studio!

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 13/07/2023

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Scarica STORIA CRITICA DELLA PSICOTERAPIA – Riassunto COMPLETO e DETTAGLIATO e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! STORIA CRITICA DELLA PSICOTERAPIA (R. Foschi, M. Innamorati) CAPITOLO 1: LE CURE DEL MENTALE DALL’ANTICHITÀ ALL’EPOCA MODERNA 1.1. La storia e le storie della psicoterapia La psicoterapia non è una disciplina a sé stante, ma un’appendice di altre discipline (psico- logia clinica, psichiatria, psicoanalisi). Solo negli ultimi anni, alcuni storici hanno iniziato a descrivere le diverse discipline scienti- fiche come un processo di co-costruzione comprendente tutte le espressioni culturali che nei diversi periodi storici le hanno condizionate, tenendo conto del contesto politico e sociale in cui i loro attori si trovavano. Nel caso della psicoterapia, gli attori comprendono psicologi, neurologi, psichiatri; ma anche pazienti, idee e istituzioni. È emerso così un quadro caratte- rizzato da periodi lineari di quiete, crisi e specifiche rotture che portavano a cambiamenti di paradigma. Come tutte le discipline, anche la psicoterapia si è declinata in modi diversi nel- le differenti culture, usando diverse prospettive epistemologiche. Negli ultimi anni, riviste internazionali hanno dedicato articoli alla storia della psicoterapia, e la categoria della Guerra Fredda è divenuta centrale per caratterizzare lo sviluppo della psicoterapia nel 20° secolo. Tale storiografia ha così portato a una frammentazione della storia della psicoterapia e a evidenziare soprattutto potenziali aspetti negativi legati alla sua diffusione, come l'idea che si trattasse di una tecnica al servizio dei conflitti politico- culturali durante la Guerra fredda, una manipolazione specifica della società consumistica, o a individuare nelle psicoterapie più originali (espressive, religiose, meditative, orientali) una possibile alternativa positiva rispetto alle contraddizioni della psicoterapia tradizionale. 1.2. Un patchwork terapeutico Il termine psicoterapia ha una genesi non precisa; fu Bernheim (1891) a usare il termine con un’accezione relativa a un intervento psicologico che si autonomizzava da quello medico e ipnotico, giocando sull’importanza della relazione suggestiva a scopo terapeutico. Per comprendere le origini della psicoterapia, potrebbe occorrere risalire al momento in cui l’uomo si consapevolizzò del problema della sofferenza psichica e tentò di comprenderne l’origine e di curarla o alleviarla. Per definire il campo della sofferenza psichica è opportuno ricollegarsi a un concetto più ampio: quello della follia. Follia = modalità di sofferenza o di malattia del tutto invalidante, ai fini di una vita personale e relazionale adeguate. La storia della cura della follia coincide con quella della psichiatria, della psicologia clinica e della psicoterapia: si identifica con le modalità di trattamento riconducibili a un approccio di tipo medicalisitico o organico. Il territorio della psicoterapia prende in considerazione anche modalità di disagio psicologico più blande e in alcuni casi si spinge a perfezionare un vissu- to già soddisfacente che però si ritiene di poter migliorare. A partire da quando la sofferenza psichica è stata percepita come problema, si sono affacciate sulla scena anche diverse cate- gorie di attori: (1) tecnici deputati a curare i sofferenti; (2) giuristi dediti a proteggere i sof- ferenti o a limitare le loro azioni; (3) artisti volti a descrivere drammaticamente la loro con- dotta; (4) filosofi interessati a comprendere la natura della sofferenza. 1.3. La preistoria della psicoterapia Le interpretazioni “primitive” della malattia sono riconducibili a 3 gruppi: 1. perdita dell’anima o sua fuga dal corpo del sofferente; 2. penetrazione magica di un oggetto all'interno del suo corpo; 3. possessione dell’uomo da parte di spiriti malvagi. Le più antiche modalità di cura consistettero in rituali magico-religiosi volti a liberare il sof- ferente dall’entità responsabile della sua condizione o al recupero dell'anima perduta. Rimane traccia della pratica di rituali volti alla guarigione da parte dei Babilonesi, che cer- cavano di identificare i demoni possessori tramite metodi oracolari e astrologici e pregavano differenti divinità per liberare il malato, a seconda del demone ritenuto responsabile. Inizialmente la distinzione tra sofferenza psichica e fisica era approssimativa. La sofferenza causata da entità soprannaturali era interpretata come priva di colpa da parte del sofferente. L’uso di amuleti e talismani poteva prevenire o pacificare l’intervento di spiriti e demoni. Alcuni papiri egiziani (1550 a.C.) testimoniano di una distinzione tra malattie curabili con mezzi fisici e condizioni patologiche di fonte magico-spirituale, per le quali vengono sugge- riti incantesimi come rimedio. Le stesse fonti descrivono inoltre, per la 1ª volta, il cervello come sede delle funzioni mentali. La medicina egiziana e babilonese influenzarono la cultu- ra ebraica: oltre a descrivere estesamente diversi quadri, gli Ebrei suggerivano di lasciar par- lare liberamente l’ammalato dei propri disagi e di proporre la distrazione e il cambiamento di abitudini come sollievo per la sofferenza psichica. In generale, salute e malattia erano considerate premi o punizioni impartiti da Dio in conseguenza della condotta umana. Se- condo la Bibbia, se la sofferenza psichica o fisica (es. malattie come l’asma) era considerata di origine demoniaca, si credeva che la presenza del demone fosse causata da un’iniziativa divina, e sempre a Dio competeva la liberazione dal demone. 1.4. La Grecia arcaica e classica L’influenza del pensiero greco sulla storia della psicoterapia è vasta. L’etimologia della pa- rola deriva da psychëe therapeia (“anima” e “cura”). La nascita della filosofia iniziò ad atti- rare la riflessione sulla natura dell’uomo. Dei primi filosofi esistono solo sparsi frammenti e testimonianze indirette, che hanno portato a interpretazioni diverse e disparate. La tradizio- ne di pensiero dell’Orfismo iniziò a delineare l’esistenza di un’anima indipendente dal cor- po, che da esso può addirittura staccarsi. Alcuni dei primi filosofi greci (es. Socrate) ritene- vano che l’anima preesistesse al corpo e gli sopravvivesse. Un’altra linea di pensiero è di Aristotele, secondo cui: corpo = materia; anima = forma. Non è quindi possibile che l’anima si separi dal corpo e gli sopravviva. Il disturbo mentale consisteva solo in un comportamento strano, e non vi era curiosità per il particolare psicologico. Col tempo, la possibilità di alterare la condotta umana diventò spe- cificamente compito di un demone, che iniziò ad assumere lineamenti diversi e poté essere identificato col male o col destino. Poté diventare, infine, “una sorta di elevata guida spiri- tuale, una sorta di Super-io freudiano”. Questa visione così articolata e polifonica della mente e delle sue influenze naturali e sovrannaturali condusse anche la filosofia a occuparsi della salute mentale; parallelamente se ne occupò la medicina, specie grazie a Ippocrate. Al pensiero filosofico greco possono essere ricondotte riflessioni concernenti l'identifica- zione, la classificazione e la prevenzione dei problemi psicologici, e la cura della psiche. Il mondo greco tra Omero e Platone vede un passaggio dell'uso della parola a fini terapeutici dalla “preghiera” all' “incantesimo” e da quest'ultimo alla “persuasione”, cioè a una vera e propria forma di psicoterapia. A Socrate e Platone può essere attribuito già un ruolo impor- tante nella storia della psicologia e della psicoterapia. Fu infatti Socrate a identificare per la 1ª volta la necessità di una “terapia della psiche”, avente la stessa dignità della terapia fisica, e consistente in “discorsi belli, dai cui cresce nelle anime la salvezza” praticati da maestri terpretazione. Ognuna di queste concezioni si poté sviluppare prima dell'avvento della civil- tà greca (es. l’idea di un possibile simbolismo era presente anche nell'Antico Testamento) ma, in ogni caso, in Grecia si sviluppò una concezione complessa che condusse a un possi- bile uso terapeutico del sogno. Già dai poemi omerici è possibile dedurre una distinzione tra diversi tipi di esperienza oniri- ca: sogni in cui il sognatore riceveva la visita di un personaggio e assisteva passivamente; sogni che esprimevano preoccupazioni (o incubi); sogni che esprimevano la realizzazione di un desiderio; in secondo luogo, una dicotomia tra sogni interpretabili perché dotati di signi- ficato (specie quelli inviati dagli dèi) e sogni non interpretabili. Esistevano professionisti addetti all’interpretazione del significato (profetico) dei sogni. Sia Platone che Aristotele si occuparono del significato dei sogni. Si attribuivano alla man- canza di moderazione, soprattutto in cibo e bevande, i sogni descriventi comportamenti estremi (es. sesso con la propria madre). Lo Stagirita negava che gli dèi inviassero messaggi agli umani attraverso i sogni, ma definì comunque i sogni come demonici. Alcuni erano veridici anche secondo Aristotele. Talvolta avrebbero fornito notizie sullo stato di salute del sognatore; talvolta avrebbero elaborato so- luzioni ad alcuni problemi e quindi sarebbero stati una sorta di profezie autoavverantesi. Artemidoro distingueva il sogno vero e proprio dall'enypnion, che consisterebbe nella rea- lizzazione allucinatoria di un desiderio, come previsto dalla freudiana Interpretazione dei sogni. Tra i sogni veri e propri, egli distingueva quelli teorematici (la cui previsione si sa- rebbe realizzata a breve termine) da quelli allegorici (che avrebbero previsto eventi di più lontana realizzazione). 1.7. Medicina, filosofia e salute mentale in epoca ellenistica e romana Il periodo che va dalla fondazione di Alessandria alla conquista romana dell’area mediterra- nea è noto come età Ellenistica. In tale periodo la filosofia vide lo sviluppo soprattutto della scuola scettica, di quella stoica e di quella epicurea, mentre la medicina venne dominata dall'influenza della cultura ippocratica. A Dracone di Kos (4° secolo a.C.) viene ascritta la nascita di una scuola dogmatica in medicina, i cui adepti erano convinti che, avendo ormai Ippocrate scoperto tutto l'essenziale in ambito medico, ulteriori ricerche fossero superflue. Nell’ambiente romano, tuttavia, il massimo successo toccò inizialmente alla scuola metodi- ca, il cui capostipite era Asclepiade di Bitinia, che si oppose alla concezione ippocratica de- gli umori con una teoria fondata sulla solidità del corpo umano. La scuola dogmatica aveva prescritto ai pazienti terapie spiacevoli, basate sulla purificazione e su regimi dietetici ri- stretti per recuperare l’equilibrio degli umori corporei. Asclepiade, invece, basava la cura sull’idea di restituire agli atomi la loro motilità attraverso mezzi meccanici: massaggi, camminate e “ogni sorta di esercizi ‘passivi’ in cui il corpo si contenta di lasciarsi agitare”. Significativa è l’idea della necessità di un miglioramento del morale del paziente, ottenuto attraverso prescrizioni piacevoli da osservare, come cicli di bagni caldi rilassanti e degusta- zioni di vino. Per Asclepiade i problemi andavano risolti in modo rapido e senza pesare sull’ammalato, e propose una classificazione delle malattie da considerare mentali. All'interno della scuola metodica si collocava anche Sorano di Efeso, noto per l'opposizione nei confronti delle misure restrittive verso le sofferenze psicopatologiche. Sorano fu il 1° a considerare i fattori culturali nella cura delle malattie mentali, proponendo prescrizioni su cosa si dovesse dire e leggere ai pazienti. Prescriveva trattamenti con mezzi psicologici, mi- nimizzava l’uso dei farmaci e sottolineava l'importanza della relazione paziente-terapeuta. Celio Aureliano tendeva a distinguere tra cause fisiche e cause psicologiche della malattia mentale, con l’idea che la diagnosi di tutti i tipi di malattia dovesse essere condotta tenendo in considerazione tutti i sintomi senza isolarne alcuni dal contesto. La scuola eclettica in campo medico vedeva il primo rappresentante storicamente accertato in Cornelio Celso. Egli considerava la follia una malattia fisica, riconducibile alle febbri du- rante le quali spesso si osservavano stati deliranti transitori, proponendo di applicare le varie tecniche a seconda dei casi. Così inaugurava una prassi pseudoscientifica per cui poteva ri- sultare utile tutto ciò che sembrasse migliorare lo stato del singolo paziente, usando in modo eclettico tutte le possibili “cure” a disposizione. Altro esponente della scuola eclettica fu Galeno, considerato per quasi un millennio e mezzo la principale autorità in campo medico. I suoi principi terapeutici sopravvissero fino alla scoperta della circolazione sanguigna da parte di W. Harvey. Altrettanto durevole fu la sua influenza sul pensiero psicopatologico, che per secoli si limitò a rielaborare la dottrina di Ippocrate dei 4 temperamenti/umori. Galeno infatti costruì una medicina sistematica, sinte- tizzando il sapere medico a partire soprattutto dal recupero della tradizione ippocratica, cui egli attribuiva la radice di ogni progresso nel campo. Dalle sue opere si ricavava una totale sfiducia nei confronti della filosofia slegata sia dalla logica sia dai fatti. Di contro a tale filo- sofia egli poteva esaltare la medicina, in grado di offrire un orientamento fondamentale alla conoscenza, perfino in senso teologico o teleologico. Il medico, comunque, "resta un tera- peuta di organi”. L'idea di una malattia mentale indipendente dal fisico rimaneva del tutto assente dalla sua prospettiva. A Galeno può essere però ricondotta anche la matrice di una figura accostabile a quella del- lo psicoterapeuta. Il punto di partenza di Galeno è che il controllo delle passioni sia princi- pio imprescindibile della salute (non solo psicologica) individuale e il modo migliore per evitare errori esistenziali. Tuttavia, per controllare le passioni il 1° passo era quello di dia- gnosticarle, e la diagnosi su sè stessi era impossibile. Si rendeva dunque necessario farsi aiutare da un personaggio neutrale e sincero. La diagnosi era però solo il 1° passo: lo sforzo individuale avrebbe dovuto consistere nell'evitare le manifestazioni più evidenti delle pro- prie passioni, iniziando un percorso di miglioramento che poteva durare a lungo ma che sa- rebbe risultato comunque di fondamentale importanza. 1.8. Medicina e filosofia nel tardo Impero Romano e nell’Oriente Islamico La morte di Galeno (200 d.C.) viene identificata con l’inizio di un declino della cultura me- dica. Con la caduta dell'impero d'Occidente e la deposizione del suo ultimo imperatore Ro- molo Augustolo, la fiaccola della civiltà romana rimase accesa solo grazie all'Impero d'O- riente. L'affermarsi del Cristianesimo come religione imperiale, peraltro, determinava un so- spetto sempre più forte nei confronti della cultura pre-cristiana, in quanto dipendente da convinzioni religiose “pagane”; il sospetto si trasformò nella tendenza a cancellare le tracce della civiltà più antica. Dopo la chiusura delle scuole filosofiche, si ebbe una sorta di esodo verso il Vicino Oriente degli intellettuali residui, che iniziarono la traduzione nelle lingue locali dei classici greci (oltre a fondare scuole mediche, che fiorirono nei secoli successivi). Solo allorché, dopo il 1100, l’Europa iniziò ad avere scambi anche culturali col mondo islamico, la cultura occidentale recuperò una parte significativa della cultura greca, arricchi- ta nel frattempo dall’apporto di persiani e arabi. I musulmani (8° sec.) costruirono precocemente istituzioni ospedaliere per la cura dignitosa dei malati anche poveri, diversi dei quali contenevano reparti specifici per malati mentali. I 2 filosofi arabi più importanti furono anche medici. Forse anche per questo, di alcuni dei più illustri rappresentanti della tradizione medica è attestato l’uso cosciente della parola a scopo terapeutico (attraverso la suggestione). Kay Ka'üs ibn Iskandar, principe persiano, suggeriva che l’aspetto suggestivo potesse risul- tare fondamentale in ogni terapia medica. C’è chi ritiene che il più celebre libro della tradizione arabo-persiana, Le mille e una notte, possa essere interpretato come il racconto di una vera e propria psicoterapia durata 3 anni. La vicenda si sviluppa dalla follia di un sultano che, tradito da una moglie, decide di vendi- carsi uccidendo ogni nuova sposa dopo la 1ª notte di nozze. La sequenza di uccisioni si fer- ma quando una delle predestinate attua una talking cure, raccontando ogni sera al sultano una storia che concluderà la sera dopo, finché il sultano non si innamora di lei e rinsavisce. 1.9. La sofferenza mentale tra medioevo e rinascimento Tra Medioevo e Rinascimento, il filtro del Cristianesimo ha condizionato la cultura e lo svi- luppo delle idee sulla sofferenza mentale. La cultura del Cristianesimo medievale ha assor- bito e usato ambedue le alternative del pensiero greco - la follia come trauma morale o come malattia - ma conciliandole all'interno di una cosmologia che vedeva la follia come manife- stazione della divina provvidenza. La teologia cristiana considerava la follia in un modo suo peculiare, interpretando il disordine mentale come effetto della guerra per il possesso dell’anima, la cosiddetta psichomachia, combattuta tra Dio e Satana. La sintesi tra il mondo greco-romano e il Cristianesimo trovò la sua massima espressione nella figura di Agostino di Ippona, ricordato soprattutto per la straordinaria finezza delle sue analisi psicologiche, che ricordano la profondità del metodo fenomenologico. Nonostante dipingesse la sessualità come tentazione e peccato, egli ne sottolineava l’importanza nella vita umana con accenti raramente toccati in precedenza. Descrivendo l’amore della propria madre, intenzionata a riavvicinarlo alla vita cristiana, Agostino rivelava un triangolo edipico nella propria storia giovanile. La possessione diabolica fu inoltre un tema ricorrente nelle narrazioni medievali riguardanti la psicopatologia. Il grande potere che Satana poteva esercitare sugli uomini, iniziò a essere usato come spiegazione delle malattie sia mentali che fisiche. Poichè si supponeva che Sa- tana marchiasse i suoi accoliti, la ricerca dei “segni diabolici” divenne parte del procedi- mento diagnostico. Le pratiche di esorcismo divennero parte delle cure necessarie per le ma- lattie. Alcuni Padri della Chiesa tesero a considerare la medicina spirituale come l’unica medicina legittima: la recitazione di preghiere e formule accompagnava sempre la sommini- strazione di eventuali altre forme di cure. Da una parte, il Cristianesimo monopolizzò in Oc- cidente la cura delle anime, con uno schema di pensiero che si focalizzava sulla vita eterna piuttosto che su quella terrena. Dall’altra, anche la cura dei corpi divenne ambito specifica- mente religioso. La medicina tese a essere praticata a lungo soprattutto nei monasteri. L'influsso della medicina ippocratico-galenica favorì una lunga tradizione trattatistica che rinnovò stancamente il principio dell’influenza dei temperamenti e degli umori sulla salute mentale. Infine, l’atteggiamento dei governanti verso i malati di mente oscillava tra l’indifferenza e la convinzione che piuttosto che una cura, fosse necessaria una loro reclu- sione; fu quest'ultimo atteggiamento a prevalere col tempo. Nella tradizione filosofica me- dievale, comunque, si sviluppò anche un pensiero che tendeva a non attribuire la sofferenza mentale né al corpo, né alla presenza di demoni (o almeno non solo a essa). Di tale tendenza fu espressione D'Aquino: per lui, gli umani diventavano inaccessibili alla relazione umana a causa della perdita della ragione, che poteva non essere causata da una lesione organica. Un’ulteriore forma di perdita della ragione era l’insania, frutto dell’abbandono dell’uomo vennero vere e proprie cittadelle o fattorie autosufficienti, grazie al lavoro degli internati. Solo con lo smantellamento degli ospedali psichiatrici, al radicamento di una nuova psichia- tria e alle influenze della psicoterapia, ma anche a vere e proprie cause intentate contro lo sfruttamento lavorativo dei malati, la terapia del lavoro scomparve. 1.13. I bambini e il trattamento morale Fra gli alienisti post-rivoluzionari e poi fra i positivisti si diffuse l’idea dei bambini come individui a uno stato evolutivo inferiore rispetto a quello degli adulti e che, per questo, ne- cessitavano di un’educazione finalizzata a favorire la normalità di una crescita che, altri- menti, avrebbe deviato verso un’irrimediabile perversione del carattere. Venne così svilup- pata una terapia morale per i bambini simile a quella per gli adulti, e furono fondati i primi reparti dedicati a loro. Tuttavia, alcuni medici rivoluzionari espressero un punto di vista ot- timistico sulle capacità di sviluppo del bambino, elaborando il principio dell'educabilità. Già Rousseau aveva diffuso il principio illuminista per cui i bambini, in principio, avrebbe- ro delle virtù disposte alla bontà, che solo a causa di una società inadeguata si indirizzano verso il male e la perdita dell’innocenza. L'educazione era considerata utile così a favorire e accompagnare lo sviluppo della vera e positiva natura del bambino. In particolare Itard e Séguin, oltre a elaborare strumenti e tecniche di osservazione dei bam- bini, si preoccuparono di modificarne la personalità. Per questi l’idiozia infantile non era una malattia, ma segnale di un arresto dello sviluppo che poteva essere recuperato con un’educazione adeguata. Itard elaborò così una serie di tecniche comportamentali per mora- lizzare il comportamento del fanciullo selvaggio e arricchire il suo bagaglio linguistico e simbolico, al fine di un suo recupero nella società. Iniziò così un lungo dibattito sul peso specifico dell’eredità o della cultura nello sviluppo individuale; emerse l'idea che esistessero periodi sensibili dell'educazione e che, poste certe condizioni di apprendimento, gli indivi- dui avrebbero un'attitudine naturale ad apprendere. Itard e Séguin furono così fra i primi a ritenere educabili i bambini con un ritardo mentale. Tale tradizione psicopedagogica portò, in seguito, sia alla fondazione della neuropsichiatria infantile, sia alla pedagogia scientifica e alla psicologia clinica dello sviluppo. CAPITOLO 2: DALL’IPNOTISMO ALLA PSICOTERAPIA 2.1. Esorcismo, illuminismo e magnetismo Ci furono molte pratiche antiche di cura della mente che si possono considerare esemplari per la storia successiva. Esse si svilupparono in tempi molto antichi, e furono espressione di terapie non classicamente riferibili alla medicina (es. balli rituali, sciamanismo, pratiche contro il malocchio, maghi ecc.), che si basavano su una funzione liberatoria legittimata cul- turalmente, finalizzata a socializzare e a regolare emozioni e passioni individuali. Tali prati- che condividevano con la psicoterapia l’idea che l’intervento fosse utile per allontanare il male che si annidava nell’animo. Erano forme magiche di intervento che correvano paralle- lamente agli altri tentativi di curare fisicamente e psichicamente le persone. La guida pastorale e la confessione hanno invece rappresentato un tentativo di tipo mistico- religioso di prendersi cura dell’anima. Il Cristianesimo si è sempre curato delle anime dei fedeli operando con tecniche di convincimento e persuasione per indirizzarli sulla retta via. In ambito pastorale, l'esorcismo era convenzionalmente schematizzato in fasi, paradossal- mente simili a quelle di diagnosi e cura in ambito psicoterapeutico: 1) l'esorcista verificava la reale presenza del maligno (la patologia); 2) tramite la preghiera, scacciava l’entità che presumeva possedesse l’ammalato. Gassner (prete esorcista) ebbe un ruolo fondamentale nel passaggio da una cura religiosa a una cura laica, fondata sulle istanze illuministiche. Egli tentava di curare le malattie più va- rie come se tutte fossero opera del maligno. La sua idea di trovare un comune denominatore alle malattie fu seguita da Mesmer, che però raggiunse i medesimi risultati di Gassner me- diante pratiche non religiose, dimostrando che i fenomeni attribuiti al soprannaturale pote- vano essere ricondotti nell’alveo delle scienze della natura. Mesmer usava le idee di elettri- cità, gravità e magnetismo terrestre come fondamento della sua convinzione che un sistema di forze condizionasse la Terra, ma anche il corpo e la mente. Nel caso degli umani, salute e malattia erano legate al “magnetismo animale”. Per Mesmer la malattia era dovuta a un di- sequilibrio (o a una carenza) di un fluido magnetico che, tramite le pratiche della magnetiz- zazione, si poteva armonizzare. Il magnetismo fu usato anche nella 1ª forma di “terapia di gruppo”, consistente in incontri che si tenevano intorno a dei baquet, grandi recipienti di legno da cui fuoriuscivano delle cannule in ferro strette con le mani dai partecipanti, collocati intorno e fra loro uniti da cor- de. Mediante questo procedimento si sarebbe potuta riequilibrare la forza nascosta che con- dizionava il sistema nervoso. Il processo terapeutico avveniva mediante crisi magnetiche veicolate dal magnetizzatore, nella terapia individuale, e dal baquet, in quella di gruppo. Oltre a ciò, Mesmer usava la musica, in particolare l’armonica a bicchieri, che diffondeva melodie particolarmente suggestive e utili al processo di guarigione. Franklin e Mesmer rappresentavano 2 modi differenti di guardare le forze nascoste della na- tura: Franklin usava l’osservazione sistematica, mentre Mesmer era più per l’eclettismo me- todologico e la giustapposizione delle osservazioni; mosso dall’urgenza di trovare una cura efficace ai fenomeni patologici, fondava la propria teoria su prove labili e imprecise. Nel 1784 due commissioni analizzarono il magnetismo animale, e le conclusioni di entram- be negarono l’esistenza del magnetismo animale come fenomeno fisico, sostenendo che tut- te le evidenze a suo sostegno erano dovute al potere dell’immaginazione e dell’imitazione, ed evidenziando la pericolosità morale delle pratiche magnetiche (si innestavano facilmente legami erotici fra magnetizzatore e magnetizzata, a causa dei toccamenti e degli atteggia- menti nel corso di tali sedute). Tali conclusioni accreditavano, quindi, a cause psicologiche i fenomeni psicopatologici e psicologici curati con le pratiche magnetiche: le cause dei di- sturbi non erano ritenute prodotto di un’oscura forza fisica, come credeva Mesmer. 2.2. La società dell’armonia La scelta massonica di Mesmer fu frutto di una vocazione politica che tentava, tramite il magnetismo, di diffondere nuove idee egualitarie in Europa. La famiglia Mozart era in ami- cizia stretta con la famiglia Mesmer, e entrambe erano al centro di un reticolo che contava personaggi di primo piano facenti riferimento alle società legate all'Illuminismo, la Masso- neria e gli Illuminati di Baviera. Un fondamento ideale del mesmerismo era, dunque, la dif- fusione di una cura innovativa, illuminata, scientifica e in grado di beneficiare l'umanità in modo efficace, economico e democratico, in un periodo in cui la medicina non aveva ancora fatto grandi passi in avanti, era abbastanza lontana dall'essere sperimentale e non veniva praticata tra la parte più larga della popolazione. Mesmer fondò a Parigi la Société de l'Harmonie, una società con riti molto simili a quelli massonici, votata al cambiamento dell'umanità, con programmi paragonabili a quelli della Massoneria illuminista. Mesmer, con l'appoggio della borghesia economicamente e culturalmente più agiata, promise un pro- gramma per il miglioramento dell'umanità, della salute pubblica e della morale, cercando di rivoluzionare così lo stato sociale e la sanità, per mezzo delle pratiche magnetiche. 