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STORIA D'IMPRESA - Marcelli Angelina (2021) PANIERE APERTE DEFINITIVO, Panieri di Storia Economica

paniere domande aperte. è fatto bene

Tipologia: Panieri

2020/2021

Caricato il 15/10/2022

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Scarica STORIA D'IMPRESA - Marcelli Angelina (2021) PANIERE APERTE DEFINITIVO e più Panieri in PDF di Storia Economica solo su Docsity! 10. Si esponga la convenzione più diffusa sulla suddivisione della storia dell'uomo, soffermandosi sulle cesure storiche Si è soliti suddividere il tempo in epoche caratterizzate da un'omogeneità culturale, sociale, dell'ordine economico ecc. (come per esempio: il risorgimento, l'età classica, il medioevo) sebbene si possa affermare che la storia sia una concatenazione sistematica di avvenimenti, per convenzione storiografica. Le convenzioni storiografiche sono varie, a seconda del tipo di studi che si affrontano. Solitamente le epoche storiche iniziano e finiscono in occasione di eventi particolari definibili cesure storiche. Per cesura storica si intende un avvenimento di portata generale, che altera gli equilibri pre-esistenti. La principale divisione in periodi storici è tra Preistoria e Storia. Quest’ultima, secondo la convenzione più diffusa, viene suddivisa in quattro periodi: L'ETÀ ANTICA che inizia dal 3000 a.C. e termina nel 476 d.C. con la caduta dell'Impero Romano; il MEDIOEVO dal 476 d.C. al 1492 anno della scoperta dell'America; l’ETÀ MODERNA dal 1492 all’inizio della Rivoluzione Industriale intorno al 1760; infine l’ETÀ CONTEMPORANEA che va dalla fine della Storia Moderna ad oggi. 11. La grande impresa e il paradigma chandleriano Il paradigma chandleriano, dal suo autore Chandler, sta alla base della business history che si diffuse in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Giappone alla fine degli anni ‘70.Tale paradigma deriva da una imponente indagine che Chandler condusse con rinnovata metodologia negli anni ’60 sulle maggiori imprese statunitensi. Secondo Chandler, l’affermazione del big business americano che interessò tutti i settori del sistema economico si caratterizza per: integrazione, diversificazione del prodotto e amministrazione in forma multidivisionale. Tale modello secondo chandler fu stimolato da due fattori: le economie di scala e la grande dimensione del mercato statunitense. Queste caratteristiche della grande impresa si continuarono ad osservare in tutte le economie di mercato avanzate, da allora tale paradigma è stato sempre utilizzato come termine di comparazione nello studio dei singoli casi aziendali. Secondo il paradigma chandleriano, al fine di ottenere il grado di efficienza necessario e sufficiente per la produzione di massa sarebbe “obbligatorio il passaggio dall’impresa personale a quella manageriale”, ma come si è visto in seguito tale schema non sempre è funzionante. Nonostante quindi il paradigma chandleriano sia stato considerato un fatto assodato per lungo tempo, il successo di un’azienda non si può esclusivamente dedurre dalla sua crescita dimensionale. Le indagini storiche infatti hanno permesso di mitigare lo schema di Chandler dimostrando che: non tutti i cambiamenti favoriscono la grande scala, l’aumento della concentrazione industriale non indica una maggiore efficienza e che le esperienze nazionali non convergono tutte nella stessa direzione. In base a ciò la crescita dimensionale delle imprese può essere spiegata da economie di scala, economie di gamma o differenze nazionali nella dotazione di risorse. Infatti nei primi due decenni del novecento gli stati uniti e la germania mostrano un maggior dinamismo rispetto alla Gran Bretagna, ma complessivamente non risulta una significativa divergenza fra le esperienze dei principali paesi occidentali. Allo stesso modo in tutti i principali paesi occidentali, la quota di occupazione assorbita dalle prime 100 imprese non arriva nemmeno ad un terzo del totale ed è in realtà l’indefinita categoria di imprese medie che rappresenta la classe più importante in germania, usa e gran bretagna. Infine la struttura dimensionale delle imprese, dipende dalla storia e dalla specificità del contesto istituzionale di ogni singolo paese. 14. Cosa studia la storia d'impresa? Quali sono i problemi più rilevanti? Quali sono i nuovi orientamenti della Business History La storia d’impresa è una branca della storia economica, la quale si occupa di affrontare problemi di tipo economico, cioè temi che abbiano a che fare con i tre quesiti fondamentali dell'economia ovvero cosa, come e per chi produrre. La storia di impresa si pone l'obiettivo di indagare la dinamica dei rapporti esistenti tra impresa, mercato, tecnologie e sistema sociale, attraverso l'analisi critica della storia delle grandi imprese industriali. La metodologia di ricerca storica parte dall'individuazione di una problematica. Si parte cioè dalla definizione di un problema da analizzare criticamente; lo storico dunque, prima di iniziare la sua ricerca, si pone alcune domande. La storia d'impresa, inizialmente, si mosse lungo dei filoni di ricerca, che hanno messo in evidenza le questioni fondamentali. Che sono: il ruolo delle innovazioni, i feedback fra imprese e società, l'interazione tra strategia e struttura, la costruzione delle organizzazioni. Le caratteristiche della grande impresa, descritte bene dal paradigma chandleriano, si continuarono ad osservare, a partire dal secondo dopoguerra, in molti settori e in tutte le economie di mercato avanzate. Lo schema tracciato da chandler – il paradigma chandleriano – è alla base della business history che alla fine degli anni '70 si diffuse anche in gran bretagna, germania, francia, italia e giappone. Tuttavia, mentre in Gran Bretagna e Giappone la disciplina si consolidò istituzionalmente, negli altri paesi la storia d'impresa rimase arginata all'interno dei tradizionali orientamenti di storia dell'industria e della tecnologia o alla storia economica generale. Da allora, il paradigma chandleriano è stato sempre utilizzato come termine di comparazione in ogni studio di singoli casi aziendali. Oggi nuovi orientamenti riscrivono i compiti della Storia d’impresa che, con l’ acquisizione degli strumenti delle nuove tecnologie, l’introduzione e l’impiego delle fonti elettroniche e di innovativi metodi di ricerca, è in grado di allargare la propria sfera d’influenza e acquisire nuovi spazi nell’ambito delle discipline scientifiche e, soprattutto, di cambiare l’impostazione culturale di fondo, con la nascita di relazioni inedite tra l’impresa e i consumatori e lo spostamento del centro dell’attività di creazione di valore verso l’esterno del processo di produzione, in particolare, con l’impiego del crowdsourcing e dell’open innovation. LEZIONE 11 20. Quali sono gli interessi principali della Business History e della Entrepreneurial History? La Business History ha come interesse principale quello di analizzare l’evoluzione delle strutture organizzative interne dell’impresa, mentre la Entrepreneurial History ha quello di valorizzare la figura del singolo imprenditore. Il primo Schumpeter valorizzò le figure di singoli imprenditori, mentre il secondo Schumpeter analizza l’evoluzione delle strutture organizzative dell’impresa. 21. Quali aspetti qualitativi dell'imprenditore hanno messo in risalto Cantillon, Baudeau e Say? Secondo Cantillon, la caratteristica peculiare dell'imprenditore non era il possesso dei capitali, che potevano essere suoi o presi a prestito, ma l'assunzione del rischio dell'acquisto dei fattori produttivi a prezzo certo, del costo della loro combinazione e della vendita a prezzo incerto. Baudeau riteneva che l'imprenditore, oltre ad accollarsi il rischio d'impresa, dovesse mettere in atto maggiori investimenti per migliorie ed innovazioni tecnologiche. Jean-Baptiste Say identificò l’imprenditore nel ruolo manageriale di coordinatore e dirigente della produzione e del commercio e fu il primo ad assegnare all’imprenditore un posto preciso nello schema del processo economico. 