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Le grandi imprese: origine, sviluppo e teorie, Appunti di Storia Economica

Una panoramica storica delle grandi imprese, dalla loro nascita durante la prima rivoluzione industriale fino alla loro evoluzione nel corso del xx secolo. Vengono esaminate le teorie economiche che hanno influenzato lo sviluppo delle grandi imprese, come la prospettiva neoclassica e la teoria di schumpeter. Vengono inoltre analizzati i fattori che hanno determinato la configurazione delle grandi imprese in europa e negli stati uniti, come la struttura dei mercati, la posizione delle autorità politiche e il mercato azionario.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 05/03/2024

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Scarica Le grandi imprese: origine, sviluppo e teorie e più Appunti in PDF di Storia Economica solo su Docsity! 1 SECONDO SEMESTRE 24/02 Cap. 1 – TEMI DI FONDO 1. INTRODUZIONE ALLA “STORIA D’IMPRESA” - Sviluppo economico moderno attraverso l’analisi di uno dei suoi attori principali: l’impresa, intesa quale nucleo originario del sistema capitalistico. 10 concetti chiave: 1. MICRO e MACRO: intercorre una stretta relazione tra i due livelli: la maggiore protagonista del settore industriale in cui opera è la grande impresa. In questo modo il destino di ogni singola impresa è correlato alla ricchezza complessiva della nazione da cui proviene. 2. RIVOLUZIONI INDUSTRIALI: rappresentano le fasi di transizione da un paradigma tecnologico al successivo. Fondamentali sono le competenze tecniche e scientifiche, le fonti di energia e l’intensità di capitale. 3. IMPRENDITORI e MANAGER: portatori di competenze teoriche e pratiche, hanno un mestiere, devono calarsi nella singola impresa. 4. MERCATI: avremo a che fare con aspetti demografici e sociali 5. CULTURA: atteggiamento in una nazione nei confronti dell’attività e del cambiamento economico, dobbiamo riconoscerle perché non sono tutte uguali. 6. STATO: ricopre diversi ruoli, fornitore di infrastrutture, regolatore/imprenditore/partecipante alla competizione economica. 7. FORME D’IMPRESA: si definiscono in base a struttura, dimensione, strategie, interrelazioni reciproche. Aspetti importanti da tenere in considerazione sono la relazione tra quartier generale e unità operative all’interno della singola impresa e la comunità di imprese, in cui essa stessa è inserita. 8. VARIETÀ DEI SISTEMI CAPOITALISTICI: intersezione tra economia e istituzioni. 9. IMPREVEDIBILITÀ DEL CAMBIAMENTO: l’impresa ha a che fare con eventi non prevedibili che generano instabilità nel contesto in cui si opera. 10. POST-CHANDLERISMO: Chandler è stato lo studioso che ha dato uno status accademico e scientifico alla Business History, dignità della disciplina politica. Il suo schema concettuale sottolinea la centralità della tecnologia (= esogena all’impresa), da cui trae le fondamenta la nostra analisi, approfondendo alcuni elementi che Chandler accantona: il contesto politico in cui si svolge l’attività economica, la globalizzazione, la cultura, la grande impresa integrata, i problemi sociali. In conclusione, si utilizzerà una prospettiva neo-chandleriana, che mette in relazione: tecnologia, imprenditori, mercati, cultura, stato. Si tratta di variabili che condizionano direttamente le imprese. DOMANDA: V o F I manager sono portatori di competenze teoriche e pratiche e hanno sviluppato un preciso sapere funzionale, specifico della singola impresa. 2. STORIA E TEORIE D’IMPRESA Questo argomento è affrontato sviluppando i seguenti temi: 2.1. Una “nuova” unità di analisi 2.2. La natura mutevole dell’impresa 2.3. La prospettiva neoclassica 2 2.4. Dinamica economica in prospettiva storica 2.5. Teoria e realtà delle grandi imprese 2.6. Gli anni Settanta e Ottanta: teoria dell’agenzia ed economia dei costi di transazione 2.7. “Da una a tante”: teorie sull’impresa del XXI secolo. 2.1 Una “nuova” unità di analisi - Dalla prima rivoluzione industriale l’impresa è stata una delle più importanti unità di analisi per la crescita economica moderna. Dall’inizio del XIX secolo l’impresa è identificata come “fabbrica”, secondo la modalità inglese di organizzazione della produzione, che ha determinato un consolidamento del potere economico e politico dell’Europa. - Alla fine del XVIII secolo, inizio della prima rivoluzione industriale, la concentrazione di capitale e forza lavoro in un unico luogo fisico (fabbrica) non era una novità. Nuova, invece, era la speciale combinazione di un processo produttivo centralizzato con una tecnologia più efficiente. - Le nuove fabbriche utilizzavano: • acqua e, in seguito, vapore. • nuove forme di disciplina della manodopera. - In questo modo si creò un'organizzazione d'impresa altamente produttiva (mercati di massa) ed efficiente, che diventò l'unità produttiva fondamentale delle prime economie industriali e di tutto il ‘900. Questi complessi fenomeni hanno stimolato numerose teorie dell’impresa: • Prospettiva neoclassica. • Dinamica economica in prospettiva storica. • Teoria e realtà delle grandi imprese. • Teoria dell’agenzia ed economia dei costi di transazione. • Teorie sull’impresa del XXI secolo: “da una a tante”. 2.2 La natura mutevole dell’impresa - La transizione dalla produzione artigianale - lavoratori specializzati e generici in ambiente domestico - alla fabbrica ha comportato una radicale trasformazione dello status giuridico dell’unità produttiva. - Di conseguenza, company o corporation sono termini associati a nuove strutture organizzative portatrici di un proprio status legale indipendente da quello dei singoli individui coinvolti nel processo produttivo. - Nel secolo passato la crescita delle imprese ha comportato trasformazioni: l’affermazione di nuove forme giuridiche e organizzative necessarie a sostenere la crescente complessità delle attività aziendali. - Individui e gruppi all'interno di queste "realtà complesse" cooperavano strategicamente ed erano in competizione per: • Prima allocazione delle risorse à focus di indagine per gli studiosi. • la distribuzione dei profitti - Questi studi hanno migliorato la nostra comprensione delle attività interne all'impresa e delle sue relazioni con l'esterno, nel mercato e nei confronti di altre forme di autorità. 2.3 La prospettiva neoclassica Modo in cui gli economisti neoclassici o marginalisti (che usano formule matematiche) capiscono il sistema economico di una nazione. Per farlo sono necessare delle semplificazioni. 5 Egli sottolineò inoltre il ruolo della grande impresa come il più potente agente del cambiamento e della crescita: la grande impresa schumpeteriana, sfidava così il concetto neoclassico dell’impresa "rappresentativa". Schumpeter: • era interessato al ruolo innovativo dell'impresa, e al modo in cui l'innovazione veniva realizzata sotto la guida dell'imprenditore. • poneva un'enfasi minore sulle strutture organizzative dell'impresa e su ciò che realmente accadeva al suo interno. • le imprese che seguivano il suo modello crescevano intensamente sfruttando le loro superiori capacità, innovando e consolidando le proprie posizioni di vantaggio competitivo, tuttavia restavano in gran parte delle "scatole nere". - A partire dagli anni Cinquanta e fino ai primi anni Sessanta alcuni studiosi cominciarono a interessarsi al successo della grande impresa, verticalmente integrata, multidivisionale, multinazionale, a guida manageriale. Per la prima volta nella storia si stabiliva una stretta relazione fra il livello microeconomico dell'impresa e il livello macroeconomico, ovvero la “ricchezza della nazione". - In molti settori, la grande dimensione dell'impresa apparve ora come quella ottimale, mentre il sistema economico, nei settori centrali sembrava tendere a un assetto oligopolistico, piuttosto che alla concorrenza perfetta. - Peter Drucker, in Concept of the Corporation (1946), tratta l'emergere di questo tipo di impresa. Drucker sosteneva che la grande impresa potesse essere compresa al meglio qualora si fossero analizzate: • le sue fondamenta tecnologiche • lo "sforzo" necessario al coordinamento efficiente della moltitudine di individui in essa operante. • l’impatto sociale che questa istituzione ha avuto sul capitalismo moderno, della grande industria. Il nuovo approccio teorico presentava diverse declinazioni (Herbert Simon, Richard Cyert e James March): • la prima riguardava la comprensione delle determinanti e delle dinamiche relative alla crescita delle imprese, a livello nazionale e internazionale. • la seconda si concentrava sulle decisioni di fondo (strategie). • la terza riguardava l'architettura organizzativa ottimale dell'impresa, lo scheletro, il telaio. Ciascun reparto produce e costa cercando la dimensione ottimale. • la quarta si focalizzava sui ruoli, i modelli di comportamento e le dinamiche degli attori operanti all’interno delle organizzazioni. Non sono tutti uguali. • Un'attenzione crescente venne dedicata alla tecnologia, considerata quale motore principale del processo di crescita. Innovazioni di prodotto e di processo resero più conveniente l’espansione della dimensione produttiva: le più intense spinte alla crescita derivavano dalla produzione e dalla distribuzione di massa. • Alfred Chandler ha evidenziato gli effetti di questa trasformazione indotta dalla tecnologia su organizzazione e performance dell'impresa. Egli diede inizio a un filone di studi su uno dei problemi di maggiore rilevanza nel quadro della teoria dell'impresa, cioè la relazione interattiva fra la strategia e la struttura di una grande impresa. Chandler considerava implicitamente il 6 cambiamento tecnologico come una forza esogena che aveva un impatto decisivo sulle scelte imprenditoriali. Nella sua prospettiva, i «regimi» o «paradigmi» tecnologici determinano l'attività e la competitività delle imprese e le loro strutture organizzative ottimali. Strategy structure, una delle sue più grandi opere. • Altri studiosi hanno sottolineato la natura endogena del progresso tecnologico e dell'attività innovativa che si è svolta all'interno dei laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi aziende. Quest'ultima impostazione ha incluso nell’analisi lo studio di un'ampia serie di soggetti diversi dall'impresa, quali università, associazioni e istituzioni governative. Quando la tecnologia viene generata all'interno dell'impresa, conoscenza originale, quella tecnologia diventa una risorsa strategica e spesso origine di uno dei più importanti vantaggi competitivi dell'impresa. • Edith Tilton Penrose nel suo libro The Theory of the Growth of the Firm, ha evidenziato un nuovo tema: le imprese sono “stratificazioni” di risorse e competenze; l’impresa moderna è un'organizzazione che apprende, e alla fine sa “come fare le cose”. • Il processo di crescita è spiegato dall'abilità dell'impresa di sfruttare al meglio le sue capacità materiali e umane. L'idea di un'organizzazione capace di apprendere e perseguire un processo di crescita mediante l'uso delle proprie competenze è diventata la base delle moderne teorie dell'impresa. • Richard Nelson e Sidney Winter hanno introdotto il concetto di routines, considerate come le modalità con cui le organizzazioni sono in grado di «ricordare» il comportamento di successo per mantenere le loro posizioni di vertice. Gli agenti economici (e le imprese, fra questi) cercano di ridurre l'incertezza adottando routines che inducono a ripercorrere i «sentieri» noti e conosciuti (path dependence). Questo spiega la diffusa resistenza al cambiamento da parte di individui e organizzazioni. Quando le organizzazioni economiche diventano istituzioni complesse, cruciale per il loro sviluppo è il flusso di conoscenze e informazioni che percorre dall’interno l'organizzazione stessa. L'azienda è ora considerata attore capace di influenzare in profondità le caratteristiche dell'ambiente circostante. - L'accumulazione di capacità e conoscenze è cruciale per spiegare il successo di un'organizzazione: la competitività dipende dall'abilità del management di comprendere e sfruttare al meglio il volume di risorse accumulate all'interno dell'azienda; visione resource- based. - L'idea che l'impresa "moderna" agisca come deposito di competenze e vantaggi competitivi genera una serie di riflessioni sulle strategie di internazionalizzazione delle grandi imprese. Nel 1960 Stephen Hymer propose come spiegazione dell'espansione dell'impresa multinazionale, che il vantaggio competitivo acquisito da un'impresa sul mercato interno potesse essere sfruttato, in seguito, anche all'estero. L'analisi di Hymer venne ulteriormente sviluppata da altri studiosi. Negli anni Settanta John Dunning propose una spiegazione dell’attività internazionale delle imprese basata su una combinazione di: • vantaggi competitivi sviluppati sul mercato interno (vantaggi di “proprietà) • vantaggi presenti nel Paese ospite (vantaggi di “localizzazione”) • ulteriori incentivi all'investimento diretto (di “internalizzazione”) derivavano dalla necessità di mantenere conoscenze e «attività creatrici di valore» all’interno dei confini dell'impresa. Nei primi anni Sessanta Robin Marris nel volume The Economic Theory of Managerial Capitalism attribuisce la crescita dell’impresa all'interesse personale(self-interest) del management. I manager puntano a espandere i confini dell'impresa per acquisire nuove risorse e ottenere un migliore controllo sulle risorse esistenti. 7 Le loro scelte arrivano però a scontrarsi con gli interessi degli azionisti, più sensibili alle performance e all'eventuale distribuzione di dividendi. In questa prospettiva il processo di crescita di un'impresa finisce per essere il risultato di una sorta di contrattazione fra manager e azionisti. La teoria del capitalismo manageriale è importante almeno per due ragioni: • la sua analisi ha valore in relazione all'intenso processo di diversificazione, che ha modificato il panorama delle imprese statunitensi tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, segnato da un'ondata di fusioni e dalla creazione di conglomerate. • Marris ha gettato le basi per un successivo dibattito sulla relazione tra principale e agente, formalizzato nella teoria dell’agenzia (agency theory). 