2.3. Dal mesmerismo al sonnambulismo provocato Nella storia del mesmerismo rivestì un ruolo fondamentale anche il marchese Puységur, che completò il processo di democratizzazione del mesmerismo, portandolo a persone meno agiate. Puységur magnetizzò un grande olmo e per suo tramite si proponeva di liberare i contadini dalle loro malattie, convincendoli a divenire curatori di sè stessi. L'albero magne- tizzato rappresentava una sorta di cura sociale, alle cui virtù terapeutiche tutti i cittadini po- tevano liberamente attingere. Il mesmerismo operò così una sorta di ribaltamento della relazione medico-paziente. I pa- zienti divenivano fondamentali per l’elaborazione delle teorie dei mesmerizzatori e, al con- tempo, potevano acquisire quel bagaglio di conoscenze terapeutiche che li poneva sullo stesso livello del medico. Si può ipotizzare che l’opposizione accademica alla magnetizza- zione riflettesse il timore per queste novità. L’albero magnetizzato sembrava in grado di guarire contemporaneamente molte persone, armonizzando il loro stato psicofisico; gli albe- ri dei magnetizzatori si trasformarono presto negli alberi della libertà della Rivoluzione francese, che divennero un simbolo popolare di una nuova epoca. Puységur, però, mise in dubbio che il magnetismo fosse dovuto a un fluido fisico. Per lui le crisi magnetiche, innescate psicologicamente dalla volontà di guarire i pazienti, erano impu- tabili a uno stato alterato di coscienza: il sonnambulismo provocato, somigliante al son- nambulismo naturale. Con Puységur era così nata una corrente che sostituiva al magnetismo una causa di tipo mentale, legata all’immaginazione e alla volontà del magnetizzato. Il ma- gnetismo andava così emancipandosi dalla teoria di Mesmer, e si trasformava progressiva- mente nell'ipnotismo. L’abate Faria è noto per aver accentuato la componente psicologica e relazionale delle pra- tiche magnetiche, che con lui iniziarono ad assomigliare al rapporto suggestivo. Prima della sua sostituzione definitiva con l’ipnotismo, fu però Bertrand il più importante sistematizzatore teorico del magnetismo. Egli inizialmente difese una concezione fedele a Mesmer, ma poi sviluppò un'idea del tutto psicologica del rapporto magnetico, che per lui non era dovuto agli effetti di un'entità indimostrata (fluido magnetico), ma frutto della rela- zione magnetizzatore-magnetizzato, che provocava fenomeni di sonnambulismo durante un sonno artificialmente indotto. Bertrand iniziò anche a considerare i sogni un mezzo per comprendere la mente, precedendo di circa 80 anni la psicoanalisi. Il sonnambulismo provocato costituì la transizione dal magnetismo alle pratiche suggestive e ipnotiche, e veniva considerato sia un mezzo per l'indagine psicologica del mondo interno, sia un metodo psicoterapeutico. Il magnetismo/sonnambulismo provocato si diffuse anche in ambito paramedico e, dal 1870, fu integrato nella scienza ufficiale da medici importanti. L'avvento dell'ipnotismo tramite le pratiche magnetiche fu così anche favorito dalle partico- lari condizioni relazionali che legavano magnetizzatore a magnetizzata e mimavano una re- lazione erotica, fatta di vicinanza e toccamenti. Questa cultura sfaccettata di fine ‘800 emerse con chiarezza al 1° Congresso internazionale di ipnotismo "sperimentale e terapeutico " (Parigi, 1889). Tale congresso segnava anche il passaggio ufficiale all'ambito medico delle tecniche ipnotiche: i partecipanti chiesero che fosse consentito solo l'uso medico e accademico dell'ipnotismo, vietando quello pubblico. 2.4. Psicologia e ipnotismo Ipnosi e suggestione furono così considerate mezzi terapeutici e di ricerca per la psicologia. Comte, fondatore del positivismo francese, vedeva la psicologia una disciplina impossibili- tata a raggiungere la condizione di scienza vera e propria, dato che la mente costituiva sia il soggetto che l’oggetto d’indagine. La condotta umana avrebbe dovuto essere, piuttosto, stu- 2.7. Curare la personalità: la coscienza rivisitata Nell'ambito della psicologia patologica francese, la personalità non fu più considerata un oggetto di ricerca filosofica connesso alla coscienza, ma un'entità concreta che poteva risul- tare “affetta da malattia”. Con Ribot la personalità fu definita un composto empiricamente rilevabile di stati fisiologici, affettivi e intellettivi. Divenne un costrutto da studiare scienti- ficamente quando furono descritte clinicamente alcune anomalie nel suo funzionamento, che implicavano una discontinuità nella coscienza e nell’esistenza, e proprio lo studio dei fenomeni dissociativi condusse a indagare la coscienza per mezzo del metodo patologico. L'indagine psicologica della personalità si sviluppò dunque in un contesto di ricerca clinico- sperimentale sulla coscienza. I pionieri di tali indagini descrissero casi clinici riguardanti di- sturbi della personalità e ipotizzarono meccanismi che ne regolavano il funzionamento normale e patologico. La personalità multipla diveniva così una patologia esemplare, met- tendo in crisi l'idea che l'individuo agisse controllando il proprio comportamento e com- piendo scelte razionali, determinate dalla coscienza. Furono così sollevati dubbi sull'unita- rietà dell'individuo, che aiutarono a legittimare la psicologia scientifica francese, fornendole come oggetto di studio una concezione empirica della mente da studiarsi tramite ipno- suggestione. Il nuovo metodo prometteva di chiarire, meglio di quello filosofico- introspettivo come realisticamente operasse la coscienza. Broussais fu un personaggio chiave per l'elaborazione del metodo patologico, che condusse alla fondazione in Francia di una prospettiva positiva in psicologia. Egli teorizzò che le fun- zioni dell'uomo sano potessero essere comprese studiando il malato, col presupposto che pa- tologia e salute mentale fossero determinate da uno stesso principio: l'eccitazione. Un'ecci- tazione normale avrebbe condotto a un'esistenza normale; un'eccitazione eccessiva avrebbe causato un'irritazione, fonte della patologia morale. L'idea conseguente che la patologia ri- sultasse in continuità con la normalità venne battezzata da Comte come “principio di Brous- sais”. Ne derivava una concezione della patologia generale e di quella mentale che si con- trapponeva alla visione nosografica e classificatoria degli alienisti. La psicologia sperimentale francese studiava quindi il patologico come fosse un esperimen- to offerto dalla natura, impossibile da riprodurre in laboratorio ma in grado di mostrare al ricercatore gli elementi di base costituenti i fenomeni psichici, che nella normalità funzio- nano in modo integrato e nella patologia si disaggregano, dividendosi. Fu Ribot a elaborare una 1ª teoria specifica della personalità. Secondo la sua concezione, personalità e coscienza dell'Io sarebbero che una determinazione delle elaborazioni ceneste- siche e del lavoro della memoria. Ribot assumeva una prospettiva evoluzionista per cui, da un lato, le funzioni psicologiche complesse (es. memoria, sentimenti) si erano filogenetica- mente formate a partire da quelle più semplici. Dall'altro, la patologia sarebbe stata deter- minata da una regressione, cioè da un procedere inverso nella scala evolutiva: nelle forme meno gravi si perderebbero prima gli elementi di maggior complessità delle funzioni più evolute, e poi quelli di sempre minore complessità, fino alla perdita delle stesse funzioni e, nei casi estremi, alla conservazione delle sole capacità più primitive e inconsce (es. riflessi). Janet fu poi il più coerente continuatore dell'approccio psicopatologico francese, rendendo empirico il quadro teorico prospettato dal maestro: costruì, a sua volta, una teoria della per- sonalità divenuta fondamentale per la storia della psicoterapia. 2.8. Pierre Janet e l’Analisi Psicologica Janet, nonostante sia stato uno dei principali studiosi della Scuola di Parigi, è stato anche il più fine sistematizzatore dell’uso dell'ipno-suggestione a scopo terapeutico. Si può conside- rare il contraltare di Freud, che elaborò il setting psicoanalitico proprio come argine alla suggestione. Janet nacque a Parigi (1859) da una famiglia liberale borghese. Al liceo, incontrò il dott. Gilbert, da cui venne sollecitato allo studio del sonnambulismo provocato e iniziò a condur- re esperienze di ipnosi su giovani donne. Da tali ricerche Janet trasse la sua prima nota tesi di dottorato in filosofia: L'automatisme psychologique. Nel 1889 iniziò anche gli studi me- dici, con tirocini negli ospedali dedicati alla formazione clinica. Nel 1893 Janet presentò la sua 2ª tesi in Medicina, e nel 1895 sostituì Ribot al Collège de France nel corso di Psicolo- gia sperimentale e comparata. Nel 1898 ottenne il corso complementare di Psicologia spe- rimentale presso la facoltà di Lettere della Sorbona, e nel 1901 fondò la Société de Psycho- logie. Nel corso del ‘900 Janet ampliò il suo indirizzo di ricerca, dedicandosi da un canto al- la psicopatologia e alla psicoterapia dinamicamente orientate, dall'altro a una psicologia che indagava il comportamento normale e si occupava di personalità, memoria e intelligenza se- condo un indirizzo evolutivo e psicosociale. Soprattutto sotto il profilo metodologico, egli seguì l'insegnamento dei maestri Ribot e Charcot. La sua fama crebbe soprattutto all'estero; molta fortuna egli ebbe negli USA dove, insieme a Freud, venne riconosciuto come un luminare della psicopatologia e della psicote- rapia. La sua opera, tuttavia, venne rapidamente dimenticata nel ‘900, oscurata dal successo della psicoanalisi. Oggi vengono soprattutto rivalutati i suoi studi sulla dissociazione della personalità, da lui definita disaggregazione: la personalità sarebbe una costruzione psicolo- gica composta da livelli variabili di coscienza, tendenze ed energie che nella malattia si scompongono (disaggregano). A Janet si deve tutta la tradizione nata dalla concezione psicopatologica e psicoterapeutica fondata sull'idea che alla patologia corrispondesse una disaggregazione-dissociazione in- conscia della personalità, che doveva essere curata mediante un processo di riaggregazione sollecitato dal terapeuta, soprattutto mediante pratiche ipnotiche e suggestive. Influenzato dalla sua formazione eclettica, Janet tendeva tuttavia a conservare parte della concezione dell’Io propria della filosofia spiritualista, affiancandola a quella di un Io più empirico. Per Janet i pensieri sono riuniti in un sistema, dall'apparenza unitaria, unica, indi- viduale e distinta. Al contempo la personalità sarebbe stata ugualmente un'organizzazione sistematica di sensazioni interne, memorie e immaginazioni che potevano inconsciamente autonomizzarsi. In tale concezione, egli recuperava le dimensioni inconsce dalle piccole percezioni della filosofia di Leibniz: per Leibniz ci sarebbero sensazioni che percepiamo in maniera automatica. La coscienza presenterebbe dei gradienti differenti a cui corrispondono personalità di diverso livello di funzionamento. In alcune persone la coscienza della propria personalità sarebbe precisa e netta, altri presentano una variazione della coscienza da un li- vello automatico e di base a uno aggregato e autocosciente. Le dissociazioni della personali- tà vennero allora considerate da Janet una prova empirica della complessità e dei livelli del- la coscienza. Le malattie disaggreganti evidenziavano così gli elementi che in altri funzio- navano in modo unitario. Le personalità multiple, il sonnambulismo, la scrittura automatica - e tutta la psicopatologia - avrebbero mostrato il modo in cui in una stessa persona esistevano sensazioni (esterne o interne), memorie, immaginazioni che si escludevano e si alternavano. In particolare, Janet attribuì molta importanza al trauma psicologico come causa dell'isteria e delle disaggrega- zioni (scissioni) della personalità. Per quanto riguardava la terapia, traumi e memorie veni- vano trattati come se potessero essere modificati mediante l'ipnosi. L'ultimo Janet sostenne, in realtà, una concezione costruttivista della personalità. La personalità risulterebbe essere l'esito di una sintesi, di un’elaborazione e assimilazione di esperienze e funzioni psicologi- che. La terapia consisterebbe allora nella messa in opera di processi psicologici per costruire una sintesi nella personalità disgregata e alterata. Janet ha rappresentato, insieme a Binet (inventore del 1° test QI), la 2ª generazione degli psicologi sperimentali francesi, mantenendo alcune ambiguità rispetto all'autonomia della psicologia dalla filosofia e dalla medicina. 2.9. Le “tesi” dl Janet Nell'Automatisme sono già presenti una completa teoria della personalità, normale e patolo- gica, e una tecnica di intervento terapeutico per ripristinarne il funzionamento. Nella 1ª par- te della tesi, Janet descrisse quei casi che riteneva essere di automatismo totale, ossia frutto di una personalità completamente disaggregata: la catalessia, le personalità alternanti e il re- stringimento del campo di coscienza risultano essere tutti fenomeni tipici dell'automatismo generalizzato. La 2ª parte della tesi riguardava l’automatismo parziale. Janet evidenziò che, nella normali- tà, la personalità percepisce ogni tipo di stimolazione (tattile, muscolare, visiva, uditiva), che poi sintetizza. In caso di alterazione della personalità e di automatismo parziale, la ca- pacità di sintesi andrebbe persa e la personalità non sintetizzerebbe più tutti gli stimoli. L’automatismo psicologico parziale risultava, quindi, il modello teorico che serviva anche a interpretare tutti i fenomeni bizzarri osservati dagli parapsicologi negli stessi anni. Nell’Automatisme veniva anche tratteggiato un modello energetico della personalità. L’automatismo e la disaggregazione farebbero dunque parte di tale sistema energetico, teo- ria che nel corso delle opere successive venne fondata sui concetti di forza (capacità di so- stenere a lungo un lavoro psichico) o tensione psicologica (attivazione psicologica presente nella personalità dei soggetti in grado di sintetizzare le attività mentali con efficacia e in un processo continuo). Janet continuò, nella tesi medica, a perfezionare i contenuti discussi nella 1ª tesi psicologi- ca. Questa dissertazione venne pubblicata in modo esteso come 2ª parte di un'opera sullo stato mentale degli isterici. La 1ª metà di questo lavoro, dedicata alle stigmate mentali, era riservata ai sintomi fisici dell'isteria e al restringimento del campo di coscienza, mentre la 2ª metà, dedicata agli accidenti mentali, riguardava più da vicino i sintomi psicologici dell'iste- ria e le idee fisse. La tesi medica consistette, dunque, principalmente in una descrizione dell'isteria, studiata nel laboratorio di psicologia della Salpêtrière. Janet distinse fra isteria e psicoastenia, sulla base del differente funzionamento di personali- tà dei soggetti con queste patologie. Nell'isteria la capacità di sintetizzare sembrava parziale e la coscienza limitata; poi le idee fisse fungevano da nuclei ideativi che nell'isteria risulta- vano per lo più subconsci e alimentavano le condotte sintomatologiche dei soggetti; queste idee potevano anche derivare da ricordi traumatici dimenticati. La differenza fra psicoaste- nici e isterici avrebbe riguardato una debolezza più specifica per questi ultimi e la presenza di idee fisse, che avrebbero assediato invece coscientemente gli psicoastenici. 2.10. L’eredità della psicologia francese e la psicoterapia Gli psicologi positivisti francesi seguivano una concezione trasformista ottimista della per- sonalità, influenzata dall'evoluzionismo lamarckiano e spenceriano. Intorno al 1890, gli orientamenti politici e culturali operanti nella Terza Repubblica, a causa di una crisi sociale, avevano cambiato in senso solidaristico l'engagement politico di molti studiosi, fra cui i primi psicologi. Ciò avrebbe contribuito a una riforma delle conoscenze medico-psichiatriche che portò verso un atteggiamento critico verso teorie ereditariste e fa- taliste della follia e verso l’assunzione di un approccio fortemente interventista, orientato al- logica come tale, però, non poteva essere negata: eventi psichici avrebbero potuto a loro volta influire sul piano fisico. L'idea della continuità fra normale e patologico acquisiva con Freud un'accezione particola- re. A partire dall'Interpretazione dei sogni, era evidente come ogni umano fosse in qualche misura nevrotico, e come la cosiddetta normalità venisse determinata da una soglia quantita- tiva, piuttosto che qualitativa. Il principale fattore motivazionale era costituito dalla sessua- lità, e l'energia psichica aveva comunque una natura in origine sessuale. La salute mentale dipendeva quindi da un impiego più o meno efficace di tale energia (libido). Ogni uso della libido alternativa alla sessualità sarebbe stata comunque frutto di una repressione delle pul- sioni originarie. La civiltà permaneva a prezzo di questa repressione ed era quindi, come ta- le, nevrotizzante. Per Freud, la repressione della sessualità era un male necessario. La continuità tra normalità e patologia implicava nell'individuo normale la presenza di aspetti patologici e nella patologia la presenza di aspetti di normalità. La stessa perversione non era frutto di un comportamento deviante rispetto alla norma. Il bambino, nei primi stadi dello sviluppo, per Freud era un perverso polimorfo, ossia motivato alla ricerca di un piace- re che ricavava da parti del corpo (zone erogene) diverse da quelle genitali, o in modalità diverse dal loro uso in quanto organi genitali. L'adulto perverso era quindi colui che non era stato capace di superare con successo una fase che ogni umano attraversa. Fenomeni ricon- ducibili alla nevrosi e alla psicosi per loro natura caratterizzavano la vita quotidiana di tutti: i sogni, in quanto soddisfazioni allucinatorie di desideri, potevano essere considerati feno- meni "micro-psicotici", così come lapsus e atti mancati potevano essere interpretati quali fenomeni "micro-nevrotici". 2.13. Formazione scientifica e primi anni dl Freud Freud si formò a Vienna come neurologo, coltivando anche interessi filosofici. Da un lato, infatti, elesse a punto di riferimento E. Brücke, esponente di spicco del Circolo Fisicalistico di Berlino, gruppo di fisiologi accomunati dall'intento di spiegare i fenomeni vitali unica- mente in termini materialistici. Dall'altro, invece, seguiva le lezioni di Brentano. Freud si concentrò ben presto sulle ricerche neurologiche, ottenendo risultati che gli guadagnarono la stima dei suoi mentori, lasciandolo tuttavia assai poco soddisfatto. Del resto, fin da subito alla ricerca di una scoperta scientifica significativa che gli donasse notorietà. La necessità di trovare una sistemazione lavorativa fece abbandonare a Freud il sogno di oc- cuparsi di ricerca pura, per aprire invece uno studio medico privato. Prima di iniziare la propria attività, tuttavia, egli usufruì di una borsa di studio per un soggiorno a Parigi (1885), il che rappresentò una svolta della sua carriera. Freud iniziò a frequentare le lezioni di Char- cot alla Salpêtrière, sviluppando un vivo interesse per la fenomenologia dell'isteria. Già nel 1883, in realtà, il suo collega Breuer gli aveva raccontato il decorso dell'isteria di una sua paziente: Anna O. Breuer aveva constatato come tutti i suoi sintomi fossero progressiva- mente apparsi in momenti specifici della sua vita, che Anna O. non riusciva a ricordare, se non sotto ipnosi. Quando però ella poteva rievocare gli episodi legati all'insorgenza dei sin- tomi, questi scomparivano. Freud non aveva inizialmente attribuito particolare importanza al caso raccontato da Breuer, ma l'esperienza parigina lo convinse a interessarsi all’ipnosi. Se fu Charcot ad attrarre l'attenzione di Freud su questo tema, l'opera di Bernheim lo inte- ressò in seguito sempre di più, perché prometteva efficacia terapeutica. Questi, come Janet, tuttavia, usava l'ipnosi come terapia attraverso la suggestione. Freud, invece, prendendo spunto dall'esperienza di Breuer, la usava soprattutto come mezzo esplorativo. All'origine dell'isteria sarebbe stato un trauma psichico (che non aveva già più il ruolo puro e semplice di agent provocateur, come per Charcot), i cui effetti sarebbero risultati più o meno gravi a seconda di 3 fattori: (a) intensità del trauma; (b) predisposizione soggettiva alla patologia isterica; (c) possibilità di reagire al trauma in modo adeguato (fisicamente e/o verbalmente). Il trauma veniva attivamente dimenticato (rimozione), perché il ricordo non era sopportabile dalla coscienza; il risultato era un blocco dell'energia psichica. Grazie all'ipnosi sarebbe sta- to possibile, recuperando la memoria, attuare quella reazione al trauma (abreazione) che originariamente non era stata possibile: sarebbe stata tale reazione a comportare l’effetto te- rapeutico. Tale metodo viene definito catartico, per affinità con la catarsi che, per Aristote- le, era raggiunta dallo spettatore greco dopo aver assistito a una tragedia. Lo spettacolo ave- va suscitato in lui sentimenti intensi di sofferta partecipazione, per poi evocare un senso di liberazione dopo il finale. Breuer e Freud non escludevano, però, che anche la suggestione potesse ottenere un certo successo. 2.14. L’abbandono dell’ipnosi e la nuova tecnica terapeutica Freud, comunque, si era già convinto che occorresse trovare un metodo alternativo all'ipnosi per diversi motivi: (a) la non ipnotizzabilità di alcuni pazienti; (b) la non disponibilità di al- tri a essere ipnotizzati; (c) la convinzione raggiunta che fosse possibile ricordare eventi ap- parentemente dimenticati anche senza l'ipnosi; (d) gli effetti collaterali dell'ipnosi (es. pos- sibile risveglio della sessualità di pazienti donne). Una nuova tecnica si sviluppò dalla constatazione che, se si incitava il paziente a ricordare la 1ª occasione dell'insorgenza dei sintomi isterici, questi sembrava ottenere dei risultati, sia pure con grande fatica: "col lavoro psichico si deve superare, nel paziente, una forza psichi- ca che si oppone alla presa di coscienza delle rappresentazioni patogene”. Le rappresenta- zioni evocavano sentimenti di vergogna, dolore, fastidio. Il filo dei ricordi si spezzava e così proponeva di procedere Freud: “Comunico al paziente che, nell'istante successivo, esercite- rò una pressione sulla sua fronte, e gli assicuro che durante tutto il tempo della pressione egli vedrà innanzi a sé come immagine, o gli verrà in mente come idea, un ricordo, e gli im- pongo di comunicarmi tale immagine o idea”. Difficilmente si otteneva subito la rappresen- tazione patogena; più di frequente si arrivava a un “anello intermedio” tra il contenuto men- tale che aveva indotto il paziente a fermarsi e il contenuto che la difesa copriva. 2.15. La nascita della Psicoanalisi Il principale interlocutore freudiano era divenuto Fliess, medico berlinese che stava svilup- pando, da parte sua, delle teorie assai interessanti, tra cui una sulla fondamentale bisessuali- tà dell’uomo. Freud finì per appropriarsi di quest'ultima idea e ne parlò apertamente con un altro proprio conoscente, Weininger, che a sua volta se ne servì come fondamento di un li- bro che gli diede immediata notorietà internazionale. Dato che tale libro uscì prima che Fliess pubblicasse qualcosa in merito, ciò fu motivo di rottura tra lui e Freud. Freud si occupò dunque esclusivamente della realtà psichica, iniziando a chiamare Psicoa- nalisi la disciplina da lui costruita, destinata a svilupparsi come: (a) una teoria generale del- la mente e delle motivazioni umane; (b) una teoria della psicopatologia; (c) un metodo di cura fondato su tali teorie; (d) una visione generale del mondo, poiché Freud ha usato gli strumenti della psicoanalisi per interpretare il senso della civiltà, l'origine della religione e il significato dell'arte e della letteratura. Negli anni successivi nasceva una teoria generale della psicopatologia che identificava nella sessualità l’origine di tutte le nevrosi e di alcune psicosi. Freud distingueva tra: - Psiconevrosi ® Isteria da difesa, fobie, nevrosi ossessiva: avrebbero avuto una lontana origine traumatica e avrebbero potuto essere curate col metodo catartico, grazie alla libera- zione dell’energia psichica bloccata. - Nevrosi attuali ® Nevrosi d’angoscia e Nevrastenia: derivanti da pratiche sessuali nocive vita adulta (rispettivamente da coitus interruptus ed eccessiva masturbazione). L'origine traumatica della psiconevrosi attraversava, secondo il Freud di questo periodo, 2 fasi: originariamente la persona veniva iniziata alla sessualità in epoca troppo precoce da un adulto. Da bambini, tuttavia, non si possedevano nozioni sulla natura degli atti a cui si ave- va partecipato. Il futuro nevrotico, quindi, attraversava un periodo di apparente salute men- tale, e solo con la maturazione degli organi genitali l'episodio infantile avrebbe iniziato a esercitare la sua influenza in quanto trauma: il suo ricordo sarebbe stato collocato nell'in- conscio e la sua presenza sarebbe stata avvertibile solo attraverso i sintomi. Pertanto: “i traumi infantili agiscono a posteriori come esperienze recenti, ma solo inconsciamente". La terapia analitica avrebbe dovuto consentire invece il recupero del ricordo stesso. Nella sua prima formulazione, il concetto di difesa si riferiva a una condizione della perso- nalità cosciente di fronte a contenuti mentali (rappresentazioni) indesiderati, che induceva allo sforzo di annullarli e dimenticarli. L’origine dell'isteria da difesa, delle fobie, delle os- sessioni avrebbe avuto una medesima radice; l'esito diverso sarebbe dipeso dal diverso de- stino della “somma di eccitamento” (es. nel caso dell'isteria, si attuava la conversione in un sintomo somatico, legato a un organo interessato dal trauma sul piano simbolico). Il concetto di difesa era destinato a uno sviluppo importante, ed è tuttora considerabile il contributo teorico più largamente accettato della psicoanalisi nelle altre scienze "psi". L'idea della nevrosi come frutto di una seduzione infantile, invece, perse importanza in pochi mesi, per varie ragioni. In primis registrava un numero eccessivo di insuccessi terapeutici; poi Freud stava iniziando a pensare che, nell'inconscio, fosse difficile distinguere tra ricordo reale e fantasia; infine, a suo giudizio, sarebbe stato necessario supporre un numero troppo elevato di casi di perversione verso i bambini. Freud iniziava quindi a supporre che i presun- ti traumi fossero in realtà delle fantasie dei nevrotici e che l’esordio infantile della sessualità avesse un'origine endogena. Fra fine ‘800 e inizio ‘900 Freud iniziò, dunque, a mettere definitivamente a punto la psi- coanalisi, che faceva il suo ingresso nella cultura occidentale alla fine di un secolo che ave- va condotto molti stati europei a nuovi assetti istituzionali, fondati su forme di partecipazio- ne alla vita politica dei ceti borghesi e popolari. 2.16. L’altra psicoterapia: il caso dl Paul Dubois Parallelamente a Freud alcuni altri pionieri stavano tentando di elaborare terapie della mente che fossero una novità e si contrapponessero alle teorie della psicopatologia, le cui cause erano esclusivamente immaginate come neurologiche. Questi studiosi erano per lo più in- fluenzati dalla cultura dell’ipno-suggestione francese introdotta negli USA da W. James. Prima della psicoanalisi, anche in Europa la psicoterapia era per lo più basata sull'ipnosug- gestione e, a inizio ‘900, comunemente praticata da medici che avevano eletto la psicologia come principale terreno di interessi. Nel contesto europeo occorre tuttavia descrivere speci- ficamente la psicoterapia di Dubois, neurologo e psicoterapeuta svizzero. Dal 1902 Dubois iniziò a occuparsi della cura delle malattie che in seguito sarebbero state definite “psicosomatiche” e poi delle nevrosi, impiegando una tecnica persuasiva che aveva delle similitudini con le moderne tecniche cognitive, fondate sulla discussione critica della soluzione dei propri sintomi. Dubois faceva uso della logica e del ragionamento per deco- struire le credenze connesse agli stati che disturbavano i pazienti. La sua tecnica, per certi versi, non era dissimile dalla suggestione da svegli, ma sicuramente si disinteressava di tec- niche ipnotiche o di cause inconsce dei disturbi mentali. Egli usava la relazione medico- paziente e il dialogo come terapia. Grande innovazione fu proprio l'uso sistematico del col- - Inconscio ® Contenuti non accessibili alla coscienza. Il meccanismo della rimozione li aveva banditi dalla coscienza, e la censura ne rendeva vano ogni tentativo di tornarvi direttamente. Il concetto di rimozione era definitivamente cambiato: la dimenticanza dovuta alla rimozione non era più attuata col contributo della vo- lontà cosciente. I contenuti dell'inconscio potevano essere solo dedotti dalle loro manifesta- zioni indirette: le formazioni di compromesso. L'esempio tipico dell'attività volta a risalire sopra la soglia della coscienza era costituito dai sogni, resi possibili da un relativo rilassarsi della censura durante il sonno. I pensieri coscienti costituivano per Freud solo una parte mi- nima del mondo mentale: la coscienza sarebbe stata paragonabile alla punta di un iceberg, perché l'attività della mente si sarebbe svolta essenzialmente nell'inconscio. L'attività men- tale inconscia, inoltre, presentava caratteri diversi da quella cosciente. Nel mondo conscio vigeva la razionalità e dominava il principio di non contraddizione: i processi mentali che vi sorgono erano denominati processi secondari, distinti dai processi primari che si sarebbe- ro svolti nell'inconscio. Quivi, infatti, la contraddizione e il caos avrebbero costituito la re- gola piuttosto che l'eccezione, e il carattere paradossale dei sogni ne era testimonianza. La teoria della motivazione di Freud era fondata sul principio di costanza: la mente tende a mantenere uno stato, per quanto possibile, esente da stimoli. Quando sopravveniva una qualche forma di eccitazione, un'attività di tipo essenzialmente motorio tendeva a ripristina- re appena possibile lo stato di quiete. Nella nuova concezione, il principio di costanza veni- va ancora considerato un modello esplicativo valido, ma solo per la primissima parte della vita umana. Presto l'infante avrebbe esperito che la condizione di quiete perenne era meno soddisfacente del suo ripristino dopo l'eccitazione dovuta a uno stimolo. Il succhiare il latte materno per placare la fame costituiva un momento appagante per il bambino. L'esperienza di appagamento veniva dunque associata alla condizione di bisogno; ogni volta che il biso- gno si ripresentava, il bambino avrebbe cercato di riprodurre la percezione che aveva con- dotto all'esperienza appagante. Se la percezione reale non poteva essere attuata, avrebbe provato a riprodurla in modo allucinatorio. Questo processo avrebbe continuato ad attuarsi per tutta la vita: i primi bisogni impellenti corrispondevano ai desideri, e la loro soddisfa- zione all'appagamento dei desideri stessi. In sintesi, alla base del funzionamento della mente non vi sarebbe stato più il principio di costanza, ma il principio del piacere. Freud vedeva la mente come condizionata da un "gioco di forze": i desideri tendevano alla soddisfazione, ma la censura (legata alla situazione socio-culturale e all'esperienza educati- va individuale) tendeva invece a rimuoverli. Le forze potevano essere valutate anche in ter- mini di intensità: la vita psichica sarebbe stata caratterizzata da un determinato quantitativo di energia, usata in parte a livello inconscio e in parte a livello cosciente. Più erano investiti di energia desideri e impulsi inconsci (essenzialmente di natura sessuale), più energia sareb- be servita alla censura per bloccarli. Lo scopo della psicoterapia psicoanalitica diveniva quindi l'acquisizione alla coscienza degli impulsi inconsci, in modo che l'energia impiegata dalla censura venisse sbloccata e divenisse usabile per la psiche cosciente. In condizioni di sviluppo umano normale, la natura sessuale dell'energia psichica veniva largamente modifi- cata (attraverso la sublimazione); ciò avrebbe consentito, agli albori della storia, la nascita della civiltà e avrebbe avviato ogni essere umano a farne parte. 