22. Smith, Ricardo e Marx scrissero opere considerate capisaldi della teoria economica, quali sono e in che misura si occupano di imprenditore? Adam Smith nella “Ricchezza delle Nazioni”, anche se ignora completamente la definizione e il ruolo dell’imprenditore, ne coglie la differenza di funzione, tra l’attività di procurare i capitali, compensata con i profitti, e quella di dirigere le attività economiche retribuita con il salario. Non distingue tra capitalista e imprenditore, ma riconosceva il proprietario d’azienda come unico soggetto che gestiva tali funzioni. Neanche l’economista inglese David Ricardo, considerato insieme a Smith uno dei padri fondatori dell’economia politica, ci ha lasciato una precisa definizione sul ruolo e sulle funzioni dell’imprenditore. Nel suo studio sulla teoria della rendita fondiaria “Saggio sull'influenza del basso prezzo del grano sui profitti del capitale” (Essay on the influence of a low price….) ripartiva la distribuzione della ricchezza su tre figure: i proprietari terrieri, gli operai e gli imprenditori, che hanno una remunerazione residuale rispetto ai primi due. Nel libro III della sua opera principale, Il Capitale, Marx si occupa invece del ruolo dell’imprenditore, connotandosi di una certa ambiguità. Riconosce all’ imprenditore autonomia e incisività nel processo produttivo, inserendo però tale figura all’interno delle rigidità proprie del sistema capitalistico, identificandolo non come capitalista attivo, ma come un semplice funzionario, che come tale percepisce un salario più alto rispetto a quello di un comune operaio in quanto svolge una funzione più complessa. 26. Perché i pensatori rinascimentali hanno dato tanta importanza al ruolo del mercante? Che differenza c'è tra mercante e imprenditore Il Rinascimento trova il suo fondamento nella centralità dell’uomo e della sua affermazione sulla natura. Dal punto di vista economico, l’Italia rinascimentale, era al centro dell’economia mediterranea a partire dal XII secolo fino al XVII secolo. Gli italiani quindi godevano del ruolo di leadership basato sull’attività mercantile, in quanto in quel periodo storico (medioevo) gli investimenti maggiori venivano fatti nel settore dei commerci, tanto che gli storici hanno coniato l'espressione (capitalismo mercantile). In questa realtà caratterizzata dalla presenza dei mercanti, definiti come coloro che acquistano e vendono cercando di ottenere un profitto, è possibile distinguere la figura dell’imprenditore, il quale produce un bene e servizio ed è caratterizzato dalla professionalità intesa come abitualità, dall’ attività economica che è ciò che aumenta l’utilità di un bene e dall’organizzazione relativa ai fattori della produzione. 27. Quali sono le caratteristiche principali della "tradizione continentale" e quelle della "scuola anglosassone" Per cogliere le principali tendenze teoriche sviluppate nel corso del tempo, è possibile distinguere due diversi indirizzi di ricerca: la tradizione continentale con un approccio ermeneutico-interpretativo e la tradizione anglosassone con un approccio analitico. Sia la tradizione continentale, sia quella anglosassone, si basano entrambe su una visione statica del sistema economico; Differivano però per il metodo d’analisi: la tradizione continentale si basava su un approccio ermeneutico-interpretativo, cioè un atteggiamento critico, che lo scienziato sociale deve avere in quanto gli è impossibile avere la prova certa della teoria che sta formulando. Non trattandosi di leggi scientifiche certe e indiscutibili ma di ipotesi in parte verificate e quindi solo parzialmente giustificate, é necessario un attento esame della loro adeguatezza alla realtà. Questa impostazione si contrappone alla tradizione anglosassone, che al contrario è caratterizzata da uno stile e da una tensione analitica, volto a creare un modello capace di descrivere le dinamiche delle macro grandezze cose utili, se le conservano, se le migliorano, se aiutano la gente comune a giudicare rettamente il valore e il prezzo delle cose. 28. Cosa significa "approccio interpretativo" e "approccio analitico Medioevo e il Rinascimento dell’Europa continentale sono stati caratterizzati dal fiorire di attività mercantili altamente rischiose che hanno portato gli intellettuali del tempo a operare una distinzione tra colui che fornisce i capitali e colui che organizza il lavoro all’interno dell’impresa. Per cogliere le principali tendenze teoriche sviluppatesi nel corso del tempo, è possibile distinguere due diversi indirizzi di ricerca: un approccio ermeneutico-interpretativo e un approccio analitico. L'approccio ermeneutico- interpretativo tipico della tradizione continentale, è un atteggiamento critico, che lo scienziato sociale deve avere in quanto gli è impossibile avere la prova certa della teoria che sta formulando, è un metodo basato sull'osservazione critica di ciò che si studia nella consapevolezza di non poter sempre verificare con esattezza la teoria, si lascia spazio all'agire umano alla sua vitalità. L'approccio analitico della scuola anglosassone invece è volto a creare un modello capace di descrivere le dinamiche delle macro grandezze economiche, estraendolo dal comportamento individuale, quasi che non fosse un elemento oggettivo del sistema economico. In ambito analitico non c'è spazio per aspetti o valutazioni soggettive ma tutte molto più oggettività. Ricerca della funzione oggettiva del sistema economico, rigetta l'analisi del comportamento individuale distinto dalle dinamiche delle grandezze economiche. 29. Quali sono i caratteri distintivi delle tre rivoluzioni industriali? Quale forma d'impresa è prevalsa in ognuna? Al fine di ricostruire storicamente l’evoluzione storica dell’impresa è possibile individuare diversi contesti storici nei quali la figura dell’imprenditore e dell’impresa ha attirato l’attenzione dei teorici. La prima rivoluzione industriale, collocabile cronologicamente tra il 1770 e il 1870 fu una rivoluzione europea e la prima nazione ad avviarla fu la Gran Bretagna in quanto aveva tantissime condizioni favorevoli per la crescita, fu caratterizzata dalla macchina a vapore e da altre innovazioni in campo siderurgico. L'interesse teorico è rivolto alla figura e al ruolo del capitalista/imprenditore; La seconda rivoluzione industriale avvenuta tra il 1870 e il 1970 ha come settori trainanti l’elettricità, la meccanica, la siderurgia e la chimica ed è localizzata prevalentemente in germania e stati uniti. In questo periodo la grande impresa e la rivoluzione manageriale iniziano ad attrarre l'attenzione degli scienziati sociali; La terza rivoluzione industriale si ebbe tra il 1970 e il 2000, ha come settori trainanti l’elettronica e l’informatica ed ha come centro cina e giappone. L'attenzione verso l'imprenditore è notevole, ma anche verso organizzazioni produttive diverse da quelle della grande impresa manageriale. Le imprese in neanche 2 secoli, grazie alle più importanti invenzioni di macchine per la produzione di massa, hanno saputo integrare il grande lavoro manuale con l’avvento preponderante dell’alta tecnologia. 30. Quali sono i mainstream che hanno dominato nel tempo il pensiero economico I mainstream che hanno dominato nel tempo il pensiero economico sono: - l’economia classica, che ha dominato l’impostazione teorica a partire dal 1776 e fino alla metà del XIX secolo. Per i “classici”, la principale condizione della crescita economica sarebbe l'instaurarsi di un circolo virtuoso tra divisione del lavoro, crescita della produzione, allargamento dei mercati e conseguente intensificazione della divisione del lavoro. - scuola storica, il cui massimo esponente fu Karl Marx, tra il 1850 e il 1870 nata per criticare aspramente l’impostazione dell’economia classica. Sosteneva che il sistema economico è un organismo che ha in sé una legge di svolgimento. Il compito della scienza economica è quello di descrivere lo sviluppo dei sistemi economici nella loro individualità storica e ricercare il principio unico che li muove. - economia neoclassica-marginalista, dove la visione del processo economico si concentrò sul problema dell'allocazione ottimale di risorse scarse tra usi alternativi. Il punto di partenza è la nozione di utilità. Le teorie sono statiche e si basano sull’assunto che vi sia una naturale tendenza di domanda e offerta a convergere in una condizione di equilibrio: tutto il resto viene classificato come “incertezza”. - Gli sviluppi contemporanei, dal 1936 ad oggi, a partire dal pensiero di keynes, a causa della crisi del ‘29, vedono l'attenzione spostarsi dai problemi microeconomici dell'allocazione statica di risorse a quelli della dinamica macroeconomica. 31. 