2.6 Gli anni Settanta e Ottanta: teoria dell’agenzia ed economia dei costi di transizione II potere del top management generato dalla separazione fra proprietà e controllo nell'ambito delle corporation americane è stato messo in discussione a partire dall'inizio degli anni Settanta. C’è chi possiede (manager) e c’è chi coordina (azionista). La crisi economica mondiale e la crescente pressione competitiva delle imprese europee e giapponesi hanno rivelato l'inadeguatezza dei dirigenti a gestire politiche capaci di generare risorse e profitti sufficienti a finanziare sia processi di crescita dell'impresa che la distribuzione delle quote di utili. - Nel 1976 Michael Jensen e William Meckling con la pubblicazione “Theory of the Firm: Managerial Behaviour, Agency Costs and Ownership Structure.” analizzarono i problemi che sorgono nel rapporto fra azionisti (definiti principal) e manager (definiti agent). - La teoria dell'agenzia considera l'impresa come una sorta di finzione legale utile per definire un sistema di relazioni contrattuali, impegnata nella produzione di un saldo positivo nelle attività e nei flussi di cassa; la redistribuzione degli utili, in presenza di interessi potenzialmente conflittuali fra principale e agente, spiega la necessità di un “allineamento” degli interessi personali coinvolti. - Due le implicazioni importanti di questa impostazione teorica: • Lo sviluppo ha segnato una fase di acuta critica alla gestione manageriale della grande impresa diversificata, considerata sempre meno efficiente dagli studiosi e, soprattutto, dagli operatori. • L'idea dell’impresa come «artificio legale», destinato a risolvere i problemi emergenti dall’interazione fra vari attori economici, è stata alla base di un'altra corrente di studi, che si è proposta di spiegare la ragione dell'esistenza stessa dell'impresa: la teoria dei costi di transazione. - L'origine di questa teoria risale all’articolo di Ronald Coase, intitolato The Mature of the Firm, che pone le seguenti domande: • Perchè esistono le imprese? • Perchè è necessario internalizzare alcune transazioni, svolgerle cioè dentro i confini giuridici dell'impresa? La risposta è: a causa dell'inefficienza dei mercati. Secondo Coase le imprese sono isole di potere consapevole in questo oceano di cooperazione inconsapevole e devono la loro origine alla necessità di contenere i costi che le transazioni di mercato comportano. • Oliver Williamson nel volume Markets and Hierarchies segue la riflessione di Coase. 10 Say esprime che secondo lui l'abilità di far fronte a situazioni difficili è uno degli attributi riconosciuti alla funzione imprenditoriale. Marshall colloca l'imprenditorialità all'interno della routine gestionale, distinguendo il ruolo di imprenditore dedicato alla decisioni rispetto al ruolo manageriale caratterizzato da un potere delegato. Kirzner va in questa direzione, aggiungendo che bisogna avere attenzione come l'essenza dell'agire imprenditoriale. Casson dice che il talento più importante è la sua abilità di prendere decisioni appropriate riguardanti il coordinamento delle risorse in condizioni di scarsità. Concludendo, per tutti gli autori fin qui considerati, 1'imprenditore - anche se "diverso" per le sue doti di coraggio, leadership, prontezza nel cogliere le opportunità, capacità di giudizio - è essenzialmente "uno di noi", un uomo comune. L'imprenditore è indotto a creare un'impresa con un'organizzazione. II tessuto connettivo dell'impresa è rappresentato dagli strati intermedi del management - collocati fra i lavoratori e 1'imprenditore; in questo modo le direttive dell'imprenditore sono trasmesse all’intera organizzazione ed egli può controllarne la realizzazione. Schumpeter attribuisce una rilevanza all'imprenditore perché ritiene che un paese ha quei settori competitivi rispetto ad altri paesi. Le organizzazione con le regole burocratiche finiscono per soffocare l'imprenditore. Egli anticipava il declino del sistema capitalistico borghese. Taylor, Berle e Means vedono l'ascesa delle grandi organizzazione ha avuto un impatto maggiore sugli studi. Differenza tra organizzazione e imprenditorialità, infatti il primo è ruotine il secondo è creatività; l'una equivale a conformismo invece l'altra a creatività; l'una opera per stabilità mentre l'altra promuove il cambiamento. Lazonick verso la fine degli anni settanta quando la grande impresa va in difficoltà e si inizia a pensare che la burocratizzazione vada contro l'imprenditorialità. Egli evidenza il successo dell'impresa giapponese con l'abilità della classe dirigente a coinvolgere nel processo innovativo tutte le componenti. Kanter divide il management come quello medio che va considerato con particolare attenzione (aggiungere) Inizia ad emergere l'idea che innovazione può essere prodotta all'interno dell'impresa. Quindi non basta più delle strategie ma anche dare importanza ad altri ambiti come ricerca e sviluppo coinvolgendo altre persone e fattori. Il focus di Chandler è l'analisi delle decisioni imprenditoriali dove l'imprenditore deve allocare le risorse ai livelli massimi, invece il manager agisce all'interno delle risorse create 11 dall'imprenditore. Quest'ultimo ha il compito di creare un'ampia gerarchia manageriale con un network che è essenziale per la grande impresa e per la sua crescita. Ritorno agli Animal Spirits Cuff sposta il focus sull'esame dell'imprenditorialità all'interno delle organizzazione. Individua fattori interni ed esterni: esterni che sono da ricondurre al clima generale emerso dalla mobilizzazione della WW2, che davano importanza alle organizzazione su larga scala; interni hanno maggiormente a che fare con l'evoluzione del clima intellettuale. Dopo i tempi cambiano: Reagan alla Casa Bianca, competizione globale, fascino del fenomeno della Silicon Valley… Huges sottolinea le fondamenta del fenomeno dell'entrepreneurship: libera proprietà della terra, flessibilità transazioni economiche, stabilità cornice giuridica, limitato controllo sociale. L'imprenditorialità della storia Studiosi come Carlo Cipolla dicono che non è sufficiente correlare l'incremento della produzione a quello della quantità degli input. La forza vitale non è quella del singolo ma dell'intera società che può entrare in gioco con un effetto decisivo. Cipolla ritiene che l'effervescenza collettiva che si presenta quando l'intensità di interazione sociale raggiunge un picco tale da traboccare in un processo diffuso di innovazione. Wilken studia l'impatto dell'imprenditorialità sullo sviluppo economico individuando delle variabili studiando diversi stati nell'800. arriva a mostrare il bassissimo impatto dell'imprenditorialità negli Usa e UK, però infatti qui nelle rivoluzione è stato l'ambiente a creare innovazioni non il singolo. Foremam-Peck ha provato a misurare l'imprenditorialità della Francia del secondo impero dove la sua attenzione era sulla creazione di nuove imprese e loro performance. Questo contributo è importante ma non esaurisce questioni aperte come le attenzioni sugli imprenditori seguendo una metodologia Chandleriana; inoltre sarebbe necessario riconsiderare i dizionari biografici esistenti, aggiornandoli, analizzando le fonti sulla base di un questionario comune pensato allo scopo di illuminare 1'origine degli imprenditori, 1'istruzione, le motivazioni e i valori, 1'idea iniziale, le strategie e le strutture organizzative elaborate per realizzarla, le relazioni con 1'ambiente e in particolare con il contesto politico e sociale. Cap 4 Dall'età preindustriale alla prima rivoluzione industriale Prima dell'industria Abbiamo l'impresa in città e in campagna. L'economia Lo scenario implica sistemi economici chiusi, autoconsumo, mercati ristretti, no scambi. C'era però un piccolo spazio di commercio di manufatti, perché la campagna offriva manodopera perché i contadini non lavoravano tutto l'anno ma anche le donne e i bambini (non costava niente, molto poco). 12 Da qui si arriva al Putting Out System dove gli imprenditori trasferivano in campagna alcune fasi produttive con al vertice il mercante-imprenditore che deteneva le materie prime che controllava direttamente le fasi di lavorazione ad alta intensità di capitale; fu applicato a svariati comparti produttivi soprattutto nelle lavorazioni tessili. Questo esiste perché: • Ampia disponibilità d manodopera • Estremamente flessibile perché la rete di lavoranti poteva essere estesa o ridimensionata a seconda delle fluttuazioni della domanda; l'unità produttiva coincideva infatti con la famiglia contadina. L'artigianato era quello che c'era nelle città e presentava diverse caratteristiche: maggiore livello di complessità organizzativa, tecniche sofisticate, lavoratori specializzati, elevata intensità di capitale, materia prima più costosa… la localizzazione della bottega dipendeva dalla disponibilità di materie prime e di vicinanza alla fonti di energia (acqua, vento, legna…). Le lavorazioni tendevano a concentrarsi all'interno delle città e dei villaggi. Organizzazione intera di un'unità produttiva artigiana era semplice con una gerarchia: maestro, proprietario della bottega, del capitale fisso e delle materie prime; apprendisti, retribuiti a cottimo e imparavano segreti della professione. Il sistema artigianale urbano era limitato alla produzione di articoli di alto valore aggiunto come oggetti d'oro, gioielli, cappelli… Nelle aree urbani maggiori alcune botteghe arrivarono a impiegare numerosi lavoratori e adottare strutture più complesse. La bottega erano parte integrante all'interno della corporazione che aveva una struttura corporativa più rigida: • la regolazione scritta relativa alla quantità, alla qualità e al prezzo delle merci. • la composizione dei conflitti fra i membri. • il controllo del’osservanza degli standard qualitativi. • la formazione e promozione degli apprendisti. • il monitoraggio dei costi di produzione. I vantaggi della regolazione dell'attività artigianale era: organizzazione input produttivi, gestione formazione del capitale umano e il severo controllo degli standard qualitativi. Alcuni svantaggi erano la posizione di monopolio di cui godeva, mantenendo prezzi alti restringendo produzione; inoltre è un sistema conservatore, quindi che scoraggia l'innovazione. Era un sistema complesso che però rimane piccolo. Più rigido rispetto al Putting Out System che vuole mantenere i privilegi. Era isolato con la volontà di rimanere piccolo ma perdi il business. Imprese di grande dimensione e un numero elevato di lavoratori erano presenti anche in questo periodo. Queste erano definite manifattura. Vi erano grandi impianti preindustriali con metodi sofisticati di amministrazione e contabilità. Le grandi imprese però non derivano direttamente da queste. Pollard sottolineò che i grandi opifici industriali erano l'eccezione e non la regola. Inoltre in molti di essi solo una piccola porzione dei dipendenti lavorava esclusivamente dentro l'impianto, perché la maggioranza lavorava fuori nelle lavorazione a domicilio. Esempio di Linz di 750 dipendenti residenti nell'agglomerato urbano. 15 un'unica fonte di energia (mulino ad acqua o motore a vapore) alimentava i numerosi macchinari dell'impianto. • la specializzazione del lavoro; a ogni operaio venivano assegnate poche mansioni. La specializzazione definiva 1'attività delle unità produttive su singole fasi ed erano le nuove tecnologie a incoraggiare questa evoluzione parallelamente all'allargamento dei mercati. Meccanizzazione di alcune fasi del processo di produzione non era ulteriore carattere distintivo della fabbrica. Le macchine erano strumenti molto più sofisticati degli attrezzi utilizzati dagli artigiani e maestri infatti: • i macchinari richiedevano, per la loro maggiore complessità tecnica, la presenza di lavoratori specializzati nella manutenzione (molto importante). • i macchinari erano costosi; l'investimento in capitale fisso rappresentava in questa fase un vincolo rilevante. • le macchine utilizzate in questo periodo richiedevano l'applicazione di quantità di energia superiore rispetto al passato; un'energia che doveva essere a basso costo e continuamente disponibile, quindi di origine inanimata. (turnazione anche di notte) Fabbisogno energia era soddisfatto con locazione delle fabbriche in arre in cui era possibile derivare la forza motrice da fiumi, torrenti e cadute d'acqua. Il sistema di fabbrica si diffuse velocemente in GB e con un ritmo più lento sul continente. Le maggiori trasformazioni a livello macroeconomico furono: • il ritmo della crescita (sia negli indici aggregati, sia per i singoli Paesi). • la quantità e la qualità dei flussi di commercio internazionale. • il contributo dell'agricoltura e dell'industria alla formazione della ricchezza nazionale (PIL) e all'occupazione. Le maggiori trasformazioni a livello “micro” furono: • la diffusione di nuove tecnologie e forme organizzative generava una serie di questioni a cui erano innanzitutto chiamati a dare risposta gli imprenditori. • il sistema di fabbrica che imponeva infatti la creazione di strutture produttive funzionali all'elevata intensità degli investimenti. • la sperimentazione di varie soluzioni da parte degli imprenditori. • la definizione di regole di comportamento per una forza lavoro pendolare, composta da persone di età, sesso ed estrazione sociale diversi, al fine di rendere veloce e scorrevole il funzionamento del ciclo produttivo. (gestire sistema produzione) • l’inserimento nel sistema di fabbrica dei lavoratori, che comportava spesso un profondo cambiamento delle abitudini e degli stili di vita. (non c'era cultura del lavoro infatti molti 16 non si presentavano il giorno dopo diverso da contadino che lavorava solo in alcune stagioni) • l'inserimento dei lavoratori nel processo continuo dei turni diurni e notturni scanditi da orari fissi e dal ritmo delle macchine. • il funzionamento della fabbrica introdusse progressivamente gerarchie e ruoli rigidamente definiti. Stravolgimento dello stile di vita tradizionale non poteva realizzarsi senza creare tensioni. La prima rivoluzione industriale segnò così indelebilmente e in vario modo la storia dello sviluppo economico dell'Europa occidentale: dal punto di vista sociale e politico le difficili condizioni di vita dei lavoratori e le dinamiche talvolta laceranti della transizione al sistema di fabbrica centrato sulla meccanizzazione furono più rilevanti dell'entità della ricchezza generata dall'efficienza delle nuove strutture produttive. Gli imprenditori, di fronte a tutto questo, sperimentano una serie di soluzioni per controllare i tumulatosi cambiamenti e dare una risposta al disagio sociali. Alla fabbrica venivano cosi affiancati le seguenti strutture a supporto dei lavoratori: • alloggi e dormitori per chi proveniva da villaggi lontani • spacci per l'acquisto di generi di prima necessità, come cibo e vestiti • "villaggi operai", che sorgevano presso gli impianti produttivi di maggiori dimensioni spesso con l'intervento finanziario dell'imprenditore stesso • scuole e altre strutture di sussidiarietà. (quello che oggi si chiama welfare imprenditoriale) Alcuni esempi di luoghi e fabbriche: • In GB alcuni industriali crearono comunità di lavoratori dove vi sono case scuole, aree ricreative e altri servizi per le famiglie degli operai (primo Titus Salt) • In Italia, il villaggio operaio attorno al cotonificio a Crespi d'Adda con case degli operai, ville dei dirigenti, chiesa, cimitero… • In Francia, a Le Creuseot, era cresciuto attorno acciaieria della famiglia Schneider. Questo viene chiamato "paternalismo", come un padre di famiglia che si prende la responsabilità, con in certi l'intervento di istituzioni nazionali e locali. Si afferma una nuova classe sociale nuova, la borghesia industriale che è destinata a partecipare alla guida politica e che quindi spingerà a una legislazione destinata a welfare. Questa tenta anche di introdurre una redistribuzione dei vantaggi. Nemmeno 1'imprenditore più attento ai risvolti sociali del sistema di fabbrica era in grado di prevenire o sanare tutti i problemi sorti con 1'industrializzazione. Molti lavoratori consideravano offensive il paternalismo e 1'alto livello di controllo del nuovo sistema. 