3.2. La Teoria delle Pulsioni La concezione freudiana del sogno aveva già condotto la psicoanalisi ad aderire all'idea pa- radigmatica di continuità fra normale e patologico, già sostenuta a fine ‘800 dagli psicologi francesi e dai neurologi inglesi. Il sogno è un'esperienza quotidiana per ogni uomo, eppure corrisponde a un fenomeno micropsicotico, caratterizzato da eventi assimilabili alle alluci- nazioni. Il fatto che Freud analizzasse soprattutto il proprio stesso mondo onirico era un'ul- teriore conferma della sua convinzione che i temi di fondo risultassero i medesimi, e che non vi fosse una differenza qualitativa tra la condizione di normalità e quella di nevrosi. Secondo Freud ogni evento mentale era significativo. La sua adesione al determinismo fisi- co non fu mai in discussione: ogni evento fisico aveva una o più specifiche cause, e nulla avveniva per caso. Tale prospettiva Freud la estendeva alla concezione della mente, soste- nendo anche il determinismo psichico. Se l'identificazione delle cause di un evento mentale non era possibile con la certezza e la precisione proprie della fisica, la circostanza era dovu- ta al cosiddetto principio di sovradeterminazione. Affermare che un evento psichico fosse sovradeterminato significava riconoscere che le sue cause erano molteplici e riconducibili a una dinamica più articolata rispetto a un evento fisico. Una simile impostazione giustificava il fatto che alcuni aspetti della condotta umana rimanessero inaccessibili all'analisi. Lapsus e atti mancati (evenienze quotidiane di piccoli errori, nell'espressione linguistica o nel comportamento) in genere erano, per Freud, frutto della pressione dall'inconscio di im- pulsi contrari alla volontà cosciente. Questi premevano per essere realizzati e venivano bloccati dalla censura. In alcune occasioni l'impulso trovava una sua realizzazione parziale, secondo la stessa logica della formazione di compromesso (es. chi trova un compito partico- larmente sgradevole può "dimenticarsi" di attuarlo). Questi atti micro-nevrotici quotidiani costituivano certamente un motivo di interesse per Freud, nell'offrire a suo avviso prove tangibili dell'esistenza dell'inconscio. Divenivano però importanti anche all'interno della psicoterapia, segnalando temi rispetto a cui il paziente manifestava indirettamente problemi inconsci sottesi. Commettere un lapsus negando un'interpretazione poteva costituirne all’opposto una conferma. Processi inconsci di formazione di lapsus e atti mancati erano as- similabili ai meccanismi di condensazione e spostamento propri dei sogni, esattamente co- me sarebbe avvenuto nei motti di spirito, che erano però volontari. La teoria delle pulsioni, ma soprattutto la teoria dello sviluppo a essa collegata, costituirono un ulteriore passo di Freud nell'adozione del principio di continuità tra normalità e patolo- gia. Freud presentò il suo 3° e definitivo modello della motivazione nei Tre saggi sulla teo- ria sessuale. La pulsione veniva definita come un concetto al limite tra psichico e somatico o, come la rappresentanza psichica di un flusso continuo di stimoli di natura endosomatica (gli stimoli esterni, invece, non potevano avere continuità). La pulsione si caratterizzava per la sua fonte (organo all'origine del flusso), la meta (soddisfazione dello stimolo attraverso la scarica della tensione) e l'oggetto (ciò che consente la scarica). La pulsione sessuale veniva percepita come necessaria alla stregua della necessità di assumere cibo per sopravvivere. Poiché la pulsione esercitava una "spinta" verso la propria soddisfazione, la libido veniva intesa come l'energia di tale spinta. Il concetto di pulsione non coincideva con quello di istinto: quest'ultimo era la predisposizione a un comportamento standardizzato, identico per tutti i membri della specie (≠ pulsione) e se ne ascriveva l'origine all'ereditarietà (era di per sé solo somatico). Per Freud l'oggetto “è l'elemento più variabile della pulsione; non è origi- nariamente collegato a essa, ma le è assegnato solo in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento”. L’aspetto fondamentale era costituito dalla soddisfazione dell'impulso, mentre l'identità dell'altro assumeva un ruolo accessorio. Vennero infine limitate a 2 le pulsioni strettamente necessarie per la teoria: quelle di auto- sopravvivenza e quelle sessuali. La sessualità acquistava dunque un carattere non più solo centrale (come nel modello del desiderio) ma esclusivo. 3.3. La teoria del transfert Parallelamente alla teoria delle pulsioni nasceva la Teoria del transfert. L'espressione “transfert” identifica la natura peculiare del rapporto terapeuta-paziente. Una terapia inter- rotta per abbandono da parte di una paziente isterica in cura da Freud, offrì lo spunto per un approfondimento: tale fu il destino del caso clinico di Dora. È probabile che il caso di Dora, pur risultando un insuccesso terapeutico, abbia ispirato a Freud i germi di nozioni psicoana- litiche destinate a fiorire successivamente". II transfert per Freud era la copia o la riedizione "di impulsi e fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante il progresso dell'analisi", nella quale, tuttavia, alla persona che aveva sollecitato originariamente tali im- pulsi e fantasie veniva sostituita la figura dell'analista. Di conseguenza, al paziente accadeva di rivivere esperienze psichiche del passato nella relazione col terapeuta. Verso di lui il pa- ziente sviluppava sentimenti già provati in precedenza verso un'altra persona, attribuendogli al contempo anche pensieri e affetti originariamente provati per quest'ultima. Tali sentimen- ti potevano avere un carattere più o meno inconscio. Talora si esperivano impulsi perfetta- mente coscienti, dei quali però era inconscio, per il paziente, il carattere di ripetizione. Nel caso del transfert erotico, ovvero l’attrazione fisica provata verso il terapeuta, sarebbe risul- tato difficile per l'analizzando comprendere sia che l'analista fosse oggetto d'amore solo per il ruolo che rivestiva, sia che l'attrazione avesse un carattere del tutto irrealistico, data la si- tuazione terapeutica. Per Freud il transfert era necessario in qualunque analisi, non poteva essere evitato e la sua risoluzione costituiva uno degli obiettivi da raggiungere nel corso del trattamento: del resto le patologie curabili con la psicoanalisi sarebbero state poi definite nevrosi da transfert, in contrapposizione con le nevrosi attuali (determinate da un comportamento sessuale danno- so) ma soprattutto con le psicosi. La formazione del transfert veniva così definita il requisito essenziale per la possibilità di una terapia analitica (anche se ciò non implicava che il feno- meno risultasse facile da comprendere e gestire per il terapeuta). Solo in tempi relativamente recenti si è affermato il principio che una terapia psicodinamica possa trovare applicazione anche nella cura delle psicosi; in seguito, si è anche constatata l'eventualità che lo psicotico possa, in particolari casi, stabilire un transfert verso l'analista. Ben presto divenne chiara la possibilità che al transfert del paziente potesse corrispondere un controtransfert dell'analista: l'analista poteva trovarsi nella condizione di rispondere ai sentimenti dell'analizzando con sentimenti complementari. Freud chiarì che la posizione dell'analista non doveva perdere la neutralità, soprattutto di fronte all'amore di transfert. De- licata risultava la posizione di un analista di sesso maschile nei confronti di una paziente di sesso femminile: il terapeuta doveva "riconoscere che l'innamoramento della paziente è una conseguenza dovuta alla situazione analitica, e non può dunque essere ascritto a prerogative della propria persona, sicché egli non ha alcun motivo di insuperbirsi di una tale 'conquista', come si direbbe fuori dell'analisi". D'altra parte, la paziente "o deve rinunciare a un tratta- mento psicoanalitico, o deve accettare come inevitabile l’innamorarsi del medico". 3.4. Freud e gli albori del movimento psicoanalitico Uno dei primi pazienti di Freud, Stekel, gli propose di organizzare delle riunioni periodiche per discutere di temi psicoanalitici con persone interessate (tra cui Adler), proposta che ven- ne accettata. Nacquero così le "Serate psicologiche del mercoledì" (1902), riunioni a caden- za settimanale che hanno avuto luogo fino alla vecchiaia di Freud. Se all'inizio i membri si limitavano ad ascoltare Freud, dopo qualche anno i loro interventi presentarono sufficiente interesse perché venisse presa la decisione di tenere un verbale che ne riassumesse i conte- nuti, e il segretario verbalizzante è stato Otto Rank fino al 1915. Rank e Adler furono i fisse nell'agenda del terapeuta, che dovevano essere pagate anche se circostanze apparente- mente di forza maggiore mettevano portavano il paziente a non rispettare l'appuntamento; in generale, per Freud, le assenze spesso erano determinate dalla resistenza al trattamento, e come tali sarebbero state limitate da un simile obbligo. La definizione dell'onorario e del suo pagamento a intervalli fissi e relativamente brevi rivestiva anch’essa importanza. Sconsigliabile, in ogni caso, risultava essere il trattamento gratuito, non solo perchè questo avrebbe rappresentato una perdita economica per l'analista, ma anche perché l'esperienza gli aveva insegnato che l'assenza di pagamento generava nuovi problemi nel trattamento. Un suggerimento era quello di far stendere il paziente su un lettino durante la seduta, collo- candosi dietro il paziente. Ciò aveva in primo luogo un "significato storico", in quanto si ri- chiamava al trattamento ipnotico, da cui la psicoanalisi derivava. In secondo luogo, però, Freud additava motivi pratici, legati sia alla tranquillità del terapeuta (che poteva evitare lo sguardo fisso dei pazienti per più ore al giorno), sia la possibile distrazione dell'analizzato di fronte all'espressione dell'analista che esercitava l'attenzione liberamente fluttuante. Il trattamento pensato da Freud prevedeva sedute tutti i giorni, salvo la domenica e i giorni festivi. Addirittura, la stessa pausa domenicale comportava una difficoltà nella ripresa del lavoro, che Freud chiamava “crosta del lunedì”. Solo per i casi meno gravi o per le fasi più avanzate del trattamento si poteva scendere fino a 3 sedute/settimana. Tale cadenza si appli- cava a un trattamento che, per quanto durasse “periodi più lunghi di quanto i malati si aspet- tano”, poteva estendersi tra i 6 e i 12 mesi (tempi che, in seguito, si sarebbero allungati). Per favorire l'emergere dei contenuti inconsci, il metodo migliore era quello di non fissare un punto di partenza specifico. L'inizio del trattamento coincideva con l'invito: "Prima di poterle dire qualcosa, devo apprendere una quantità di cose su di Lei; mi racconti ciò che Lei sa di sé”. La libertà di espressione del paziente doveva essere totale, salvo naturalmente rispettare la regola fondamentale, evitando di omettere pensieri che sembrassero ai suoi oc- chi senza importanza o insensati, perché proprio quelli costituivano le possibili manifesta- zioni di materiale inconscio; la loro omissione costituiva quindi un esempio tipico di resi- stenza. Sempre per evitare le resistenze, era sconsigliabile che il paziente preparasse prima della seduta il materiale di cui parlare: la mancanza di spontaneità avrebbe impedito l'e- spressione delle associazioni inconsce. Il paziente doveva anche evitare di discutere lo svol- gimento della terapia al di fuori delle sessioni analitiche, perché troppo forte sarebbe stato il rischio che il materiale più significativo emergesse lontano dalla presenza del terapeuta. Da parte sua il terapeuta avrebbe potuto iniziare a interpretare, cioè a comunicare al pazien- te il significato dei contenuti che emergevano dall'inconscio, solo quando si fosse instaurato il transfert. Solo dopo che il legame col terapeuta si fosse rinsaldato, infatti, il paziente po- teva accettare di ascoltare ciò che la rimozione aveva ricacciato nell'inconscio proprio per- ché inaccettabile. Freud aveva abbandonato la convinzione che la pura e semplice cono- scenza delle dinamiche inconsce fosse di per sé un fattore efficace per la guarigione dalla nevrosi. Si era reso infatti conto che la malattia psichica presentava anche, paradossalmente, dei vantaggi pratici per l'ammalato, definendo tale fenomeno come "tornaconto secondario". In sostanza, quindi, la volontà di superare la sofferenza indotta dalla nevrosi costituiva il "motore primo" della terapia, ma doveva lottare contro altre forze: “La resistenza accompa- gna il trattamento a ogni passo, e rappresenta un compromesso tra le forze tendenti alla gua- rigione e quelle che si oppongono a essa.” La volontà non sarebbe stata quindi di per sé in grado di condurre il malato alla guarigione: sia perché della guarigione il paziente non co- nosceva da solo la strada; sia perché al paziente mancava la necessaria energia. Il trattamen- to analitico rimediava ad ambedue le carenze. Si deve lasciare all'ammalato il tempo di im- mergersi nella resistenza a lui ignota, di rielaborarla, di superarla persistendo, a dispetto di essa, nel suo lavoro. Solo quando la resistenza è giunta a tale livello è possibile scoprire i moti pulsionali interni che la alimentano. La resistenza trovava, attraverso il transfert, la sua più intensa forma di espressione. Era proprio la presenza del transfert, tuttavia, a consentire la vittoria sulle resistenze. La terapia si sarebbe conclusa quando, squarciato il velo della rimozione, anche il transfert, infine, si fosse risolto. 3.6. Alfred Adler e la nascita della Psicologia Individuale Anche se ambedue erano ebrei e si formarono nell'ambiente medico viennese, Adler e Freud provenivano da famiglie con radici geografiche e sociali molto diverse. Freud, che aveva trascorso la primissima infanzia in Galizia, era stato testimone dell'antisemitismo fin da ra- gazzo. La famiglia di Adler proveniva dal Burgenland (al confine tra Austria e Ungheria), dove la sua etnia aveva goduto di una migliore condizione (sia giuridica, sia sociale) rispetto al resto dell'Impero Austro-Ungarico. Questo corrispose a un’identificazione molto più limi- tata da parte di Adler con l'ebraismo: al contrario degli scritti freudiani, le opere di Adler non mostrano una particolare influenza della cultura ebraica e non contengono riferimenti all'antisemitismo. D'altra parte, malgrado problemi economici attraversati dal padre, Freud visse sostanzialmente in un ambiente borghese, mentre Adler trascorse la sua infanzia nei sobborghi più poveri di Vienna. Ciò è riflesso dal fatto che l'impegno sociale di Adler fu molto più marcato rispetto a quello di Freud. Un'altra differenza di vissuto familiare sem- brerebbe aver influenzato i rispettivi assetti teorici: Freud crebbe sotto una disciplina piutto- sto rigida, mentre Adler trascorse l'infanzia senza troppi vincoli e venne coinvolto in fre- quenti liti e scontri fisici con altri ragazzi. Di fatto la teoria freudiana dello sviluppo si in- centrava sul rapporto coi genitori, mentre per Adler il rapporto coi pari assumeva una mag- giore importanza. Durante i suoi studi di medicina, Adler aderì inizialmente al marxismo, salvo prenderne pre- sto le distanze. Si spostò dunque su una posizione socialdemocratica e riformista, che man- tenne per tutta la vita, impegnandosi attivamente da un punto di vista politico. Nei suoi pri- mi anni di attività (fine ‘800), Adler si occupò di medicina del lavoro e dell'influenza delle condizioni sociali sulla salute individuale, e documentava il suo interesse verso il rapporto tra medicina, lavoro e condizione sociale. La sua attività politica seguente mirava a pro- muovere l’igiene pubblica coinvolgendo i medici non solo nella cura dei più poveri (medi- cina sociale), ma anche nella funzione di educatori. Nel 1904 si convertì al Protestantesimo: pare che Adler volesse aderire a una fede in Dio che non fosse né ristretta a un piccolo gruppo etnico (es. ebraica), né soggetta a rigide autorità religiose (es. cattolica). Se Freud te- se a sottolineare sempre di più la propria identità di "ebreo ateo", Adler propose le proprie idee come compatibili con qualunque credo religioso. 3.7. Il periodo psicoanalitico dl Adler L’incontro con Freud avvenne nel 1902; Adler fu uno dei primi 4 frequentatori delle serate del mercoledì e a lungo ne rimase il più attivo partecipante. Il 1° scritto di rilievo di Adler, lo Studio sull'inferiorità degli organi, nacque in seno al mo- vimento psicoanalitico, e si trattava della 1ª opera che manifestasse una certa originalità ri- spetto a Freud. La sua presentazione suscitò subito perplessità e attacchi da parte degli altri allievi di Freud, mentre sembrò attrarre l'interesse di Jung, che la difese. Freud la considera- va una sorta di complemento alle sue idee sul piano fisiologico. Adler, in effetti, attuava una sorta di compromesso fra 3 diverse istanze: (a) la formazione medica, cui era ancora piena- mente legato; (b) la psicoanalisi, di cui comprendeva l'importanza storica; (c) una dottrina nascente, già avviata in una direzione personale. Alla prima era legata la convinzione che fattori costituzionali e malattie fisiche fossero responsabili della nascita di molte nevrosi. L'idea centrale di Adler era infatti che la psicopatologia derivasse dall'inferiorità di un orga- no, che poteva essere di sviluppo o funzionale, assoluta o relativa, ma generava tipicamente un'attenzione soggettiva per l'organo stesso. Tale attenzione si traduceva in un tentativo di compensarne l'inferiorità. Adler era convinto anche che la predisposizione all'inferiorità or- ganica fosse legata all’ereditarietà, e il concetto di compensazione era destinato a divenire uno dei cardini della psicologia adleriana. D'altra parte, almeno 2 spunti centrali potevano ancora collocare Adler all'interno della teoria psicoanalitica. Egli sosteneva infatti che la concentrazione sull’organo “inferiore” potesse innescare il processo nevrotico soprattutto qualora la superficie corporea corrispondente costituisse una zona erogena. Soprattutto, pe- rò, l’idea che “non esiste inferiorità organica senza inferiorità sessuale” poteva sembrare a Freud relativamente tranquillizzante in merito alla fedeltà di Adler. L’atteggiamento di Freud verso Adler, dopo l’iniziale apprezzamento, passò da una relativa tolleranza a una sempre maggiore insofferenza. Freud in seguito decise di nominare Adler presidente della Società psicoanalitica di Vienna: "Non perché mi sia simpatico o sia soddisfatto di lui, ma perché è l'unica personalità “(l'uni- co membro di spicco) e probabilmente, in questa posizione, sarà forse obbligato alla difesa del terreno comune”. Tra fine 1910 e inizio 1911 Freud già lo considerava un nevrotico, pe- ricoloso per il movimento, e aspettava solo la giusta occasione per allontanarlo. Una serie di sedute del mercoledì nel 1911 ebbe per oggetto la discussione di una relazione di Adler. La relazione era incentrata sull'idea che il tentativo di compensazione del senso di inferiorità si attuasse essenzialmente nella forma di una protesta virile, ossia di un tentativo di riafferma- zione della dignità maschile del nevrotico. In considerazione di un'incompatibilità teorica ormai marcata, Freud chiese e ottenne prima le dimissioni di Adler dalla presidenza della Società, che infine abbandonò anche il movimento psicoanalitico. 3.8. La psicologia individuale come disciplina indipendente La prima sistematizzazione delle idee di Adler dopo la rottura con Freud venne pubblicata nella monografia Il temperamento nervoso, 1ª occasione in cui egli presentava il proprio pensiero come Psicologia Individuale. Adler escludeva definitivamente l’idea che la nevro- si fosse legata a una “predisposizione organica”. Al contrario, la psicopatologia era "deter- minata dall'atteggiamento che una persona adotta di fronte alla logica inflessibile della vita sociale e più in particolare “da un sentimento di inferiorità, le cui origini risalgono a un'in- fanzia difficile e penosa”. Non veniva abbandonato il principio secondo cui il senso di infe- riorità potesse essere legato alla debolezza di un organo, ma le conseguenze di tale debolez- za venivano considerate solo sul piano della vita psichica, alla luce del confronto che già il bambino compiva tra sé, gli altri membri della famiglia e i pari. L'inadeguatezza soggettiva si rifletteva cioè in un “mancato adattamento all'ambiente”. La psicologia individuale escludeva che la libido sessuale fosse all'origine delle nevrosi: il principale fattore motivazionale era infatti la volontà di potenza, rispetto a cui la sessualità era subordinata. La nevrosi, inoltre, non era semplicemente "determinata da cause", ma piut- tosto “volta a un fine”. Tale fine consisteva “in un’esaltazione del sentimento della persona- lità, la modalità più semplice della quale ci è data dall'affermazione esagerata della virilità”. Il nevrotico partiva da un tentativo di ricercare una meta importante che rendesse la vita sopportabile: ciò che trasformava in patologia la sua attività erano la tensione e lo sforzo in- cessante nel prevenire ogni ostacolo che lo separava da un risultato tendenzialmente “fitti- zio”. In tale prospettiva, Adler era debitore nei confronti della Filosofia del “come se” (1911) di Vaihinger, che aveva descritto la vita come dominata da finzioni: assunti di base simile circostanza non poteva essere casuale, secondo Jung, essendo egli convinto del de- terminismo psichico (= Freud). Le costellazioni, per Jung, identificavano la presenza di un complesso: “l’insieme delle rap- presentazioni relative a un determinato avvenimento a tonalità affettiva". In seguito Jung avrebbe specificato che il complesso era un’unità psichica superiore rispetto alle singole rappresentazioni; inoltre, se si esaminava tutto il materiale psichico ottenuto attraverso l'e- sperimento associativo, si trovava che ogni associazione era riconducibile all'uno o all'altro complesso. Il concetto di complesso acquistò immediatamente una rilevanza particolare, in quanto Jung gli attribuiva, come polo di attrazione di rappresentazioni, capacità di azione autonoma nella mente, indipendente dalla coscienza. Ciò risultava tanto più evidente, in quanto l'Io stesso veniva identificato come un complesso; nella persona normale sarebbe stato il complesso più saldo e forte, quello che controllava l'attività della mente e che costi- tuiva la personalità dell’individuo. La Teoria dei complessi, nella visione di Jung, poteva essere accostata alla teoria freudiana della nevrosi, da cui traeva uno sfondo teorico coerente. Jung riteneva anzi che le proprie ri- cerche costituissero una vera e propria prova sperimentale della psicoanalisi. Dato che Bleu- ler era a sua volta interessato alle teorie freudiane, Jung poté presentare così i propri risultati senza che ciò gli causasse difficoltà all'interno della propria istituzione. Jung, a questo pun- to, entrò in contatto epistolare con Freud e ne divenne per qualche anno il principale colla- boratore, malgrado le divergenze teoriche che, inizialmente in secondo piano, progressiva- mente determinarono un raffreddamento dei rapporti e poi il loro definitivo allontanamento. 3.10. Freud e Jung: vicinanza e distacco Il periodo della collaborazione tra Freud e Jung fu abbastanza breve. Dalla prima difesa ufficiale della teoria psicoanalitica da parte di Jung, alle sue dimissioni dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale passarono pochi anni, marcati da un buon accordo sul piano organizzativo, ma da un disaccordo sempre più profondo sul piano teorico. Fin da subito Jung non accettò la concezione della libido come esclusivamente sessuale: da una parte era convinto che il transfert rappresentasse "l'alfa e l'omega dell'analisi" (= Freud), ma proponeva anche dei distinguo dalla psicoanalisi, in particolare rispetto all'u- biquità della libido e alla possibilità che la psicoanalisi fosse l’unica forma di psicotera- pia possibile, posizione ovviamente non apprezzata da Freud. Le lezioni di Jung sulla psicoanalisi nel corso del 2° viaggio americano, contenendo diverse critiche a Freud, marcavano un ulteriore distanziamento. Fino al 1° saggio (Trasformazioni e simboli della libido), tuttavia, le differenze teoriche tra i due erano ancora sostenibili, tant’è che Freud elogiava lo scritto per la capacità di Jung di uscire dal ristretto campo clinico di illustrare materiale simbolico con elementi tratti dalla storia della mitologia. Il tentativo di Jung prendeva infatti spunto dalle fantasie di una paziente di T. Flournoy ("Miss Miller"), rela- tive a un eroe da lei creato e battezzato Chiwantopel. Tali fantasie venivano confrontate con una ricca messe di materiale mitologico che da lei non poteva essere conosciuto: il non aver mai neanche visto la paziente assicurava a Jung la certezza di non averla in- fluenzata. Jung mostrò molte affinità tra i racconti della paziente e mitologemi distanti nello spazio e nel tempo, arrivando così a sviluppare una nuova proposta teorica: sarebbe esistita una modalità di espressione della mente alternativa a quella del pensiero razionale diurno. Da tale attività mentale deriverebbero sogni e fantasie adulte, il pensiero dei bambini, la produzione fantastico-mitologica dell’antichità e la modalità di espressione delle popolazioni ancora non toccate dalla civiltà arcaica agli occhi occidentali. L’affinità di contenuti proposta da fonti tanto diverse sarebbe stata la prova dell'esistenza di conte- nuti inconsci comuni agli umani attraverso lo spazio e il tempo (poi chiamati archetipi dell’inconscio collettivo). Jung ipotizzò dunque che l'inconscio aveva una dimensione transpersonale. Nel 2° saggio Jung metteva in discussione il primato della sessualità sostenuto da Freud, sostenendo che la stessa sessualità raccontata nel mito (e nella clinica) potesse rappresen- tare il simbolo di qualcos’altro (es. nel caso di miss Miller, le fantasie sessuali costituiva- no “il simbolo dell'attività della libido separata dai genitori per la conquista indipenden- te”). Forse, inizialmente, Jung ancora si illudeva di poter trasformare la propria concezio- ne della libido in una proposta teorica accettabile anche per Freud. Tuttavia, quando deli- neava una teoria dello sviluppo che prevedeva, tra l'altro, una fase pre-sessuale, ogni margine di dialogo risultava ormai chiaramente precluso. Nel frattempo diveniva progressivamente chiaro che la concezione junghiana del sogno divergeva da quella freudiana. Jung non escludeva l’idea che il sogno potesse rappresen- tare l’appagamento di un desiderio, ma preferiva descriverne il contenuto come compen- satorio rispetto alla vita cosciente quotidiana: il sogno avrebbe contenuto ciò che al so- gnatore mancava nel presente; si trattasse della sessualità o di un'esistenza più emozio- nante. L’interesse maggiore della vita onirica sarebbe stato costituito, per Jung, dal suo riflettere le condizioni psicologiche attuali del sognatore. Spesso, inoltre, piuttosto che guardare al passato (come doveva essere secondo Freud), il sogno si sarebbe rivolto verso il futuro (funzione prospettica), suggerendo una prossima svolta nella vita. L'apparente cripticità del sogno, allora, non sarebbe stata frutto di un processo di mascheramento, ma piuttosto della sua peculiare modalità espressiva (la stessa della mitologia). La riflessione sul sogno ha accompagnato Jung per tutta la sua vita. Il raffreddamento dei rapporti con Freud culminò con una “Declaration of Independence” di Jung, lettera rivendicante il diritto a un percorso teorico indipendente. L’intervento di Jung al Congresso psicoanalitico di Monaco costituì la spinta definitiva verso la fine della collaborazione con Freud. Qui, Jung compì un gesto clamoroso per il movimento psicoa- nalitico, mettendo sullo stesso piano la teoria di Freud con quella dell’appena ostracizzato Adler (Jung aveva da tempo manifestato interesse verso la teoria adleriana, nonostante le cautele finora osservate verso Freud al riguardo). Jung aveva assistito a una relazione di Adler durante una delle serate psicologiche del mercoledì, e aveva affermato che le criti- che rivolte in tale occasione alla teoria adleriana dell'inferiorità organica erano troppo aspre. Tale teoria gli appariva invece come “un'idea brillante”. Jung partiva dalla constatazione che sia Freud che Adler proponessero una visione coe- rente della psicopatologia, poiché ognuno dei due sistemi trovava applicazione terapeuti- ca con successo. Si trattava quindi di capire se i successi fossero solo apparenti, o di im- maginare una forma di convivenza tra la psicoanalisi e la nascente psicologia individuale. Jung fu dunque il 1° a formulare una domanda che il successivo proliferare di teorie e pratiche psicoterapeutiche renderà sempre più pressante (senza trovare, a oggi, una rispo- sta definitiva): come è possibile spiegare la coesistenza e il successo di modelli diffe- renti? Risposta di Jung: 1. Gli umani sono caratterizzati da personalità diverse, riconducibili a un certo numero di tipi psicologici; 2. Ogni teoria psicologica riflette interessi, conflitti e caratteristiche della personalità del suo ideatore; 3. Per quanto l'ideatore possa riuscire a formulare una teoria generalizzabile, non può riu- scire a trascendere le caratteristiche del proprio tipo psicologico (offrire una psicologia del proprio tipo deve già essere considerato un successo); 4. La possibilità di costruire una teoria che tenga conto dei diversi tipi è compito della psicologia del futuro. I Tipi illustrati da Jung erano inizialmente solo 2: - Introverso ® Tende a sviluppare un maggior interesse per il proprio mondo interno che per i rapporti interpersonali. La sua psicologia viene spiegata meglio dal modello adle- riano, e la sua psicopatologia può concepirsi come originata dal senso di inferiorità or- ganico. - Estroverso ® Privilegia i contatti con altri esseri umani. La sua psicologia viene spiega- ta meglio dalla psicoanalisi freudiana, e sviluppa problematiche riconducibili piuttosto alla sessualità. Tale modello era però un po’ troppo primitivo, e le teorie di Adler e Freud venivano for- zate all'interno dello schema. Tali limiti, tuttavia, non ne inficiano l’importanza storica: per decenni nessuno ha proposto una spiegazione alternativa. Dopo tale esternazione, Jung fu considerato un estraneo all'interno del movimento psi- coanalitico e, da quel momento, i suoi contributi teorici vennero sempre ignorati (o di- storti) da Freud e dai suoi seguaci. Uscito dal movimento psicoanalitico nel 1914, Jung tagliò i ponti anche con Bleuler, ab- bandonando il suo posto al Burghölzli e dedicandosi alla professione privata. Molti dei suoi primi compagni di strada (come Ferenczi e Eitingon) rimasero vicini a Freud; Bin- swanger mantenne invece la propria indipendenza da ambedue. Gli anni successivi videro dunque il maturare del pensiero junghiano in una situazione di relativo isolamento, acuito dal parallelo scoppio del 1° conflitto mondiale. 