34. Schumpeter è uno degli economisti e storici che maggiormente hanno contribuito alla definizione di imprenditore. Quali sono le sue teorie? Come definisce l'imprenditore? Come si evolvono le sue teorie (Primo Schumpeter e Secondo Schumpeter)? Schumpeter condusse una serie di studi sui cambiamenti del sistema economico che lo portò a pubblicare prima la “Teoria dello sviluppo economico” e successivamente “I cicli economici” dove sviluppò e perfezionò una nuova teoria da contrapporre a quella di Walras a proposito dell’equilibrio economico generale, considerando che lo sviluppo economico dipendeva soprattutto dalle innovazioni tecnologiche (che per Walras non mutavano), avviate dagli imprenditori che avevano avuto accesso al credito delle banche. Schumpeter notò inoltre che nella Storia d’impresa si susseguono ondate di tali innovazioni e giunse alla conclusione che lo sviluppo economico proceda per robuste espansioni seguite da una fase di recessione causata dal rientro dell’economia nell’equilibrio del flusso circolare. La teoria sui cicli economici prevede quindi che esistono cicli di 40 anni di cui 20 di crescita economica rapida e 20 di recessione; che nell’analisi grafica assumono particolare rilevanza i punti di variazione (detti flessi) dell’accelerazione di una curva da cui inizia la crescita rapida; infine, che la crescita rapida coincide con il diffondersi di nuove tecnologie. Il ruolo propulsore dello sviluppo economico è attribuito da Schumpeter all’imprenditore, che è tale proprio per la sua intuizione e per la capacità di attuare scelte innovative e temerarie. Nelle opere di Schumpeter troviamo una evoluzione del concetto di imprenditore tanto che si distingue un primo Schumpeter, volto a valorizzare le figure dei singoli imprenditori e un secondo Schumpeter, più interessato ad analizzare l’evoluzione delle strutture organizzative interne all’impresa. Al contrario di Keynes e dei neoclassici, il progresso tecnologico è nel pensiero di Schumpeter al centro delle dinamiche del nostro sistema economico. Mentre per i primi, la crescita si limita ad accompagnare l'emergere di nuove industrie e tecnologie, per questo autore il sistema è trainato da tali innovazioni e dalla loro diffusione. Partendo dai comportamenti di ogni produttore, innovatore o meno, egli elaborò una teoria dell'innovazione a livello di impresa. Per innovazione l'economista intende più forme di cambiamento: l'introduzione di nuovi prodotti, l'innovazione dei processi (cambiamenti nella tecnologia per produrre beni già commercializzati), l'apertura di nuovi mercati o di nuove fonti di approvvigionamento, la taylorizzazione³ del lavoro, un impiego migliore delle materie prime od anche nuove forme di organizzazione commerciale (Schumpeter, 1939). Per innovazione tecnologica Schumpeter fa riferimento direttamente al mutamento nelle tecniche di produzione. Nel suo schema teorico, l'autore introduce ben quattro importanti ipotesi: nella prima, le innovazioni comportano la costruzione di nuovi impianti e attrezzature e richiedono un notevole dispendio di tempo e denaro. Nella seconda ipotesi, Schumpeter sostiene che prima di introdurre le innovazioni non esiste concretamente alcuna risorsa inutilizzata dal processo produttivo. La terza ipotesi è quella secondo cui le innovazioni sono incorporate in "nuove" imprese, che si pongono accanto alle "vecchie", generando all'interno dell'industria una lotta di concorrenza, dovuta all'abbassamento delle curve di costo totale unitario, dato proprio dal progresso tecnologico Nella sua quarta ipotesi, Schumpeter sostiene che gli imprenditori siano degli "uomini nuovi" che realizzano concretamente le innovazioni. Nella Teoria dello sviluppo economico (1912) egli definisce imprenditore chiunque "introduca una nuova combinazione".Gli imprenditori non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una condizione durevole.La capacità di innovare dell'imprenditore è remunerata dal profitto, che gli spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice. Esso "è l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla produzione" (Schumpeter, 1912). Con l'ipotesi degli "uomini nuovi" si spiega perché le innovazioni non vengano introdotte contemporaneamente da tutte le imprese, ma lo siano solo da alcune (le "nuove" imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di imitazione, si diffondano a tutta la struttura produttiva. Schumpeter pone l'imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di sviluppo; essa è incarnata dalla figura dell'imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura sociale ad un ruolo subordinato nel processo di evoluzione del sistema. La via dell'innovazione è semplice, altri imprenditori decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale. Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione (salario nominale e tasso di interesse) aumentano per l'incremento della domanda. Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate proprio al prezzo cui l'imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti. Le nuove imprese entrano in funzione l'una dopo l'altra e incrementano la produzione totale dei beni di consumo, la quale era stata in precedenza diminuita per produrre gli impianti ed i macchinari. Si ha così quello squilibrio che stimola il processo di riorganizzazione di tutta l'industria: le imprese esistenti iniziano un doloroso processo di modernizzazione e di razionalizzazione.Finché sorgono però nuove imprese, che riversano il loro flusso di spesa nel sistema, vengono compensati gli effetti negativi dell'innovazione (ovvero la disoccupazione da ristrutturazione). In conclusione, Schumpeter afferma che il mezzo principale di riassorbimento di quest Al contrario di Keynes e dei neoclassici, il progresso tecnologico è nel pensiero di Schumpeter al centro delle dinamiche del nostro sistema economico. Mentre per i primi, la crescita si limita ad accompagnare l'emergere di nuove industrie e tecnologie, per questo autore il sistema è trainato da tali innovazioni e dalla loro diffusione. Partendo dai comportamenti di ogni produttore, innovatore o meno, egli elaborò una teoria dell'innovazione a livello di impresa. Per innovazione l'economista intende più forme di cambiamento: l'introduzione di nuovi prodotti, l'innovazione dei processi (cambiamenti nella tecnologia per produrre beni già commercializzati), l'apertura di nuovi mercati o di nuove fonti di approvvigionamento, la taylorizzazione³ del lavoro, un impiego migliore delle materie prime od anche nuove forme di organizzazione commerciale (Schumpeter, 1939). Per innovazione tecnologica Schumpeter fa riferimento direttamente al mutamento nelle tecniche di produzione. Nel suo schema teorico, l'autore introduce ben quattro importanti ipotesi: nella prima, le innovazioni comportano la costruzione di nuovi impianti e attrezzature e richiedono un notevole dispendio di tempo e denaro. Nella seconda ipotesi, Schumpeter sostiene che prima di introdurre le innovazioni non esiste concretamente alcuna risorsa inutilizzata dal processo produttivo. La terza ipotesi è quella secondo cui le innovazioni sono incorporate in "nuove" imprese, che si pongono accanto alle "vecchie", generando all'interno dell'industria una lotta di concorrenza, dovuta all'abbassamento delle curve di costo totale unitario, dato proprio dal progresso tecnologico Nella sua quarta ipotesi, Schumpeter sostiene che gli imprenditori siano degli "uomini nuovi" che realizzano concretamente le innovazioni. Nella Teoria dello sviluppo economico (1912) egli definisce imprenditore chiunque "introduca una nuova combinazione".Gli imprenditori non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una condizione durevole.La capacità di innovare dell'imprenditore è remunerata dal profitto, che gli spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice. Esso "è l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla produzione" (Schumpeter, 1912). Con l'ipotesi degli "uomini nuovi" si spiega perché le innovazioni non vengano introdotte contemporaneamente da tutte le imprese, ma lo siano solo da alcune (le "nuove" imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di imitazione, si diffondano a tutta la struttura produttiva. Schumpeter pone l'imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di sviluppo; essa è incarnata dalla figura dell'imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura sociale ad un ruolo subordinato nel processo di evoluzione del sistema. La via dell'innovazione è semplice, altri imprenditori decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale. Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione (salario nominale e tasso di interesse) aumentano per l'incremento della domanda. Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate proprio al prezzo cui l'imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti. Le nuove imprese entrano in funzione l'una dopo l'altra e incrementano la produzione combinazione".Gli imprenditori non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una condizione durevole.La capacità di innovare dell'imprenditore è remunerata dal profitto, che gli spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice. Esso "è l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla produzione" (Schumpeter, 1912). Con l'ipotesi degli "uomini nuovi" si spiega perché le innovazioni non vengano introdotte contemporaneamente da tutte le imprese, ma lo siano solo da alcune (le "nuove" imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di imitazione, si diffondano a tutta la struttura produttiva. Schumpeter pone l'imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di sviluppo; essa è incarnata dalla figura dell'imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura sociale ad un ruolo subordinato nel processo di evoluzione del sistema. La via dell'innovazione è semplice, altri imprenditori decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale. Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione (salario nominale e tasso di interesse) aumentano per l'incremento della domanda. Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate proprio al prezzo cui l'imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti. Le nuove imprese entrano in funzione l'una dopo l'altra e incrementano la produzione totale dei beni di consumo, la quale era stata in precedenza diminuita per produrre gli impianti ed i macchinari. Si ha così quello squilibrio che stimola il processo di riorganizzazione di tutta l'industria: le imprese esistenti iniziano un doloroso processo di modernizzazione e di razionalizzazione.Finché sorgono però nuove imprese, che riversano il loro flusso di spesa nel sistema, vengono compensati gli effetti negativi dell'innovazione (ovvero la disoccupazione da ristrutturazione). In conclusione, Schumpeter afferma che il mezzo principale di riassorbimento di quest LEZIONE 21 21. Quali innovazioni concettuali introducono Berle e Means? Secondo questi due studiosi come è variata la proprietà d'impresa? Secondo i due economisti il controllo manageriale era la forma di controllo dominante per le grandi imprese. Esso aveva trasformato profondamente la natura del sistema economico americano che poteva essere definito come una specifica forma di capitalismo: il capitalismo manageriale. Per Berle e Means la separazione della proprietà del controllo implica nuove forme di organizzazione e nuove regole di democrazia industriale: la società per azioni era diventata lo strumento mediante il quale esercitare il diritto di proprietà, ma anche un mezzo fondamentale per organizzare la vita economica. Gli autori ritenevano che quando il capitale non era concentrato, il controllo diventava eccessivamente costoso e non era quindi esercitato. Il grande capitale anonimo, mentre facilitare il trasferimento delle quote di partecipazione dei proprietari, aveva reso possibile la concentrazione della ricchezza di tanti piccoli azionisti in grandi società il cui controllo era stato ceduto ad un gruppo ristretto di persone. In tal modo la proprietà d’impresa è variata in tre tipologie: controllo di maggioranza (che esclude la minoranza dei proprietari); controllo di minoranza (che esclude la maggioranza dei proprietari); controllo degli amministratori (con il quale venivano esclusi tutti, o quasi, i proprietari e che corrispondeva alla public company). 22. Quali sono le ultime tendenze della teoria evolutiva di impresa? Le ultime tendenze della teoria evolutiva di impresa sono il concetto di routine, la visione dinamica, il concetto di capabilities, gli effetti di path dependance e la gerarchia d’impresa versus mercato. Le routines sono le conoscenze relative alle diverse attività acquisite nel corso del tempo, e che hanno terminato la struttura stessa dell’impresa. Il potenziale innovativo dell’impresa dipende dalle sue capacità di rinnovare le proprie routines, mentre il suo successo come impresa innovatrice dipende dalla selezione esercitata sia dentro che fuori il mercato. Visione dinamica: l’impresa è un sistema dinamico in continua interazione non solo con le altre organizzazioni operanti nel settore di mercato di riferimento, ma anche con l’ambiente esterno in continua evoluzione. Quindi, un’organizzazione dinamica è sottoposta a continui cambiamenti e adattamenti per equilibrarsi. Attraverso il dinamismo l’impresa persegue il suo obiettivo primario di generare profitti. Capabilities: Le competenze e potenzialità sono il risultato di apprendimento e dello sviluppo delle conoscenze dell’impresa nel tempo e rappresentano il suo know-how complessivo e differenziano le imprese una dall’altra. Path dependance: la dipendenza da eventi, anche se non più rilevanti, lungo il percorso dell’impresa possono avere conseguenze significative in tempi successivi. Gerarchia verso Mercato. La gerarchia rappresenta la soluzione più efficiente quando la transazione è complessa e implica il sostenimento di elevati investimenti specifici. Permette di ottenere un efficace adattamento a quei cambiamenti che richiedono una risposta coordinata, ovvero quando vi è un’alta probabilità che più soggetti reagiscono in modo disorganizzato di fronte ad una nuova situazione. Gli scambi di mercato consentono una elevata rapidità di adattamento ai cambiamenti esterni, poiché ogni contraente può terminare in qualsiasi istante la relazione, e forniscono incentivi potenti ai soggetti coinvolti, poiché le azioni da essi intraprese sono strettamente collegate ai risultati che percepiscono. 26. Chi sono i first mover e perché rivestono importanza nella dinamica del cambiamento? Il nuovo concetto di first movers viene introdotto per la prima volta nell’opera Scale and Scope di Alfred Chandler, storico statunitense, le cui riflessioni in tema di storia d’impresa si focalizzano sull’innovazione al centro del sistema organizzativo. Le sue 3 opere principali sono: Strategia e struttura (1962), La mano visibile (1976), Scale and scope (1990). In quest’ultima opera del periodo di maturità, Il quadro interpretativo chandleriano evolve con l’introduzione di concetti come quello riferito alle imprese first movers, in ambito di innovazione e dinamismo infatti è importante chi si muove per primo, in quanto ha la possibilità di cogliere nuove opportunità ed ha una capacità di innovazione tale da modificare anche l’ambiente esterno. Le imprese quindi che per prime seppero cogliere le opportunità di crescita collegate a quel cluster di innovazioni comunemente associato alla teoria d'impresa. I limiti dell’impostazione neoclassica erano: l’ipotesi che il manager fosse anche il proprietario, assenza di spiegazioni in merito a come venivano prese le decisioni, e non chiare variazioni delle dimensioni verticali dell’impresa. Coase infatti nella sua opera si interroga sul motivo per cui tante attività economiche si svolgono al di fuori del mercato e all'interno delle imprese, e indaga sulla caratteristica distintiva delle imprese rispetto ai mercati. Secondo coase all'interno delle imprese non si usa il meccanismo dei prezzi per allocare le risorse ma si fa ricorso all'autorità. Il ricorso all'autorità, piuttosto che il meccanismo dei prezzi, comporta che si evitino i costi derivanti dall'uso del mercato, ovvero i costi di transazione. Coase oltre ad una concettualizzazione in merito ai costi di transazione, ha posto anche le basi della nuova economia industriale e ha permesso il superamento della teoria economica tradizionale, proprio per questo ha suscitato diverse reazioni per i successivi 30/40 anni fino a Williamson. L'economista statunitense Williamson, è noto soprattutto per i suoi studi sui costi di transazione, ha come punto di partenza la medesima problematica di coase: che cos'è un'impresa e perché esiste? Sulla base dei lavori di coase, e trent’anni dopo la pubblicazione di “the nature of the firm”, Williamson propone una lettura d’insieme delle relazioni contrattuali che presiedono all’esistenza dell’impresa. Come già visto con coase, williamson spiega l’alternativa tra gerarchie e mercati in termini di costi di transazione, ma il suo contributo principale consiste nell’aver analizzato a fondo le condizioni in cui avvengono queste transazioni e nell’aver spiegato, quindi, l’insorgere dei costi ad esse relativi: si tratta dell’economia dei costi di transazione.L'impresa, dunque è vista come una struttura di governo specializzata idonea a ridurre i costi di transazione attraverso scelte organizzative di internalizzazione o di esternalizzazione delle transazioni stesse. 