17 La determinazione di alcuni gruppi di operai a combattere contro il sistema di fabbrica per recuperare un certo controllo sul proprio lavoro mise in moto lotte sindacali e movimenti politici. Joseph Schumpeter studiò con attenzione quei conflitti: nella sua visione gli imprenditori- innovatori erano quelli che traevano immediato vantaggio dalle nuove tecnologie e dalle nuove forme organizzative, ma la maggiore efficienza del sistema economico aveva in definitiva portato grandi benefici alla società in generale. Le linee guida tracciate da Schumpeter corrispondono a quello che accadde, ma non si trattò di un processo così semplice e definitivo: il sistema di fabbrica non soppiantò improvvisamente e rapidamente le preesistenti forme della manifattura. La storiografia marxista ha delineato un diverso paradigma di analisi per spiegare la diffusione del sistema di fabbrica, affermando che la necessità di concentrare la manodopera in un unico luogo era legata allo sforzo degli imprenditori di accentuare il controllo e quindi l'efficiente sfruttamento dei lavoratori. Qui si creava il proletariato, i cui interessi di classe erano opposti a quelli della borghesia. L'ulteriore specializzazione delle funzioni portava alla svalutazione dei livelli di professionalità del lavoratore. I frutti del progresso economico erano alla fine sottratti alla classe operaia, che non era in grado di acquistare i beni industriali. Nella prospettiva di Schumpeter, invece, il sistema di fabbrica è un'innovazione positiva, una delle innovazioni veramente epocali che generano il profitto imprenditoriale e incoraggiano l'imitazione. (secondo alcuni non guarda ai problemi che erano venuti fuori, ma vede il sistema in modo positivo perché per lui era un innovazione epocale) Cap 7 Nascita e consolidamento della grande impresa La grande impresa si realizza oltre i confini britannici da nord ovest a sud est arrivando al Nord America. L'impresa diventa grande quando il mercato si allarga e inoltre anche grazie alla azienda che fa tre tipi di investimenti. Infrastrutture sono molto importanti per allargare i mercati ma anche con l'esempio della ferrovia che è essa stessa un esempio di grande impresa. L'emergere della grande impresa non fa ingrandire tutte le imprese ma solo alcune che diventano multiunitarie, multifunzionali, multiprodotto e multinazionali. Queste strutture richiedono dei manager salariale portatori di specifiche competenze tecniche. Prima della rivoluzione alcuni esempi di imprese di grande dimensione erano banche, compagnie commerciali, manifatture statali… Grazie alle invenzioni come navigazione a vapore, ferrovia, telegrafo, telefono che hanno consentito alle imprese di compiere il salto dimensionale, di raggiungere mercati molto più vasti facendo affidamento su relazioni sicure e costanti con i fornitori e con i clienti, ma anche di organizzare sulla base di scadenze certe e regolari le proprie operazioni interne. (saltiamo 7.2) 20 produttivi significativamente accresciuti, ma anche per il ritmo del cambiamento molto più rapido. Le tecnologie della seconda rivoluzione industriale crearono fra i settori un profondo dualismo destinato a durare per tutto il Novecento, e a marcare il confine fra quelli dominati dalla prima grande impresa e gli altri. Già all’inizio del XX secolo le grandi imprese presenti negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna erano concentrate in settori che resteranno dominanti fino agli anni Settanta: • alimentare, • chimico, • petrolifero, • metallurgico, • meccanico, • dei mezzi di trasporto. Al contrario, le imprese in cui i processi di meccanizzazione erano più semplici non cambiarono né i volumi prodotti né la velocità dei processi produttivi: • l’abbigliamento, • la lavorazione del legno, • l'industria tessile, • l’industria conciaria, • la produzione di mobili, • la produzioni dei rivestimenti edilizi, • l’editoria. Come alcune imprese prevalgono su altre sfruttando le nuove tecnologie, economie di scala, diversificazione. Con quali consistenza avvengono queste trasformazioni come un esempio è l'industria petrolifera nella quale questa transizione fu particolarmente evidente: negli Stati Uniti il processo di ristrutturazione del settore e la costruzione di raffinerie capaci di ottenere grandi economie di scala furono decisivi: nel decennio fra il 1860 e il 1870 i costi fissi per l'impianto di una raffineria crebbero da 30-40.000 dollari a quasi 60.000; nello stesso decennio una raffineria passava da una produzione di 900 barili alla settimana a 500 barili al giorno; contemporaneamente il costo era sceso da 6 a 3 centesimi di dollaro al barile. Perché non riescono tutti?? Perché non tutti ne sono capaci. Come fanno quelli che ci riescono: con il "triplice investimento" nelle attività correlate a: • Produzione II primo obiettivo da raggiungere per le grandi aziende impegnate nello sfruttamento delle economie di scala e di diversificazione era quello di ottenere un elevato livello di produzione. L'iniziale investimento di capitale nei settori avanzati della seconda rivoluzione industriale e i costi fissi necessari a mantenere operativi gli impianti erano molto più alti rispetto a 21 quelli che si registravano nei settori ad alta intensità di lavoro e potevano essere compensati solo attraverso 1'utilizzo pieno e continuo degli stabilimenti. L'unica via per ottenere il massimo vantaggio dalle potenzialità di riduzione dei costi derivava quindi dal mantenimento di un flusso elevato e costante dei materiali nello stabilimento. Ex: Standard Oil nel settore petrolifero in competizione con altre società. Nel 1882 tutte le società si uniscono in un sola società la Standard Oil Trust perché: riorganizzazione dei processi di produzione; coordinamento del flusso dei materiali non solo all'interno delle numerose raffinerie, ma anche dei pozzi petroliferi. Questa associazione permise di dimezzare il costo medio di produzione. Altro caso prodotti coloranti tedeschi con società che si uniscono (Bayer, Hoechst e BASF) che creano impianti di grandi dimensioni in grado di produrre i coloranti e molti prodotti farmaceutici. Quindi gli esempi dimostrano una netta riduzioni dei costi. Dopo questo si arriva al verbo "organizzazione scientifica" di Taylor; egli sostenne la necessità di suddividere le fasi di lavoro in serie di compiti elementari. Questo divenne realtà nella fabbrica della Ford con l'assemblaggio del modello T. • Distribuzione Gli investimenti in macchinari e impianti non erano tuttavia sufficienti. Le prime grandi imprese hanno dovuto subito raggiungere un alto livello di integrazione verticale per mantenere un costante throughput nel processo produttivo, evitando quindi ogni ostacolo o ritardo nell'approvvigionamento o nella distribuzione. Divenne necessario per le grandi imprese operare un secondo significativo investimento, questa volta, nelle attività di distribuzione. Prima dell'affermazione delle nuove tecnologie, l’intermediario tipico si occupava della commercializzazione di merci provenienti da diversi produttori, contando così su un volume di affari elevato. La grande varietà delle merci distribuite consentiva agli intermediari tradizionali di mantenere più bassi costi di marketing e distribuzione. Infine, i distributori ottenevano economie di diversificazione operando sia all'ingrosso sia al dettaglio. I nuovi prodotti richiesero strutture di distribuzione rinnovate e 1'utilizzo di competenze specifiche di marketing e commercializzazione. Apparve più semplice alle imprese operare su questo versante al proprio interno. La personalizzazione delle caratteristiche di ogni articolo richiedeva infatti specifiche conoscenze sulle modalità di vendita, installazione e manutenzione; talvolta erano richieste anche speciali strutture di trasporto e deposito. Il vantaggio una volta detenuto dal distributore si era spostato dal commercio al dettaglio all'imprenditore industriale, che ora poteva contare anche su queste migliorate strutture di commercializzazione per il marketing e la distribuzione dei suoi prodotti. II caso delle aziende meccaniche illustra bene quanto accadde in molti settori ad alta intensità di capitale. Ex: fabbriche macchine per cucire --> sono tra le prime a procedere nell'integrazione nella funzione di distribuzione perché collegano l'impresa con agenti indipendenti con mandati commerciali in aree definite, a tempo pieno, retribuiti con un fisso e incentivo supplementare per ogni commessa realizzata. Questo sistema comportava due limitazioni: 22 • gli agenti erano dotati solo delle competenze minime necessarie a far funzionare le macchine per cucire. • i venditori su commissione non erano in grado di offrire condizioni speciali sui termini di pagamento rateale, richieste dai potenziali clienti per macchine relativamente costose. Alternativa a questo sistema, le maggiori imprese del settore cominciarono ad aprire filiali di proprietà della società e punti vendita gestiti direttamente per offrire al pubblico i servizi necessari. (Nel decennio 1850 la Singer aveva già inaugurato i propri negozi). Questo porta anche un flusso costante di informazione relative ai gusti, alle preferenze e alla esigenze dei consumatori. Ciò implicò delle trasformazioni anche nel personale delle imprese, con l’assunzione di: • personale per gestire gli ordini, • addetti alla pubblicità, • responsabili delle spedizioni, • coordinatori del1'installazione, • addetti alla manutenzione e la riparazione delle macchine, • impiegati specializzati nei piani di finanziamento per i clienti. Fu quindi organizzato in modo sistematico le forniture con la creazione di: una rete distributiva e un'accurata programmazione dei flussi di materiale. La risposta della grande impresa fu la creazione di uffici centrali con personale specializzato responsabile dei rifornimenti e degli acquisti, capace di individuare le fonti di materie prime e contrattare con i fornitori le caratteristiche, i prezzi e le scadenze di consegna. In questo modo l’integrazione a monte verso le fonti di approvvigionamento e quella a valle verso la distribuzione permettevano alle aziende di eliminare gli intermediari e assicurarsi contro ogni possibile interruzione del processo produttivo, causa di gravi perdite economiche, prima imputabili al malfunzionamento delle forniture o della vendite. • Management Ci fu un aumento della complessità delle grandi imprese in un arco di tempo relativamente breve. Si rese allora indispensabile un terzo investimento, quello destinato all'assunzione e alla formazione dei quadri manageriali con le competenze professionali necessarie ad assolvere a tutti questi compiti. Se per l'imprenditore della prima rivoluzione industriale il successo derivava dall’abilità di controllare la manodopera in fabbrica e coordinare l'attività produttiva, l'atto critico imprenditoriale della seconda rivoluzione industriale è invece 1'abilità di creare e controllare un'estesa gerarchia manageriale. Ogni manager gode di autonomia decisionale all’interno di un segmento di attività, che si possono definire con l’acronimo POSDCORB: • planning, • organizing, 25 • nel 1901 la US Steel Corporation, con più di 100.000 dipendenti era diventata la prima società da "un miliardo", che equivaleva a una quota del prodotto nazionale lordo pari al 7%. • Altre imprese di grandi dimensioni erano: o la Standard Oil, o la Remington (macchine per ufficio), o l’American Tobacco, o la Dupont (chimica), o la Singer (macchine per cucire), o la Heinz (settore alimentare), o la Campbell (settore alimentare). II mercato nordamericano era estremamente dinamico grazie: • alla crescita esponenziale della popolazione, • al progressivo incremento del potere d'acquisto dei consumatori, • ai cambiamenti nella pubblica opinione, • alle scelte adottate dal legislatore statunitense. La large corporation minacciava tuttavia alcuni valori fondanti del Paese, quali la fiducia nella libera competizione e la convinzione che nella gara per la conquista della ricchezza e del potere tutti dovessero partire con le stesse opportunità: nel corso del decennio 1880 nuovi gruppi di interesse manifestarono la loro opposizione alzando la voce contro le concentrazioni industriali (ex PMI). II gruppo di pressione più ascoltato nella cosiddetta "battaglia antitrust" era quello dei piccoli imprenditori (specialmente i commercianti). Queste lobby ottennero un certo successo: nel 1911, i tribunali decretarono lo scioglimento di imprese come la Standard Oil e l’American Tobacco. Questo tema fu così importante da diventare l’argomento chiave nelle elezioni presidenziali del 1912; il vincitore Woodrow Wilson fece approvare dal Congresso il Clayton Antitrust Act e 1'istituzione della Federal Trade Commission. Esiste quindi un vero e proprio “paradosso americano” a proposito della regolamentazione della competizione fra imprese: • l'intenzione delle forze politiche e della magistratura era di limitare la crescita delle large corporation, • in realtà la legislazione antitrust provocò fin dall'inizio l'effetto opposto: la proibizione legale per le imprese di stringere accordi portò a un'ondata di fusioni. (però si creano imprese ancora più grandi) Le grandi imprese erano cresciute e avevano messo salde radici negli Stati Uniti anche grazie al fondamentale contributo del sistema educativo e formativo. Qui 1'istruzione superiore seppe adattarsi velocemente alle esigenze dell’industria: 26 • negli ultimi decenni del secolo centri come il Massachusetts Institute of Technology (MIT), Purdue e Cornell diedero vita a corsi per ingegneri meccanici, elettrici e chimici. • a questi centri di formazione tecnica di alto livello si aggiunse allora anche 1'attività delle business school, dove gli studenti prendevano confidenza con le strategie e le pratiche gestionali della grande impresa. (La prima business school, la Wharton School of Finance and Commerce, fu istituita nel 1881 alla University of Pennsylvannia; ventisette anni dopo anche la Harvard University lanciò la sua Business School e nel 1914 già 30 erano attive in tutto il Paese.) Lo sviluppo delle grandi corporation aveva naturalmente alterato anche l'impatto delle piccole imprese sulla produzione della ricchezza nazionale, ma il dato importante è che la piccola dimensione non divenne obsoleta negli Stati Uniti all'inizio del Novecento. Esistevano in alcuni settori opportunità di successo per le piccole aziende: il principale vantaggio che queste ultime potevano offrire era quello della flessibilità, che permetteva loro di differenziare, nel senso di una migliore qualità. • Germania o Prima del 1914, la grande azienda in Germania mostrava caratteri simili a quelli della large corporation americana, ma anche evidenti tratti originali. In particolare, la proprietà continuava a esercitare un peso nella direzione dell'impresa e a decidere gli investimenti necessari all'espansione. o In Germania, come negli Stati Uniti, l'opinione pubblica era favorevole alla grande dimensione d'impresa, anche grazie alla lunga tradizione dell'efficiente burocrazia al servizio dello Stato. o I metodi di management fondati sulle tradizioni familiari o trasmessi da una persona all'altra si erano rivelati via via inadeguati per complessi in forte espansione. o L'immissione sistematica di un management adeguato alle nuove prospettive tecnologiche ed economiche fu allora la riposta delle elite industriali, sia pure con differenze fra settore e settore. La grande corporation non assunse in Germania il ruolo di leader in tutti i settori della seconda rivoluzione industriale: • la grande corporation era diffusa nei seguenti settori: o nella produzione delle ferrovie, o nell’elettromeccanica, o nella siderurgia, o nella chimica, o nella meccanica pesante. • la grande corporation era quasi assente nella produzione dei beni di consumo. Casi di successo nelle grandi imprese tedesche 27 Industrie elettromeccaniche: la Siemens e la Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft (AEG) avevano eguagliato le americane General Electric e Westinghouse. Industrie chimiche: tre società BASF, Bayer e Hoechst, non solo dominavano il mercato interno, ma coprivano fra il 70 e l'80% della domanda mondiale di coloranti sintetici. Industrie della meccanica pesante: un comparto che richiedeva grandi capitali iniziali ed evidenziava frequenti problemi di gestione del cash-flow: queste caratteristiche spiegano anche il ruolo fondamentale svolto dalle banche "universali" tedesche. In Germania la relazione fra le imprese e le banche universali aveva assunto dall'inizio tratti che la differenziavano dalla situazione statunitense e da quella inglese. I seguenti fattori hanno definito i tratti del sistema delle grandi imprese in Germania: • la dimensione e le caratteristiche del mercato. • la posizione delle autorità politiche nei confronti del big business. • la disponibilità di risorse. Diversamente dagli Stati Uniti, dove il mercato interno, tanto esteso e dinamico, rappresentava il principale target delle imprese, per 1'industria tedesca erano i mercati esteri a giocare un ruolo critico nel loro successo. Nel 1913 la Germania era il maggiore esportatore mondiale nei settori: • chimico (28,5% del totale), • elettromeccanico (35%), • della meccanica industriale (29%). La combinazione di un mercato interno in crescita e di mercati esteri sempre più estesi offriva sufficienti stimoli agli imprenditori tedeschi per attuare grandi investimenti, innovare, e puntare alla crescita dimensionale delle imprese. In Germania era del tutto assente una legislazione specifica contro i monopoli e le pratiche monopolistiche. Nel 1897, quasi negli stessi anni in cui la Corte suprema degli Stati Uniti confermava la costituzionalità dello Sherman Act, rendendo così illegali gli accordi fra le imprese, il Reichsgericht (1'Alta Corte tedesca) sentenziava che gli accordi contrattuali sui prezzi, sulla produzione e sulla spartizione dei mercati potevano avere una sanzione giuridica, in quanto non andavano solo a vantaggio di coloro che li avevano stipulati, ma anche per l’interesse pubblico. II pieno riconoscimento legale degli accordi ha così limitato in Germania 1'estendersi delle fusioni e delle acquisizioni, e il processo di concentrazione è stato più contenuto di quello sperimentato in America. Alcuni studi hanno perfino mostrato 1'esito positivo dei cartelli nel campo della innovazione, per effetto della stabilizzazione dei mercati che ha consentito alle imprese di destinare cospicue risorse ai dipartimenti di ricerca e sviluppo. Nel caso tedesco è importante anche sottolineare lo sviluppo di eccellenti istituzioni educative di livello superiore: • le università tedesche hanno ospitato alcuni dei migliori dipartimenti di ricerca • lo Stato ha rivestito un ruolo determinante in questo processo. 30 La Francia viene tradizionalmente classificata come Paese ritardatario. Molti studiosi hanno sostenuto che questa collocazione deriva dalla rivoluzione francese e dalla sua eredità politica ed economica, che ha reso il percorso nazionale all'industrializzazione più lungo e difficile. Prima del conflitto mondiale quasi mancavano in Francia large corporation paragonabili a quelle statunitensi. La dimensione media delle imprese era decisamente inferiore non solo rispetto a quelle americane, ma anche alle aziende tedesche; quasi tutte le maggiori società del Paese erano ancora possedute e controllate da famiglie. All'inizio del Novecento anche la Francia registrava l’arrivo del big business nei settori della seconda rivoluzione industriale. Mentre un gran numero di società, in quasi ogni settore, restava di piccole dimensioni e a direzione familiare, alcune imprese cominciavano ad assomigliare alle moderne corporation americane, tedesche e inglesi. In questa prospettiva, l'economia francese si sta muovendo nella stessa direzione delle nazioni first mover. I settori in cui maggiormente si diffuse il big business furono: • il siderurgico, • il tessile, • il vetro, • il cemento, • l’editoriale, • i mezzi di trasporto. Alla vigilia della guerra mondiale si aggiunsero anche i seguenti settori: • il petrolifero, • l'industria della gomma e degli pneumatici, • l'automobilistico, • l'elettrico, • la produzione dell'alluminio. • Russia La storia della grande impresa in Russia inizia prima della rivoluzione d'ottobre del 1917 L'intervento del governo in Russia è stato decisivo per la promozione e il sussidio alle iniziative locali, attraverso: • l'imposizione di dazi a protezione del mercato nazionale, • l'attrazione degli investimenti esteri, • l'iniziativa diretta della costruzione di quelle infrastrutture fondamentali al processo di industrializzazione e modernizzazione in un paese di dimensioni tanto vaste, a cominciare dalle ferrovie. 31 Le prime grandi società industriali, create per iniziativa russa o investitori stranieri, erano concentrate nei settori ad alta intensità di capitale: • siderurgico, • meccanico, • petrolifero, • della gomma, • dei trasporti, • delle costruzioni navali. • Il Giappone. Il Giappone è stato il primo Paese non occidentale a raggiungere una posizione di primo piano nel panorama economico internazionale. A partire dalla restaurazione Meiji del 1868, il governo ha attivamente promosso il processo di industrializzazione nei seguenti settori: • Minerario, • cotoniero, • produzione di cemento, • vetro, • cantieristica. Lo Stato non era l'unico protagonista della crescita economica giapponese: le imprese private ebbero infatti un ruolo fondamentale assumendo la gestione delle aziende create dal governo, quando questo comprese che non poteva sostenerne lo sviluppo fino alla grande dimensione. L'istituzione centrale dell'industrializzazione giapponese è sempre stata lo zaibatsu, il gruppo industriale diversificato posseduto e controllato da ricche famiglie come: • i Mitsui, • gli Iwasaki (Mitsubishi), • i Sumitomo. La configurazione tipica dello zaibatsu era quella della diversificazione in vari settori industriali correlati, con una particolare concentrazione nella finanza, nella navigazione e nel commercio con l'estero. • Italia L'economia italiana ha visto l'avvio di un vigoroso processo di industrializzazione, nei decenni che precedono lo scoppio del primo conflitto mondiale. La diffusa presenza di piccole imprese nei comparti tradizionali coesisteva infatti con una precoce affermazione di strutture oligopolistiche nei settori dell'industria siderurgica, meccanica ed elettrica. L’industrializzazione italiana, per la modesta dotazione di risorse del Paese, combinata con la difficoltà di raggiungere la frontiera tecnologica internazionale, ha reso quasi inevitabile l’intreccio fra la grande impresa e lo Stato. Gli strumenti dell'intervento pubblico erano i seguenti: 32 • protezionismo, • commesse, • favori, • sussidi, • "salvataggio industriale”. L'analisi comparata dei modelli nazionali di sviluppo durante la seconda rivoluzione industriale consente di individuare più somiglianze che differenze. Le differenze sono soprattutto nel: • ruolo dello Stato, • la dimensione e le caratteristiche dei mercati interni. La crescita dimensionale delle imprese è stata però quasi universale, come il trend verso 1'affermazione delle competenze tecniche nella direzione aziendale. Cap 10 Stato e mercato fra le due guerre mondiali L'impresa multidivisionale e il capitalismo manageriale Alla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano il Paese industriale più sviluppato a livello mondiale: le grandi imprese americane erano in parte il risultato di percorsi di crescita interni, in parte l'esito di fusioni. Un segnale del successo della fusione era a questo punto la drastica diminuzione dei costi unitari di produzione e la conseguente espansione delle quote di mercato. La formula organizzativa e di gestione caratteristica della grande azienda americana era la U- form (impresa unitaria), nella quale erano individuate funzioni come: • la produzione, • il marketing, • la logistica, • le risorse umane, • la finanza, • i servizi legali. Significativi cambiamenti organizzativi erano poi intervenuti negli anni Venti, quando il ruolo del management professionale aveva acquisito un'importanza crescente: da questa fase di trasformazione era infine emersa la moderna impresa multidivisionale. Le imprese non avrebbero più potuto contare esclusivamente sui fattori esterni per la loro espansione, ossia: • la crescita della popolazione, • la costruzione delle ferrovie, • l’urbanizzazione. 35 comitato esecutivo formato dai manager di alto livello e da pochi rappresentanti degli azionisti e il loro obiettivo era il controllo dell'impresa. II problema relativo a chi dovesse essere incluso nel processo di pianificazione strategica non era 1'unica questione pressante di divergenza fra proprietari e management; due i fattori che nel tempo avevano impedito ai proprietari di realizzare la versione delle M-form aderente alla teoria: • la politica antitrust del governo • lo sviluppo dell’impresa stessa. La comparsa della forma multidivisionale ha rappresentato un fattore importante nell'affermazione dell'impresa manageriale, con la separazione fra controllo e proprietà. Già negli anni Trenta, Adolf Berle e Gardiner Means (nel volume ‘The Modern Corporation and Private Property’) riconoscevano questa trasformazione e il suo impatto sul concetto di proprietà, sottolineando il divorzio fra coloro che governano un sistema e quelli che ne detengono la proprietà. I due autori evidenziavano il fatto che le grandi compagnie ad azionariato diffuse erano diventate la forma economica dominante del mondo moderno. Questo dato aveva modificato in profondità le relazioni fra l'impresa e i suoi proprietari, separando gli azionisti dal controllo della compagnia. Una conseguenza significativa di questa separazione era la possibilità che si verificasse una divergenza di interessi fra il gruppo di controllo e la maggioranza degli azionisti. L'opinione di Berle e Means sull'azione dei manager era pessimista: • gli alti gradi dell'azienda avevano un potere tale da non dover giustificare con nessuno le loro scelte. • i manager sarebbero stari in grado di deviare il flusso dei profitti a proprio esclusivo vantaggio. Invece di essere parti complementari o integrate del medesimo sistema per Berle e Means la proprietà e il controllo erano collocati su posizioni opposte, al punto che l'una operava contro l'altro. La questione era stabilire nei confronti di chi i dirigenti erano responsabili. Secondo gli autori, erano tre le possibili risposte al quesito: • che si riferissero agli azionisti. • che governassero l’impresa a vantaggio dei propri interessi. • che le