3.11. I nodi problematici della psicologia di Jung: tipi e inconscio collettivo Dopo l'intervento al congresso di Monaco sulla questione dei Tipi psicologici, Jung as- sunse anche pubblicamente un atteggiamento di indipendenza nei confronti del pensiero freudiano. Di fatto, però, egli riconoscerà sempre i meriti di Freud, attribuendogli il giu- sto ruolo di fondatore della psicologia del profondo. Una volta dedicatosi solo alla clientela privata, Jung passò gli anni successivi elaborando la propria teoria, la Psicologia Analitica, che nacque come sinonimo di “Psicoanalisi” ma che acquistò invece subito un significato indipendente. Se a Monaco egli aveva problematizzato la possibile legittimità della teoria di Adler co- me di quella di Freud, nello scritto precedente aveva ipotizzato l’esistenza di un incon- scio trans-personale. Ambedue le questioni presupponevano la necessità di dover esten- dere il territorio esplorato dalla psicoanalisi. Per Jung il “difficile compito” era la creazione di una psicologia che rendesse “giustizia in ugual misura ai due tipi”, ossia all’estroverso (come Freud) e all’introverso (come Ad- ler). Negli anni successivi, Jung sembrava convinto di poter costruire una teoria in grado di assorbire la psicoanalisi e la psicologia individuale. Tale ottimismo era però scemato con la pubblicazione dell'opera “Tipi psicologici”, in cui espose una Teoria dei tipi che si era nel frattempo arricchita. Il tipo psicologico, nella visione ultima di Jung, veniva qualificato sempre dall'atteggiamento fondamentale verso l'esistenza, ovvero dalla moda- lità di investimento della libido, cioè da introversione o estroversione. L’introverso si comporta in modo astrattivo: il suo intento è sottrarre costantemente la libido all'oggetto, come se dovesse prevenire la preponderanza di quest'ultimo; “chiudere la porta dell'inconscio” più che aprirla. Ogni umano poteva avere necessità di- verse anche riguardo la profondità a cui doveva essere condotta l’analisi. L’obiettivo ideale dell'analisi era l’individuazione, ossia la piena realizzazione delle pro- prie potenzialità attraverso l’uso creativo dei contenuti inconsci, anche se non era priva di rischi, poichè “individuazione e collettività sono una coppia di contrari, 2 destini diver- genti”. Solo chi fosse autenticamente creativo poteva aspirarvi: “L'individuazione resta una posa, finché non vengono creati valori positivi. Chi non è sufficientemente creativo deve scegliersi una società e ricostituire con essa l'umanità collettiva, altrimenti rimane un parassita borioso”. All'inverso, anche la nevrosi non deve essere considerata un male in sé, perché "i sintomi nevrotici sono anche esperimenti in vista di una nuova sintesi del- la vita”; anche se si tratta di esperimenti falliti, possiedono “un loro nucleo di valore e di senso, sono germi sviluppatisi male perché le circostanze di natura interna ed esterna era- no sfavorevoli”. Il tipo psicologico influiva, per Jung, sull’andamento della psicoterapia. Per esempio, la modalità di svolgimento della libera associazione sarebbe risultata molto diversa: “Nei tipi di sensazione e negli intuitivi, le associazioni non sono di carattere esplicativo, ma sono coincidenze o corrispondenze, cose che coesistono in uno stesso quadro. Se per esempio si trattasse di questo muro, il tipo di sensazione o l'intuitivo potrebbero associar- gli questa sedia, che semplicemente coesiste a esso (associazione irrazionale). Da un tipo razionale otteniamo associazioni esplicative: se questo tenta di fare associazioni irrazio- nali, queste sono sempre false, non quadrano, e quindi gli chiedo di dirmi solo ciò che pensano”. Soprattutto, però, cambiavano i contenuti dell'inconscio personale, legati alla funzione in- feriore (meno sviluppata). Il tipo pensiero, allora, avrebbe dovuto acquisire la capacità di usare il sentimento, che avrebbe avuto connotati primitivi; mentre il tipo sentimento avrebbe dovuto familiarizzarsi coi giudizi intellettivi, poco maneggevoli per il suo Io. I passaggi successivi della terapia sarebbero risultati simili per i diversi tipi psicologici: prima si avrebbe avuto il confronto con l'Ombra e quello con l'Anima (gli aspetti sempre più profondamente negati e rimossi della propria personalità). In alcuni casi avrebbero potuto emergere anche elementi più profondi e arcaici, legati al mondo dell'inconscio col- lettivo. Nel saggio I problemi della psicoterapia moderna la questione di come procedesse l'ana- lisi veniva affrontata da una prospettiva nuova: sarebbe esistita una serie di stadi del pro- cesso terapeutico, che poteva risultare più o meno opportuno seguire con pazienti dalle caratteristiche differenti: 1) Confessione (legato alla tradizione religiosa e ripreso anche da Freud) ® Tanto nella confessione sacramentale, quanto in quella psicoterapeutica, l’efficacia sarebbe stata dovuta alla possibilità di condividere un segreto, il cui peso può schiacciare se soppor- tato da soli. L'effetto della confessione religiosa era catartico, come un'intensa catarsi era, per Jung, il risultato della tecnica terapeutica di Freud. Confessione e catarsi pote- vano già di per sé essere sufficienti al buon esito di una terapia, ma potevano non ba- stare per 2 tipi di pazienti: - quello che non riusciva a percepire la propria Ombra, malgrado l'analisi lo avesse messo nella condizione di farlo; - colui che invece si beava dell’esplorazione e della catarsi “a spese del suo adattamen- to alla vita”. In tal caso si otteneva, al posto della guarigione, un nuovo sintomo, consistente nella creazione di una dipendenza dall’analisi e dall’analista. Se nel transfert il paziente ri- viveva la relazione coi genitori, l’esistenza di possibili desideri incestuosi mai co- scientemente compresi in tale relazione costituiva un ostacolo alla soluzione del transfert. 2) Chiarificazione (di derivazione freudiana) ® Freud si rese conto della necessità di in- terpretare i contenuti inconsci per portarli alla coscienza (Chiarificazione, per Jung). Il risultato fu “un’elaborazione minuziosa del lato Ombra dell'uomo”. Il più importante contributo freudiano alla psicoterapia, si sarebbe però trasformato nel più drammatico limite della psicoanalisi: “Il metodo interpretativo freudiano è una spiegazione ridutti- va, che porta all’indietro, e che può diventare distruttiva se esagerata e unilaterale. Ma il vantaggio che la conoscenza psicologica ha tratto da Freud consiste nell’aver appre- so che la natura umana possiede un suo lato oscuro. Le nostre più pure credenze pog- giano su basi oscure e profonde, e lo scalpore destato dalle interpretazioni freudiane origina solo dalla nostra ingenuità. “Sbagliamo solo se crediamo che le cose luminose non esistano più perché ne è stato rischiarato il lato d'Ombra, errore in cui Freud stesso è caduto”. Anche la conoscenza del proprio inconscio personale e la soluzione del transfert potevano non bastare per liquidare le conseguenze sintomatiche della propria nevrosi, per cui si apriva la necessità del 3° stadio. 3) Educazione (contributo adleriano) ® “Se Freud è il ricercatore e l’interprete, Adler è soprattutto l’educatore”. La tecnica adleriana spingeva l’uomo all’adattamento so- ciale che la conoscenza di sé poteva non bastare a promuovere. Se, però, all'analiz- zando non fosse sufficiente raggiungere la normalità dell’adattamento ma aspirasse a realizzarsi compiutamente, si sarebbe reso necessario l’ultimo stadio. 4) Trasformazione (contributo specifico dello junghismo) ® Se ci si trovava di fronte a un caso in cui fosse risultato palese l’esordio precoce della nevrosi, sarebbe stato co- munque problematico evitare di ricorrere a un cambiamento profondo della personali- tà: sarebbe stato quindi necessario sempre giungere alla trasformazione della persona- lità, che implicava la possibilità di percorrere un ampio tratto del processo di indivi- duazione. Proprio la soggettività degli esiti possibili rendeva però meno codificabile la teoria della tecnica. Diventava così decisivo il rapporto personale terapeuta-paziente: l’analisi diventava un dialogo, in cui la comunicazione si svolgeva sia sul piano co- sciente sia su quello inconscio. Allora, l’atteggiamento interpretativo nei confronti dei contenuti simbolici provenienti dall'inconscio diveniva molto più aperto. Non si poteva più pensare che il terapeuta conoscesse e giudicasse obiettivamente quanto il paziente riportava. L’interpretazione sarebbe consistita in un procedimento non solo dialogico, ma dialettico, di possibile reciproca influenza, dove il terapeuta doveva essere sempre pronto a mettere in discussione le proprie idee. Freud aveva identificato la neutralità come uno degli aspetti fondamentali della tecnica analitica, e visto il contro-transfert (transfert dell’analista sul paziente) come un osta- colo alla terapia. Per Jung invece il controtransfert era inevitabile, per quanto fosse conscio dei suoi rischi: “Come il medico rischia di infettarsi, così lo psicoterapeuta è esposto al rischio di infezioni psichiche, pericolose quanto quelle fisiche: rischia da un lato di essere coinvolto nelle nevrosi dei pazienti; dall'altro, se cerca di proteggersi troppo dalla loro influenza, rischia di trovarsi privato della propria efficacia psicotera- peutica. Il rischio, ma anche il successo della cura, si trova così nel mezzo”. Anche la diversità della concezione dell'inconscio aveva profonde implicazioni rispetto all'idea della psicoterapia di Freud. Se questi considerava l'analisi una sorta di bonifica e di allargamento dei confini dell'Io rispetto all'Es, per Jung dall'inconscio potevano giun- gere anche illuminazioni e suggestioni: "L'inconscio può essere considerato un fattore creativo, un innovatore, pur essendo al contempo una roccaforte di conservatorismo”. Nel processo analitico, inoltre, per Jung "il terapeuta non è più colui che agisce, ma è compartecipe di un processo di sviluppo individuale, entrando in relazione con un altro sistema psichico come interrogante e come interrogato". Tale diversità di atteggiamento era riflessa anche dalla diversa posizione fisica assunta dalla coppia analista-paziente nel- lo studio: a Jung non piaceva l'uso del divano, perché interferiva col contatto diretto, fac- cia a faccia col paziente. In terapia, inoltre, Jung si concentrava molto di più sulla possi- bilità di rintracciare nel presente le cause della nevrosi, piuttosto che nell'infanzia come faceva Freud. Per lui, infatti, i pazienti diventavano nevrotici quando venivano "bloccati", ossia quando non ricercavano più il percorso naturale dello sviluppo psicologico che si verifica con l'invecchiamento. Tale blocco era generalmente dovuto a una fuga da uno degli obblighi della vita (es. un uomo che sfugge sempre alle donne, o una donna che evade dalla maternità, possono ritrovarsi nevrotici per la loro mancanza di coraggio). Per Jung, il confronto con l'inconscio e il processo di individuazione potevano, in diversi casi, essere estesi per una durata molto superiore a quella dell'analisi. A tal fine, teorizzò la tecnica dell’immaginazione attiva: una sorta di meditazione da condursi a partire da contenuti simbolici emersi dal proprio inconscio. Il movimento psicoanalitico era destinato ad adottare molte idee di Jung sulla psicotera- pia, anche se nella maggioranza dei casi senza conoscere (o almeno senza menzionare) i suoi scritti. L'idea che la relazione costituisca il fattore terapeutico fondamentale è stato uno dei principi-guida tanto del gruppo dei neo-freudiani quanto della psicologia del Sé, ed è stato poi sviluppato dalla psicoanalisi relazionale. Il principio di apertura rispetto all'interpretazione dei contenuti inconsci è stato fortemen- te affermato da tutto il gruppo degli ermeneuticisti. Il coinvolgimento dialettico della coppia analista/paziente è stato propugnato dai fautori della psicologia bipersonale e soprattutto dagli intersoggettivisti. In sintesi, la maggioranza dei concetti teorici junghiani erano già stati introdotti nel 1921: pochi nuovi termini si troveranno in seguito, che non fossero già inseriti nel Lessico che conclude i Tipi psicologici. Gli scritti clinici principali videro la luce entro l'inizio degli anni ’30, e tutta la produzione successiva di Jung venne dedicata ad approfondire le sue concezioni a proposito dell'inconscio collettivo. 3.13. Il Comportamentismo e la psicoterapia La psicoanalisi rappresentava il modello psicoterapeutico meglio radicatosi durante la 1ª parte del ‘900, secolo della modernità, dell'elettricità, dei nuovi sistemi produttivi, degli Stati liberali in cui emergevano nuove soggettività politiche antagoniste (4° stato, donne) e nuovi diritti e doveri di cittadinanza (es. voto, sciopero, lavoro salariato). Col viaggio di Freud in America (1909), la psicoanalisi divenne oggetto di interesse per gli psicologi statunitensi dalla prima decade del ‘900. A partire dal Manifesto (1913) di Watson, il Comportamentismo fece la sua comparsa e colonizzò gradualmente la psicologia americana, i cui esponenti erano oppositori della psicoanalisi e diffusori di un modello di ricerca psicologica che influenzò molto il ‘900. comportamentiste degli anni ‘50 e ‘60, col passaggio dal condizionamento classico al condizionamento operante per opera di Skinner (fine anni ’30). A soli 42 anni Watson abbandonò la carriera accademica a causa di uno scandalo e, una volta fuori dall'università, intraprese una brillante carriera come psicologo del lavoro. 3.14. Terapie e culture del comportamentismo Il comportamentismo, lungi dall'essere una ristretta pratica di laboratorio, rappresentò in realtà una leva per una serie di applicazioni psicologiche (in particolare pratiche sistema- tiche di desensibilizzazione) contro le fobie, terapie avversive e biofeedback, contro al- cune categorie di disturbi psicosomatici (es. tensioni muscolari, ipertensione psicosoma- tica, cefalea). D'altra parte, integrando al comportamento meccanismi interni di controllo dello stesso (mappe cognitive, motivazioni) ed esterni (pressioni ambientali, influenza della situazione), nel ‘900 il comportamentismo è molto cambiato, trasformandosi nel modello CBT e nel cognitivismo sociale. Skinner ® Scoprì che, posti in un luogo chiuso (Skinner box), gli animali potevano es- sere ammaestrati col cibo, che così rinforzava il comportamento (condizionamento ope- rante): con un sistema di rinforzi, ammaestrò così dei piccioni a fare le attività più dispa- rate (es. suonare o individuare una carta da gioco). Tali dimostrazioni sperimentali lo spinsero a ritenere addirittura possibile la costruzione di un mondo ideale in cui il sistema dei rinforzi/punizioni avrebbe modellato il comportamento umano fino a creare una so- cietà in cui la felicità fosse raggiunta da tutti mediante metodi di apprendimento, e tutti i comportamenti indesiderabili fossero tenuti sotto controllo. Il comportamentismo esercitò, quindi, sulla cultura occidentale un forte fascino e l'idea che la psicologia potesse modificare i comportamenti in modo utile alla società stimolò molto la fantasia di politici, artisti, psicologi e psichiatri. Al contempo, alcuni misero in dubbio l'estrema semplicità con cui le tecniche di apprendimento comportamentiste avrebbero effettivamente controllato fenomeni complessi relativi al funzionamento men- tale e alla società. Le teorie e gli esperimenti dei comportamentisti hanno così fortemente influenzato la psicoterapia. Tutti i disturbi specifici d’ansia potevano essere disappresi mediante un piano di desensi- bilizzazione e azioni di rinforzo. Tali tecniche psicoterapeutiche mostravano inoltre gran- de importanza pratica in alcuni casi specifici, come le fobie (es. coloro con paura di vola- re in aereo, ma di cui allo stesso tempo avevano necessità, potevano giovarsi delle tecni- che di desensibilizzazione che si dimostravano efficaci). In particolare, l'efficacia di tali terapie del comportamento è stata dimostrata su un largo spettro di disturbi mentali (fo- bie, depressione, ansia, rabbia, stress, disturbi psicosomatici) quando si sono ibridate con tecniche cognitiviste. Già Skinner aveva promosso varie attività di rinforzo dei compor- tamenti nella pratica psicologica, convinto che proprio i casi più difficili (bambini, adole- scenti, anziani, psicotici) potevano facilmente essere maltrattati nelle istituzioni se non si fossero usate tecniche standardizzate in grado di favorire i comportamenti desiderati tra- mite il rinforzo. Egli, per esempio, favorì la token economy (tecnica di rinforzo per mez- zo di oggetti di poco valore) come modalità di condizionamento del comportamento, che usava delle tesserine di plastica come mezzo di scambio per favorire i comportamenti de- siderati e avversare quelli ritenuti non adattivi. Tale tecnica, di derivazione comporta- mentista e applicata negli ospedali psichiatrici, come riedizione del trattamento morale e con buoni risultati soprattutto con pazienti cronici, si è poi diffusa e usata in pedagogia per educare bambini e ragazzi “difficili”: ottenevano queste tessere se si fossero compor- tati in modo adeguato, se avessero preso parte anche alle altre terapie (es. quella di grup- po) e con esse potevano acquistare tempo libero o beni di consumo. Il framework comportamentista ebbe però conseguenze che oltrepassavano il mero terri- torio della psicoterapia. È stato difatti criticato il meccanicismo insito nella sua concezio- ne dell’uomo, visto come un congegno meccanico che può essere condizionato con tecni- che scientifiche. Il comportamentismo è così rappresentato come una tecnica utile a tutte quelle concezioni dello Stato, progressiste o conservatrici, aspiranti al controllo dei com- portamenti dei cittadini, seppur finalizzato alla costruzione di una società migliore. L’idea utopistica e semplicistica di poter gestire i comportamenti attraverso un impianto ingegneristico e alcune semplici regole fondate sul rinforzo o la desensibilizzazione, sui premi e sulle punizioni, è tuttavia riuscita a giungere fino ai nostri giorni anche nella psi- cologia insita nella politica, influenzata dal monetarismo e dall'ordoliberalismo contem- poranei. Freud è stato il 1° a teorizzare un uso dell’onorario dell’analista come rinforzo per il buon esito della cura, considerando denaro uno strumento per regolare i comporta- menti e favorire il superamento delle resistenze. Del resto, anche nella storia economica il denaro regola sia le transazioni fra individui, che il comportamento dei cittadini. Certe ingenuità del comportamentismo portarono gli psicologi a rivederne il paradigma. Negli anni, si svilupparono infatti forti critiche nei confronti di queste pratiche del Sé che, seppur con aspetti di efficacia, potevano essere connotate da una concezione paterna- lista e autoritaria dell’intervento (fredda messa in opera di tecniche di rinforzo disuma- nizzanti in ambiente ospedaliero). Paradossalmente, in seguito, alcuni critici hanno attri- buito alla sola psicoanalisi il paternalismo, l’autoritarismo e un’istanza di controllo delle masse che in realtà erano presenti piuttosto in una concezione utilitaristica e “antimenta- lista” dell’uomo come quelle organicista o comportamentista. Al contrario, la psicologia dinamica si fondava piuttosto sull’idea che la terapia procedesse per un percorso di illu- minazione, di ampliamento della ragione, di arricchimento mentale, di compensazione e di autonomizzazione dell’individuo. CAPITOLO 4: LA PSICOLOGIA DEL PROFONDO FRA LE DUE GUERRE 4.1. La Prima Guerra Mondiale Il 1914 vedeva Freud, Jung e Adler alla ricerca di un rafforzamento della propria identità. Freud risultava nella posizione di maggior forza e visibilità: la sua dottrina aveva già ini- ziato a diffondersi in molti paesi. In Ungheria, Ferenczi aveva ottenuto la 1ª cattedra uni- versitaria di psicoanalisi. Nondimeno, Freud rivendicò il proprio ruolo di unico artefice della nascita della psicoanalisi, accusando Jung e Adler di voler comprometterne la pu- rezza, nell’abbandonare la teoria della libido. Nello stesso periodo, Freud cercava di ri- solvere la difficoltà più significativa che proprio la teoria della libido aveva incontrato: spiegare l’origine della psicosi. Jung, in effetti, aveva sottolineato l'impossibilità di ricol- legare a tematiche sessuali la sintomatologia delle psicosi e della schizofrenia in partico- lare. Freud proponeva un’integrazione alla teoria dello sviluppo psicosessuale volta a su- perare tale difficoltà. L’umano avrebbe attraversato una fase iniziale dell'esistenza, in cui avrebbe investito tutta la libido su di sé (narcisismo primario): una fase di autoerotismo e senso di onnipotenza, che sarebbe stata superata allorché fossero iniziati i primi inve- stimenti oggettuali, ovvero parte della libido fosse stata investita su oggetti (altri signifi- cativi). Nella psicosi si avrebbe avuto il ritiro della libido dagli investimenti oggettuali, per tornare a una condizione simile a quella iniziale (narcisismo secondario). Si trattava comunque di un aggiustamento teorico che per il momento non mutava la valutazione di Freud sulla terapia della psicosi, che rimaneva ai suoi occhi impossibile attraverso la psi- coanalisi: sarebbe stato impossibile un transfert con persone narcisistiche, aventi la libido totalmente investita su sé. Jung, lasciato il movimento psicoanalitico, attraversò un periodo di isolamento. Gli anni della guerra corrisposero a quelli della distillazione della psicologia analitica come disci- plina autonoma rispetto alla psicoanalisi. Pur cittadino della neutrale Svizzera, Jung ab- bandonò più volte l'attività clinica privata per dirigere un campo di internamento a Châ- teau d’Oex tra il 1917 e il 1919, col grado di capitano medico. Adler, uscito prima di Jung dal gruppo freudiano, allo scoppio del conflitto era impegnato nell'organizzazione di un proprio movimento, scegliendo modalità più informali rispetto alla gerarchizzata Società psicoanalitica. Una simile circostanza, d'altronde, rifletteva an- che convinzioni politiche più progressiste rispetto a quelle di Freud. Sembra che il gruppo adleriano fosse solito riunirsi nei caffè viennesi, più che in sedi istituzionali, il che fu cri- ticato dall’ambiente medico. Anche Adler, come Jung, venne impiegato in qualità di me- dico militare dal 1916. L'esperienza della guerra, vissuta in modo più diretto da Adler e Jung ma non meno in- tensamente da Freud (i cui figli presero parte al conflitto), esercitò un influsso fondamen- tale sulle idee dei tre. Del resto, la natura della condotta dell’uomo poteva essere interpre- tata diversamente, in senso generale, dopo averne constatato le capacità distruttive. Spe- cificamente le nevrosi di guerra, determinate dalle esperienze-limite vissute sul campo di battaglia, costituivano un’inedita forma di psicopatologia, coinvolgente un numero si- gnificativo di soldati. L’ultimo conflitto aveva infatti introdotto forti elementi di discon- tinuità rispetto ai precedenti, sia riguardo le armi impiegate (es. artiglieria più efficace, aggressivi chimici, aerei) sia dal punto di vista della condizione dei soldati (vita in trincea e necessità di continua vigilanza, a causa della minaccia costituita dai cecchini). Sul fronte russo, Lurija osservò le conseguenze della guerra sulla mente dei soldati, per poi introdurre la psicoanalisi in Unione Sovietica, salvo doverla presto abbandonare per l’atteggiamento critico del regime verso la nuova disciplina. Tale scelta forzata si risolse comunque in un esito positivo: avviato su altre ricerche, Lurija diventò il fondatore della neuropsicologia moderna. 