27. Sombart e il "capitalismo moderno" Sombart, nato e vissuto in Germania, viene considerato come uno dei più importanti rappresentanti della scuola austriaca tedesca. Le opere di Sombart sono plasmate dal contesto storico in cui visse caratterizzato da traumatici cambiamenti politici. Ad Inizio Novecento, in Germania, prevalsero i desideri di potere ed espansione: dall’espansionismo imperialistico, alla Prima Guerra mondiale per estendere l’egemonia tedesca. Lotta economico-politica con l’Inghilterra. La sconfitta della Germania, poi nel 1933 quando la crisi del 29 ha colpito tutti, la Germania si riarma e si arriva alla 2° GM. La germania infatti attraversò un periodo di forte crisi tra la prima e la seconda guerra mondiale caratterizzato da un fermento culturale i cui tratti essenziali possono essere riassunti in: idealismo, positivismo, socialismo, nazionalismo e economia storica. L’opera di Sombart infatti aveva l’obiettivo di fondere tutti questi indirizzi per formulare una definizione sistemica di capitalismo. Sombart interpretò il capitalismo come un’evoluzione di sistemi successivi della vita economica: precapitalismo, capitalismo e postcapitalismo. Ogni fase sarebbe stata caratterizzata da uno “spirito”, ovvero da un insieme di fattori, tradotti in azione economica. Ne “il capitalismo moderno”, sombart attraverso l’individualismo metodologico, vuole spiegare il processo di mutamento a partire dalle motivazioni specifiche dei soggetti e dalle conseguenze delle loro azioni. Si tratta di un’opera che più che valore teorico ha un valore storico, perché descrive bene le origini del capitalismo e la sua evoluzione fino al novecento. Le forze motrici dello sviluppo vanno cercate in quei soggetti che si fanno portatori di una nuova mentalità economica e introducono cambiamenti nella combinazione dei fattori produttivi. Secondo Sombart, le forze motrici del cambiamento sono gli imprenditori, in quanto portatori di una nuova mentalità economica. Il loro agire è influenzato dalle istituzioni, come la religione e gli ordinamenti giuridici, ma la nuova mentalità imprenditoriale scaturisce fondamentalmente da due fattori: spirito imprenditoriale, rappresentato dall’aspirazione al potere, che viene a sua volta, dalla volontà di affermazione e riconoscimento sociale ovvero lo spirito borghese, capace di assicurare ordine e precisione. In definitiva lo spirito capitalista è la fusione dello spirito imprenditoriale e dello spirito borghese, per cui l’imprenditore capitalista rappresenta la forza motrice dell’economia nell’epoca del capitalismo. 28. Quali sono le dinamiche di espansione dell'impresa secondo la penrose? Penrose, è stata un influente economista di origini britanniche, nella sua opera del 1959, the theory of the growth of the firm, la penrose definisce l’impresa come un insieme di risorse, materiali e umane , coordinate da un’organizzazione amministrativa, allo scopo di produrre beni e servizi da vendere sul mercato in cambio di un profitto. Ciascuna impresa è unica, non tanto per le sue risorse, quanto per l’eterogeneità dei servizi che quelle risorse possono fornire. Tutto ciò avviene attraverso un piano d’attuazione: l’impresa, attraverso l’esperienza, maturata nuove conoscenze, che portano ad una maggiore efficienza e insegnano a risparmiare risorse; queste risorse rese libere creano uno squilibrio temporaneo, ma danno allo stesso tempo la misura dell’ulteriore crescita che può seguire l’impresa. Le risorse sono rappresentate da tutte le opportunità che un’impresa può cogliere per la sua crescita e derivano dalla sua specifica esperienza, dai suoi programmi e dal suo capitale umano. Dunque, la presenza di risorse inutilizzate rappresentano per un management “intraprendente” la sfida a innovare. In un contesto d’incertezza, il management deve essere in grado di identificare le “opportunità produttive” e di agire di conseguenza: la teoria della crescita dell’impresa è, quindi, essenzialmente un’indagine sull’evolversi delle opportunità di produzione delle imprese che tuttavia svaniscono se l'impresa non si rende conto delle possibilità di espansione, oppure non intende o non è in grado di utilizzarle. I limiti alla crescita delle imprese quindi possono essere la capacità e le conoscenze del management. Penrose quindi identifica l’impresa come una realtà dinamica, di spirito imprenditoriale, che influiscono strategicamente sul mercato alterandone i parametri tecnologici, produttivi e organizzativi. 31. Chandler e le sue principali opere Lo storico statunitense Alfred Chandler scrisse diverse opere tra le più importanti delle quali vengono considerate: - Strategia e struttura del 1962. Espone nuovi concetti e descrive le dinamiche del cambiamento delle strutture organizzative. - La mano visibile (1976) con la quale nel 1978 venne insignito del premio Pulitzer. Trattato storico sull’evoluzione del sistema d’impresa americano, con particolare attenzione alle strategie di crescita e alle trasformazioni degli schemi organizzativi delle imprese statunitensi. - Scale and scope. Fu introdotto il nuovo concetto riferito alle imprese first movers: le imprese che per prime colsero nuove opportunità di cambiamento e di crescita ed apportarono innovazioni nel periodo della seconda rivoluzione industriale, furono in grado di competere nei nuovi settori, grazie ai loro grandi impianti e ad una elevata disponibilità di capitale, e riuscirono a sfruttare economie di scala e di scopo. Chandler tracciò il c.d. paradigma chandleriano che è uno schema che sta alla base della Storia d’impresa che si diffuse alla fine degli anni ‘70 in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Giappone. Tale paradigma deriva da una imponente indagine che Chandler condusse con innovata metodologia negli anni ’60 sulle maggiori imprese statunitensi. Tale analisi si incentra sulla focalizzazione dei mutamenti intervenuti nelle condizioni di produzione interne in relazione alle condizioni di mercato esterne che portano a soluzioni organizzative diverse dal modello classico gerarchico-funzionale proprio delle imprese personali. L’evoluzione e l’espansione della grande impresa americana si caratterizzava per l'integrazione all'interno dell'impresa dei processi di produzione e di distribuzione; per la diversificazione del prodotto; per l'amministrazione manageriale in forma multidivisionale; per le economie di scala consentite dalle tecniche di lavorazione continua e meccanizzata e per le grandi dimensioni del mercato statunitense. Ciò contribuì allo sviluppo di tecnologie labour saving e al processo di meccanizzazione mediante l’adozione della catena di montaggio. Prese così avvio un processo di integrazione delle attività produttive dal quale sarebbero ben presto emerse poche grandi imprese dominanti. Questa concentrazione comportò che la «mano visibile» della grande impresa si sostituisce progressivamente alla «mano invisibile» del mercato. 32. Chandler e Schumpeter: analogie e differenze Pensiero comune di Chandler e Schumpeter è che l’innovazione rappresenta il motore del cambiamento, ma mentre per il primo autore tali cambiamenti sono dovuti alla gerarchia manageriale, per Schumpeter il regista è l'imprenditore. Chandler tracciò il c.d. paradigma chandleriano che è uno schema che sta alla base della Storia d’impresa che si diffuse alla fine degli anni ‘70 in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Giappone. Tale paradigma deriva da una imponente indagine che Chandler condusse con innovata metodologia negli anni ’60 sulle maggiori imprese statunitensi. Tale analisi si incentra sulla focalizzazione dei mutamenti intervenuti nelle condizioni di produzione interne in relazione alle condizioni di mercato esterne che portano a soluzioni organizzative diverse dal modello classico gerarchico-funzionale proprio delle imprese personali. L’evoluzione e l’espansione della grande impresa americana si caratterizzava per l'integrazione all'interno dell'impresa dei processi di produzione e di distribuzione; per la diversificazione del prodotto; per l'amministrazione manageriale in forma multidivisionale; per le economie di scala consentite dalle tecniche di lavorazione continua e meccanizzata e per le grandi dimensioni del mercato statunitense. Schumpeter condusse una serie di studi sui cambiamenti del sistema economico che lo portò a una nuova teoria considerando che lo sviluppo economico dipendeva soprattutto dalle innovazioni tecnologiche avviate dagli imprenditori che avevano avuto accesso al credito delle banche. Schumpeter notò inoltre che nella Storia d’impresa si susseguono ondate di tali innovazioni e giunse alla conclusione che lo sviluppo economico proceda per robuste espansioni seguite da una fase di recessione causata dal rientro dell’economia nell’equilibrio del flusso circolare. La teoria sui cicli economici prevede quindi che esistono cicli di 40 anni di cui 20 di crescita economica rapida e 20 di recessione. Il ruolo propulsore dello sviluppo economico è attribuito da Schumpeter all’imprenditore, che è tale proprio per la sua intuizione e per la capacità di attuare scelte innovative e temerarie. Nelle opere di Schumpeter troviamo una evoluzione del concetto di imprenditore tanto che si distingue un primo Schumpeter, volto a valorizzare le figure dei singoli imprenditori e un secondo Schumpeter, più interessato ad analizzare l’evoluzione delle strutture organizzative interne all’impresa. 