moderne società quotate in borsa non fossero solo al servizio dei proprietari e dei manager, ma dell’intera comunità. Questa posizione trovava una consonanza positiva con il clima creato dal New Deal di Roosevelt e con lo stato d'animo del Paese durante la peggiore depressione economica della sua storia. Sul ruolo dell’impresa all’interno della società aveva ragionato anni prima, e in un contesto completamente diverso (quello della Germania del primo dopoguerra), anche Walter Rathenau, il quale scrisse che 1'impresa e lo Stato avrebbero dovuto integrarsi nella società, allo stesso 36 modo in cui i vari gruppi che componevano l'impresa avrebbero dovuto integrarsi per porsi al servizio della comunità. Per Rathenau era inconcepibile che 1’impresa potesse sacrificare se stessa a vantaggio degli interessi privati di azionisti che a breve non avrebbero avuto più alcun legame con la compagnia. La grande impresa non sarebbe più stata un'organizzazione portatrice di interessi regolati dal diritto privato, bensì una componente fondamentale dell'economia nazionale. Cap 11 L'Europa fra due guerre: convergenze e divergenze con gli Stati Uniti Convergenza imperfetta II 25 dicembre del 1925 alcune imprese chimiche tedesche, fra le maggiori del Paese (Agfa, Hoechst, Bayer e BASF) definivano un accordo formale che aveva come esito una federazione chiamata I.G. Farben (I.G. stava per Interessen Gemeinschaft, comunità di interessi). La I.G. Farben diventava così la maggiore società chimica in Europa e una delle più grandi a livello mondiale (aveva circa 100.000 dipendenti). Uno dei principali obiettivi della sua creazione era il recupero della leadership mondiale che 1'industria chimica tedesca aveva perso dopo la Grande guerra. L'importanza assoluta della I.G. Farben è testimoniata dal fatto che prima dello scoppio del secondo conflitto, il vertice aveva stretto alcuni accordi di cartello segreti a livello internazionale, per esempio con i leader della Standard Oil e della Dupont. Vi furono conseguenze anche a livello europeo: negli anni seguenti alla sua costituzione venivano infatti creati raggruppamenti simili di imprese in Gran Bretagna e in Francia, rispettivamente con la Imperial Chemical Industries (ICI) nel 1926 e la Rhône-Poulenc nel 1928. I processi di aggregazione attraverso fusioni e federazioni si relazionavano a fattori di natura sia economica sia politica, come la necessità di: • stabilizzare i profitti • ridurre i costi unitari attraverso le economie di scala e di diversificazione. La I.G. Farben iniziava un'aggressiva politica di acquisizioni al1'estero; il primo obiettivo era il mercato britannico. La I.G. Farben tentava di acquisire nel 1925 la British Dyestuffs Corporation (BDC), con sede a Manchester. La mossa tedesca era considerata inaccettabile dal governo britannico, che decideva di operare indirettamente per promuovere una fusione esclusivamente "inglese", che si concretizzò nel 1927, con la creazione dell'ICI. La prima guerra mondiale aveva evidenziato la decisa modernizzazione in corso nei settori di punta delle economie europee più avanzate. I comparti tessile e della lavorazione del ferro perdevano progressivamente terreno a favore dei settori ad alta intensità di capitale: • chimico • elettrico • siderurgico. 37 La guerra aveva messo alla prova 1'efficacia dei sistemi industriali nazionali a tutti i livelli. Anche nelle economie periferiche si erano imposti gli imperativi della seconda rivoluzione industriale. Alla vigilia del secondo conflitto, fra i 50 maggiori gruppi industriali per capitalizzazione a livello internazionale, 32 erano negli Stati Uniti, 11 in Gran Bretagna e 4 in Germania. Le decisioni politiche avevano assunto una connotazione protezionistica, corporativa e sempre più interventista, sia nei governi democratici sia in quelli autoritari; gli accordi e i cartelli erano tollerati sia a livello nazionale sia internazionale. La seconda rivoluzione industriale in Europa presenta per lo storico alcuni punti controversi. Gli imprenditori europei che operavano nei settori più avanzati si trovarono a: • mettere in atto politiche di sviluppo e di integrazione, • ricercare appropriate fonti di finanziamento e di materie prime, • organizzare e disciplinare la forza lavoro, • aprire nuovi canali di distribuzione per i beni che stavano cominciando a produrre in scala maggiore rispetto al passato. Molti effettivamente ebbero successo, arrivando a creare aziende competitive a livello internazionale, caratterizzate da un nucleo forte e durevole di competenze. La storia europea aveva prodotto un ambiente culturale meno favorevole per le imprese e per i rapporti fra queste e lo Stato. La risposta europea alle sfide della seconda rivoluzione industriale fu diversa da quella americana: la diffusione del modello dell'impresa manageriale in Europa avvenne più lentamente a causa di: • fattori culturali • struttura dei mercati (ristretti ma anche non omogenei all'interno come nord-sud in Italia o est-ovest in Germania) • politiche industriali adottate dai governi. I motivi della lentezza della transizione al capitalismo manageriale in Europa furono i seguenti: • nella prima metà del XX secolo l'Europa sprofondò nella crisi e nel caos: o due guerre mondiali, o una crisi economica di vaste proporzioni, o le dittature, o il nazionalismo economico degli anni Trenta. • la dimensione contenuta delle imprese. • lo scarso dinamismo dei mercati nazionali. Le aree periferiche del continente (l'Italia meridionale e, in qualche misura, anche le province rurali francesi) erano ancora gravate da una diffusa arretratezza sociale ed economica, e da un esteso dominio dell'agricoltura. Queste regioni non solo esprimevano livelli di domanda molto contenuti, ma la struttura dei consumi era antitetica a quella delle società in cui si andavano manifestando i moderni consumi di massa. Ciò era evidente sia nei settori alimentari (per cibi e bevande), sia in quelli dell'abbigliamento, delle calzature e dei mobili. 40 Anche se il riconoscimento era puramente formale, la forza lavoro europea manteneva una posizione di rilievo nella cornice aziendale. I lavoratori si presentavano infatti con una decisa identità politica e una forza organizzativa sindacale superiore a quella che si poteva riscontrare nel sistema delle relazioni industriali statunitensi prima del New Deal. La differenza risale al fatto che in quasi tutte le grandi aziende europee la forza lavoro aveva mantenuto un certo controllo sul processo produttivo in fabbrica, un processo guidato dagli operai specializzati che godevano di un alto grado di autonomia. Europa e Stati Uniti si differenziavano nettamente anche per quanto riguarda la composizione del gruppo dirigente nelle imprese. In America le carriere manageriali rappresentavano una via di elevazione e mobilità sociale, ed erano quindi molto attraenti per i giovani appartenenti alle classi medie e agli strati superiori delle classi lavoratrici; le discipline manageriali erano inserite in corsi di formazione specializzati, offerte da istituzioni ad hoc o dalle business school. In Europa, al contrario, erano disponibili pochissimi corsi specificamente diretti alla formazione dei dirigenti. L'addestramento avveniva generalmente nei luoghi di lavoro (on-the-job). In questo panorama economico, nel periodo fra le due guerre le imprese europee erano rimaste in media più piccole delle concorrenti americane, si mostravano meno interessate a promuovere la separazione fra proprietà e controllo, erano meno diversificate. Questo consentì a varie componenti – individui, famiglie proprietarie, banche e anche governi - di mantenere il controllo delle aziende, evitando alcuni dei problemi che venivano associati al sistema americano dell'impresa manageriale. Il percorso seguito dall'Europa includeva inoltre la progressiva diffusione della H-form (struttura a holding), che si dimostrava flessibile e adattabile a diverse situazioni. Nel caso britannico fu lo strumento che permise di realizzare le fusioni in modo non traumatico, mantenendo in vita la tradizione inglese delle federazioni d'imprese. [excursus incontri esterni] 24/03 La storia della moneta: dalla moneta merce ai depositi bancari Riccardo de Bonis della Banca d'Italia Obbiettivo: riassumere le funzioni e cambiamenti della moneta dall'antichità a oggi. La storia della moneta in 6 passaggi: • La moneta merce • La moneta metallica coniata • La banconota di carta, convertibile in metalli preziosi • La banconota inconvertibile • I depositi bancari • Moneta elettronica/digitale 41 Le funzioni della moneta • Unità di misura del valore dei beni • Mezzo di scambio o di pagamento • Riserva di valore L'euro svolge le tre funzioni. Nella storia umana talvolta la moneta ha svolto solo una o due delle funzioni ma non è solo del passato (ex moneta digitale). I sumeri usavano la moneta merce, usando l'argento o l'orzo che venivano pesati. Nell'antica Mesopotamia sono state ritrovate migliaia di tavolette che attestavano l'esistenza di rapporti di credito e debito tra cittadini. Anche ai tempi di Omero c'era la moneta merce Nell'iliade l'unita di misura del valore delle cose è il bue. Questo però non era un mezzo di scambio. Come mezzi di scambio si usavano pellicce, schiavi, manufatti preziosi. Leopardi fu tra i primi a osservare che in Omero non apparivano le monete metalliche Perché i metalli preziosi? Alcune monete merce (gli schiavi, le pellicce, le conchiglie) comportavano un problema di divisibilità, deperibilità e difficoltà di trasporto. Per superare questi problemi si introdusse l'uso di metalli preziosi, come l'oro e l'argento, che possono essere divisi, non sono deperibili e sono facilmente trasportabili. I metalli preziosi venivano pesati. Poi nacquero i lingotti, che potevano essere divisi in pezzi di peso uniforme. (però andare in giro con bilancia non comodo) Regno di Lidia: appaiono le prime monete metalliche Le prime monete metalliche coniate sono apparse in Lidia, odierna Turchia intorno al 620 a.C. Nelle metamorfosi (XI) Ovidio racconta la storia di Re Mida… Perché nacquero le monete metalliche? Lo Stato verso il mercato Le monete sono state una rivoluzione: contare monete è più facile che pesare metalli. Le due opinioni di Aristotele: la moneta è stata inventata dai mercanti ("politica") o dal sovrano ("Etica nicomachea") La gran parte degli studiosi è oggi a fav?? Carlo Magno (742-814) e l'introduzione della lira Alla fine del 700 Carlo Magno introdusse la lira, come unità di conto. Circolavano i denari, non le lire (1 lira=240 denari). La lira rimane sempre un'unità di conto immaginaria 42 I problemi delle monete metalliche Sin dall'antichità, e poi nel Medioevo, la circolazione metallica ha comportato dei problemi. Il signoraggio è la tassa che il sovrano imponeva sulla produzione di monete. La carenza di oro e argento ha spesso determinato difficoltà di produzione delle monete. Le risposte dei sovrani sono state la produzione di monete più leggere o con un contenuto di oro o argento con metalli meno preziosi (?) In altre parole con la stessa quantità di metalli preziosi si ottenevano più monete, favorendo gli scambi e lo sviluppo delle economie. Ma spesso i sovrani abusavano del controllo della produzione delle monete ad esempio per finanziare guerre. La crescita della produzione di monete di qualità peggiore determinava un aumento degli introiti da signoraggio. La moneta costringe a gestire una trade-off Per Cipolla grande storico del 900, da un lato la moneta deve essere scarsa e di buona qualità, per essere accettata ed evitare aumenti eccessivi dei prezzi. D'altro lato la moneta deve essere abbondante, per assicurare il funzionamento dei pagamenti e di consentire la crescita economica, evitando cadute dei prezzi e crisi. Marco Polo (1254-1324) e le banconote cinesi Marco Polo arrivò in Cina intorno al 1300. la banconota cartacea era un mezzo di scambio, e poteva essere convertita in metalli preziosi. L'invenzione delle banconote L'umanità si è progressivamente liberata dalle monete coniate con metalli preziosi grazie all'invenzione delle banconote. Le banche si sono sviluppate in Europa La parola banconota ha un origine nella nota di banco, la ricevuta che il banchiere dava a chi depositava monete metalliche. Le banconote presentano dei chiari vantaggi rispetto alla monete metalliche. Tutte le banche emettevano le proprie banconote, in concorrenza tra loro. Per secoli le banconote sono state utilizzate da élite, da gruppi ristretti di banchieri e mercanti. In pochi si fidavano di un pezzo di carta. Per secoli l'umanità ha usato monete metalliche, in argento e oro e banconote convertibili in metalli preziosi. Come abbiamo abbandonato il metallismo? Il passaggio alla banconota inconvertibile Nel corso dell'800 e del 900 le banconote sono diventate progressivamente inconvertibili. È stata una battaglia culturale, perché le resistenze sono state fortissime. Le banche centrali, titolari della funzione di emissione delle banconote, e gli Stati hanno assicurato la fiducia in un pezzo di carta senza valore intrinseco. La Old Lady La diffusione di massa delle banconote è avvenuta nel Settecento, in Inghilterra. 45 • Addebiti diretti • Pagamenti con carta o Carta di debito o Carta di credito o Carta prepagata Bonifico Ordine che un cliente dà all'intermediario di trasferire moneta bancaria dal suo conto a quello beneficiario. All'inizio gli ordini di pagamento e lo scambio di info tra banche erano basati su documenti cartacei, ora è tutto elettronico. Negli anni novanta ci volevano 7-8 giorni per il trasferimento, ora si possono fare bonifici istantanei. L'addebito diretto Nasce per facilitare i pagamenti ricorrenti (bollette…) ma si possono ordinare anche pagamenti singoli Ordine che un beneficiario dà all'intermediario di accreditare il suo conto chiedendo addebito di quello del pagatore. Pagamenti con carte Carta di credito (1950 da Diners), consente gli acquisti posticipando la spesa Carta di debito (1970), addebito subito sul conto Carta prepagata (2000), moneta elettronica, si possono spendere solo i soldi caricati sulla carta. La sicurezza è sempre più importante La disciplina europea sui pagamenti del 2015 prevede: • Requisiti di sicurezza per l'autenticazione dell'ordinante di un pagamento • Autenticazione dell'importo e del beneficiario per i pagamenti online, che sono più rischiosi • Ipotesi di esenzione (trade-off efficienza e sicurezza) • Regime di responsabilità (dolo e colpa grave) Obbiettivo della normativa Evitare le frodi nell'utilizzo dei servizi di pagamento e assicurare fiducia nei mezzi di trasferimento della moneta bancaria ù Evitare che il cliente diventi l'anello debole della catena Autenticazione forte per verifica l'identità dell'ordinante Utilizzo di almeno due tra i seguenti tre elementi: • Conoscenza: qualcosa che solo l'ordinante conosce (pin, password) • Possesso: qualcosa che solo l'utente possiede (token bancario) • Inerenza: qualcosa che l'utente è (impronta digitale) Codice di autenticazione dinamico Viene generato un codice dinamico che consente l'autenticazione dell'ordinante limitando l'esposizione delle sue credenziali Per i pagamenti a distanza, il codice di lega ???? 