4.2. La pulsione di morte L'interesse verso la teoria psicoanalitica, all’interno del blocco formato da Germania e Austria-Ungheria, si ravvivò all'inizio del 1918, dalla pubblicazione di un libro sulla te- rapia delle nevrosi di guerra di Simmel, che illustrò i risultati terapeutici positivi ottenuti attraverso l'impiego del metodo catartico. L'attualità del tema e il successo di Simmel stimolarono la convocazione di un Congresso psicoanalitico a Budapest lo stesso anno, dedicato alle nevrosi di guerra. Al congresso, ovviamente, non parteciparono analisti pro- venienti dall’altra parte del fronte. Sia Ferenczi che Abraham, tra i collaboratori più stret- ti di Freud, proposero interventi nei quali si cercava di dimostrare che le nevrosi di guerra costituivano un fenomeno compatibile con la teoria psicoanalitica. Ferenczi riteneva che le nevrosi di guerra fossero assimilabili a isterie di conversione e isterie d'angoscia inne- scate da un trauma, ritenendo evidente che lo shock aveva “facilmente provocato la re- gressione nevrotica, cioè il ritorno a uno stadio di sviluppo da tempo superato”. Abraham si sforzava di dimostrare che “le nevrosi di guerra non sono comprensibili se non si tiene conto della sessualità”. Allorché gli interventi presentati al congresso venne- un senso di angoscia, emesso dall'Io allorché si trovava di fronte a situazioni spiacevoli. Negli episodi traumatici infantili, si verificava una sensazione di impotenza. Nel corso della vita, l'angoscia sarebbe nata in 2 modi: allorché si fossero verificate situazioni di pericolo reali o allorché sembrasse incombere una minaccia. L'Io generava allora l'ango- scia proprio per evitare la paventata situazione spiacevole. Freud sottolineava anche come da un lato esistesse un legame tra nevrosi e angoscia, dall'altro le reazioni di angoscia non fossero sempre da considerare nevrotiche. Nasceva così la distinzione tra angoscia: • Reale ® Originata da un pericolo reale, davanti a cui si sarebbe reagito in modo natu- rale sia sul piano affettivo (con l'angoscia) che su quello motorio (con l'azione protetti- va). Di fronte al pericolo pulsionale, l’angoscia avrebbe costituito il segnale per avviare comunque un’azione volta a scongiurarlo. • Nevrotica ® Poteva accadere che di fronte a un pericolo reale si producesse una rea- zione spropositata e quindi nevrotica: al pericolo reale conosciuto doveva risultare quin- di legato un pericolo pulsionale sconosciuto. Ciò che però caratterizzava tale tipo di an- goscia, per Freud, era l’aspettativa della possibile ripetizione di una situazione traumati- ca e della relativa sensazione di impotenza: ciò avrebbe determinato un'anticipazione del possibile trauma e una condotta di evitamento. In sintesi, l’Io elaborerebbe una "fantasia della situazione traumatica" e a tale fantasia reagirebbe col segnale di angoscia. Il Super-io, come l'Io, era descritto come in parte cosciente e in parte inconscio. Nel con- testo del nuovo modello, Freud affermava che "la separazione del Super-io dall'Io non è qualche cosa di casuale”: il processo che portava alla formazione del Super-io non era più descritto come una (possibile) scissione, ma come una (necessaria) differenziazione. Il Super-io si sarebbe formato a partire dall'Io mediante l’identificazione coi genitori: il bambino si sarebbe formato sul modello dei genitori un ideale a cui avrebbe voluto con- formarsi. Nella pratica e nella fantasia, il bambino comincia a diventare il suo proprio ge- nitore: in tale sviluppo usa le sue rappresentazioni dei genitori come suoi modelli (fon- dendo le sue rappresentazioni del Sé e la sua rappresentazione dei genitori). Il bambino avrebbe iniziato, quindi, ad avvertire la presenza di norme al di sopra di lui, e a cui si sarebbe dovuto conformare: tali norme erano riconducibili a quelle imposte dall'e- sterno (cioè dai genitori) e iniziavano invece a provenire dall’interno (dalla mente). La coscienza morale era descritta come conscia e si sarebbe espressa attraverso un “impera- tivo categorico” a cui l’Io si doveva adeguare: se non si agisse in conformità all’imperativo categorico, il senso di colpa che ne conseguirebbe sarebbe cosciente e non necessiterebbe di interpretazioni analitiche per essere constatato e spiegato. Il senso di colpa poteva essere tuttavia anche inconscio: la sua presenza sarebbe stata deducibile da un fenomeno tipico dell'analisi, la reazione terapeutica negativa: peggioramento dei sintomi che seguiva a un progresso nell’analisi di alcuni nevrotici: “In essi qualcosa si oppone alla guarigione, e l’approssimarsi di quest'ultima è temuto come un pericolo. In tali persone non la volontà di guarire ha il sopravvento, ma il bisogno della malattia”. Se il Super-io si formava dall’Io, quest'ultimo a sua volta si sviluppava e differenziava a partire dalla parte integralmente pulsionale e inconscia della personalità, che all'inizio della vita dell’uomo avrebbe costituito la totalità della psiche. Freud chiamò Es la 3ª istanza psichica (1ª in ordine di formazione): il suo uso suggeriva il principio per cui “il nostro Io si comporta nella vita in modo passivo - veniamo ‘vissuti da forze ignote e in- controllabili”. L’Es avrebbe costituito inoltre il serbatoio dell'energia psichica. In sintesi: l’Es è la parte della vita psichica più distante dalla coscienza, dalla logica ra- zionale, dal senso della realtà, dalle regole della vita civile. È infatti la matrice della men- te, la parte più profonda dell’inconscio; è l’insieme "primario" delle energie istintuali, e delle fantasie e dei desideri più arcaici, contraddittori, irrealistici e primitivi. Il sistema percettivo avrebbe influenzato la formazione dell'Io sia come fonte di informa- zioni sul mondo esterno, sia in quanto portatore di sensazioni corporee e propriocettive: “Il corpo è un luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni esterne e in- terne, e alla palpazione dà luogo a 2 specie di sensazioni, una delle quali può essere equi- parata a una percezione interna. È stato illustrato molto dalla psicofisiologia il modo in cui dal mondo delle percezioni emerge la percezione del proprio corpo. Anche il dolore (fisico) sembra svolgervi una certa funzione, e “il modo in cui da determinate malattie dolorose si ricava una nuova conoscenza relativa ai propri organi è forse paradigmatico per il modo in cui si perviene in generale alla rappresentazione del proprio corpo”. 4.3. Il tramonto del complesso edipico Il processo di identificazione coi genitori che generava il Super-io non era lineare, sia per il "carattere triangolare della situazione edipica", sia a causa della “bisessualità costitu- zionale” dell’uomo. Il bambino di sesso maschile sviluppava soprattutto l’amore (inve- stimento oggettuale) nei confronti della madre e l’identificazione col padre. Quando egli iniziava a comprendere che il suo desiderio verso la madre era ostacolato dalla presenza del padre, aveva origine il complesso edipico: l’identificazione si tingeva di ostilità e la condotta tenuta verso il padre acquistava carattere ambivalente. L'ambivalenza verso il padre e l'affetto verso la madre sarebbero stati, così, il contenuto del complesso edipico nella forma più semplice (positiva). Allorché il complesso edipico tramontava, aprendo la fase di latenza, l'investimento oggettuale verso la madre poteva essere sostituito da un'i- dentificazione con la madre, o dal rafforzamento dell'identificazione col padre (la più comune), consentendo sia di conservare in parte l'affetto positivo verso la madre, sia di consolidare la mascolinità del ragazzo. Per Freud la vicenda della bambina era speculare: si avrebbe avuto il crepuscolo dell'Edipo e l'identificazione con la madre a rafforzamento del carattere femminile o quella col padre (oggetto perduto), che avrebbe amplificato in- vece le tendenze mascoline. Se la bisessualità umana costituiva già il fondamento di un possibile bivio nella determi- nazione del carattere a partire da un complesso edipico semplice, essa influiva viepiù nel caso che Freud considerava più frequente (soprattutto per i nevrotici), ossia quello del complesso edipico completo, positivo e negativo: il bambino di sesso maschile, oltre a esprimere ambivalenza verso il padre e affetto verso la madre, si comportava come una bambina, con un'impostazione di femminea tenerezza rivolta al padre e un’impostazione gelosa-ostile verso la madre. In tale prospettiva, ogni umano avrebbe manifestato dunque identificazione e scelta oggettuale, affetto e ambivalenza nei confronti di ambedue i geni- tori. La formazione del Super-io sarebbe stata allora il frutto di tale complicato intrecciar- si di tendenze relazionali. In seguito, Freud iniziò a porre l’accento sulla probabilità che un ruolo fondamentale nella vicenda edipica venisse giocato dal complesso di castrazio- ne, la cui natura doveva assumere tratti differenti per i due sessi: “Quando lo sviluppo della sessualità infantile raggiunge il culmine, l’interesse per i genitali e la loro attività assume un’importanza dominante, non molto inferiore a quella degli anni della maturità. La principale caratteristica di questa “organizzazione genitale infantile” è la sua diversità rispetto alla definitiva organizzazione genitale dell'adulto. Tale diversità consiste nel fatto che per entrambi i sessi c’è un solo genitale degno di essere considerato, quello maschile. Non siamo dunque in presenza di un primato dei genitali, “ma di un primato del fallo”. Quindi la situazione non doveva essere descritta come atteggiamento rispetto al possesso di "un genitale", ma rispetto alla presenza/assenza del genitale maschile. Anche la que- stione della sua perdita, allora, avrebbe assunto connotati diversi per i due sessi. Il bambino di sesso maschile si trovava a essere esposto prima al trauma della separazio- ne dalla madre con la nascita, poi a quello della separazione dal seno materno con la fine dell’allattamento; poi a una serie di separazioni quotidiane dal proprio contenuto intesti- nale. La disapprovazione da parte degli adulti per l’interesse del bambino verso il proprio genitale durante la fase fallica si sarebbe espressa con una minaccia di evirazione che egli stesso ancora non avrebbe preso sul serio se, oltre ai traumi pregressi, non avesse scoper- to che esistevano degli esseri privi del fallo (bambine). L’ipotesi infantile doveva essere che le bambine fossero state evirate, e quindi fossero la testimonianza che l'evirazione costituisse un pericolo. Viceversa, la bambina, trovandosi anch'essa nella condizione di confrontare il proprio organo col genitale maschile, si sarebbe trovata in condizione di mancanza, anche se probabilmente avrebbe sperato di poter essere messa in futuro nella condizione di possedere anche lei un genitale simile. In definitiva, per Freud, “la bambina accetta l’evirazione come un fatto compiuto, mentre il bambino la teme come una possibilità futura”. Venendo meno la minaccia attuale dell’evirazione e la relativa angoscia, le ragioni per la formazione di un Super-io forte nella bambina divenivano meno pressanti. L’unica mi- naccia verosimile sarebbe stata quella di perdere l’amore dei genitori. Altro ripensamento fu la convinzione che il complesso edipico femminile risultasse molto più caratterizzato dal solo amore verso il padre. Su tali premesse si innestava l’idea che un Edipo mai risol- to e un Super-io mai compiutamente strutturato sarebbero state caratteristiche inevitabili dell'identità femminile. Per Freud nella donna il desiderio di un bambino sostituiva il desiderio del pene, ma con- fermava e anzi divaricava la differenza tra sviluppo maschile e le sue conseguenze sulla formazione del Super-io e sulla moralità femminile; continuava quindi ad appoggiare l’idea di una differenza tra coscienza morale maschile e femminile. Persino l'idea che la donna fosse intellettualmente inferiore all'uomo veniva definita un dato di fatto, pur se considerata frutto di un’educazione sbagliata, volta ad allontanarla da ciò che più la inte- resserebbe: la sessualità. Freud era consapevole delle possibili critiche dalla parte femminile, cercando riparo nelle idee parzialmente simili alle proprie, proposte da 2 analiste come Deutsch e Horney a proposito dello sviluppo psicosessuale della donna. Entrambe ripresero criticamente l'idea freudiana che la donna fosse caratterizzata da un naturale masochismo, dovuto alla ricet- tività e passività connaturata alla sessualità femminile, e attribuirono il masochismo femminile a fattori non già innati, ma educativi e culturali. Deutsch, tuttavia, rimase sem- pre una freudiana ortodossa, mentre Horney divenne in seguito un'esponente di rilievo del movimento culturalista in psicoanalisi, criticando il pensiero freudiano per il suo legame con una prospettiva maschile ed etnocentrica. Se inizialmente poteva sembrare che vi fosse una relazione diretta tra repressione genito- riale e severità del Super-io, Freud dichiarò che “la severità originaria del Super-io non è quella sperimentata o attesa (dall’Io ancora indiviso) da parte di lui (il padre-oggetto), ma rappresenta la propria aggressività contro di lui”. Infine, egli propose che il Super-io si modellasse non tanto sull'atteggiamento (percepito o reale) del padre verso il figlio, quan- to sul Super-io del padre stesso. L’introduzione del modello strutturale modificava anche la concezione generale della prima che l’analista avesse modo di formularla: "Ora Lei penserà che io voglia dire qualcosa di offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione. Comprendiamo che que- sto è il ripudio, mediante proiezione, di un’associazione che sta emergendo”. Oppure: “Lei domanda chi possa essere questa persona del sogno. Non è mia madre”. Noi retti- fichiamo: dunque è la madre. Ci prendiamo la libertà, nell'interpretazione, di trascurare la negazione e di cogliere il puro contenuto dell'associazione. È come se il paziente avesse detto: “Per la verità mi è venuta in mente mia madre per questa persona, ma non ho voglia di considerare valida questa associazione”. Simile era il significato del dissenso dal contenuto di un’interpretazione accompagnato da una formula caratteristica, come “Questo non l'ho mai pensato”. Senza timore di sbagliare, tale espressione può essere tradotta: “È vero, in questo caso Lei ha colto proprio l'inconscio”. Purtroppo questa formula, che all'analista giunge così gradita, si ha l'occasione di ascoltarla più frequentemente in seguito a singole interpretazioni che non in seguito alla comunicazione di ampie costruzioni. Una modalità di conferma “impressionante” si sarebbe osservata quando l'assenso all'interpretazione “avvalendosi di un atto mancato, si insinua nell'esplicita formula- zione di un dissenso”. Esempio clinico: “Ha un effetto rasserenante il lapsus verbale che serve a ottenere una conferma du- rante una disputa, cosa gradita allo psicoanalista. Una volta dovetti interpretare un sogno in cui compariva il cognome “Jauner”. Il sognatore conosceva una persona co- sì chiamata, ma non riusciva a capire perché essa faceva la sua comparsa nel sogno, così che osai affacciare l'ipotesi che potesse essere solo per il suo cognome, che ha un suono simile all'insulto Gauner (“farabutto”). Il paziente protestò, ma commise un lapsus e così facendo confermò la mia ipotesi, perché si servì una seconda volta della stessa sostituzione iniziale. Rispondendo: "La Sua ipotesi mi sembra troppo ardita" disse jewagt anziché gewagt (ardito). Quando gli feci notare il lapsus, si rassegnò ad accettare la mia interpretazione”. 3. La coerenza della risposta all'interpretazione (positiva o negativa) con ulteriori dati confirmatori che fossero emersi successivamente durante l’analisi ® Quello più im- portante, nel quale Freud confidava di più ai fini della conferma della validità dei dati clinici della psicoanalisi. Per Freud infatti, solo il prosieguo dell’analisi permetteva di giudicare la validità di un’interpretazione. Idealmente, la conferma avrebbe dovuto provenire dall’emersione di un ricordo precedentemente rimosso. Tuttavia, anche altri contenuti associativi potevano avere valore confermativo (es. poteva capitare che a un'interpretazione dell'analista facesse seguito il racconto di un'altra situazione vissuta dal paziente cui l'interpretazione appena data si attagliava e donava significato). Un criterio particolare era poi costituito dal peggioramento dei sintomi che, per Freud, se- guiva l’ascolto di interpretazioni significative da parte di quella categoria di pazienti a cui si poteva ascrivere “il senso di colpa, il bisogno masochistico di soffrire e la ribel- lione all'aiuto che può essere recato dall'analista”. L'analista dovrebbe prevedere que- sto tipo di reazione prima che si verifichi, perché possa essere considerata una confer- ma dell'interpretazione. Per Freud la psicoanalisi era l’unica forma di psicoterapia efficace, in grado di offrire al nevrotico una conoscenza reale e completa del suo mondo interno, e solo questa poteva condurre a risultati. I risultati positivi erano da considerare legati allo scioglimento del transfert e potevano ritenersi definitivamente acquisiti: “Colui che nei rapporti col medico è ormai divenuto normale e non è più soggetto a spinte pulsionali rimosse, tale resterà an- che nella vita privata, senza il medico”. In seguito, Freud si riferì all'analisi non più come all'unico metodo efficace, ma come al "più potente", e come tale da non applicare in casi lievi, “ma in casi idonei si possono con essa eliminare disturbi, provocare mutamenti che nessuno avrebbe potuto in epoca prea- nalitica”. Negli ultimi scritti, Freud sembrava tenere un atteggiamento ancora più pruden- te: si doveva anche ammettere che un percorso terapeutico apparentemente terminato non preservava sempre l’analizzato da problemi psichici successivi (es. caso dell'Uomo dei lupi che, dopo un apparente successo, si era riaperto pochi anni dopo con un nuovo trat- tamento, a sua volta seguito da ulteriori periodi di cura con un'altra terapeuta; il paziente non si ritenne mai completamente guarito, ed ebbe anzi fin dall'inizio seri dubbi sull'effi- cacia della psicoanalisi). Veniva infine chiarito da Freud che il concetto di "fine analisi" poteva essere declinato in modi diversi. Idealmente, la terapia terminerebbe qualora “da una continuazione dell’analisi non ci si possano ripromettere ulteriori cambiamenti”, nel senso di una rag- giunta “assoluta normalità psichica”. Meno ambiziosamente, si poteva considerare termi- nata un’analisi allorché paziente e analista si fossero accordati su 2 circostanze: 1. che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e abbia superato le sue inibizioni e an- gosce; 2. che l’analista giudichi che sia stato reso cosciente al malato il materiale rimosso, siano state chiarite tante cose inesplicabili, e debellate tante resistenze interne, che non c'è da temere il rinnovarsi dei processi patologici. Anche un simile esito non si sarebbe verificato necessariamente, ma era condizionato dal- la natura della nevrosi. Dando per acquisito che ogni psicopatologia dipendesse sia da fat- tori costituzionali che esperienziali, solo allorché questi ultimi prevalevano l’analisi pote- va ottenere i migliori risultati. Ciò perché il lavoro analitico si poteva svolgere a partire da quella “alleanza che stabiliamo con l'Io del paziente, al fine di includere nella sintesi del suo Io porzioni incontrollate del suo Es”; una tale alleanza si può attuare “solo con un lo normale”. Evidentemente, però, anche l'alleanza terapeutica con l'Io del paziente aveva un valore relativo e instabile, perché “i meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro la guarigione”: in pratica “la guari- gione è trattata dall'Io alla stregua di un nuovo pericolo”. L'analisi doveva quindi proce- dere oscillando “da un frammento di analisi dell'Es a un frammento di analisi dell'Io”. Il lavoro sull'emersione di nuovi contenuti dall’Es e di correzione di qualcosa dell'Io proce- deva in parallelo: era come se si dovesse rinnovare continuamente l'alleanza, perché l'Io evitasse di arrendersi dopo ogni battaglia. Il paradosso era che la resa sarebbe potuta sembrare tanto più attraente quanto più netta fosse sembrata la precedente vittoria. D'altra parte "gli strumenti con cui lavora l'analisi hanno un potere circoscritto, e il risultato fina- le dipende dal rapporto di forza tra le istanze che si combattono”. Ulteriori ostacoli per la cura potevano essere costituiti anche dalle caratteristiche di per- sonalità dell'analista, che dovevano quindi essere prese in considerazione. Anche l'analisi didattica normalmente prevista, tuttavia, poteva risultare insufficiente. Ogni analista avrebbe dovuto quindi sottoporsi a un nuovo periodo di analisi ogni 5 anni: “non solo l'a- nalisi terapeutica del malato, ma anche la sua (dell’analista) stessa analisi da compito terminabile si trasformerebbe in compito interminabile”. Alcune forme di resistenza parzialmente descritte in passato apparivano ora a Freud come ostacoli quasi invalicabili. La “viscosità della libido” (= difficoltà ad abbandonare gli in- vestimenti già effettuati) e l’inerzia psichica “potevano rallentare in modo imprevedibile ogni tipo di psicoterapia. Il senso di colpa inconscio già riconosciuto come "localizzato al livello del rapporto tra l'Io e il Super-io" costituiva dunque solo una componente della re- sistenza, ormai descritta come “una forza che si oppone alla guarigione”. Tutto ciò comportava che solo una personalità poco disturbata potesse beneficiare real- mente di una psicoterapia analitica; anche se, per Freud, "si ha l'impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fine risultasse che la differenza di comporta- mento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un'analisi non è poi co- sì radicale come ci attenderemmo". La "differenza di comportamento" poteva risultare talmente impalpabile da indurre l'analista a considerare conclusa una terapia senza che il paziente avesse avvertito reali vantaggi. Rischio inverso (ma complementare) era che l'a- nalisi potesse considerarsi terminata solo in un numero limitatissimo di casi (giustifican- do così percorsi terapeutici di durata più che decennale). A completare il quadro, c’era l’idea che l'inconscio fosse conoscibile solo in modo par- ziale e deformato. Freud chiamava roccia basilare la difesa maschile contro gli aspetti femminili (passività) e quella femminile contro gli aspetti maschili (invidia) della perso- nalità, che avrebbe potuto addirittura non consentire mutamenti nella mente del paziente. Trasformare l'Es in una provincia dell'Io non era facile. Vacillava, quindi, la convinzione (mai prima venuta meno in Freud) che fosse possibile conoscere la verità storica sul pas- sato del paziente. Che tale possibilità non venisse sempre attuata era però ormai chiaro dall'emergere del concetto di costruzione che, rispetto alla semplice interpretazione, co- stituiva un affresco più vasto, una narrazione sul passato del paziente che partiva dagli elementi già emersi per dipingere un quadro ampio e coerente di eventi ancora non emersi dalla rimozione: “L'interpretazione” si riferisce a ciò che si intraprende con un singolo elemento del materiale: un'idea improvvisa, un atto mancato, ecc. Una “costruzione” si dà invece quando si presenta all'analizzato un brano della sua storia passata e dimentica- ta, più o meno così: “Fino all'anno X della sua vita, Lei si considerava l'unico possessore di Sua madre; poi arrivò un secondo bambino e con lui una grave disillusione. Lei fu ab- bandonato per un periodo da Sua madre, che anche in seguito non si dedicò mai più esclusivamente a Lei. I Suoi sentimenti nei confronti di Sua madre divennero ambivalenti e Suo padre acquistò per Lei un nuovo significato", e così via”. Inizialmente, Freud attribuiva alla costruzione un valore anticipatorio, che non sostituiva l’insight: “L'effetto terapeutico è legato al farsi cosciente di ciò che nell’Es è rimosso; noi prepariamo la strada a questo farsi cosciente mediante interpretazioni e costruzioni. Se riusciremo o meno a portare compiutamente alla luce il materiale nascosto è solo un pro- blema di tecnica psicoanalitica". Alla fine, si trovava però costretto ad ammettere: “La via che parte dalla costruzione dell'analista dovrebbe terminare nel ricordo dell'analizza- to; non sempre essa giunge tanto innanzi. Ci capita spesso di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del rimosso. In sua vece, se l'analisi è stata svolta correttamente, otte- niamo in lui un convincimento circa l'esattezza della costruzione che, sotto il profilo tera- peutico, svolge la stessa funzione di un ricordo recuperato”. È questa posizione ad aprire la possibilità di un esito ermeneutico della teoria psicoanalitica. Se la prova storica del recupero del ricordo rimosso non era decisiva ai fini della terapia, se il convincimento aveva lo stesso valore terapeutico del ricordo, allora i veri obiettivi dell'analista potevano diventare la coerenza narrativa e la persuasività retorica del racconto. Tutto ciò appariva lontano dalle intenzioni originarie di Freud, ma coerente con i suoi ultimi approdi. sistenze non doveva essere trascurato nemmeno in quei casi in cui la resistenza tendeva “a usare la regola fondamentale dell'associazione per frustrare gli scopi della cura”. Nel caso di pazienti con un'attività fantasmatica particolarmente povera, la tecnica attiva trovava nuovi campi applicativi. Allorché, per esempio, qualcuno non sembrasse reagire a situazioni o interpretazioni che avrebbero destato sentimenti intensi, Ferenczi interveni- va per “costringere il paziente a recuperare le reazioni adeguate”. Se egli avesse insistito nel sostenere che non gli veniva in mente nulla, lo avrebbe autorizzato “a inventare libe- ramente queste reazioni nella fantasia”. Tali invenzioni si sarebbero trasformate successi- vamente in spunti per una piena emersione di contenuti inconsci rimossi. Ferenczi iniziò poi a ritenere opportuno che, dopo una fase iniziale di studio e una suc- cessiva dove gli interventi analitici fossero solo di natura interpretativa, si potesse inizia- re a “prescrivere delle regole di comportamento” che facessero “progredire il lavoro ana- litico”, influenzando così le relazioni interpersonali importanti, le abitudini e il compor- tamento. Gli esperimenti non erano privi di rischi, per cui Ferenczi suggeriva che le misu- re provocatorie non dovessero essere imposte come in una ripetizione del rapporto geni- tori-bambino: “ho rinunciato a impartire ordini o divieti, e ho cercato piuttosto di mettere in atto la misura progettata solo dopo aver ottenuto il loro consenso razionale”. Dopo l’introduzione, in certi casi, di compiti di aumento della tensione uretrale e sfinteri- ca, Ferenczi iniziò anche a sperimentare tecniche di rilassamento durante la seduta. L'evoluzione verso esperimenti tecnici sempre più radicali venne influenzata molto da E. Severn, una paziente che dal 1924 entrò nella vita di Ferenczi e che rimase in analisi con lui fino alla morte dello psicoanalista (1933). Ella era una paziente che Ferenczi identifi- cava come RN: persona fortemente disturbata, più volte sull’orlo del suicidio e che arrivò a formulare un’auto-diagnosi di schizofrenia, pur iniziando una propria attività come psi- coterapeuta. Con lei Ferenczi mise in atto sforzi terapeutici sovrumani, giungendo a sedu- te molteplici nella stessa giornata per un tot. anche di 5h (anche durante la notte), prose- guendo l’analisi durante il fine settimana o addirittura durante le vacanze. Infine, speri- mentarono anche l’analisi reciproca. Attraverso l’analisi con Severn, Ferenczi si convinse anche della necessità di rivalutare la teoria del trauma sessuale infantile, suscitando la costernazione di Freud. Nel caso di Fe- renczi, l’allontanamento da parte di Freud negli ultimi anni non venne ufficializzato. 4.8. L’incontro tra Psicoanalisi e Marxismo Marx e Freud sono accomunati storicamente con Nietzsche con l’etichetta di “filosofi del sospetto”: a partire da loro, sarebbe divenuto finalmente possibile “sospettare” che lo sta- to di fatto, l'ordine costituito, la coscienza non siano ciò che appaiono, e che la loro mani- festazione attuale non sia l’unica possibile. L’incontro tra la psicologia del profondo e Nietzsche fu molto precoce: Freud, Adler e Jung ne vennero direttamente influenzati (anche se in modo differente). L’incontro tra marxismo e psicoanalisi fu più tardo (anni ‘20) dato che Adler, pur molto impegnato poli- ticamente a sinistra, si orientò piuttosto sul pensiero social-democratico. Le sue fonti pa- rallele furono la nascita della Scuola di Francoforte e la conversione al comunismo di W. Reich, attivo come psicoanalista prima a Vienna e poi a Berlino (e in seguito outsider). Da una parte la psicoanalisi stava conoscendo ormai un’affermazione straordinaria; dall'altra avveniva la vittoria e il consolidamento di un regime comunista in Russia, con la nascita dell'Unione Sovietica; l’idea di una rivoluzione sociale di segno marxista in Eu- ropa occidentale poteva sembrare una possibilità ormai concreta, anche se non si concre- tizzò. Al contrario, l'Occidente vide piuttosto una progressiva avanzata dei fascismi, sce- nario non previsto da Marx. Il freudo-marxismo venne declinato in modo differente, ma partiva da una comune radi- ce: la convinzione che non fosse sufficiente curare il singolo per guarire la sua nevrosi. La società stessa era malata, e nevrotizzava gli individui. Senza modificare il sistema, dunque, non sarebbe stato possibile restituire alla sanità mentale l’uomo. L’antropologia marxista su cui si basava tale impostazione attinge agli scritti giovanili di Marx che stori- cizzano i bisogni e i desideri dell’uomo. Gli spunti psicologici presenti in tali scritti pro- dussero un'influenza nel campo freudo-marxista, contaminando la psicologia e la psicoa- nalisi col materialismo storico. In tali scritti era presente un’antropologia in cui i bisogni naturali interagivano con la loro possibilità di soddisfazione; i bisogni (marxiani) si iden- tificavano coi desideri (freudiani), cambiando dinamicamente al confronto con la realtà. Esempio: la fame è diversa se si soddisfa con un cibo semplice o con un cibo cultural- mente rielaborato. La fame cambia quindi al cambiare delle condizioni materiali di soddi- sfacimento; la natura della fame cambia quando da bisogno diventa un desiderio di cibo sofisticato. Questo uso psicologico di Marx condusse a una concezione della psicologia e della psi- coanalisi che teneva presente i limiti posti all’evoluzione umana dalle condizioni storiche e materiali in cui l’individuo esisteva concretamente. Sia per Reich che per la Scuola di Francoforte l’inquadramento sociale dell'individuo par- tiva dal vissuto familiare, attraverso cui venivano assorbite le istanze repressive veicolate dalla società. Reich, però, propose una strategia di azione basata sulla liberazione sessua- le. I Francofortesi concepirono il pensiero freudiano piuttosto in qualità di strumento dia- gnostico che come leva del cambiamento (la rivoluzione avrebbe dovuto essere economi- co-politica). Peraltro, Fromm, elemento di maggior spicco della Scuola francofortese, era destinato ad abbandonare presto la fede marxista e a collocarsi in posizione eccentrica anche rispetto al movimento psicoanalitico: insieme a Horney, Reichmann, Sullivan e Thompson verrà classificato come “neofreudiano”. 