33. Cosa sono le capabilities e perché sono rilevanti nella dinamica del cambiamento? Con il termine capabilities si rappresentano le competenze e le potenzialità dell'impresa che sono il risultato dell’apprendimento e dello sviluppo delle 66 conoscenze maturate nel tempo dall’impresa stessa. Rappresentano il suo know-how complessivo e costituiscono l’elemento cruciale per differenziare le imprese una dall’altra e creare così un vantaggio competitivo Ciascuna impresa è unica, non tanto per le risorse possedute, quanto per l'eterogeneità dei servizi che le stesse risorse possono fornire: l’impresa,attraverso l’esperienza maturata nuove capabilities che portano ad una maggiore efficienza e insegnano a risparmiare risorse che, nel mentre determinano uno squilibrio temporaneo, allo stesso tempo danno la misura dell’ulteriore crescita che può seguire l’impresa. LEZIONE 27 13. Come si è evoluta la disciplina giuridica in materia di bilancio? Il bilancio rappresenta il principale strumento di informazione contabile utilizzato dall'impresa per informare gli stakeholder sul proprio andamento economico e finanziario: per questo ha anche un rilievo sociale.Alla disciplina del bilancio di esercizio il legislatore italiano non ha mai dedicato particolare attenzione: il Codice di commercio del 1882 prevedeva al riguardo un solo articolo nel quale venivano espresse regole attinenti alle funzioni ed al contenuto del bilancio che prevedevano il riconoscimento di più estesi diritti alle minoranze, un sistema di ampia pubblicità degli atti sociali, una più severa considerazione degli atti degli amministratori, sull’operato dei quali doveva vigilare il collegio sindacale. Il Codice civile del 1942 introdusse una disciplina più organica, con la previsione di un contenuto minimo dello stato patrimoniale,fissando un complesso di regole e di criteri di valutazione. Mancava, tuttavia,qualsiasi normativa in tema di conto profitti e perdite e di relazione degli amministratori. Queste lacune furono colmate con l'emanazione della mini riforma del 1974, che prevedeva la presentazione dettagliata del conto profitti e perdite (conto economico). Le modificazioni apportate dal legislatore alla disciplina del bilancio di esercizio con la riforma del 1991 sono più significative riguardano la struttura dei documenti contabili, il contenuto della relazione degli amministratori (la relazione sulla gestione e la nota integrativa) e le regole di valutazione. 16. Weber pubblicando e l'etica protestante del capitalismo. Contenuti e critiche Weber è stato uno studioso dai molteplici interessi, e la sua influenza sulle scienze storiche, sociali, politiche e filosofiche del Novecento è stata notevole. Al centro della sua opera sta la grande questione dello sviluppo del razionalismo nella civiltà occidentale. Al principio del Novecento iniziò a scrivere le sue opere più note, pubblicate negli anni successivi: gli studi su Il metodo delle scienze storico-sociali (1922), il celebre saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), la Sociologia della religione (1920-21) e il suo capolavoro, Economia e società. All'inizio del Novecento quando Max Weber pubblicò il saggio molto provocatorio dal titolo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, l’idea originale era quella di mettere in relazione lo sviluppo economico con l'etica religiosa. La religione, infatti, interviene su quella parte di vita umana dedicata agli affari, con finalità etiche. Si esprime, ad esempio, sugli effetti delle attività economiche nella sfera spirituale dell'individuo; fornisce dei giudizi di valore su categorie che comunque appartengono alla sfera economica, come ad esempio la povertà, il lavoro, l'avidità, la pigrizia, la prosperità commerciale, la diligenza la prudenza e la sobrietà negli affari. Weber espone la sua tesi secondo cui il protestantesimo avrebbe causato la crescita economica capitalistica, in quanto sostituendosi all'etica cristiana rivaluta la figura dell'imprenditore postulando che l’affermazione in campo economico nella vita terrena può rappresentare un mezzo di avvicinamento alle salvezza eterna. Per illustrare la sua tesi in base alla quale il protestantesimo determinò lo spirito capitalista, Weber prende le mosse da una constatazione: in Germania, i membri più autorevoli della classe capitalistica e delle stesse "aristocrazie operaie" di mentalità più moderna erano, in grande maggioranza, protestanti. Secondo Weber, il protestante (inteso come “tipo ideale”) è serio, metodico, ordinato, mette in atto un tipo di condotta eminentemente razionale, le cui radici affondano in una morale di origine confessionale che nulla concede alla soddisfazione delle gioie della vita. L'aspetto che maggiormente viene criticato è questo rapporto causa-effetto unidirezionale tra etica protestante e sviluppo capitalistico. Gli storici sostengono invece che più di rapporto unidirezionale sarebbe giusto parlare del feedback fra etica ed economia intendendo con esso che le due variabili si influenzano a vicenda. Inoltre hanno individuato un precedente del protestante ideale del monaco cristiano. 17. Cosa s'intende per ambiente socioculturale e in quale misura può incidere sull'esistenza delle imprese L'ambiente socio culturale è legato alla cultura e alla società. e, il termine cultura ha due significati fondamentali. Il primo, di origine antica, indica un processo di formazione individuale, fondato sull'apprendimento di alcuni saperi, il cui scopo è lo sviluppo equilibrato e completo della personalità umana. Il secondo significato, formatosi tra il 18° e il 19° secolo, indica invece l'insieme dei modi di vivere, esprimersi e pensare che caratterizzano un qualsiasi gruppo umano. Il termine "cultura" è alquanto incerto, ma in questo contesto lo utilizzeremo nella sua accezione più totalizzante, e cioè quale sinonimo di civiltà o di civilizzazione, utilizzata anche dalle altre scienze sociali, come la sociologia e la antropologia.La cultura è intesa come un sistema di credenze, costumi, comportamenti che caratterizzano un particolare gruppo. Ci sono diversi tipi di cultura proprio perché la cultura è l’espressione della realtà sociale di appartenenza.Queste definizioni possono essere rielaborate in strumenti interpretativi per la teoria di impresa: In quest'ottica le componenti della cultura sono i valori e le credenze condivise. 1) Valori: definiscono ciò che è considerato importante in una cultura. I valori sono le idee e le sensibilità. Guidano gli esseri umani nella loro interazione con l'ambiente sociale. i valori veicolano informazioni riguardo a ciò che è giusto o sbagliato; 2) le credenze contengono informazioni riguardo a ciò che è vero o falso. Il tema delle “credenze condivise” è riconducibile a espressioni molto usate in sociologia. In particolare il riferimento è a Émile Durkheim. Questi, ponendosi il problema del perché la società mantenga un livello minimo di coesione, ritiene che ogni società si stabilisca e permanga solo se si costituisce come comunità simbolica. Nel suo studio, e in quello dei suoi allievi, hanno una grande importanza le rappresentazioni collettive, cioè insiemi di norme e credenze condivise da un gruppo sociale, sentite dagli individui come obbligatorie. Esse sono considerate da Durkheim vere e proprie istituzioni sociali che costituiscono il cemento della società, consentendo la comunicazione tra i suoi membri e mutando con il cambiamento sociale. 