46 Colloquio sicuro: i certificati digitali 07/04 [terzo incontro esterno] Riccardo De Bonis Criptocurrency Il sistema dei pagamenti è basato sull'interazione tra banche e altri intermediari Banche e altri intermediari offrono servizi di pagamento. Banche centrali introducono regole È un sistema accentrato: le criptoattività sono un modo alternativo. La digitalizzazione della moneta Esistono migliaia di criptoattività. Un universo puramente digitale Bitcoin ha una quota di mercato di circa la metà di 2.500 miliardi di dollari. Bitcoin Il 31 ottobre 2008 Nakamoto divulga in rete un documento di 8 pagine. Sistema assolutamente decentrato: chiunque può registrare una transazione e osservare la storia delle operazioni. Bitcoin può essere trasferita da una persona a persona con operazioni online ed essere usata per acquistare prodotti. Chiunque può effettuare transazioni utilizzando Bitcoin, senza svelare la propria identità. (non proprio vero) Gli inventori di Bitcoin rifiutano il sistema dei pagamenti tradizionale incentrato sul contante (moneta pubblica) e sui depositi in conti corrente (moneta privata). Bitcoin ha due origini culturali: • Hayek--> economista austriaco con il libro "denazionalizzazione della moneta" con un ritorno al passato dove le attività accettavano tutte le valute • Origine più tecnologica--> dagli anni 80 sono state proposte forme elettroniche di moneta basate su crittografia. Bitcoin • Non è moneta legale • Non è moneta bancaria • Non funziona bene come unità di conto… ne come mezzo di pagamento • È una riserva di valore, molto volatile, senza tutele pubbliche: non esistono difese simili all'assicurazione dei depositi, o alla sorveglianza delle banche centrali. Prezzo Bitcoin sale e scende 47 Alcuni grande banche e fondi di investimento hanno investito, anche per soddisfare domande della clientela. In maniera simile all'oro, Bitcoin è vista come un'attività da detenere a fronte di rischi di una ripresa dell'inflazione. La variazioni del prezzo di Bitcoin dipendono soltanto dalla aspettative di sue variazione di prezzo nel futuro. Bitcoin è molto rischiosa, soprattutto per il piccolo risparmiatore. I risparmiatori non devono convertire in Bitcoin, e altre cripto-attività, più denaro di quanto possano permettersi di perdere. La volatilità di Bitcoin ne spiega la scarsa diffusione Bitcoin ha u valore di mercato di 800 mld di dollari Previsione: manterrà un ruolo di nicchia - non dominante - nel sistema finanziario globale. Le stable coins sono una risposta alla volatilità di Bitcoin Vogliono risolvere il problema della volatilità promettendo un valore stabile con: • Una valuta o un insieme di valute • Un paniere di titoli o depositi a garanzia Facebook ha presentato due libri bianchi sulla sua stable coin. Idea: valuta globale disponibile per tutti. Si chiamava Libra ora si chiama Diem. Diem sarebbe garantita da un paniere di depositi bancari e titoli di Stato a breve termine. Diem è una specie di ornitorinco --> un po' istituto di pagamento, un po' istituto di moneta elettronica, un po' fondo comune monetario… Nonostante le innovazioni, i pagamenti internazionali sono lenti e costosi. Sono necessari cambi tra valute e collegamenti fra sistemi e intermediari: alcuni paesi e valute non sono serviti, se non a costi alti. Il problema è rilevante per le rimesse Le stable coins si propongono di ridurre i costi dei pagamenti internazionali. Le stable coins sollevano problemi di controllo dei rischi cyber, presidi contro il riciclaggio, finanziamento del terrorismo, tutela della riservatezza dei dati… Le stable coins non sono protetti da schemi di assicurazione analoghi a quelli in vigore per i depositi. Gafa Google Apple Facebook Amazon Che fare di fronte alle cripto-attività e alle stable coins? Vietare? No Regolamentare? Si Migliorare i pagamenti internazionali? Si Introdurre una valuta digitale di banca centrale? Si Regolamentare le cripto-attività nel mondo Proteggere gli utenti Rispetto la normativa contro riciclaggio e terrorismo 50 L'impegno giapponese rivolto alla formazione di un capitale umano di alta qualità attraverso la riforma e il potenziamento del sistema scolastico ottenne risultati straordinari: iI governo giapponese decideva di finanziare regolarmente i viaggi di istruzione dei giovani laureati negli Stati Uniti e in Europa, mentre importava le competenze maturate oltreoceano. Nonostante la rilevanza di questo flusso di tecnologie e conoscenze di importazione, il successo operativo delle imprese di proprietà dello Stato fu limitato: gli "impianti pilota" si rivelarono parzialmente inefficienti. La loro reale funzione era però quella di promuovere la graduale diffusione della tecnologia di frontiera, in una situazione economica che scontava la totale assenza di iniziative private nei seguenti settori: ➢ industria mineraria, ➢ cantieristica, ➢ costruzioni, ➢ produzioni tessili, ➢ cemento, ➢ vetro. Posto questo obiettivo, gli sforzi intrapresi dal governo Meiji ebbero in realtà un successo quasi immediato, portando alla luce il talento imprenditoriale latente della popolazione. Quando la base industriale nazionale cominciò a mostrare una robusta consistenza, fu messa al servizio delle ambizioni militari espresse dalla politica nazionalistica giapponese. L'impegno militare sostenne la spinta per la crescita endogena della dotazione industriale e di tutta l'economia nazionale. Sul finire del decennio 1880, dopo aver svolto un ruolo fondamentale nella modernizzazione industriale del Paese, lo Stato cominciò a vendere gli "impianti pilota" agli imprenditori privati a prezzi e condizioni favorevoli. I successi dell'iniziativa privata convinsero il governo giapponese a ridurre il proprio impegno diretto in alcuni settori dell'economia nazionale. La storia della Mitsubishi esemplifica meglio questo percorso, in quanto partendo da una tradizionale attività di commercio marittimo, il gruppo iniziava la diversificazione entrando nel settore minerario, assicurandosi 1'approvvigionamento del carbone necessario come combustibile delle navi. Arrivava poi al settore cantieristico acquisendo un impianto già di proprietà statale. In seguito investiva nella siderurgia allo scopo di provvedere in proprio alle materie prime e alle produzioni di base necessarie ai cantieri navali. Infine tale strategia di integrazione verticale spingeva il gruppo a entrare nel settore delle assicurazioni. Questo è un modello Zaibatsu La loro particolare struttura proprietaria e organizzativa consentiva di sviluppare un set diversificato di attività, alcune delle quali condividevano un nucleo tecnologico, mentre tutte avevano in comune le fonti di finanziamento. Fra le due guerre i grandi gruppi imprenditoriali giapponesi assunsero una struttura definita multi-subsidiary, basata su una serie di consociate o holding sottoposte al pieno controllo della famiglia proprietaria di ogni zaibatsu. Una sezione particolarmente importante di questa complicata struttura era rappresentata dalla shosha, la trading company del gruppo, che forniva servizi d'intermediazione e assicurava la 51 liquidità finanziaria a tutto lo zaibatsu. II controllo familiare su ogni gruppo era assicurato e rafforzato dall'uso della leva azionaria, combinata con altri meccanismi di incrocio delle partecipazioni e dei posti nei consigli di amministrazione delle società. La house bank di ogni gruppo agiva sia come creditore sia come azionista, ma ogni istituto aveva anche un ruolo centrale di "stanza di compensazione", quando decideva come allocare le risorse in modo opportuno fra le varie società appartenenti allo zaibatsu. Dal punto di vista organizzativo, ogni gruppo basava la sua capacità di gestire centinaia di società e migliaia di dipendenti sul decentramento delle strutture produttive. L'espansione dei gruppi giapponesi avveniva di norma attraverso la creazione di nuove consociate, talvolta in settori completamente nuovi: lo zaibatsu poteva così crescere per via di un'espansione interna, attraverso l'integrazione verticale o la diversificazione. Gli zaibatsu svolsero indubbiamente una funzione cruciale nello sviluppo economico giapponese, ma non deve essere sottostimato il contributo di altre iniziative imprenditoriali di piccole e medie dimensioni sparse in tutto il Paese. La piccola azienda "imprenditoriale" era spesso attiva in settori con uno specifico contenuto artigianale, come la produzione delle macchine utensili e i comparti della meccanica leggera. I fattori decisivi per spiegare la persistenza della la piccola dimensione nel sistema produttivo giapponese erano: ➢ la disponibilità di forza lavoro a basso costo ➢ la diffusione capillare dei motori elettrici. Già prima della guerra, quindi, si delineava una sorta di "dualismo", tra pochi giganteschi gruppi, circondati da una miriade di piccole imprese. Le attività industriali di dimensioni piccole e medie non erano completamente indipendenti, ma spesso collegate ai maggiori zaibatsu, catene fondate su relazioni di subcontracting. I grandi gruppi diversificati giapponesi arrivarono presto a dotarsi delle gerarchie manageriali e delle strutture organizzative indispensabili per gestire le loro attività sempre più complesse e decentrate. Il principio di autorità non aveva una specificazione formale, mentre cooperazione e competizione trovavano un punto di equilibrio originale radicato nella cultura e nelle relazioni sociali del Paese. Nel periodo precedente il secondo conflitto, la separazione fra proprietà e controllo all'interno dei grandi gruppi era realizzata attraverso la nomina di un bantô, general manager che tecnicamente non apparteneva alla famiglia proprietaria, ma le era legato da anni di dipendenza e da un vincolo speciale di fedeltà. In questo modo, lentamente la proprietà si era distaccata dalle funzioni operative, al punto che già alla fine del primo conflitto, per la maggior parte degli zaibatsu si può parlare di "famiglie regnanti", ma ormai lontane dal governo dell’impresa. II processo di diversificazione ed espansione in atto nelle maggiori compagnie giapponesi negli anni Venti e Trenta era quindi guidato da manager stipendiati, provenienti dall'amministrazione pubblica, giovani laureati, tecnici e ingegneri. 52 Parallelamente, la formazione di un proletariato, provenienti in larga parte dalle campagne, poneva le compagnie di fronte al problema di motivare, disciplinare e gestire una vasta forza lavoro. Anche in Giappone, come altrove, il processo d'industrializzazione erodeva la cultura paternalistica. La modernizzazione forzata portava anche all'esplosione di conflitti sociali. La pressione sociale, insieme alla necessità del management di trattenere in fabbrica la forza lavoro di origine contadina già addestrata al lavoro industriale, convinsero la proprietà e la direzione a ricercare un diverso modello di relazioni industriali. I dirigenti degli zaibatsu arrivarono quindi a promuovere la stabilità della manodopera occupata attraverso programmi di welfare, assicurazioni, istruzione estesi anche alle famiglie dei lavoratori: ➢ programmi formazione interna, ➢ struttura salariale basata su un sistema di premi legati alle performance e ai profitti, ➢ permisero infine ai manager di motivare la forza lavoro e garantirne l'obbedienza all'impresa. Nel corso degli anni Trenta l'accentuazione delle politiche nazionalistiche ha avvicinato l'esercito ai vertici dei grandi gruppi industriali, in quanto maggiori beneficiari delle commesse militari. Nel 1938 i vertici militari assumevano il pieno controllo dei settori industriali strategici. Parallelamente, i manager dei maggiori zaibatsu erano impegnati ad acquisire dall'estero le conoscenze tecnologiche più avanzate, ponendo particolare attenzione alle pratiche di reverse engineering: studio e imitazione delle tecnologie occidentali per migliorare l'efficienza dell'industria nazionale. Gli accordi con i grandi industriali europei e statunitensi rappresentavano un momento importante di questo processo. II governo operava intanto a sostegno della modernizzazione tecnologica nazionale incanalando verso il sistema industriale le scoperte e le conoscenze sviluppate nei laboratori di ricerca statali. Importanti scoperte riguardanti l'evoluzione tecnologica furono realizzate: ➢ nei campi delle comunicazioni radio e radar, ➢ nella cantieristica, ➢ nell'industria aeronautica, ➢ nel settore siderurgico. La preparazione e la gestione della guerra divenne così la priorità del governo anche sul versante della produzione industriale strategica. II coordinamento e la pianificazione della produzione e dell'allocazione delle materie prime venivano realizzati attraverso accordi di partnership fra le imprese, sotto il controllo del Ministero per il Commercio e l'Industria. 