4.9. Reich e l’analisi del carattere Reich si formò a Vienna come medico e psichiatra, dopo aver partecipato alla 1ª guerra mondiale. Il suo percorso di studi fu brillante e lo portò a laurearsi in medicina e poi a specializzarsi in neuropsichiatria. Nel 1920 però, aveva già aderito alla Società di psicoa- nalisi di Vienna e solo 2 anni dopo iniziò la pratica come psicoanalista. Il suo incontro con Freud fu favorito dal suo interesse per la sessuologia. Reich era infatti diventato il leader di un gruppo di studenti viennesi che lamentavano la carenza di insegnamento in questo campo in ambito universitario, e avevano deciso di organizzarsi per conto loro dei seminari. L’invito a Freud era un passo prevedibile, ma l’incontro risultò una folgorazio- ne: sia la personalità che le idee di Freud marcarono Reich indelebilmente. In particolare, fu attratto dalla concezione freudiana della libido come energia (concezione destinata in seguito a ricevere una elaborazione). Fin da subito Reich mostrò, come Adler, un profondo interesse per i problemi sociali e promosse la creazione di consultori sessuologici per le classi sociali meno abbienti. Pro- prio il contatto con la "miseria sessuale delle masse” gli instillò dubbi sull’approccio psi- coanalitico classico, basato sulla pratica con pazienti alto-borghesi (in grado soprattutto di affrontare tempi e costi della terapia). Ai suoi occhi la repressione sessuale, piuttosto che un mezzo per conservare la civiltà, come per Freud, costituiva un mezzo per attuare la repressione politica, soprattutto a carico delle fasce più povere della popolazione. Nel 1927 aderì al Partito comunista e si immerse nella lettura di Marx ed Engels, primo frutto della quale risultò Materialismo dialettico e psicoanalisi, testo dove tentava di mo- strare la natura dialettica della psicoanalisi e di contestarne la tendenza di perdere gli ori- ginali connotati “rivoluzionari” per trasformarsi in uno strumento di dominio della bor- ghesia sul proletariato. Reich rovesciò l’assunto freudiano per cui la civiltà si basava sul- la repressione delle pulsioni: per lui, era la civiltà ad aver generato la repressione, funzio- nale a mantenere soggette le classi subalterne. Piuttosto che essere un fattore di ordine sociale, la repressione degradava la vita amorosa. Dopo l’ascesa di Hitler, Reich, Fromm e tutti i Francofortesi furono costretti a rifugiarsi all’estero. Prima dell’esodo, tuttavia, Reich venne messo alla porta dall'IPA, non tanto per le posizioni ormai quasi eretiche, quanto per la sua aperta militanza comunista. I col- leghi analisti, infatti, temevano che la sua presenza tra i loro ranghi potesse attirare un'at- tenzione non proprio benevola da parte dei nazisti. La sua attività teorico-clinica, fin dagli anni ‘20 esercitò un'influenza superiore a quella riconosciutagli dalla psicoanalisi ufficiale in seguito. Il suo contributo costituiva una sor- ta di ponte tra le idee di Rank e Ferenczi e quelle della successiva psicologia dell’Io: prendeva le mosse proprio dalle proposte rankiane e ferencziane di analisi attiva e venne anche menzionato da Anna Freud per l'importanza delle sue proposte cliniche. Il ricono- scimento da parte di A. Freud era tanto più significativo in quanto lei stessa era stata nel frattempo magna pars nell’allontanamento di Reich. Il contributo di Reich prendeva le mosse da un fondamentale nodo problematico della psicoanalisi freudiana. Freud aveva inizialmente ritenuto che l’emersione dei contenuti inconsci nella coscienza dovesse necessariamente portare alla guarigione. In seguito, si rese conto che l’analisi dell’inconscio poteva essere solo un presupposto della guarigione, ma non sempre tale presupposto risultava sufficiente. Reich si chiese dunque perché al- cuni pazienti rimanessero refrattari a ogni miglioramento malgrado un’analisi lunga e ap- profondita e altri, che invece avevano compiuto un percorso analitico meno completo, guarissero del tutto dalla loro nevrosi. Paragonando ciò che differenziava i pazienti del 1° gruppo da quelli del 2°, Reich concluse che la chiave interpretativa andasse ricercata nell’attività sessuale. I pazienti si avviavano alla guarigione se riuscivano a iniziare, con l’aiuto dell’analisi, una vita sessuale soddisfacente e non miglioravano se permanevano nell’astinenza. Inoltre, la probabilità di guarigione risultava più elevata quanto più “è sta- to attivato il primato genitale” durante l'età dello sviluppo, mentre “è tanto più difficile quanto meno la libido è stata rivolta alla zona genitale nella prima infanzia”. Una caratteristica di Reich sta nel coraggio dimostrato nel raccontare i fallimenti terapeu- tici, che aveva in comune coi momenti migliori dell'opera freudiana e, come per Freud, le situazioni d’impasse erano uno spunto per illustrare suggerimenti tecnici nuovi. Come la fuga di Dora aveva offerto un motivo per evidenziare l’importanza della gestione del transfert, così la riflessione sui casi non conclusi da Reich gli suggerì un nuovo atteggia- mento rispetto al procedere dell’analisi: “Ogni intoppo non chiarito durante l'analisi è colpa dell'analista”. L'obiettivo polemico, per Reich, era l’ “errata concezione della rego- la freudiana secondo cui la direzione dell'analisi deve essere lasciata al paziente. Questo poteva solo significare che non si deve disturbare il lavoro del malato se questo procede nel senso della sua volontà di guarire e delle nostre intenzioni terapeutiche”. Tuttavia, per Reich, non sarebbe stato mai il paziente a parlare per primo della propria resistenza, ma sarebbe dovuto essere l’analista a indirizzare il percorso delle associazioni e a cercare proprio nella resistenza un filo da seguire nel progressivo disvelamento offerto nel per- corso analitico. Inoltre, Marx aveva commesso un errore nel prevedere che la società borghese, fondata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sarebbe stata rovesciata dalla ribellione del prole- tariato. Al contrario, né i lavoratori tedeschi, né quelli americani avevano mostrato un particolare impulso al cambiamento politico della società. L’uso della propaganda, per quanto strumento di consenso nuovo ed efficace, non poteva rappresentare una spiegazione sufficiente allo stallo della dialettica storica e del conflitto che avrebbe dovuto condurre alla rivoluzione nei termini puramente marxiani. La com- prensione delle ragioni psicologiche soggettive e gruppali diveniva uno strumento fon- damentale per la comprensione dell’evoluzione delle società occidentali. Fu Fromm a coniare l’espressione psicologia sociale analitica, indicativa dell’applicazione della psi- coanalisi allo studio della società. Fromm ebbe un’intuizione profonda: poiché l'individuo non aveva un contatto diretto con la società se non in un momento relativamente tardo della sua esistenza, quando il suo carattere era già formato, era la famiglia la principale agenzia psicologica della società. Tale intuizione costituisce il germe dei successivi Studi sull'autorità e la famiglia. Per Fromm la famiglia costituiva il fondamento dell'autorità politica, poiché il rapporto instaurato dai figli col padre era il modello dell'atteggiamento nei confronti dell'autorità costituita: allo stesso modo, però, era il modello sociale a fon- dare la struttura familiare, ossia il tipo di rapporto tra genitori e figli. La collaborazione di Fromm col gruppo dei Francofortesi, tuttavia, non sopravvisse al trasferimento nel ‘34 negli USA a causa del nazismo. Ciò fu dovuto in parte all’ostilità personale di Adorno, e in parte a una diversa posizione rispetto a Freud: la visione natu- ralistica e materialistica della psicoanalisi che Fromm criticava, destava l’interesse di Adorno e Horkheimer. Poi, Fromm prese sempre più le distanze anche dal marxismo. Anche dopo il distacco di Fromm, tuttavia, i Francofortesi continuarono a usare Freud nello sviluppo della Teoria Critica. Un tentativo di studiare la tendenza latente ad accet- tare i regimi di stampo fascista fu quello di Adorno, che fece uno studio empirico per comprendere quali fossero le caratteristiche di personalità di chi è tendenzialmente porta- to a integrarsi senza difficoltà in una società di stampo autoritario. Marcuse (1955) propose un’utopia socialista fondata sulla liberazione economica e ses- suale e che risultò, nel bene e nel male, uno dei manifesti del ‘68. CAPITOLO 5: NUOVE VIE DELLA PSICOTERAPIA INTORNO AGLI ANNI DELLA 2ª GUERRA MONDIALE 5.1. Le diverse origini della psicoterapia di gruppo Quanto osservato riguardo l’origine della psicoterapia in generale, può essere ribadito ri- guardo la psicoterapia di gruppo. I trattamenti che coinvolgono i gruppi possono essere considerati antichi quanto la tradi- zione magica sciamanica (lo sciamano eseguiva i suoi riti coinvolgendo tutta la tribù). Già nella Grecia classica, il teatro assunse un ruolo terapeutico attraverso la catarsi. Sia Mesmer che Coué (ipnotizzatore della Scuola di Nancy) tenevano, per i loro trattamenti proto-psicoterapeutici, delle sedute per gruppi, ma senza considerare la gruppalità come fattore curativo in sé. Nel ‘900 e soprattutto nei paesi anglosassoni, il piccolo gruppo di- venne un nuovo soggetto d’interesse degli “scienziati psi”. Alcune iniziative dell’uso te- rapeutico del gruppo al fine di favorire l'auto-aiuto fra pazienti sofferenti di una stessa condizione medica (es. psicotici, alcolisti, nevrotici), con la conduzione di alcuni medici e operatori della salute mentale, sono spesso riportate in letteratura; ma si trattava in qualche caso di tecniche paternalistiche, talvolta autoritarie e meramente finalizzate al buon funzionamento dei reparti ospedalieri. Lo sviluppo di un gruppo di lavoro a scopi di aiuto psicologico viene usualmente ricon- dotto all’iniziativa di Pratt: un medico che organizzava sedute o “classi” di pazienti tu- bercolotici (20/25 partecipanti) che si riunivano ogni settimana, al fine di sollevarne il morale, attraverso lo scambio di informazioni sui miglioramenti fisici di ognuno. Agganciandosi alla tradizione dell’800 di studio psicologico della folla, Freud fu il 1° psicoterapeuta a interessarsi dei fenomeni di gruppo e a fornirne uno schema interpretati- vo e teorico che partiva dalla constatazione di un’ormai acquisita coscienza comune dell’influenza di fattori inconsci sulla condotta di gruppo. Egli sottolineava che la condot- ta meno razionale e più emotiva dell’uomo in un contesto sociale allargato era usualmen- te spiegata attraverso il fenomeno della suggestione, che invece costituiva proprio l’explanandum. Per Freud, la chiave per interpretare i fenomeni gruppali andava ricercata nel legame tra leader e membri del gruppo, che consisteva in “pulsioni amorose che, sen- za per questo operare meno energicamente, risultano deviate rispetto alle loro mete origi- narie”. Il meccanismo di fondo che creava i legami di gruppo era quello dell'identifica- zione, che sostituiva la suggestione e l'imitazione, concetti usati nella precedente psicolo- gia della folla. Tuttavia, Freud non ricavò mai dalle sue idee un’applicazione terapeutica per gruppi. Diversi furono, invece, gli psicoanalisti che tentarono di farlo: Lazell ad esempio (1921), all’ospedale di Washington, partendo dal presupposto che i pazienti schizofrenici fossero inaccessibili alla terapia individuale, decise di tenere loro una serie di conferenze sulla psicoanalisi. Riscontrando una significativa partecipazione anche da parte di pazienti più apatici, egli individuò nella socializzazione di temi come la sessuali- tà e la morte un fattore terapeutico importante. Fu invece lo psicoanalista Burrow a sviluppare, partendo dal contesto teorico freudiano, l’idea dell’analisi di gruppo: riteneva che i conflitti intra-individuali fossero in realtà il ri- flesso di conflitti interpersonali e che la situazione di gruppo fosse il mezzo migliore per evidenziarne la dinamica e curarli. Se condivideva con Freud l’idea che la società fosse nevrotizzante, riteneva tuttavia che il dato non fosse immodificabile e che rappresentasse solo il frutto dell'adozione, da parte dell'uomo, di un codice di comportamento che esclu- deva la spontaneità e la creatività dai rapporti interpersonali. Tale impostazione lo portò a concepire un setting di gruppo in cui anche la personalità del terapeuta era messa in gioco (visione poi sviluppata dal movimento Encounter). Burrow voleva porre paziente e medico su uno stesso piano, convinto che fosse possibile l'analisi reciproca dei meccanismi di difesa fra i membri; così ogni partecipante, con fun- zione sia di analizzato che di analista, avrebbe aiutato a rendere più tollerabili le emozio- ni e a guarire dai disturbi nevrotici tutti i membri del piccolo gruppo, evitando l'asimme- tria e la verticalità proprie della situazione analitica individuale. L’analisi in gruppo, invece, venne sviluppata dagli anni ‘30 da psicoanalisti americani che usavano il setting gruppale ma focalizzavano la cura sull'individuo. Su tale linea Wender concepiva il gruppo come la riedizione della famiglia del paziente, in cui il terapeuta era il genitore e i membri del gruppo rappresentavano fratelli e sorelle. In questo caso, il trattamento di gruppo si alternava al trattamento individuale. Schilder riuniva pazienti già in cura individualmente, in gruppi a cui proponeva la discus- sione di temi specifici, ottenendo la diminuzione del senso di isolamento personale. La diffusione di una psicoterapia di orientamento psicoanalitico focalizzata sul gruppo non si ebbe, tuttavia, prima del 2° dopoguerra, i cui battistrada furono Michael e Bion. Nel frattempo, Adler aveva già effettuato delle esperienze di intervento educativo- terapeutico su ragazzi alla presenza di altri ragazzi e dei rispettivi genitori. Tuttavia, il vero pioniere in questo campo è considerato Moreno, inventore dello psico- dramma. Le sue esperienze hanno influenzato la nascita della psicoterapia di gruppo, del- la co-terapia, della terapia di coppia, dei gruppi di auto-aiuto, della psicoterapia familiare, della comunità terapeutica. Egli rivendicava l'invenzione dell'espressione “psicoterapia di gruppo”, ravvisandone la necessità per “sottolineare che aveva a che fare soprattutto con una ‘terapia’ del gruppo e non semplicemente con un'analisi sociologica o psicologica”. 5.2. Moreno e la “culla dello psicodramma” Freud fu la bestia nera di Moreno, che formulò le sue proposte teoriche presentandosi come il contraltare della psicoanalisi. Nell’additare i limiti del pensiero freudiano, cioè il rifiuto della religione e l’indifferenza verso i movimenti sociali, Moreno trascurava che nel primo caso Freud trovava già un’esplicita alternativa in Jung, nel secondo in Adler. Gli inizi dell’attività di Moreno possono essere ricondotti al periodo in cui frequentava l'Università di Vienna (inizio ‘900), dove studiò filosofia e medicina. Qui, passeggiando per i giardini della città, metteva insieme gruppi di bambini per organizzare delle recite improvvisate. Nel 1914 pubblicò uno “scritto poetico centrato sull'importanza di essere in contatto e di vivere il rapporto con l'altro con tutto il proprio essere”, e tra il 1915 e il 1917 si attivò per comprendere e facilitare i rapporti di gruppo. Per Moreno, tuttavia, lo psicodramma come tale avrebbe avuto una vera e propria data di nascita, l’1 aprile 1921, a Vienna: in tale occasione vide la luce per la prima volta un esperimento di teatro, nel quale non erano previsti a priori né un copione, né degli attori. Quando si alzò il sipario, sulla scena vi erano solo un trono e una corona. La proposta che Moreno formulò agli attoniti presenti era che fossero loro stessi a rappresentare il dram- ma che il mondo stava vivendo, trovando tra loro una persona che potesse fungere da so- vrano. L’aspirazione di fondo era quella di “aiutare la società a sviluppare forme più effi- caci di democrazia concreta, di libertà interpersonale e di creatività interattiva”. Né que- sto, né altri tentativi di riproporre il teatro di improvvisazione in altri contesti ottennero un particolare seguito e anzi, attirarono critiche. La situazione cambiò quando Moreno decise di emigrare negli USA, nel ‘25, e di limitare l’applicazione delle proprie idee alla cura del disagio mentale. Negli USA Moreno trovava una mentalità più aperta di quella europea ad accettare l'uso dell'azione (fondamentale nello psicodramma) in un contesto psicoterapeutico. L'idea stessa di agire era infatti condannata per principio dalla psicoanalisi (che classificava l’acting out come un fatto sintomatico e pericoloso per l'integrità del setting), così come dalla psichiatria (a meno che non si trattasse di eseguire precise istruzioni del medico). Allo sviluppo delle tecniche dello psicodramma corrispose un riscontro sempre più signi- ficativo, che lo condusse ad aprire un teatro-istituto a New York e poi a fondare la 1ª or- ganizzazione professionale orientata all’impiego della psicoterapia di gruppo. Fino alla morte (1974), egli rimase il punto di riferimento teorico-clinico degli psicodrammatisti. 5.3. Gli elementi terapeutici dello psicodramma Moreno affermava di aver “ripreso la linea di pensiero dal punto in cui l’aveva lasciata Aristotele”, prestando attenzione all’effetto terapeutico del teatro per modificarne le mo- dalità di azione. Per Aristotele infatti, “lo scopo del dramma è purificare gli spettatori at- traverso l’eccitazione artistica di alcune emozioni che funzionano come un tipo di sollie- vo dalle loro passioni personali”. Al contrario, lo psicodramma avrebbe prodotto un effet- Vicino agli studiosi di Francoforte, durante il nazismo fu uno degli psicologi che lasciò la Germania ed emigrò in USA. Nel ‘39 Lewin e Korsh affermarono che la psicologia e la sociologia avevano usato in modo solo embrionale la matematica sottostante alla loro ri- cerca. Nella psicologia, così come nella sociologia, era auspicabile una transizione dallo stadio descrittivo a quello dinamico, con la conseguente elaborazione di costrutti mate- matici nuovi. Un punto di partenza per la matematizzazione sarebbe stato fornito dalla Teoria del campo (che considerava l’azione individuale in funzione del contesto) e dalla concezione materialistica della storia nelle scienze sociali. Sviluppo, personalità, econo- mia, società, politica sarebbero risultati fenomeni interdipendenti. L’idea di una psicolo- gia del carattere o della personalità individuali non era appropriata, perché l’oggetto di indagine non doveva considerarsi l'individuo isolato ma la “persona-in-una-situazione”. Nella prospettiva lewiniana la personalità o il carattere come entità statiche reificate fu- rono sostituite da tipi di contesto psicologico considerati oggetti reali di indagine psico- logica. Il tema dell’evoluzione delle strutture dinamiche della personalità veniva ripropo- sto e inserito in una concettualizzazione che considerava l'individuo come il prodotto dell'interazione fra dimensioni motivazionali e il proprio contesto (o campo psichico), in una dimensione temporale caratterizzata soprattutto dal principio della “contemporanei- tà”. Nell'elaborazione lewiniana, quindi, assunse rilievo l'analisi dello spazio in cui si manifestano i processi motivazionali che qualificano la persona in relazione ai suoi obiet- tivi. In A Dynamic Theory of Personality erano quindi contenuti gli orientamenti metodo- logici lewiniani sulla comprensione scientifica dell'individuo e le nozioni riguardanti il campo psicologico e il principio di contemporaneità. Lewin elaborò così l’equazione universale del comportamento [C=f (P,A)] ® il com- portamento (C) è una funzione (f) della persona (P) e dell’ambiente (A). Nella sua teoria della personalità, l'ambiente conservava una valenza fondamentale e determinante speci- fica dei comportamenti. Non doveva essere inteso come generico insieme degli elementi che circondano l'individuo, ma come contesto da lui percepito. Lewin elencò alcuni fondamenti distintivi della Teoria del campo: il metodo, che dovreb- be essere genetico, mai classificatorio, e che dà conto di come una persona si costruisce in un ambiente; l'impostazione dinamica, volta a identificare le forze che determinano le azioni in specifici contesti; l'impostazione psicologica, per cui il campo risultava concre- tamente lo spazio percepito dall'individuo nella contemporaneità; l'analisi della situazio- ne come punto di partenza, in base a cui il ricercatore assumeva la totalità di una situa- zione come momento iniziale per poi analizzare e approfondire gli elementi della totalità. Il comportamento doveva essere interpretato come funzione del campo che si presentava di volta in volta, per cui il passato era solo una delle determinazioni dell’azione presente. Lo psicologo avrebbe dovuto, in primo luogo, avere come obiettivo la conoscenza delle determinanti del comportamento, visto nella sua contemporaneità. Il risultato finale avrebbe dovuto essere la rappresentazione matematica della situazione psicologica, poi- chè per Lewin la “persona-in-una-situazione" necessitava di essere descritta mediante no- zioni topologiche e qualità vettoriali. Anch'egli emigrato negli USA a causa delle persecuzioni razziali dei nazisti, nel 1945 fondò il 1° centro di ricerche sulla dinamica dei piccoli gruppi. L'approccio gestaltista lo spingeva a studiare i gruppi come entità la cui natura è diversa dalla somma dei singoli individui e a osservare come il gruppo influenzi il comportamento dei singoli più di qual- siasi altra condizione di apprendimento individuale. Egli inaugurò così la lunga stagione dei training group (o T-group) per favorire la coesione e la soluzione di problemi relativi alle discriminazioni e ai pregiudizi (ma anche alla modifica di abitudini, all'aumento di produttività, ecc) fra membri appartenenti a gruppi istituzionali o sociali (lavorativi, sco- lastici, universitari), mediante pratiche che facilitavano la comunicazione, l'espressione delle emozioni e il rispecchiamento fra i membri di gruppi, composti al massimo da 15 persone. Oltre al gioco di ruolo e al problem solving, nei T-group veniva usato il feed- back, ovvero la condivisione delle impressioni suscitate dagli altri membri del gruppo nelle sessioni appena concluse, tecniche espressive in origine usate in contesti non tera- peutici (gruppi di formazione, sempre diretti da una guida che promuoveva la spontanei- tà, ma non la cura). I T-group vennero però in seguito integrati nella psicoterapia di gruppo dei vari orienta- menti teorici. In particolare, divennero l’ossatura dei gruppi rogersiani, che negli anni ‘60 vennero diffusi dal movimento Encounter, e finalizzati allo sviluppo del potenziale uma- no dei partecipanti. 5.5. Ludwig Binswanger e la nascita della Daseinsanalyse Binswanger era entrato in contatto con Freud nel 1907, e tra Freud i due si era subito sta- bilito un rapporto positivo. Malgrado questi risultasse l'unico del gruppo svizzero a non seguire Jung nella secessione dal movimento psicoanalitico, la sua posizione rispetto alla dottrina psicoanalitica era destinata a divenire presto molto eccentrica. Già nel 1917 Freud, ricevuto uno scritto di Binswanger, gli si rivolgeva allarmato: "Cosa intende fare dell'inconscio, o piuttosto come potrà cavarsela senza l'inconscio? Il diavolo della filoso- fia alla fine la tiene forse tra i suoi artigli?". Effettivamente, sarà la filosofia a influenzare Binswanger nel suo progressivo allontanamento dalla psicoanalisi ortodossa, per la crea- zione di una sua teoria, la Daseinsanalyse ("analisi dell'Esserci" o "antropoanalisi"). Risultò decisiva per lui la lettura (accanto ai testi freudiani) di Kierkegaard, Husserl ed Heidegger, che determinarono la nascita della fenomenologia e dell'esistenzialismo. Kierkegaard era stato il 1° a enucleare la valenza filosofica dei concetti di angoscia e di- sperazione, che perdevano i loro connotati marginali e patologici per assumere un caratte- re fondamentale in seno all’esistenza. La profondità dello spirito sarebbe stata funzione della sua capacità di provare angoscia di fronte all'insensatezza dell’esistenza. La dispe- razione era la logica conseguenza dell'impossibilità di trovare soddisfazione sia nello sta- dio estetico (ricerca del piacere nel singolo istante di godimento) sia nello stadio etico della vita (ricerca del piacere nella ripetizione di una vita sempre uguale). Kierkegaard fu anche un pensatore chiave ai fini del superamento della concezione ogget- tiva della verità (che si esprime al suo vertice in Hegel). La verità, per lui, aveva senso solo per il suo valore soggettivo, come riconobbe Binswanger. Husserl fu, come Freud, allievo di Brentano, dal quale mutuò il concetto di intenzionalità come caratteristica di tutti i processi psichici. In quest'ottica, ciò che distingueva un pro- cesso intenzionale era il suo essere in riferimento a qualcos'altro. La coscienza sarebbe stata dunque esprimibile sempre come coscienza-di o riferimento-a. La fondazione della conoscenza doveva dunque basarsi sulla fenomenologia, ovvero sull’analisi della perce- zione immanente dell’esperienza. Il metodo fenomenologico, per mezzo della sospensio- ne del giudizio (epoché), permetteva di superare l'ingenuo realismo delle scienze e di comprendere la vera natura dei loro dati, che si pretenderebbero obiettivi, come espres- sione della coscienza umana. In tal senso la fenomenologia costituiva lo studio delle con- dizioni di possibilità della coscienza e precedeva, quindi, la psicologia. Da Husserl e da Kierkegaard prese invece le mosse Heidegger, per la sua analitica dell’esistenza umana. Questa è intesa come Esser-ci (Dasein), ovvero essere nel mondo in una situazione, le cui premesse era necessario comprendere come fondamento di qua- lunque conoscenza. L’umano era in una condizione di “gettatezza” nel mondo, in un ine- vitabile rapporto con altri. L'Esser-ci era perciò anche un Essere-con (Mitsein); ma l'Es- serci aveva anche un'altra caratteristica fondamentale, quella di Essere-per-la-morte. Angoscia, disperazione, coscienza come riferimento ad altro, verità soggettiva, esistenza come gettatezza non erano dunque dati esistenziali appartenenti alla patologia, ma costi- tuivano il fondamento ontologico dell’uomo, che per Binswanger era la premessa per comprendere l'umanità dei suoi pazienti. Attraverso Binswanger, dunque, lo spirito rientra nella psicoterapia. La psichiatria del mondo in cui Freud iniziava la propria attività era contrassegnata, per Binswanger, dalla piena adesione al credo di Griesinger, per il quale le malattie mentali erano malattie cere- brali e i fenomeni psicologici potevano essere descritti in modo naturalistico, in quanto fenomeni organici. La psicoanalisi si presentava, per il Binswanger degli esordi, come un approccio clinico completamente diverso, aperto all'umanità del paziente, anche se egli non sembrò mai convinto del punto di vista di Freud. Che Binswanger volesse intraprendere una strada del tutto personale è già evidente a par- tire da quel fondamentale ballon d'essai costituito dallo scritto Sogno ed esistenza, dove proponeva una teoria dell'interpretazione dei sogni che si distingueva sia da quella freu- diana (basata sull'idea di desiderio inconscio), sia da quella junghiana, dove Binswanger trovava delle contraddizioni, soprattutto nel riferimento all'inconscio collettivo. Piuttosto che dal mondo pulsionale o dalle esperienze primordiali, per Binswanger il sogno origi- nava dal linguaggio. Il sogno, allora (secondo un procedimento junghiano), veniva inter- pretato con un’enfasi sul contenuto manifesto, piuttosto che sul presunto contenuto laten- te; con un'attenzione alla possibile corrispondenza tra i personaggi e le possibili tendenze contrapposte del sognatore; con un accento sulla dimensione spirituale, che non poteva essere ridotta al puro istinto. Binswanger, anziché prevenire le possibili critiche di ecces- siva accentuazione della dimensione filosofica nel suo pensiero, tendeva a trasformare quest'ultima in una sorta di manifesto: “Le cose si metterebbero male per i nostri pazienti se fossero obbligati a capire Eraclito o Hegel per guarire; ma nessuno può realmente gua- rire nel suo intimo, se il medico non riesce a risvegliare in lui quella scintilla di spirituali- tà che deve esistere per poter percepire almeno il sapore del loro pensiero”. Avveniva così un rovesciamento delle posizioni freudiane sulla vita spirituale, intesa co- me sublimazione delle pulsioni: “questa liberazione dal transfert non può essere altro che una vera spiritualizzazione, ossia un essere sempre più desti e lucidi spiritualmente altri- menti non è che una frode e un autoinganno”. Il pensiero di Freud venne allora progressivamente identificato da Binswanger sia come il punto di svolta verso il superamento della “spersonificazione o depersonalizzazione della condizione umana”, propria della psichiatria classica, sia come un fardello di cui disfarsi per superare la concezione dell'uomo come essere puramente istintuale. Freud si trasfor- mava dunque nel più coerente teorico dell'uomo in quanto homo natura: “Freud è riuscito a provare che il dominio del meccanismo si estende fino alle regioni più libere dello spiri- to umano, e ciò offre la possibilità di “riparare” questo spirito in un modo meccanico at- traverso la tecnica psicoanalitica di smascheramento, e la soppressione dei processi di ri- mozione e di regressione tramite il meccanismo del transfert”. In quest'ottica, anche il desiderio diveniva un atto materiale, fisico: “Il desiderare non è costitutivo dell’uomo, ma dell’apparato psichico costruito nell'homo natura". Se però, attraverso la psicoanalisi. si poteva giungere a una conoscenza coerentemente scientifica dell'uomo, come Binswanger riteneva, tale conoscenza non esauriva quanto la ragione poteva scoprire. E d'altronde, anche una conoscenza filosofica, di per sé sola, sa- pubblicato anonimo e simulava di essere stato redatto da una ragazzina che assisteva al risveglio della propria sessualità, secondo un percorso che sembrava confermare clamo- rosamente le teorie freudiane. Il falso venne però scoperto, perché lo stile in cui il testo era scritto tradiva un controllo dei concetti e della lingua che poteva appartenere solo a una persona adulta. Nonostante il passo falso, Hug-Hellmuth proseguì il proprio lavoro, che trovò un frutto significativo nel 1° libro dedicato all’applicazione della psicoanalisi ai bambini. Purtroppo, ella non sopravvisse a lungo: nel ‘24 morì strangolata dal nipote Rolf, che voleva estorcerle denaro. Probabilmente Hug-Hellmuth temeva che una simile circostanza si verificasse, perché tra le sue ultime volontà c’era la richiesta che nessuno scrivesse sue note biografiche dopo la sua morte (affinché l’ambiente psicoanalitico non venisse posto in difficoltà). Il risultato che ottenne fu che di lei si è finito per ricordare piuttosto quanto le è accaduto che quanto ha scritto. Melanie Klein viene quindi solitamente ricordata come la 1ª analista infantile: lei stessa, del resto, cercò di accreditarsi come tale svalutando la reale portata del contributo della collega. Stesse critiche che Klein riteneva di poter muovere a Anna Freud, con cui ebbe un dissidio infuocato, che determinò la prima grande contrapposizione teorica nella So- cietà psicoanalitica internazionale a non terminare con l'esodo di una delle due parti. In ogni caso, per la storia del movimento psicoanalitico, il contributo kleiniano rappre- sentò una svolta significativa. 