18. Cosa vuol dire path dependence La path dependence, ovvero la dipendenza dal percorso, è la concezione secondo cui piccoli eventi del passato, anche se non più rilevanti, possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata. L’apprendimento e lo sviluppo delle conoscenze sono influenzati infatti da differenti variabili: il rischio e l’incertezza, la razionalità limitata, gli aspetti di path dependence, ovvero, di dipendenza dal percorso compiuto sino a un dato momento. Vi sono diverse ragioni per cui si incontrano effetti di path dependence nell’evoluzione delle organizzazioni e delle istituzioni. Esse, infatti: - amalgamano esperienze storiche comuni e una consapevole percezione del passato, - incorporano codici per il trattamento delle informazioni e per la comunicazione, che sono irreversibili, producono meccanismi di conoscenza e una cultura di impresa, che costituiscono una sorta di capitale a perdere.Le strette relazioni esistenti tra le diverse funzioni organizzative dell’impresa contribuiscono a dare ulteriore forza a quella specifica struttura organizzativa, così come si è andata formando nel tempo. 19. Che genere di relazione intercorre tra l'impresa e il contesto nel quale opera Esiste una relazione molto stretta tra impresa e contesto, nel senso che le idee si determinano. L'impresa infatti reagisce ai condizionamenti di carattere esogeno cioè di contesto (costituito ad esempio dal quadro politico e normativo. dalla cultura, dall'etica e dall'atteggiamento che le diverse società possono avere nei confronti dell'impresa) ma esso o sua volta riesce ad influenzare l'ambiente circostante. Parlando dell'ideologia potremmo parlare di quella del sansimonismo francese che ostacolava l'impresa '(teorizzava. un. stato proprietario di tutte le ricchezze delle nazioni, e il nazionalismo tedesco pro impresa (sviluppo e supremazia nazionale) il protestantesimo di weber pro, in opposizione al cattolicesimo etc. 25. Cosa intendiamo per politica istituzionale? Si tratta del flusso di decisioni prodotte dalle istituzioni politiche che direttamente o indirettamente si ripercuotono sulla vita quotidiana di individui, famiglie, gruppi, aziende, cioè sui processi e sulle interazioni tra molteplici attori, privati e pubblici, collettivi e individuali, attraverso i quali vengono perseguite soluzioni per problemi aventi rilevanza collettiva. L’impresa deve pertanto confrontarsi con il potere pubblico che gestisce il mercato in cui si trova ad operare, per cui si è creato un rapporto diretto tra impresa e stato, la cui politica istituzionale ha assunto un ruolo di preparazione, stimolo e sostegno per la nascita e lo sviluppo di un moderno sistema economico. Le attività istituzionali sono condotte da un'autorità superiore alle parti, grazie ai suoi i poteri impositivi, alla potestà di legiferare, all’uso della forza quando necessario, e all'esercizio della giustizia. Si distinguono due tipi di azioni istituzionali : la progressiva riduzione dei costi di transazione (costi necessari a far funzionare il mercato) e la creazione di istituzioni (diritti di proprietà). Questa attività si è svolta soprattutto durante l'età moderna grazie alla politica istituzionale e legislativa, che è forse la forma meno evidente di intervento statale, ma sicuramente la più duratura e continua. LEZIONE 37 01. Cosa sono le imprese conglomerate? Si definiscono imprese conglomerate società o gruppi di società fortemente e ampiamente diversificati che operano in una pluralità di ambienti economici eterogenei . La strategia di diversificazione può assumere due diversi aspetti: la diversificazione correlata che prevede l'espansione dell'impresa in linee di prodotto contigue al core business per caratteristiche tecnologiche produttive o per modalità di marketing distribuzione; la diversificazione non correlata che attua la diversificazione in settori distanti dal core business. Da quest’ultima si origina l'impresa conglomerata, particolarmente diffusa negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. I gruppi di imprese costituiscono una forma precoce di impresa conglomerata. Dal punto di vista giuridico sono tra loro autonome, ma in pratica sono assoggettate ad un unico soggetto economico. Le imprese che fanno parte del I gruppi sono collegati tra di loro sul piano finanziario ed organizzativo. 02. Per quali ordini di ragioni la storiografia d'impresa ha sempre descritto le grandi imprese? Quali fondamenti storici ha il paradigma chandleriano? Perché sarebbe limitativo, oggi, descrivere solo la storia della grande impresa? La storiografia d'impresa ha sempre descritto le grandi imprese per i seguenti ordini di ragioni: - per ragioni pratiche in quanto su di esse gli storici hanno avuto maggiori fonti di informazione per analizzare transazioni interne ed esterne; - per ragioni metodologiche collegate ad aspetti conoscitivi in quanto, essendo le grandi imprese più longeve, gli storici hanno la possibilità di attingere a maggiori informazioni e dati pubblicati; - per ragioni socio economiche dovute alle grandi dimensioni del mercato statunitense e quindi alla grande disponibilità di informazioni. Il paradigma chandleriano è uno schema tracciato da Chandler che sta alla base della Storia d’impresa che si diffuse alla fine degli anni ‘70 in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Giappone. Tale paradigma deriva da una imponente indagine che Chandler condusse con innovata metodologia negli anni ’60 sulle maggiori imprese statunitensi. Tale analisi si incentra sulla focalizzazione dei mutamenti intervenuti nelle condizioni di produzione interne in relazione alle condizioni di mercato esterne che portano a soluzioni organizzative diverse dal modello classico gerarchico-funzionale proprio delle imprese personali. L’evoluzione e l’espansione della grande impresa americana si caratterizzava per l'integrazione all'interno dell'impresa dei processi di produzione e di distribuzione; per la diversificazione del prodotto; per l'amministrazione manageriale in forma multidivisionale; per le economie di scala consentite dalle tecniche di lavorazione continua e meccanizzata e per le grandi dimensioni del mercato statunitense. Descrivere oggi solo la storia della grande impresa sarebbe limitativo perché la maggiore disponibilità di informazioni riguardanti anche le piccole e le medie imprese può darci una visione più realistica di quella risultante dalle indagini relative esclusivamente alla grande impresa. 03. Quali sono gli indicatori che ci consentono di poter valutare la performance dell'impresa? Lo studioso Cassis ha suddiviso gli indicatori che permettono di valutare la performance dell’impresa in cinque categorie: - dimensione, in quanto la crescita dimensionale è associata a strategie competitive vincenti; è misurabile con la quota di occupazione e produzione. - rendimento, calcolato sulla base di indici di redditività. - sopravvivenza o longevità, misurata in termini assoluti oppure in riferimento a determinate categorie di ranking. - competitività misurabile come quote di mercato o produttività. - etica e reputazione , che implicano valutazioni di tipo qualitativo, quali l’impatto ambientale o la creazione di nuove opportunità di lavoro. Per Chandler i migliori indicatori per valutare il successo di un’impresa sono la sua longevità e la sua permanenza ai vertici del sistema. Comunque, gli studi disponibili sono scarsi, riguardano quasi esclusivamente imprese di grandi dimensioni e sono stati condotti sulle base di due variabili per le quali è stato possibile ricostruire l’andamento di lungo periodo: longevità o sopravvivenza e redditività o profittabilità. Con riferimento al primo punto si è dimostrato che ciò che caratterizza maggiormente il campione nella lunga durata è la turbolenza piuttosto che la continuità. Per quanto riguarda la redditività del capitale, i ricercatori hanno utilizzato principalmente il ROE che è un indice generico della redditività del capitale, che risulta molto sensibile alle strategie fiscali. Altri indici di redditività sono il ROS costituito dal rapporto tra risultato operativo e fatturato e il ROI che indica la redditività e l'efficienza economica della gestione a prescindere dalle fonti utilizzate esprime quanto rende il capitale investito nell'azienda. 04. Qual è l'indicatore maggiormente utilizzato per descrivere la redditività delle imprese e come si calcola? L’indicatore maggiormente utilizzato per descrivere la redditività delle imprese è il ROE (Return On Equity), un indice generico della redditività del capitale, che in sintesi esprime i risultati economici dell'azienda. È una percentuale per cui il reddito netto (RN) prodotto è rapportato al capitale netto (CN) o capitale proprio. 