55 Cap 14 L’egemonia americana e il suo declino Gli Usa colgono in pieno i vantaggi della seconda rivoluzione industriale: alta intensità di capitale, elevata applicazione di energia, accelerazione del processo produttivo, grandi dimensioni produttive, in sintesi: economie di scala e di diversificazione. Il dominio si estende su metallurgia, meccanica, chimica. Elementi favorevoli alla large corporation: fattori naturali, dinamismo mercato interno, azione antitrust dei pubblici poteri; cultura disponibile alle nuove forme organizzative. La Seconda guerra mondiale potenzia l’apparato industriale americano; finanziamenti statali attiravano ricercatori dall’estero e stimolavano i settori del trasporto aereo, dell’elettronica, dei materiali sintetici, dei farmaci. Negli anni della guerra fredda (specie ‘50 e ‘60) la competizione con l’Urss mantiene alto l’impegno economico diretto dello stato. Questo contribuisce a rendere abbondante il capitale disponibile sul mercato, mantenendo bassi i tassi di interesse. Gli Usa come paradiso per il consumatore (rispetto all’Europa frantumata): moderni canali di distribuzione (self-service, fast-food); pubblicità con strumenti moderni (radio, TV). All’avanguardia anche in settori particolarmente avanzati: semiconduttori e primi computer. La positività di un clima di fiducia pervasivo nel paese. Parallelamente al quadro sin qui delineato si evidenziava una crescente ed intensa competizione alla quale non si era più abituati negli Usa. Inoltra iniziano a calare gli investimenti patrimoniali, la produttività cresce sempre meno, anche il pil pro capite cresce meno rispetto ad altre nazioni. La domanda interna diventava stabile, mentre tornava a crescere l’Europa con il Giappone. La risposta del management (la cui cultura era basata sul metodo dei casi) si rivelava un poco rigida e diversificata: ricerca di processi e prodotti migliori; investimenti in campi diversi per i quali non vi erano capacità accumulate. Nascevano strategie di fusione e acquisizioni societarie prive di criteri razionali (diversificazione non correlata), anche perché la legge Celler-Kefauver del 1950 contrastava ancor di più le operazioni palesi di integrazione orizzontale e verticale. L’intento era quello di crescere e generare profitto cercando di evitare la competizione esasperata. La terza ondata di fusioni (dopo quella del primo Novecento e quella degli anni venti) faceva emergere un nuovo tipo d’impresa: la conglomerata, diversa dalla multidivisionale perché cercava di operare in settori non correlati fra loro. Il caso della Litton Industries (macchine per ufficio, navi, ristoranti, cibi in scatola, consulenze governative per piani di sviluppo). 56 La diversificazione non era estranea al big business, ma riguardava attività strettamente correlate al core. Negli anni ‘50 e ‘60 i top executive di molte società si trovavano con considerevoli utili non distribuiti da investire, per cui nascevano percorsi diversi. Investimenti esteri in Europa e Giappone per la ricostruzione. In seguito, esempi come la Xerox, la Armco Steel, la General Mills. Altri fattori spingono nella direzione indicata: pressione fiscale sui profitti d’impresa (sgravi fiscali per le conglomerazioni); rivoluzione nelle scienze manageriali (metodi matematici applicati alle scelte). Il diffondersi delle conglomerate accende dibattiti e anche critiche: trasformazione negativa dei top executive da responsabili dell’efficienza a dirigenti interessati quasi esclusivamente ai ritorni finanziari. Prevalgono però elementi teorici e pratici di favore per la conglomerazione: riduzione dei rischi; minor costo del capitale; migliore uso delle risorse manageriali. Inoltre tra il 1958 e il 1966 il nuovo modello di impresa sembrava aver dato il meglio di sé. La stagflazione degli anni settanta mette in difficoltà le scelte effettuate: costi finanziari crescenti, culture aziendali inconciliabili in situazioni di costi in aumento. Debole si dimostrava in particolare la struttura amministrativa, con top executive poco addentro alle questioni specifiche delle imprese via via acquisite. Il ROI diventava un obiettivo calato dall’alto, incapace di comprendere la complessità delle imprese decentralizzate. Inoltre si evidenziava una non efficiente separazione tra vertice della conglomerata e middle management delle divisioni. Praticamente dagli anni settanta si assiste ad un serio declino della conglomerata statunitense. Il caso della RCA: dalla crescente diversificazione conglomerante allo smembramento da parte della General Electric a imprese europee (Thomson, Philips) o giapponesi (Sony, Panasonic). Alla luce di quanto sostenuto, a partire dagli anni Ottanta iniziava un vasto movimento di ristrutturazione, tendente a ridurre lo spettro delle attività prima concentrare nelle conglomerate. Si estendeva il fenomeno del disinvestimento. In questa fase si avvantaggia il mondo della finanza, con sempre nuovi e crescenti investitori istituzionali. Negli anni novanta si diffonde anche un orientamento sempre più speculativo, poco preoccupato della sorte delle imprese e quindi dell’economia reale. Il tentativo di creare valore dove non c’era generava situazioni di grave crisi come nel caso della Singer. Nel contempo lo stato si preoccupava di altro e non di politiche industriali. Affioravano così lati deboli che portavano gli Usa a perdere terreno in settori cruciali. Soprattutto si riconosceva un lato debole per ciò che riguarda il capitale umano: difficoltà nel sistema formativo alla base ed in quello professionale (analfabetismo funzionale). Sindrome vittoriana come base del declino negli Usa a partire dagli anni ottanta. 57 Cap 15 L’Unione sovietica: l’antagonista Dal 1917 la sfida più radicale al sistema capitalistico basato su proprietà privata e mercato. Dal pensiero di Marx, Lenin ricava l’idea di un nuovo ordine economico e sociale da affermare: il comunismo. La Russia, pur senza proletariato, si presta al disegno per le forme esistenti di comunitarismo (obscina); inoltre, rompendo l’ultimo anello della catena capitalistica, si sarebbe dissolto l’intero sistema. Dal comunismo di guerra alla NEP nel 1921: imposta in natura, libero mercato dove operavano piccole imprese, esempi di grande impresa nella forma del trust (Prodamet- metalli, Produgol- carbone, Med- rame). Ma non era capitalismo: i trust potevano trattenere solo il 20% dei profitti, e non potevano fare marketing (esistevano i “sindacati di vendita”). Alla morte di Lenin si profilano tre posizioni: Trotzkij, Bukarin, Stalin. Stalin impone il suo modello: collettivizzazione forzata delle proprietà agricole, con forte repressione dei diritti civili; abolizione del mercato nell’industria pianificata. Il Piano (gosplan) era un gigantesco ufficio centrale di un’impresa multiunitaria. Stabiliva cosa, quanto, dove e come produrre. Le imprese locali (dlavk) non si concentravano né sui profitti né sugli investimenti, ma solo sul raggiungimento degli obiettivi fissato dal Piano. Non esisteva mercato dove formare i prezzi: anche questi venivano prestabiliti. Il Piano si organizzava in Dipartimenti funzionali che somigliavano allo schema di un’impresa multifunzionale. Esisteva sono un management di livello lower (niente middle e top). Nonostante questi limiti, il modello permette all’URSS di diventare una potenzia industriale, economica e militare. Nel ventennio 1930-1950 si registra una crescita con tassi a due cifre, insieme ad un limitato benessere rispetto alle condizioni di partenza. Dopo la morte di Stalin si perseguono alcuni obiettivi di riforma. Chruscev cerca di limitare la forte centralizzazione (organismi territoriali industriali- sovnarkhozy). Nascono poi le “associazioni per la produzione”, fusione di impianti per cercare economie di scala e razionalizzazione. Restavano però deboli ed indefinite le principali funzioni aziendali (marketing compreso). Secondo l’interpretazione di Andrei Yudanov mancava soprattutto una “comunità naturale” di imprese, che perseguissero strategie competitive e innovative. In Occidente si affermavano invece 4 principali tipi di strategia: 1- quella che punta sul volume (prodotti standardizzati); 2- quella di nicchia (merci indispensabili per fasce limitate di consumo); 3- quella personalizzata (produzione locale su piccola scala); 4- quella proiettata verso radicali innovazioni. In URSS solo la prima strategie si configurava per le grandi imprese, ma senza margini per il marketing. Soprattutto l’innovatore nella grande impresa sovietica era persona 60 Si poteva allora competere sul mercato mondiale cercando la minimizzazione dei costi mediante aumenti successivi di produttività (visione di lungo periodo). Contribuivano a tutto questo forti sovvenzioni statali. Anche negli anni sessanta e settanta il MITI svolgeva un ruolo centrale, ad esempio nell’ambito del “Monday club”. Ne usciva una spinta all’innovazione ed una lotta senza quartiere contro l’obsolescenza: filosofia “abbatti e ricostruisci”. Un capitalismo manageriale e competitivo, con forti tratti di originalità. Il crescente mercato interno alimentava la competizione; la sensibilità per la concorrenza su mercato esteri apriva spazi di evoluzione dimensionale. Importante è stato anche il clima di grande coesione sociale (tipico dei paesi sconfitti); il lavoro come valore. Leadership conquistata in settori chiave: siderurgico, automobilistico, elettronica di consumo, macchine per ufficio, componentistica elettronica, apparecchiature per elaborazione dati. Il Giappone rimane debole in quanto a capacità innovativa e creatività del singolo. Tra il 1954 a il 1971 il pil cresce al tassi medio del 10,1% annuo: miracolo in versione giapponese. Cap 17 L’ibrida Europa Primi anni settanta: la divisione ricerca della HBS avvia un progetto mirato all’analisi comparata delle strategie e delle strutture delle grandi imprese in BG, Germania, Francia e Italia. Al culmine dei miracoli economici, l’Europa era popolata da grandi imprese, sia private che pubbliche, attive in settori della seconda rivoluzione industriale. L’obiettivo era verificare se lo sviluppo di tali imprese aveva comportato una modernizzazione organizzativa. Veniva dunque promossa l’analisi per il periodo 1950- 1970 delle prime 100 imprese per fatturato in ogni paese, in modo da classificarle in base alla strategia di diversificazione adottata (attività unica, dominante, diversificazione correlata, non correlata) e alla struttura organizzativa impostata (U- form, M-form, holding). I ricercatori scommettevano sulla convergenza tra modello americano ed europeo. L’evidenza empirica dimostrava il successo in Europa di diversificazione ed accesso al modello multidivisionale. Si trattava di una parziale americanizzazione della cultura (manageriale) europea. Ad essa contribuivano gli aiuti dell’ERP: flussi finanziari, materie prime, beni, ma anche tecnologie e organizzazione (US technical assistance and productivity mission). Le imprese, negli anni di crescita, erano incoraggiate a intraprendere strategie d’integrazione per beneficiare delle economie di scala, in modo tale da rivolgersi alla produzione di beni di consumo durevole. 61 Uno stimolo favorevole veniva anche dagli accordi commerciali sottoscritti fra i paesi del continente (CEE). Anche per questo la filosofia fordista e taylorista cominciava a consolidarsi. In più, stando così le cose, cresceva l’afflusso di investimenti diretti americani: le multinazionali USA portavano non solo soldi ma anche tecnologie, prodotti, esempi organizzativi. Tuttavia, contrariamente a quanto si aspettavano gli studiosi di Harvard, la diffusione dell M-Form fu piuttosto casuale e non raramente solo formale. Nel caso GB, ad esempio, i senior manager rifiutavano la delega del potere anche a livello operativo. In Germania invece permaneva un basso grado di indipendenza dei manager delle divisioni, una scarsa sensibilità per il marketing, una esigua riferibilità dei compensi manageriali con la performance divisionale. Negli anni del miracolo economico europeo era in realtà la struttura ad holding a prevalere e diffondersi. In Germania infatti persistevano grandi conglomerate a controllo familiare. Anche in Italia le holding erano spesso una copertura per strutture piramidali a controllo famigliare. L’anomalia europea sommava differenti varianti nazionali, sia nelle strutture proprietarie sia nelle culture manageriali. A ciò contribuiva: il ruolo dello stato; la cultura del management; carenze nel sistema formativo; scarsa attenzione per il marketing. In Europa prevaleva inoltre l’attenzione per le capacità artigianali, oltre che una rilevanza delle industrie labour-intensive; permanevano numerose infine le imprese di dimensione media modesta. Con la fine degli anni settanta cresceva la spinta verso l’adozione della forma multidivisionale: proprio mentre nella corporation americana si iniziava a ripensarla criticamente. Di più, negli anni 1985-1995 si incrementavano le strategie multibusiness, specie nella logica conglomerale, a fonte di un declino delle strategie centrate sull’attività unica o dominante. Ciò avveniva in GB e Germania, ma anche in Italia: qui la crisi degli anni settanta veniva affrontata con ristrutturazioni e dismissioni delle attività non profittevoli, seguite da diversificazioni e politiche finanziarie altamente speculative. Sempre in Italia opportunità di investimento venivano dalle privatizzazioni dei primi anni novanta. Caratteristica del modello europeo era la proprietà dell’impresa in mano allo stato, secondo schemi differenti ma con tratti comuni. In effetti in Europa le politiche di intervento avviate dopo la grande depressione negli anni trenta erano proseguite nel secondo dopoguerra. Tra il 1950 e il 1970 alla proprietà statale diretta si affiancava una tendenza alla pianificazione e al coordinamento centralizzato del settore privato. Dopo la ricostruzione nascevano dunque strumenti “leggeri” di intervento dello stato: aperture di credito da parte di banche pubbliche; sussidi; commesse; esenzioni fiscali. 