5.7. Melanie Klein: gioco e terapia Melanie Klein nacque nel 1882, ma lesse Freud per la 1ª volta solo dopo essersi trasferita a Budapest nel 1910, dove entrò in analisi con Ferenczi e proseguì la formazione con lui. Ella iniziò a scoprire una vocazione per la psicoanalisi, tanto che venne ammessa nella Società psicoanalitica di Budapest. Nel 1920, ricevuto un forte incoraggiamento da Abra- ham, decise di trasferirsi a Berlino, e successivamente di sottoporsi ad analisi anche con lui. Tale analisi terminò solo dopo 9 mesi a seguito della morte di lui. Morto Abraham, l'ambiente psicoanalitico berlinese sembrava essere meno ricettivo verso Klein. Un terzo membro del Comitato di Freud entrò allora nella sua vita: incontrò E. Jones (1925) e tro- vò anche da parte sua apprezzamento circa il suo lavoro, tanto che finirà per essere l'ana- lista dei suoi figli. Si trasferì così nel 1926 in Inghilterra, dove acquisì un seguito impor- tante e rimase per il resto della sua esistenza. Al suo esordio sulla scena del movimento psicoanalitico, anche la Klein sembrava con- vinta che il ruolo della psicoanalisi nell'età dello sviluppo dovesse consistere nell'orienta- re la pedagogia verso l'educazione sessuale: "Si possono risparmiare al bambino rimozio- ni superflue liberando tutta la sfera della sessualità dalla spessa cortina di segretezza, di falsità e di pericolosità di cui l'ha circondata una civiltà ipocrita, basata sull'emotività e non sulla conoscenza”. La svolta nel lavoro di Klein avvenne nel momento in cui decise di concentrare la propria attenzione sul gioco. Sporadicamente, Freud, Abraham e Ferenczi avevano proposto os- servazioni sul significato inconscio del gioco infantile; Hug-Hellmuth aveva anche usato gioco e disegno come mezzi per entrare in confidenza col bambino, ma non era giunta fi- no a sviluppare una tecnica vera e propria. Dal 1923, invece, Klein iniziò a constatare che interpretare l'attività ludica sembrava co- stituire un sollievo all'angoscia dei bambini problematici. Per esempio, suggerì alla picco- la Rita che la sua riluttanza a giocare fosse determinata dalla paura di rimanere sola con un'estranea in una stanza, e che tale paura costituisse una preoccupazione già presente nella sua vita: Rita risultò sollevata e iniziò a giocare con maggior spontaneità. Sembrava evidente che: 1. il gioco rifletteva preoccupazioni inconsapevoli; 2. l'interpretazione era opportuna anche con bambini piccoli, dato che alleviava l'effetto di tali preoccupazioni; 3. il contenuto dell'interpretazione rifletteva pensieri transferali negativi (il transfert nei confronti del terapeuta era presente anche in età precoce). In sintesi: "Come la resistenza alle libere associazioni nell'analisi dell'adulto, così le ini- bizioni al gioco possono risolversi se l'angoscia sottostante si attenua per effetto dell'in- terpretazione". Klein espose estesamente le idee che aveva sviluppato a proposito della tecnica del gioco. L'ambiente dove si svolgevano le sedute di analisi infantile assumeva un'importanza fon- damentale. Lo spazio era arredato in modo che il bambino potesse muoversi liberamente e, se occorreva, esprimere aggressività senza farsi male. Vi si trovavano materiali adatti ai giochi (soprattutto "di finzione"): un divano con piccoli cuscini; un lavandino con ac- qua corrente, recipienti, stracci per pulire; giocattoli di piccole dimensioni (es. veicoli e animali) disposti su un tavolo basso. Anche un bambino fortemente inibito sarebbe stato portato, per la Klein, a osservare e toccare i giocattoli. Il suo modo di comportarsi avrebbe offerto subito, quindi, degli elementi per cominciare a comprendere la sua vita psichica. Invece di verbalizzare, il bambino tendeva ad agire, attraverso il gioco. L’azione, che era più primitiva del pensiero e della parola, costituiva la parte prevalente del comportamento infantile. Si poteva paragonare il ruolo del gioco nell'analisi dei bambini a quello del sogno nell'analisi degli adulti: "come le associazioni sui singoli elementi del sogno conducono alla scoperta del contenuto latente del sogno, così gli elementi dei giochi dei bambini sono il corrispettivo di quelle associazioni” in quanto le variazioni dei giochi sono stimolate dalle interpretazioni; come tali "permettono la rivelazione del contenuto latente dei giochi stessi". La tecnica del gioco nella psicoterapia con i bambini costituisce uno strumento ormai de- finitivamente acquisito e usato dalle più diverse scuole. Il motivo per cui, fin dal periodo berlinese, “ovunque interviene la Klein, gli animi si scaldano" era costituito dalla sua modalità diretta di interpretare e volta a rendere coscienti nel bambino i temi fondamenta- li della sua vita psichica. Ovvero: a toccare temi come la sessualità genitoriale, la gelosia verso fratelli e sorelle, il desiderio di morte nei confronti dei parenti. Vignetta clinica che può illustrare la modalità kleiniana di verbalizzare le interpretazioni: “All'inizio della 1ª ora di analisi, Peter prese le carrozze e le auto e le dispose, prima in fila indiana e poi una accanto all'altra, alternandone la disposizione. Scelse poi 2 cavalli con carrozza e, facendoli urtare tra loro, in modo che le zampe dei cavalli battessero in- sieme, disse: "Ho un nuovo fratellino che si chiama Fritz". Gli domandai cosa facessero le carrozze. Mi rispose: "Non è bello", e smise di farle urtare una contro l'altra, ricomin- ciando però presto. Quindi sbatté insieme come prima 2 cavalli. Allora gli dissi: "Senti, i cavalli sono 2 persone che si scontrano". Dapprima disse: "No, non è bello", ma poi ammise: "Sì, sono 2 persone che si scontrano e adesso vanno a dormire”. Coprì quindi i cavalli con i cubi dicendo: "Ora sono proprio morti, li ho sepolti". Tale approccio diretto e quasi brutale rimase una costante nel lavoro kleiniano. Dal suo punto di vista, il bambino disturbato era preda di fantasie inconsce che originavano ango- sce persecutorie, l'interpretazione delle quali, in quanto esplicita e diretta, suscitava im- mediato sollievo. Il sollievo era subito visibile nell'atteggiamento del bambino, che lo manifestava in un'attività ludica più varia e meno inibita, che si apriva a interpretazioni ulteriori in un circolo virtuoso. Per questo “l'analista non doveva temere di fornire inter- pretazioni approfondite sin dall'inizio dell'analisi, perché il materiale appartenente agli strati profondi dello psichismo si sarebbe ripresentato in seguito per ulteriori elaborazio- ni”. Al limite, si può affermare che nel lavoro coi bambini più grandi in età di latenza (Freud), Klein addirittura cercasse di suscitare a inizio terapia quelle angosce persecuto- rie che il bambino piccolo provava da subito con più facilità, a causa anche della situa- zione (l'innaturale presenza in un ambiente estraneo con una sconosciuta). Quando, per esempio, il piccolo Richard iniziò una seduta parlando della possibilità che le navi inglesi fossero intrappolate dai tedeschi, vicini a prendere Gibilterra, Klein gli rispose che i suoi veri pensieri fossero altri. In realtà egli si preoccupava "di cosa sarebbe potuto succedere al papà quando metteva il suo genitale dentro la mamma. Poteva darsi che il papà non riuscisse a uscire dall'interno della mamma e rimanesse prigioniero lì, come le navi nel Mediterraneo". In effetti Klein sottolineò che i bambini in età di latenza, rispetto ai più piccoli, presentavano difficoltà di analisi particolari, legate a una minor immaginazione, una minor disponibilità al gioco, una minor apertura rispetto alla possibilità di essere cu- rati, una maggior riservatezza (parallela alla lotta con sè stessi per evitare la masturbazio- ne). Klein suggerì che si potesse supplire con la maggiore disponibilità a disegnare e la ten- denza spontanea a sostituire l'attività ludica coi giocattoli alla recitazione di ruoli, che avrebbero messo in atto fantasie edipiche. Anche una maggior capacità di associazione avrebbe supplito ai problemi tecnici e a un Io ancora non pienamente sviluppato. Durante la pubertà "l'emotività e l'inconscio predominano nuovamente e l'attività fantastica torna a essere assai più ricca che non nel periodo di latenza". Anche l'età della pubertà presen- tava tuttavia le sue difficoltà peculiari, legate al caratteristico atteggiamento di sfida (frut- to della sovra-compensazione dell'angoscia) che spesso portava il giovane paziente a vo- ler abbandonare la terapia. L'attività fantastica era inoltre meno riconoscibile e meno fa- cilmente interpretabile, in quanto legata ad attività "più adattate alla realtà e ai crescenti interessi del suo Io" come lo sport. 5.8. Teoria dello sviluppo e Teoria delle relazioni d’oggetto Allieva di Ferenczi e Abraham e appoggiata da Jones, la Klein si considerava una fedele seguace di Freud, sostenendo di aver solo sviluppato coerentemente idee freudiane. Tale convinzione risultò talmente radicata da provocare in lei una delusione, allorché Freud prese posizione a favore della figlia Anna nella disputa teorica accesasi tra le due. La Klein risultò la 1ª analista ad accettare e usare la concezione freudiana della pulsione di morte, sviluppandola fino a renderla uno dei punti focali della propria costruzione teo- rica: l'aggressività assumeva un ruolo motivazionale centrale. La maggioranza dei segua- ci di Freud, al contrario, fu restia a seguirlo "al di là del principio di piacere". La teoria kleiniana assunse presto, tuttavia, dei connotati di originalità rispetto alla psi- coanalisi classica, al punto da essere considerata, da alcuni, uno dei punti decisivi di svol- ta verso un cambiamento di paradigma nella direzione del "modello strutturale delle rela- zioni oggettuali”. La teoria dello sviluppo della Klein non si poneva come alternativa rispetto al modello freudiano, ma come un’integrazione. I suoi connotati, tuttavia, stravolgevano le idee di fondo della psicoanalisi. Le fantasie di bambini molto piccoli, nell'ottica kleiniana, per- mettevano di sostenere che il complesso edipico si manifestasse già in età precoce. Gli stati di angoscia del bambino avrebbero avuto origine nella paura dell'aggressività verso i genitori e sarebbero derivati dal Super-io (il cui esordio sulla scena dello sviluppo era da bambini più bisognosi della popolazione viennese, erano arredati in stile montessoriano e vi venivano prestate particolari cure mediche e alimentari (altra specifica caratteristica degli istituti montessoriani). Lili Roubiczek divenne sempre più orientata in senso psicoanalitico fino a emigrare negli USA con molti ex collaboratori di Anna a Vienna (Erikson, Spitz, ecc). Gli arredamenti dell'Asilo nido Jackson furono poi riusati a Londra nella Hampstead War Nursery. A Londra prese corpo la corrente annafreudiana: qui gli psicoanalisti iniziarono soprattutto a occuparsi di sviluppo e di relazione bambini-genitori. Fra gli allievi londinesi di Anna vi fu Robertson, pioniere degli studi sull'attaccamento, che collaborava alle istituzioni educative di Anna e produsse lavori riguardanti l'importanza dei legami dei bambini in tempo di guerra. Successivamente Robertson collaborò con Bowlby e produsse, anche con l'aiuto della moglie, alcuni film che documentavano l'importanza dei legami di attac- camento alla madre nella vita dei bambini ospedalizzati. I primi scritti di Anna Freud sull'analisi infantile videro la luce quando Klein aveva già avuto modo di esporre le sue idee e di suscitare polemiche. Ella infatti osservava come gli analisti viennesi avevano discusso le tesi kleiniane e si erano trovati in disaccordo con es- se. Sostanzialmente, quindi, Anna espose da subito le sue idee sulla psicoanalisi dei bam- bini in diretto riferimento alle posizioni kleiniane, e in altrettanto diretta polemica nei suoi confronti. Se per la Klein l'analisi come tale era possibile e opportuna per tutti i bambini nevrotici (e anzi consigliabile per lo sviluppo di ogni bambino), per Anna ciò era inaccettabile. Per lei “l'analisi dei bambini necessita di modifiche e adattamenti, e deve essere impiegata con certe precauzioni. Quando non sussiste la possibilità tecnica di atte- nersi a tali precauzioni, è bene non intraprenderla”. Anna partiva dal dato di realtà per cui non era il bambino a chiedere di intraprendere una terapia analitica: talvolta anche l'adulto, del resto, poteva vedersi spinto a un tale passo dalla richiesta di suoi congiunti, o comunque da circostanze non direttamente legate alla sua volontà. Spesso capitava che non fosse neanche il bambino a soffrire per i propri sin- tomi: potevano essere i genitori a preoccuparsi della sua "cattiveria". Sarebbero mancate quindi al bambino "la comprensione della malattia, la decisione volontaria e il desiderio di guarire". C’era quindi la necessità di una fase preparatoria, l’"addestramento" all'ana- lisi, durante cui il bambino potesse sviluppare una certa comprensione della qualità disa- dattiva della propria condotta e accettare l'analista come "interessante", "utile", alleato nei conflitti con gli altri e collaboratore verso il cambiamento. Rispetto all'analisi degli adulti, quella coi bambini avrebbe presentato una difficoltà fon- damentale nella fase anamnestica: si sarebbe stati costretti ad affidarsi ai genitori per ri- costruire la storia della malattia. Esistevano tuttavia persino dei vantaggi: i bambini sognavano quanto gli adulti e non erano afflitti dal pregiudizio che il sogno non avesse significato; producevano con facilità sogni a occhi aperti e fantasticherie; ricorrevano inoltre volentieri al disegno, che pure avrebbe offerto squarci importanti sul mondo interno. Tuttavia "il bambino neutralizza tutti i predetti vantaggi perché si rifiuta di fare associazioni". Alla tecnica del gioco ela- borata da Klein per supplire a tale impasse, Anna riconosceva bensì il "grande valore per l'osservazione del bambino", ma le imputava dei limiti: le rappresentazioni del bambino non sarebbero state dominate dalla meta libidica propria degli adulti; non sarebbero state quindi necessariamente riconducibili allo stesso tipo di interpretazione. Il cozzare di 2 au- tomobiline poteva essere la traduzione simbolica dell'atto sessuale ma anche la riprodu- zione di un evento a cui il bambino aveva assistito (anche se, come Anna doveva ricono- scere, l'evento poteva essere ricordato e rievocato per il suo valore simbolico). Per Anna ci si doveva preoccupare di instaurare un transfert positivo con i bambini, inte- so come "tenero attaccamento”, fondamentale ai fini di quei compiti educativi altrettanto necessari rispetto ai compiti analitici. Una vera e propria nevrosi di transfert non sarebbe stata possibile perché i genitori erano ancora fortemente presenti nella vita del paziente. Non essendo esaurita quindi la "vecchia edizione” degli affetti primari, una “riedizione” degli stessi affetti avente per oggetto l'analista era da escludere. Il transfert negativo, inte- so da Klein come prova dell'atteggiamento ambivalente verso la madre, secondo Anna Freud si sarebbe formato se il rapporto con essa fosse risultato invece soddisfacente: “Più tenero è l'attaccamento del bambino alla madre, meno amichevoli saranno i suoi rapporti verso gli estranei". Oltretutto l'interpretabilità del transfert negativo da parte dell'adulto sarebbe stata anche legata all'atteggiamento neutrale, da "schermo bianco", che doveva tenere il suo analista. Il bambino, invece, era messo nelle condizioni di sapere perfetta- mente cosa il suo analista permettesse e proibisse, approvasse e disapprovasse. 5.10. Dal dibattito teorico alla scissione della società psicoanalitica britannica Da parte di Klein si ebbe una ritorsione delle critiche annafreudiane: la stessa idea che vi dovesse essere una differenza tra analisi degli adulti e analisi dei bambini era un contro- senso. Il lavoro analitico si svolgeva sull'interpretazione dei conflitti inconsci e, se una diversità si trovava tra l'età adulta e l'età infantile, essa aveva a che vedere con una mag- gior debolezza dell'Io da parte del bambino. Quindi appellarsi maggiormente alla parte cosciente della psiche non poteva essere tecnicamente corretto. Di fatto, per Klein, ciò che Anna chiamava "riconoscimento della malattia e della cattiveria” era tutt'altro che il frutto di un'autentica comprensione da parte del bambino, ma era un derivato "dell'ango- scia - angoscia di evirazione e senso di colpa - che di proposito ella ha mobilitato in lui". Non che tali sentimenti dovessero essere evitati di per sé: il problema era piuttosto che Anna non li analizzava e quindi non li risolveva: se ne serviva "per legare a sé il bambi- no" mentre lei stessa li poneva “sin dall'inizio al servizio dell'analisi". In pratica, sosteneva Klein, l'intento pedagogico non solo non favoriva i risultati dell'ana- lisi infantile, ma era al contrario incompatibile col procedimento analitico, come lo era l'artificiosa creazione di un transfert positivo (come tutti avrebbero riconosciuto nel caso dell'analisi degli adulti). Al contrario, occorreva entrare subito in medias res perché la di- namica transferale si generava immediatamente: “l'interpretazione deve cominciare non appena il piccolo mi abbia dato modo di intravvedere i suoi complessi. Ciò non contrad- dice la regola secondo cui l'analista deve attendere che si presenti il transfert prima di ini- ziare l'interpretazione. Coi bambini, infatti, il transfert si stabilisce immediatamente e spesso l'analista ha la prova che esso è di natura positiva. Se, però, il bambino manifesta timidezza, angoscia o diffidenza, si dovrà interpretare tale comportamento come indice di transfert negativo, per cui diventa ancora più indispensabile che l'interpretazione abbia inizio non appena possibile”. D’altronde, l'ammissione che coi bambini si ottenessero ri- sultati parziali era da una parte il frutto del pregiudizio (che non aveva fondamenti teori- ci, né pratici) dell'impossibilità di una psicoterapia altrettanto profonda; dall'altro era di fatto un'ammissione di inefficacia terapeutica. La contrapposizione tra la Klein e Anna Freud precipitò allorché i Freud e diversi analisti viennesi furono costretti a emigrare, e Londra divenne la sede principale e il centro del movimento psicoanalitico. Klein aveva già acquistato un vasto seguito in Inghilterra, ma il suo atteggiamento cambiò del tutto allorché Glover ritenne di non poter accettare che una persona come Klein, non avendo studiato medicina, si permettesse di argomentare a proposito di stati psicotici. Anna contava invece sul prestigio del nome e sull'appoggio degli psicoanalisti austriaci immigrati. Nella Società psicoanalitica britannica si formaro- no così 2 gruppi contrapposti: occorreva quindi un dibattito teorico di chiarimento. La 2ª Guerra Mondiale rese impossibile un confronto immediato: alcuni membri della Società psicoanalitica furono richiamati al fronte, altri, come la Klein, abbandonarono Londra, presa di mira dai bombardamenti. In Scozia, la Klein prese in analisi il piccolo Richard, che divenne il suo caso clinico più celebre. Malgrado l'analisi sia durata solo 4 mesi, ella riuscì a stendere appunti dettagliati dopo ogni seduta. Nel ‘43, quando ormai il rischio dei bombardamenti era scemato e gli psicoanalisti erano quasi tutti tornati a Lon- dra, Jones, presidente della Società psicoanalitica, decise di organizzare l’atteso confron- to teorico, il cui risultato furono le “Discussioni controverse”. A questo punto la posta in gioco non era più la sola psicoanalisi infantile, ma la psicoana- lisi tout court, perché ambedue le parti stavano contribuendo a modificare anche la tera- pia degli adulti. Da una parte Anna tendeva a concentrarsi sull'Io anzichè sull'Es (inter- pretazioni volte piuttosto allo strato superficiale dell'inconscio che a quello profondo); dall'altra la Klein "sviluppava la concezione freudiana dell'analisi del transfert in una 'pu- ra analisi del transfert', un movimento che implicava lo scartare ogni forma di rassicura- zione da un lato, ogni pressione educativa dall'altro, sia con bambini che con adulti". I kleiniani promossero anche l'estensibilità del metodo psicoanalitico alla psicosi: “En- trambe le parti contendenti citavano continuamente Freud, ma venivano richiamate opere diverse. Gli oppositori della Klein perlopiù facevano riferimento ai primi lavori di Freud, mentre la Klein si appoggiava prevalentemente agli ultimi; il che è evidente nel caso della pulsione di morte”. Nessuna delle due fazioni riuscì a prevalere. Dalla discussione si passò alla trattativa, per evitare che la Società psicoanalitica britannica si scindesse. Anna e la Klein raggiunsero così un compromesso: all'interno della Società psicoanalitica, ogni leader avrebbe con- trollato il proprio "territorio" formando analisti alla luce delle proprie convinzioni teori- che. Attorno alle 2 leader si organizzarono quindi 2 gruppi, a cui sarebbero stati assegnati in modo equanime posti nelle commissioni e nel consiglio di amministrazione. In capo a pochi anni comparve però anche un gruppo di Indipendenti o Middle Group, a cui avreb- bero fatto capo le menti più creative della psicoanalisi britannica del ‘900 (es. Winnicott, Bowlby). La tripartizione era destinata a permanere: i 2 raggruppamenti rimangono tutto- ra una caratteristica centrale della Società britannica, ma i loro confini sono divenuti me- no rigidi e fra essi si verificano sovrapposizioni e fertili interscambi. Quello britannico era destinato a divenire un modello per l'International Psychoanalytic Association in tutto il mondo. Il proliferare degli approcci teorici richiamantisi a Freud trovò l'IPA sempre di- sposta a instaurare situazioni di compromesso e rappresentanza pluralista, salvo la volon- taria uscita dei teorici. 5.11. L'impatto dei fascismi sulla storia della psicoterapia: l'emigrazione in massa degli psicoanalisti e la creazione dell'Istituto Göring Il periodo tra gli anni ‘40 e ‘50 fu caratterizzato dallo scontro ideologico fra il totalitari- smo e il mondo libero. Durante la 2ª Guerra Mondiale la psicologia giocò un ruolo anche nei paesi del Patto d'acciaio. Gli psicologi italiani e tedeschi si incontrarono a Roma nel ‘41, isolandosi dalla ricerca del resto del mondo. Fra coloro che organizzarono l'incontro va ricordato Padre Agostino Gemelli, che svolse un ruolo fondamentale per la storia della psicologia italiana e della psicoterapia nella cultura cattolica, e Göring, fondatore dell’Istituto tedesco per la ricerca psicologica e la psicoterapia, che promosse una conce- zione ariana della psicoterapia in cui erano tuttavia presenti, sotto mentite spoglie, anche "fallacie dogmatiche" di Freud, pur senza bocciare completamente le proposte del movi- mento psicoanalitico; dimostrando, anzi, una disposizione positiva, per esempio, nei con- fronti di alcune teorizzazioni di Jung, come il concetto di complesso. Un'ambivalenza di fondo era l'atteggiamento più diffuso. W. James da un lato espresse il proprio compiacimento a E. Jones per l'importanza storica del ruolo degli psicoanalisti, dall'altro non nascose la sua visione di Freud come uomo ossessionato dalle idee fisse. Dopo il viaggio di Freud, l'influenza delle idee psicoanalitiche crebbe significativamente in USA, anche grazie a un'atmosfera culturale favorevole. L’invadente pressione dell'in- teresse del pubblico generale verso le idee freudiane, tuttavia, indusse resistenze alla ri- cezione della psicoanalisi da parte dell'establishment accademico statunitense. La pene- trazione della psicoanalisi seguì negli USA 2 strade separate per gli psicologi e gli psi- chiatri, corrispondenti alla netta separazione di ruolo tra le 2 specializzazioni per quasi tutto il 20° secolo (la figura dello psicoterapeuta di formazione psicologica è stata auto- rizzata di recente). Nella psicologia americana, il paradigma che si affermava progressivamente in modo quasi esclusivo era quello comportamentista: non si poteva mostrare che scetticismo nei confronti di una disciplina che non solo si focalizzava sulla mente, ma addirittura propu- gnava l'idea di una mente inconscia. Sia per questo, sia per semplice incomprensione do- vuta anche alla carenza di disponibilità di testi, le idee psicoanalitiche penetrarono con difficoltà; quando facevano breccia, venivano piuttosto assorbite da altre teorie psicologi- che, salvo ritrovarsi modificate rispetto al loro contesto d'origine. Permanevano comun- que forti riserve sull'attendibilità dei metodi di ricerca clinici e si tentava di usare metodi sperimentali per cercare possibili conferme/smentite alla psicoanalisi, con esiti di alterni. L'atteggiamento verso la psicoanalisi da parte degli studiosi americani era condizionato anche dalla particolare situazione storica della loro disciplina, alla ricerca di uno statuto scientifico solido ma anche di aperture metodologiche che assicurassero la possibilità di identificare ambiti di ricerca impraticabili da parte del metodo sperimentale puro. Nella confusione del dibattito su cosa potesse essere considerato "buona" o "cattiva" scienza, si finiva per "considerare come 'cattiva' scienza ciò che caratterizzava la psicoanalisi". Tale valutazione, è indicativa dell'atteggiamento tenuto dal loro proprio ambiente di fronte alle critiche metodologiche provenienti dall'esterno. La psicologia accademica poteva consi- derare l'ambito teorico della psicoanalisi come un insieme di ipotesi più o meno feconde a cui attingere, alla condizione di poterle confermare sperimentalmente; da parte sua la psi- coanalisi a lungo non ha ritenuto necessario alcun dialogo con la psicologia accademica. Completamente diverso fu l'atteggiamento dell'ambiente psichiatrico. Le lezioni di Freud e Jung del 1909 furono il 1° atto di un'evoluzione che condurrà il pae- se ad assumere la leadership teorica della psicoterapia, e non solo a carattere psicoanaliti- co. L'influenza di Freud rese possibile la nascita di forme terapeutiche molto diverse, an- che per reazione diretta alle idee psicoanalitiche (es. Ellis e Beck si formarono come psi- coanalisti, prima di diventare 2 figure chiave nella nascita della psicoterapia CBT). Tra gli psicoanalisti americani, da subito nacquero 2 correnti freudiane: 1. Troncone americano del movimento psicoanalitico ® sotto l’iniziale guida di Brill, fedele alle idee di Freud salvo per quanto riguardava la possibilità dei “laici” (non me- dici) di diventare analisti: questo gruppo dette origine all'APA. 2. Grazie a Sullivan si sviluppò una tradizione di ricerca diversa, anche se inizialmente minoritaria: la psicoanalisi interpersonale, che però “non costituisce una teoria unifi- cata, integrale, come la classica teoria delle pulsioni di Freud. È piuttosto una serie di approcci diversi alla teoria e alla pratica clinica, uniti da presupposti comuni”. Gli interpersonalisti erano convinti che la teoria della motivazione di Freud, come le sue idee sulla natura dell'esperienza umana e sulle difficoltà iniziali dello sviluppo, fossero erronee. Come i teorici inglesi delle relazioni oggettuali, per gli interpersonali- sti " il rapporto con gli altri significativi era più importante della libido. A differenza dei primi, tuttavia, gli interpersonalisti erano convinti che la teoria freudiana classica sottovalutasse il più vasto contesto sociale e culturale, che deve avere invece un ruolo di 1° piano in qualsiasi teoria che voglia spiegare origini, sviluppo e deformazioni del- la personalità". Allorché molti analisti europei, costretti a emigrare nel corso degli anni ’30, scelsero co- me meta gli USA, la scena teorica cambiò. L’APA, sezione statunitense dell'IPA, vide af- fermarsi al proprio interno la psicologia dell'Io; l'impulso di Sullivan si fuse in una pro- spettiva più ampia e sfaccettata, neofreudiana. 5.13. Sullivan e la nascita della Psicoanalisi Interpersonale Nella storia della psicoterapia non mancano casi di outsider che diventano personaggi di grande spessore, come Sullivan. Nato nel 1892, ottenne nel 1908 una borsa per studiare medicina, dove però rimase solo 1 anno. Tra il 1909 e il 1911 venne ricoverato in un ospedale psichiatrico dopo un episodio psicotico. Nel 1911 riprese gli studi di medicina, laureandosi nel 1917. Dopo un periodo di formazione, e 4 di esercizio della professione segnati da altri momenti di crisi mentale, nel 1921 approdò all'ospedale St. Elizabeths di Washington, diretto da White (psichiatra eclettico), che lo indirizzò alla psichiatria. Whi- te trasformò il St. Elizabeths nel "Burghölzli del continente americano", la 1ª istituzione USA dove le teorie psicoanalitiche costituivano il fondamento della terapia psichiatrica. L'anno successivo Sullivan iniziò la sua attività di psichiatra all'ospedale Sheppard, dove dal ‘29 gestì un piccolo reparto organizzato interamente secondo le idee che aveva svi- luppato. Inizialmente, egli si occupò soprattutto di giovani schizofrenici maschi: "la chia- ve essenziale del suo lavoro era rappresentata dalle sue vicissitudini personali, e dalle ca- pacità di identificazione coi pazienti e di autoanalisi che ne conseguirono". Nei suoi primi scritti legava l'esordio della schizofrenia maschile a problemi esistenziali (mancata possibilità di un rapporto di reciproca fiducia), rivelatisi fatali, affrontati duran- te la preadolescenza e l'adolescenza, impostando il percorso terapeutico come un tentati- vo di compensare la mancata soluzione di quei problemi “ricreando una tale esperienza, partendo da quella che considerava la fonte principale di tale reciproca fiducia: l'amico preadolescente”. Già i primi scritti di Sullivan erano caratterizzati da idee di fondo che rimarranno costanti nel suo pensiero. La premessa epistemologica fondamentale a cui aderiva era quella di un realismo critico, cioè pronto ad adeguarsi di fronte alla scoperta di fallacie percettive e interpretative nella considerazione della realtà. Presupposti per lui necessari per accettare il suo punto di vista: - il postulato dell'esistenza dell'inconscio; - una concezione teleologica dell'esistenza (che riconduceva esplicitamente al concetto di libido di Jung); - l'ipotesi ontogenetica, fondata sulla progressiva organizzazione della mente secondo una "sequenza esistenziale di esperienze" simili per i diversi umani. Per la comprensione della patologia, specie di quella schizofrenica, per Sullivan bisogna ricostruire cosa il paziente sta cercando di fare attraverso la psicosi. Ciò significava op- porsi a tutta la tradizione psichiatrica che cercava nell’eredità e nelle lesioni cerebrali l’eziologia della schizofrenia, ma anche “mettere fine alla psicologia stimolo-risposta”. Sullivan Vedeva la schizofrenia come "una serie di eventi mentali rilevanti, sempre ac- compagnati da modificazioni della personalità, ma che di per sé non comportano né dete- rioramento né demenza"; e come "un disturbo mentale che si manifesta come disturbo della motivazione, e che si riflette nei contenuti del pensiero e nell'attività finalizzata, os- sia nel comportamento. La struttura mentale si disorganizza in modo che le sue varie par- ti, ora disintegrate, regrediscono funzionalmente verso livelli ontogenetici più antichi, ma diversi l'uno dall'altro”. Basandosi sulle proprie prime esperienze cliniche, Sullivan già sosteneva che la prognosi della schizofrenia non fosse necessariamente infausta (come sostenuto da psichiatria e psicoanalisi) e che anzi una cura fosse possibile, dato che un intervento precoce poteva prevenire la regressione definitiva della personalità. Sottolineava inoltre che, come l'esor- dio della patologia era determinato dall'ambiente, anche l'esito felice del reinserimento del paziente nel mondo doveva considerarsi legato al contesto in cui questi avrebbe vissu- to la fase di recupero. Egli si proponeva quindi come progetto di ricerca lo "studio del pa- ziente e dell'ambiente pre-psicotico". Fin da subito erano evidenti sia l'influenza del pensiero freudiano su Sullivan, sia la di- versità di orientamento, che ha portato costruirne l'immagine di contraltare di Freud. Ra- ramente, però, è stata messa in luce la forte influenza esercitata su lui da Jung. Secondo Conci: “Sono 3 i piani su cui poter impostare il discorso dell'influenza di Jung su Sullivan: 1) l’orientamento interpersonale del suo pensiero; 2) la sua contestazione del concetto freudiano di libido e la conseguente riconcettualizzazione del concetto di psico- si, in termini dell'accessibilità dei pazienti da essa affetti al rapporto psicoterapeutico; 3) possibilità di sviluppare un punto di vista psicoanalitico alternativo a quello di Jung”. Negli scritti degli anni ‘20 Sullivan, anche confortato dal maggior ottimismo terapeutico di Jung rispetto a Freud, sviluppò una teoria ontogenetica e una tecnica di cura della schi- zofrenia che piegavano le idee psicoanalitiche a un'interpretazione nuova. Se per Freud i fattori decisivi per la salute o la malattia erano intrapsichici, per Sullivan erano interpersonali. Egli considerava fondamentale la sessualità nello sviluppo indivi- duale; non solo come possibile fonte di nevrosi, ma anche come fattore protettivo: "Il di- sturbo [schizofrenico] non sembra colpire chi sia riuscito, anche solo per poco, a trovare un adattamento soddisfacente verso un oggetto sessuale". Sullivan considerava tuttavia l'Edipo un "artefatto culturale". Quello che chiamava il possibile "effetto castrante" dell'ambiente familiare era meglio interpretabile in senso metaforico che in quello lettera- le freudiano dell'ansia di castrazione, ed era legato al cattivo adattamento dei genitori al condizionamento culturale relativo alla sessualità. Anche il prolungamento delle cure ma- terne oltre l'età in cui fossero necessarie poteva avere effetti devastanti. Insomma: "Non abbiamo mai osservato disadattamenti che non avessero un fondamento in atteggiamenti sbagliati imposti al bambino dai genitori o dai loro equivalenti". Nel ‘26, Sullivan ebbe occasione di ascoltare le conferenze di Ferenczi, e avvertì una pro- fonda affinità con le sue idee. Sempre nel 1926, Sullivan entrò in contatto con l'antropo- logo Sapir, che ispirarò l'idea di pensare la psichiatria come una delle scienze sociali. Sul- livan finì infatti per considerarsi "uno scienziato sociale, specializzato in psichiatria". Sullivan si era convinto ormai che la personalità fosse " prodotto della cultura”, iniziando a concepire la psicopatologia come funzione degli eventi che avevano caratterizzato la vi- ta di una persona, eventi vissuti nel rapporto con altri significativi e che avevano minato l'autostima dell'individuo. tive che aveva sempre evitato, giungendo a capire fino a che punto i suoi tentativi di con- trollare l'ansia nel breve periodo, alla lunga gli precludevano una vita più soddisfacente. La sua relazione con l'analista era spesso un mezzo efficace per dimostrare i tratti autoli- mitanti delle operazioni di sicurezza legate ai tratti del carattere. Sullivan assunse un ruolo significativo nella selezione dei militari per il suo paese duran- te la 2ª Guerra Mondiale. Dopo la fine del conflitto riprese la sua attività, volta a pro- muovere il ruolo preventivo della psichiatria. Morì precocemente nel ‘49. 5.14. Erich Fromm, psicoanalisi e libertà Nato a Francoforte nel 1900, si avvicinò alla psicoanalisi nel ‘24 attraverso la futura mo- glie Frieda Reichmann, e iniziò l'attività clinica nel 1927. 2 anni dopo i due fondarono l’Istituto psicoanalitico di Francoforte (il 2° in Germania, dopo quello di Berlino), che trovò ospitalità proprio nella sede della Scuola di Francoforte. Interessato all'applicazione della psicoanalisi ai fenomeni sociali e lettore di Marx, dal 1930 fu direttore della sezione di Psicologia Sociale nell'Istituto diretto da Horkheimer. Psicoanalisi, marxismo e origine ebraica accomunavano tutti i Francofortesi, anch'essi costretti a emigrare con l'avvento del regime nazista. In USA Fromm, insieme a Sullivan e Horney, divenne uno dei massimi esponenti della svolta neofreudiana. Il 1° passo di Fromm verso la progressiva relativizzazione del pensiero freudiano si ebbe già nel ‘37. Sosteneva che molte caratteristiche dell'umanità ritenute universali da Freud dovevano essere invece considerate proprie della società borghese contemporanea: "La struttura caratteriale di una società o classe è espressione dell'adattamento attivo e passi- vo al modo di vivere globale di questo gruppo", affrontando il tema scottante della crisi delle democrazie occidentali di fronte ai movimenti autoritari. Ciò introduceva anche im- portanti novità teoriche in campo psicoanalitico, come la nozione di carattere sociale: "il nucleo della struttura di carattere della maggioranza dei membri di un gruppo, sviluppata- si per effetto delle esperienze fondamentali e del modo di vita in comune a tale gruppo”. Il carattere, in generale, veniva definito come “la forma specifica in cui l'energia umana viene modellata dall'adattamento dinamico delle esigenze umane al particolare modo di esistenza di una determinata società. A sua volta determina pensieri, sentimenti e azioni”. In sintesi, la personalità umana veniva interpretata come frutto dell'interazione di compo- nenti biologiche, interpersonali e sociali. Inoltre, non si poteva più concepire l'idea di una personalità normale in senso assoluto: il carattere sociale di un determinato contesto sto- rico-geografico differiva spesso da quello di un contesto diverso. Per Fromm, il carattere sociale di un'epoca poteva non corrispondere alle esigenze dell'epoca stessa: in alcune occasioni storiche la maggioranza dei componenti di una categoria sociale avrebbe pre- sentato caratteristiche psicologiche non adattive rispetto all'epoca. Non si sarebbe trattato di un caso limite, ma della situazione tipica nelle epoche in cui si preparavano svolte au- toritarie. Vista la rilevanza del contesto intersoggettivo e sociale, la nevrosi non poteva essere con- siderata un fenomeno solo personale, essendo in grado di colpire vasti strati della società. Anche gli aspetti culturali, per Freud frutto di sublimazione, potevano assumere una pro- fonda importanza nell'analisi: " ideali come quelli della verità, della giustizia, della liber- tà, pur essendo spesso solo parole o razionalizzazioni, possono essere aspirazioni genui- ne, e ogni analisi che non consideri fattori dinamici tali aspirazioni è in errore”. Fromm criticò in seguito altri elementi cruciali della teoria freudiana: - complesso di Edipo ® non avrebbe tratto origine dagli impulsi sessuali, ma da un con- flitto con l'autorità genitoriale. - teoria del narcisismo ® idea del narcisismo come frutto di investimento libidico su di sé invece che sull'oggetto era un equivoco, poichè l'esperienza dimostrava come la capacità di amare l'altro fosse proporzionale alla capacità di amare sè. - psicologia della donna ® la visione della donna come inferiore per cause anatomiche e la mancanza del conseguente complesso di castrazione riflettevano i pregiudizi sociali nei confronti delle donne. Tanto la visione freudiana era lungi dall'essere universale, che si poteva supporre la pos- sibilità di un rapporto sociale rovesciato e di un conseguente complesso maschile: "In contrasto con la teoria di Freud per cui il 'desiderio del pene' è un fenomeno naturale nel- la costituzione della psiche femminile, vi sono buone ragioni per ritenere che prima dell'instaurazione della supremazia maschile vi fosse nell'uomo un 'desiderio della gravi- danza’, che anche ai nostri giorni si riscontra in parecchi casi" (Fromm). Fromm aveva anche una visione della relazione analitica meno neutrale rispetto a quella di Freud. L'analista, per lui, più che sembrare uno specchio doveva sviluppare un contatto autentico e non giudicante con l'analizzando. Le interpretazioni non dovevano essere im- prontate né alla gentilezza né alla sgradevolezza. Il paziente doveva sentirsi compreso in modo partecipe; doveva non sentirsi solo nella sua sofferenza. I sintomi per Fromm erano dei compromessi, mediante cui l'individuo si ribellava nevroticamente al conformismo. Il terapeuta doveva favorire la liberazione delle persone, la loro autonomia fino a renderle “produttive”, preservandole dal conflitto e dall'alienazione. L'interesse per le scienze sociali, la relativizzazione del pensiero freudiano, l'atteggia- mento accogliente verso l'analizzando ponevano Fromm vicino alla mentalità di Sullivan: e infatti i due animarono un gruppo di analisti (Zodiac Circle) insieme a Fromm Reich- mann, Thompson e Horney. 5.15. Karen Horney: un’altra grande esclusa Horney nacque ad Amburgo (1885), e studiò medicina. Dopo un'analisi con Abraham, fu tra i fondatori dell'Istituto psicoanalitico di Berlino. Nel ‘32 si trasferì a New York, dove divenne nel ‘34 docente nell'Istituto psicoanalitico locale. Le sue posizioni, però, si rive- larono distanti dalla psicoanalisi classica. Produsse infatti un saggio sul masochismo femminile già molto critico verso Freud: riteneva superficiale e infondata la descrizione di Freud della psiche della donna. Evidentemente, neanche il genio di Freud aveva saputo trascendere i pregiudizi culturali della propria epoca. La collaborazione con Fromm rese Horney più sensibile a considerare l'influenza del con- testo sociale sullo sviluppo umano, ampliando la relativizzazione del pensiero freudiano, inizialmente limitata ai pregiudizi sulle donne. Anche il trasferimento negli USA contri- buì a maturare la convinzione che la nevrosi fosse un fenomeno molto condizionato dall'ambiente: i problemi portati in analisi dagli americani differivano da quelli affrontati dai tedeschi. Horney nel ‘39 abbandonò poi la teoria della libido e teorizzò una minore importanza del- la sessualità infantile per la condizione nevrotica, rispetto al dettato freudiano. Horney, in particolare, abbandonava i concetti di fissazione e regressione a un determinato stadio dello sviluppo psicosessuale. Il ruolo della sessualità veniva molto ridimensionato, talché per lei le difficoltà sessuali erano piuttosto il risultato che la causa dei disturbi di persona- lità. Riteneva che “nella nevrosi le attività sessuali divengono non solo un mezzo per sca- ricare le tensioni sessuali, ma un espediente per alleviare molte tensioni non sessuali”. Già i suoi primi libri, però, avevano creato tante perplessità, da privarla della docenza nell'Istituto di New York nel ‘41. Il suo seguito era però già così significativo da consen- tirle di fondare l'American Institute for Psychoanalysis. Horney contestò l'idea freudiana che il conflitto da cui originava la nevrosi contrappones- se desideri e timori (Io e Super-io): “La situazione psichica postulata da Freud impliche- rebbe che un nevrotico conservi la capacità di sforzarsi per aggiungere qualcosa, e che egli sia semplicemente frustrato in tali sforzi dall'azione ostacolante della paura. Per me, l'origine del conflitto si impernia sulla perdita di capacità del nevrotico di desiderare sin- ceramente qualcosa perché i suoi desideri autentici vanno in direzioni opposte”. Horney esprimeva anche perplessità sull'idea che i conflitti inconsci fossero onnipresenti: in condizioni di normalità, una persona può essere inconsapevole dei propri conflitti ma acquisirne coscienza senza la necessità di un aiuto esterno, mentre "le tendenze essenziali che determinano un conflitto nevrotico sono profondamente rimosse, e possono essere portate alla luce solo agendo contro una forte resistenza". La differenza tra condizione normale e condizione nevrotica, solo quantitativa per Freud, con Horney diventava quali- tativa. L'umano, in un ambiente normalmente favorevole, poteva acquisire una fiducia fondamentale verso il mondo e sviluppare il proprio Sé reale. In un ambiente sfavorevole avrebbe teso alla condizione di angoscia di base, ovvero "il sentirsi isolati e impotenti di fronte a un mondo potenzialmente ostile". Ciò avrebbe spinto l'uomo a comportamenti re- lazionali coatti, cioè a sentire di dovere fare qualcosa senza che questo dovere fosse reale. L'opinione horneyana riguardo i possibili esiti della terapia analitica divergeva da quella freudiana in modo quasi paradossale: da un lato, ella rivendicava la propria capacità di ri- conoscere i notevoli ostacoli che il nevrotico incontrava nel tentativo di risolvere i con- flitti, ostacoli che a suo avviso Freud non aveva adeguatamente riconosciuto (la psicoana- lisi freudiana avrebbe preteso "di poter 'guarire' con mezzi assurdamente semplici”); dall'altro, per Horney era più facile, rispetto all'opinione di Freud, che un paziente otte- nesse benefici sostanziali e durevoli dall'analisi. Il pessimismo terapeutico freudiano sa- rebbe stato legato a una radicale e ingiustificata sfiducia verso l'umanità. Horney riteneva anche che la capacità di superare difficoltà e contraddizioni permanesse per tutta la vita e che quindi non vi fossero controindicazioni all'analisi di una persona matura (che anzi avrebbe accettato più facilmente di un giovane il principio che i suoi problemi non venis- sero dall'esterno e avrebbe potuto quindi mettersi in discussione come fonte dei propri problemi). Horney non condivideva nemmeno l'atteggiamento di fredda neutralità degli analisti classici e degli psicologi dell'Io: l'analista doveva risultare wholehearted ("teso verso l'altro con tutto il cuore"). In questo anticipò il gruppo degli intersoggettivisti. Date tali premesse, l'American Institute for Psychoanalysis divenne l'associazione che racco- glieva gli psicoanalisti americani più aperti alle novità e al contempo critici nei confronti del dogmatismo delle società psicoanalitiche tradizionali. CAPITOLO 6 – UNA TERRA DI MEZZO: GLI ANNI ‘50 Gli anni ’50 possono essere considerati una terra di mezzo. Dopo la 2ª Guerra Mondiale la psicoterapia si radicò nelle istituzioni americane soprattutto come strumento per la gestione dei traumi portati dalla guerra nei veterani. Lo psicoanalista Menninger era stato il capo de- gli psichiatri statunitensi durante la 2ª Guerra Mondiale e si distinse per la sua capacità di dare sostegno alle truppe. Così, insieme al fratello diresse una clinica a Topeka caratterizza- ta dalla capacità di accogliere molti pazienti, e da un’efficacia terapeutica notevole. Nel mentre, in Europa, la promozione della psicoterapia era servita a rimodernare strutture me- diche e istituzioni che si occupavano di salute mentale. Ci fu quindi un’aria di rinnovamento 3. della dipendenza matura, caratterizzato prevalentemente da un atteggiamento oblativo: oggetto accettato e oggetto rifiutato esteriorizzati (simile alla Klein). La deviazione dalla norma era vista da Fairbairn essenzialmente in termini di deficit am- bientale, causa di diversi fenomeni mentali. L’aggressività era il frutto della reazione alla frustrazione e alla deprivazione dell’Io nella sua ricerca dell’oggetto. L’Es, per Faibairn, era una costruzione teorica priva di significato, essendo le sue proprietà e funzioni iniziali proprie dell’Io. Non era l’Io a derivare dall’Es: erano invece le componenti inconsce della personalità a derivare, per rimozione, dall’Io cen- trale. Questo schema, per esempio, chiariva meglio la teoria freudiana all’origine del maso- chismo: era più facile capire il piacere masochistico in funzione della ricerca di prossimità verso una persona ricercata ma rifiutante, che come approdo deviato dalla meta della ricerca della scarica libidica. Tutto ciò implicava anche delle conseguenze profonde sulla concezio- ne della psicoterapia analitica: l’insight di per sé era insufficiente alla cura. 6.3. Winnicott: l’identità infanitle e l’esperienza psicoanalitica Winnicott nacque a Playmouth, e il padre era un uomo di successo ma piuttosto assente, che lasciava la cura del figlio maschio alle figure femminili della famiglia. Il risultato di ciò, fu un forte legame con la figura materna e una mancanza dell’investimento emotivo sull’identificazione paterna e forse anche sessuale. La sua esperienza infantile ha sicuramen- te influito su quello che sarà il suo pensiero come autore, soprattutto per quanto riguarda il rapporto madre-bambino. Dopo aver partecipato alla 1ª guerra mondiale come chirurgo della marina britannica, si de- dicò alla pediatria in quanto egli riteneva che “in molti casi, l’anormalità risale ai primi me- si/settimane di vita”. Nel 1923 riceve l’incarico come pediatra presso l’ospedale di Londra e il primo incontro con E. Jones, che diventò il suo terapeuta. Fu però indirizzato alle cure di Strachey ed è qui che inizia a maturare la voglia di diventare analista a sua volta, dedican- dosi ai bambini. Su consiglio de suo analista diventò allievo della Klein ma senza mai aderi- re completamente alle sue idee. A partire dalle discussioni controverse egli rimase a far par- te del gruppo degli Indipendenti e, nonostante la sua posizione defilata, non gli è stato im- pedito di essere presidente della Società psicoanalitica britannica per 2 volte. Winnicott attribuiva grande importanza all’ambiente nello sviluppo psicologico individua- le: la vita, durante le prime fasi dell’esistenza, doveva essere considerata come inserita nel sistema costituito dalla coppia madre-bambino, ed era convinto che il modo di trattare l’oggetto in tale situazione costituisse un “mangiare immaginario” e quindi una forma pri- mitiva di gioco. A partire dal 1945 Winnicott elaborò: 1. Una nuova concezione della prima infanzia, fondata sull’idea che la “linea di organizza- zione centrale dello sviluppo psicologico, fin dall’inizio, consiste nell’esperienza di esse- re vivo e elle conseguenze delle falle nella continuità del senso di esistere”. 2. Una nuova concezione dell’esperienza psicoanalitica. 6.4. La relazione madre-bambino, lo sviluppo e i fenomeni transizionali Per Winnicott l’esordio della vita psicologica umana era segnata del vivere insieme un’esperienza da parte del bambino e della madre (solo in seguito sarebbe stata vista come oggetto d’amore esterna al Sé). Madre sufficientemente buona = madre che svolge il proprio compito nel modo adatto. In seguito, Winnicott chiarì che per adattarsi ai bisogni del bambino, la madre attraversa come una fase transitoria di follia, dove il figlio costituisce l’unico oggetto di interesse (preoccupazione materna primaria). La madre però, dopo aver trasferito “una parte del senso di sé sul bambino” avrebbe dovuto essere “pronta ad abbandonare la propria identifi- cazione col figlio non appena questi ha bisogno di staccarsi da lei”. Era fondamentale che la madre offrisse al bambino le esperienze di: • Holding = essere tenuto e sostenuto (esperienza fisica e psicologica insieme); • Handling = essere toccato, accarezzato, manipolato; • Object presenting = vedere progressivamente materializzarsi di fronte a sé gli oggetti dei quali sentisse il bisogno, a partire dal seno materno. Alla fase di illusione doveva seguire una fase di disillusione, un passaggio dalla dipendenza assoluta alla dipendenza relativa che inducesse alla capacità di “stare soli”. Per Winnicott, l’umano viene definito sia dalle relazioni interpersonali, sia dalla realtà in- terna. Area transizionale = aerea intermedia di esperienza a cui contribuiscono sia la realtà inter- na sia la vita esterna. Si trattava proprio dell’esperienza necessaria perché il bambino potes- se entrare in relazione con l’esterno. La connessione tra i 2 ambiti esperienziali (infantile e adulto), era costituito dalla creatività. L’oggetto transizionale con cui il bimbo stabiliva un rapporto privilegiato, sarebbe emerso da questa area esperienziale: a metà tra l’essere stato trovato e l’essere evocato o creato dal bambino. Dalla riflessione sugli esiti dell’esperienza infantile con una madre non sufficientemente buona nasceva la dialettica tra Vero Sé e Falso Sé. Vero sé = personalità autentica dell’individuo; Falso sé = nasce dalla necessità di adattarsi all’ambiente, allorché questo non asseconda adeguatamente la necessità progressiva di cre- scita psicologica. Infatti, l’individuo doveva passare gradualmente da una dipendenza totale, ad una dipen- denza relativa fino ad arrivare ad una indipendenza tendenziale, mai assoluta. Maggiore sarà l’inadeguatezza ambientale (specie quella materna) rispetto alla necessità soggettive, e maggiore il tentativo di adattarsi, più l’individuo svilupperà una sorta di scudo protettivo, il falso sé. La formazione difensiva potrà dunque diventare patologica portano l’individuo a un vissuto di inautenticità, estraniazione o disorganizzazione della personalità e non a con- flitti inconsci come nella teoria psicoanalitica classica. Nell’ultima fase del suo pensiero, Winnicott teorizzò che durante lo sviluppo infantile si do- vesse fare attenzione a un altro elemento di passaggio: l’uso dell’oggetto. La capacità di usare l’oggetto era un passaggio ulteriore rispetto all’entrare in contatto con l’oggetto. Se la madre accettava di essere usata senza reagire negativamente, il bambino avrebbe potuto evi- tare il rischio di sentirsi pericoloso e diventare un adulto in grado di vivere senza inibizioni il proprio desiderio. 6.5. Il contributo clinico di Winnicott Il contributo di Winnicott alla psicoterapia consta di elementi diversi, riconducibili soprat- tutto al suo lavoro con pazienti molto gravi, anche psicotici. Il primo spunto originale aveva come oggetto l'odio nel controtransfert. Winnicott fu presumibilmente il 1° a sostenere che sentimenti negativi devono essere provati dall'analista. Non negava che il controtransfert negativo potesse essere legato alla rimozione di sentimenti, rappresentazioni, identificazio- ni, relazioni oggettuali da parte del terapeuta; sottolineava che la personalità dell'analista po- teva sviluppare tendenze controtransferali positive in grado di aiutare la terapia. Ciò doveva però essere distinto dal “controtransfert autenticamente oggettivo”, cioè la rea- zione che la condotta del paziente avrebbe evocato in qualunque terapeuta, indipendente- mente dalla sua personalità e dalla sua formazione. Che un analista, per quanto ben disposto verso un paziente disturbato, provasse odio nei suoi confronti era inevitabile e anche un possibile fattore terapeutico: sia perché in genere una personalità primitiva non sarebbe riu- scita a separare l'amore dall'odio (e avrebbe potuto sentirsi amata solo sperimentando anche l'odio dell'analista), sia perché l'autosvelamento dell'odio costituiva, nella fase avanzata del- la terapia, lo spunto per rendere il paziente consapevole delle conseguenze del proprio agito. Senza tale intervento un’analisi sarebbe risultata incompleta. La tecnica analitica di Winni- cott si evolse sulla base della convinzione che la psicoterapia avesse una funzione riparati- va piuttosto che conoscitiva. L'analista assumeva “alcune caratteristiche di un fenomeno transizionale” e poteva essere definito “sufficientemente buono” o no, esattamente come la madre. Più l'aspetto relazionale-riparativo assumeva importanza per Winnicott, più rarefatti si facevano gli interventi interpretativi. 6.6. Gruppo e psicoanalisi: Foulkes e Bion Nella storia dei rapporti tra gruppo e psicoterapia, un posto particolare spetta a un'istituzio- ne, la Tavistock Clinic, dove si formarono e operarono diversi personaggi che hanno poi esercitato un ruolo fondamentale nella storia dei gruppi terapeutici. Nel 1948, un ramo della clinica diede avvio al Tavistock Institute, che si occupava invece di applicare la dinamica dei piccoli gruppi anche alle organizzazioni e ai più vari contesti sociali. La Tavistock, dagli anni ‘60 a oggi, nelle sue 2 diramazioni ha apportato continue innovazioni, esercitando un'influenza notevole sia sulla cultura inglese che sulla cultura psicoterapeutica europea. Durante la 2ª guerra mondiale si svilupparono anche le prime forme di terapie alternative di tipo comunitario, finalizzate al recupero e alla riabilitazione dei militari. Dalla fine degli an- ni ‘40 Michael e Balint inaugurarono, alla Tavistock, l'uso sistematico del gruppo al fine di formare e sensibilizzare sotto il profilo emotivo i medici nella relazione col paziente. I Gruppi Balint, tuttavia, non miravano all'elaborazione di una vera psicoanalisi di gruppo; erano piuttosto uno strumento applicativo delle nuove scoperte psicoanalitiche alla forma- zione medica. Foulkes, creatore della gruppoanalisi, nacque nel 1898 da una ricca famiglia ebrea. Le idee di fondo dell’analisi di gruppo furono da lui delineate già durante la 2ª guerra mondiale. Il setting di gruppo rappresentava da una parte un'economia di tempo per il terapeuta, dall’altra intensificava gli effetti della terapia, riducendone quindi la durata. Se un'analisi individuale completa rimaneva originariamente, per Foulkes, la soluzione migliore, l'analisi di gruppo consentiva di “riequilibrare la psiche del paziente e permettergli di riassumere, in un ragionevole periodo di tempo, un ruolo soddisfacente nell'ambito della società, della fa- miglia e dell'attività professionale”. Il numero di 8 partecipanti (con un minimo di 5 e un massimo di 10) era indicato da Foulkes come quello ideale per la terapia: un gruppo più grande poteva mettere in secondo piano alcuni individui; un gruppo più piccolo sarebbe ri- sultato troppo dipendente dalla partecipazione sempre attiva di tutti i membri. I gruppi erano originariamente tutti aperti: i membri potevano cioè partecipare con la fre- quenza che preferivano, con la possibilità di smettere di frequentare il gruppo per un certo periodo e di tornare a farne parte in seguito, così come di essere sostituiti da altri. Sperimen- tò quindi i gruppi chiusi, dove i membri rimanevano gli stessi e la durata veniva program- mata dall'inizio, da 3 mesi a 1 anno o più, e i gruppi semi-aperti, nei quali era richiesta la partecipazione continuativa ma i membri potevano lasciare il gruppo ed essere sostituiti da partecipanti altrettanto assidui: la permanenza di ogni individuo poteva così variare da 9 mesi (minimo richiesto) a 5 anni, con una media di 2-3 anni. Foulkes considerò anche i gruppi misti, che prevedevano incontri individuali dei singoli membri conl terapeuta, alter-
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