62 In GB e Francia crescevano le forme di politica industriale, fino all’estremo del Commissariat general du plan del 1946, guidato da Jean Monnet. Le economia miste europee erano motivate anche da politiche keynesiane anticicliche, volte a tutelare domanda e occupazione. Decisiva era la presenza dello stato in alcuni settori: siderurgia, energia, telecomunicazioni. Crescevano anche gli esempi di nazionalizzazioni operate nel dopoguerra: in GB miniere, elettricità, linee aeree, BP; in Francia carbone, gas, Renault. In Italia cresceva il ruolo dell’IRI e nasceva l’ENI (Mattei), dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962. Dagli anni novanta: privatizzazioni per alti costi (debito pubblico) ed inefficienze interne. Alla luce di quanto detto risulta evidente l’originalità dei percorsi europei. Diversamente dagli USA, gli assetti proprietari presentano un elevato livello di concentrazione, sono fondati su una variegata mescolanza di controllo statale/bancario/personale, coesistono con diffuse strategie di diversificazione messe in atto dalle maggiori imprese. L’esperienza europea dimostra: 1- che la storia nazionale è importante e influisce sui percorsi imprenditoriali; 2- che esiste una via continentale alla diversificazione e alla efficienza gestionale. Esempio: la multidivisione a rete, in cui la M-form viene sostituita da una federazione di piccole e aggressive aziende imprenditoriali (Silicon Valley). Altre varianti interessanti dell’esperienza europea: distretti industriali e cluster economici locali (nord-est Italia); capitalismo cooperativo (economia sociale di mercato tedesca: cogestione delle imprese rispetto alle relazioni industriali). Il sistema ibrido europeo è dunque un’interessante e reale alternativa al modello americano. Cap 18 Diverse strategie per il catching up: Corea del Sud e Argentina Alla fine del decennio settanta parlare di terzo mondo indistintamente non era più possibile. In Africa permanevano gli squilibri tra popolazione e risorse; in America Latina effimere fasi di crescita erano ridimensionati da disordini politici e sociali; piccoli stati dell’estremo oriente rischiavano di diventare comunisti ed invece si avviavano verso forme di impetuoso sviluppo economico. Corea del Sud e Argentina sono due casi di nazioni arretrate e periferiche che hanno avuto performance economiche estremamente differenti. In entrambi i casi si partiva da ristrettezza del mercato interno (pochi stimoli per la grande impresa) e regimi politici autoritari. Diverse erano invece le politiche economiche applicate ed il comportamento dei grandi gruppi industriali. La Corea del Sud Colonia giapponese fino al 1945, senza ricorse naturali, con un apparato industriale esiguo: decollo negli anni settanta grazie a politiche economiche volte a favorire le esportazioni ed a inibire le importazioni, anche in termini di ide. 65 Tutto ciò coinvolge banche, imprese assicurative, imprese di distribuzione al dettaglio si espandono, anche nell’est europeo. Nel caso italiano, ad esempio negli anni cinquanta la Esselunga di ispirazione americana innovava il settore della grande distribuzione, anche in termini di management: strategie di marketing, politiche di prezzi bassi. Nel caso della consulenza aziendale importanti erano gli sviluppi degli anni settanta in termini di sofisticati servizi contabili, nuove pratiche di organizzazione e valutazione del lavoro. In questo stesso periodo si concretizzava la fine del dominio americano in molti settori, specie capital intensive. Cresceva il ruolo di Giappone, Corea, Singapore, Hong Kong e Taiwan. L’emergere delle multinazionali asiatiche aveva motivazioni originali e diverse da prima: capacità organizzative eccellenti, relazioni virtuose con i sistemi bancari, sostegno dello stato, fattore lavoro fedele e produttivo. Dagli anni novanta: multinazionali del dragone: pur essendo di recente industrializzazione sono realtà che si internazionalizzano subito, con strategie di intesa con l’estero (partnership e joint venture). Dal 2000 crescono i BRISC: conoscenza dei mercati emergenti, accesso privilegiato alle risorse, sostegno governativo, cura di network relazionali informali Negli ultimi trent’anni le multinazionali hanno sviluppato una varietà ampia di strutture organizzative. Chris Bartlett e Sumantra Ghoshal hanno individuato quattro modelli organizzativi prevalenti delle imprese: multinazionali, internazionali, globali, transnazionali. Globali: consociate deboli, centro prevalente nelle funzioni essenziali: schema classico. Multinazionali: sussidiarie locali per controllare una sezione rilevante della catena di valore adattando le operazioni alle condizioni del mercato ospite. Transnazionali: modello più virtuoso, nel quale una compagnia opera all’interno di un network di consociate indipendenti con competente diverse. Internazionali: modello poliedrico per stabilire rapporti dinamici con i mercati locali. Influisce molto su tutte queste forme la rivoluzione di internet (riduzione costi, segmentazione catena del processo produttivo). Nel caso italiano: multinazionali tascabili come medie imprese frutto dei distretti industriali (Mapei: collanti e adesivi). Cap 20 Nuove forme di impresa Dopo l’intensa stagione delle conglomerate multibusiness seguiva una fase di riorganizzazione delle imprese. Invece che su espansione e diversificazione l’accento veniva posto su programmi tesi a migliorare l’efficienza ed il risultato aziendale. Si usciva altresì da una fase intensa di operatività per raider finanziari e società di leveraged-buyout (frazionamento e vendita di divisioni scorporate). 66 Anche le tecnologie della terza rivoluzione industriale, affermandosi, condizionavano il contesto. Ambivalente è il rapporto tra tecnologia della terza rivoluzione industriale e grande impresa. Tra anni settanta e ottanta la maggior efficienza e i costi (anche di controllo) decrescenti avevano favorito l’espansione delle aziende. L’informatica favorisce dunque l’espansione: crescono gli investimenti esteri, i confini delle multinazionali si allargano. Dagli anni novanta le medesime tecnologie permettono una riduzione del grado di integrazione verticale e della dimensione media delle unità produttive, favorendo il decentramento: anche con riferimento i settori tipici della seconda rivoluzione industriale. Il ridimensionamento della scala di produzione non portava subito al disinvestimento, anzi induceva processi di ristrutturazione e riorganizzazione (telefonia mobile). In questo senso operavano anche i contemporanei percorsi di deregulation e privatizzazione delle imprese pubbliche. La riduzione della scala ottimale portava anche a strategie di specializzazione (siderurgia di nicchia; parabola della IBM). La maggiore efficienza nei trasporti e nelle comunicazioni influenzava anche altri aspetti dell’attività economica con ripercussioni sull’impresa in termini di deverticalizzazione. Outsourcing: scelta di esternalizzare e/o delocalizzzare alcune attività per alleggerire la struttura dei costi (meccanica, trasporti, elettronica, farmaceutica, chimica). Nel settore automobilistico (anche farmaceutico) venivano esternalizzate intere fasi del processo produttivo. Si giungeva anche a reali processi di svuotamento (hollowing-out) delle grandi imprese. L’outsourcing si fondava sulla presenza di fornitori specializzati a cui veniva affidata la produzione di componenti; essi diventavano generalisti specializzati (general specialist), differenti dai terzisti subfornitori perché dotati di competenze eccellenti ed autonome (americana Flextronics fornitrice di Casiom Dell, Xerox ecc.). Si affermavano inoltre nuove e inedite architetture organizzative, per corrispondere alla realizzazione di prodotti modulari (componenti assemblati tramite interfaccia standardizzata). Esempio classico, Dell nel campo dei pc. Ecco che le strategie di produzione modulari hanno rappresentato una delle condizioni fondamentali per il superamento della grande impresa integrata verso strutture organizzative a configurazione reticolare (comunità di apprendimento – community of practice). Tutto questo non è avvenuto senza problemi, ad esempio occupazionali (delocalizzazione produttiva). Di fronte a casi di migliaia di relazioni e alleanza, nella struttura manageriale si è dovuta introdurre la figura dell’alliance manager. 67 In sostanza la grande corporation non è scomparsa, ha modificato la propria struttura organizzativa, l’approccio al mercato e l’impostazione del processo di innovazione. In tal senso la grande impresa ha assunto il ruolo di fulcro (hub), coordinatore e distributore di compiti. Cap 21 I “ruggenti” anni novanta Agli inizi del terzo millennio gli Usa rimanevano leader mondiali sotto diversi profili: reddito pro capite; numero corporation mondiale fra le prime 500 tasso annuo di crescita del pil. Fattori interni (vitalità del sistema che produce posti di lavoro; solida leadership tecnologica; dimensione mercato interno; cornice istituzionale favorevole; politiche pubbliche di procurement, di garanzia della proprietà intellettuale, di sostegno alla ricerca scientifica; aumento investimenti esteri; crescita anche nel settore dei servizi avanzati) ed esterni (analizzati nel punto 1) motivavano questa prosperità. Fattori esogeni al sistema Usa ci aiutano a capire di più:  1- superamento della crisi degli anni settanta (soprattutto con riferimento al petrolio), con conseguenze negli anni ottanta, e forte ripresa degli scambi mondiali: nuova (o seconda) globalizzazione;  2- con la fine della guerra fredda diminuivano le spese militari, per cui tornava sotto controllo il deficit della spesa federale; la crescita degli scambi diminuiva il passivo della bilancia commerciale;  3- le vigorose scelte dell’amministrazione Clinton (sostegno alla creatività imprenditoriale individuale attraverso il potenziamento delle infrastrutture come i network di comunicazione a banda larga; razionalizzazione ulteriore della spesa pubblica per influire su tassi d’interesse ). Si affermava così la new economy: vengono abbandonati i settori labour-intensive per passare ad attività con valore aggiunto maggiore. La formazione di capitale fisso industriale cresceva nei comparti ad alta intensità di tecnologia e conoscenza (ICT, elettronica, pc, biotecnologie, internet). Conseguenze misurabili: crescita produttività del lavoro; nuovi posti di lavoro e imprese. Particolarmente innovativo si rivela lo strumento finanziario delle società di venture capital: spesso costituite da ex manager, investivano nelle piccole start-up scommettendo su idee originali e nuove imprennditorialità. Esempio eclatante: Apple (idea-società di investimento-investitore- proposta innovativa per il management delle stock options). Altra decisione importante: allentare le rigide norme a tutela dei risparmiatori per far si che investitori istituzionali e fondi pensione aumentassero i loro interventi. Nonostante la forte crisi del 2000/2001 (bolla delle dot.com) la new economy aveva rivoluzionato la struttura competitiva di molti settori. D’altro canto nella seconda metà 70 I grandi keiretsu erano dunque costretti a correggere le tradizionali modalità di approccio ai mercati di capitali e alla governance aziendale. Si indeboliva di conseguenza la densa rete di partecipazioni incrociate. Dalla crisi dell’economia reale uscivano invece strategie di ridimensionamento e ristrutturazione aziendale. Solo in parte si affermava l’orientamento verso pratiche di governance più trasparenti, per cui un efficiente controllo sull’operato della direzione aziendale era virtualmente assente. Il management inefficiente non poteva essere valutato e rimosso. I licenziamenti e le “dimissioni volontarie” portavano ad un disagio che metteva in discussione il sistema di relazioni industriali giapponese fondato su tre principi: 1- impiego a vita; 2- carriere per anzianità; 3- sindacato aziendale. La maggiore flessibilità comprometteva i tradizionali rapporto di fedeltà nell’impresa, per cui ancora oggi vecchio e nuovo convivono condizionandosi a vicenda, senza riportare però la performance giapponese ai fasti precedenti. Solo la positività della bilancia commerciale sembra segnalare i possibili sviluppi della via giapponese al capitalismo. Cap 23 Nuovi protagonisti: Cina e India Oggi possiamo constatare la prepotente ascesa dei due giganti asiatici, Cina e India. Una novità importante per due motivi: 1- dalla rivoluzione industriale per la prima volta il baricentro dell’economia mondiale si sposta fuori dell’occidente; 2- la storia rimette le cose a posto, visto il primato di Cina e India nei tre millenni precedenti al XVIII secolo. Una serie di elementi aiutano a comprendere la consistenza di questi nuovi protagonisti: conoscenza più diffusa di prima; grandi popolazioni nascoste nelle campagne; riforme economiche recenti. Non dimentichiamo che la Cina è cresciuta dal 1980 al 2005 ad un tasso medio annuo del 9,6%. Cina Per spiegare il successo della Cina è difficile individuare un insieme coerente di azioni di politica economica. Nel caso asiatico-giapponese si poteva parlare di: 1- rapporto do ut des fra le grandi imprese e lo stato (politiche di favore in cambio di competizione internazionale); 2- scelta di tecnologie medie, non difficili da applicare; 3-sostegno finanziario ai grandi gruppi. In Cina troviamo altre originalità: 1- competitività basata sul basso costo del lavoro; 2- porta aperta alle imprese multinazionali; 3- spazi agli animal spirits repressi negli anni della rivoluzione culturale; 4- produzione legislativa dopo il 1978 con Deng Xiaoping. 71 Emergono in questo nuovo contesto alcuni imprenditori davvero schumpeteriani. Il caso Ma Yun (Alibaba.com). Anche quando vengono rivisti esenzioni fiscali e assenza di diritti doganali rimane la libertà imprenditoriale e l’impegno a non nazionalizzare le imprese a capitale estero. Anche per questo cresce vertiginosamente il surplus commerciale estero. In più si è creato un legame simbiotico fra produttori cinesi e grande distribuzione americana: invasione di beni made in China. Alcuni timori diffusi: ambiente, sistema politico, sostenibilità del deficit estero USA. India Marcate diversità caratterizzano il caso indiano: 1- sistema democratico credibile; 2- eredità colonialismo (ferrovie, lingua inglese); 3- forti investimenti in istruzione. Oggi è leader nel settore del terziario avanzato, analisi finanziarie, ricerche statistiche attuariali, consulenze legali e fiscali, supporto scientifico a case farmaceutiche: l’industria dell’immateriale. L’esempio della famiglia Tata e della nascita a Bangalore dell’IIS (Indian Institute of Science): da siderurgia, elettricità, tessile ad una forte diversificazione non correlata verso banche, automobili, software, turismo. Forte tratto etico dell’azione economica delle imprese (da forme di illuminato paternalismo). Recente spinta verso l’imprenditorialità del sociale. Problemi interni restano: povertà e disuguaglianza; inquinamento.
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