09. Come possiamo definire i distretti industriali? Il distretto industriale, secondo Marshall, non è semplicemente una forma organizzativa del processo produttivo, ma un "ambiente sociale" in cui le relazioni tra gli uomini e le loro propensioni verso il lavoro, il risparmio e il rischio presentano caratteristiche particolari. Marshall definiva queste caratteristiche particolari "atmosfera industriale". Con questo concetto si voleva sottolineare che all'interno del distretto la comunità e il sistema delle imprese erano elementi indivisibili e che condividevano gli stessi valori. Era l'atmosfera industriale a garantire forti economie esterne alle piccole imprese e quindi a dare competitività all'intero sistema. Questa teoria è stata rielaborata in Italia Da Becattini secondo il quale il distretto industriale è definito essenzialmente come un’entità socio territoriale caratterizzata dalla agglomerazione di imprese di piccola e media dimensione, specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e tra loro integrate mediante una rete di relazioni di carattere economico sociale. La stretta relazione che si instaura nel distretto fra comunità ed imprese è il fattore chiave che spinge all’innovazione, alla conoscenza, alla qualità. Le caratteristiche determinanti del distretto industriale nella concezione di Becattini sono : 1. Una comunità locale come sistema omogeneo di valori e di istituzioni, che si esprime in termini di etica del lavoro, della produzione, della famiglia; 2. L’agglomerazione di imprese ciascuna specializzata in una o in poche fasi del processo di produzione tipico del distretto; 3. le risorse umane: si va dal lavoro a domicilio a quello salariato, dall’attività autonoma a quella imprenditoriale, con posizioni lavorative particolarmente variegate e sempre aggiornate; 4. il mercato di riferimento: flessibile e specializzato, non vasto ed omogeneo. A ciò si può aggiungere una rete stabile di collegamenti con i fornitori e i clienti al di fuori del distretto che porta ad ampliare gradualmente la sua azione fino a raggiungere una dimensione regionale, nazionale e internazionale. 10. Cosa sono e come si sono evolute le imprese cooperative? Alla pari di molteplici forme no profit non rientrano tra le tipologie di imprese capitalistiche, le loro strategie sono subordinate al logiche etico- sociali. Le imprese cooperative sono società a capitale variabile create da soggetti fisici e/o giuridici che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali attraverso un’impresa a proprietà comune, controllata democraticamente. Si tratta di enti che non perseguono fini di lucro, ma che hanno lo scopo mutualistico di fornire ai soci a condizioni favorevoli beni, servizi o occasioni di lavoro. La cooperativa è un’azienda in grado di produrre ricchezza che però deve essere reinvestita nell’azienda. Il patrimonio societario è indivisibile e i soci lo gestiscono al meglio per consegnarlo alle generazioni future. La cooperativa è un’impresa che vede la partecipazione attiva e paritaria dei soci alle decisioni imprenditoriali ed ogni socio ha diritto a un voto in Assemblea, indipendentemente dal valore della propria quota di capitale. Le cooperative sono di due tipi: a responsabilità illimitata, se alle obbligazioni sociali rispondono tutti i soci solidalmente e illimitatamente; a responsabilità limitata, se ciascun socio risponde nei limiti della quota conferita. L’origine delle imprese cooperative risale, in Europa, all’epoca della rivoluzione industriale e trae ispirazione dalle idee del socialismo utopistico e del movimento sociale cattolico. La nascita delle cooperative può farsi risalire in Inghilterra nel 1844 quando un gruppo di tessitori spinti dalla pesante crisi economica decise di costituire nella cittadina di Rochdale il primo spaccio cooperativo di consumo con lo scopo di migliorare la situazione economica dei soci. Oltre all’iniziativa britannica, la storiografia ricorda altri tre modelli di cooperazione in Europa: quello francese, caratterizzato soprattutto dallo sviluppo di cooperative di produzione; - quello tedesco, particolarmente intenso nel settore del credito, con le prime casse rurali; quello scandinavo, con l’ampia diffusione di cooperative agricole, specie latterie e caseifici sociali. 11 Che relazione c'è tra dimensione di impresa, produzione netta, e quota occupazionale? Tra queste definizioni c’è una profonda correlazione in quanto normalmente la maggiore dimensione dell’impresa determina una maggiore produzione netta da di cui, a sua volta, discende una maggiore quota occupazionale. Un classico esempio di questo si rileva nel grande sviluppo delle società ferroviarie cui corrisposero altissime percentuali di investimenti e di manodopera. Ma questo assioma non sempre è infallibile, in quanto in alcuni casi la mega impresa è più vulnerabile ai cambiamenti e alle innovazioni in quanto la sua complessa burocraticità organizzativa provoca tempi di risposta a volte troppo lunghi. Al contrario, le piccole e medie imprese a carattere familiare e i distretti altamente flessibili molto diffusi in Italia hanno spesso dimostrato tempi di reazione molto più brevi che hanno permesso aumenti di produzione netta e maggiore occupazione. Inoltre, la struttura dimensionale delle imprese dipende anche dalla storia e dalla specificità di ogni singolo Paese. La crescita economica dell’Italia rimane ancora tra le più lente d’Europa e la produttività risulta la meno dinamica tra i paesi del G7. Nel sistema produttivo italiano è viva una questione dimensionale, che ha nei risultati delle imprese più piccole uno dei nodi cruciali per lo studio della produttività e dell’occupazione. Le poche imprese medio-grandi e grandi, sono produttive e competitive mentre le PMI soffrono di un ritardo di produttività. Tali imprese tendono a investire meno in capitale umano, innovazione e capitale intangibile. La distribuzione dimensionale italiana può quindi spiegare il basso tasso di adozione di nuove tecnologie, soprattutto digitali, e di conseguenza la divergenza della dinamica della produttività in Italia rispetto agli altri paesi europei. 05 Cosa vuol dire "responsabilità sociale dell'impresa"? La responsabilità sociale dell’impresa è, nel gergo economico e finanziario, l'ambito riguardante le implicazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà di grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. Oggi l'impresa si trova a tessere una intricata rete di relazioni con l'ambiente circostante tanto che si parla di responsabilità sociale della stessa proprio per sottolineare come sia al centro degli interessi di una molteplicità di stakeholders rappresentati da soci, azionisti, clienti, fornitori, partner finanziari, ecc. La gestione e governo d’impresa, detta corporate governance, è strettamente correlata alla responsabilità sociale. In questa ottica la strategia dell'impresa determina le mete fondamentali e gli obiettivi di lungo periodo che concorrono alla pianificazione dello sviluppo dell'impresa. I comportamenti delle imprese possono riguardare tanto la strategia quanto la struttura. La struttura è la progettazione, la costruzione e l'amministrazione dell'organizzazione, attività necessarie per attuare con successo le strategie prefissate. Le relazioni tra strategia e struttura sono particolarmente fitte, perché l'impresa si trova in un'intricata rete di relazioni con e verso l'ambiente. Per questo oggi si parla di responsabilità sociale dell'impresa proprio per sottolineare come essa sia al centro degli interessi di una molteplicità di stakeholders che, a partire dai soci e gli azionisti, coinvolge anche gli enti locali, la pubblica amministrazione, le comunità e l’ambiente, i clienti, i fornitori, i partner finanziari. L'impresa socialmente responsabile è quella che sceglie volontariamente di rispettare determinati parametri relativi a ciascuno di questi soggetti. 06. Cosa si intende per analisi scientifica del bilancio L’espressione “analisi scientifica” del bilancio denota le capacità segnaletiche e predittive di valutazioni incentrate su alcuni quozienti di sintesi, elaborati dalla dottrina aziendale americana a partire dalla fine del XIX secolo: essi erano calcolati rapportando tra loro grandezze significative dello stato patrimoniale. L’etichetta di scientificità attribuita alla ratio analysis a ben vedere, alle nuove e complesse forme organizzative che andava assumendo sempre più l’industria americana erano necessari nuovi strumenti di comunicazione all’interno dell’impresa, in modo che il flusso di informazioni dall’alto verso il basso, e viceversa, si facesse più rapido ed efficiente, facilitando il controllo di gestione. Inoltre, la valutazione di bilancio divenne un caposaldo della politica creditizia degli intermediari finanziari e della stessa gestione dell’impresa da parte del management per rispondere alle seguenti trasformazioni:1) del processo di separazione tra proprietà e controllo; 2) del crescente ricorso al mercato finanziario per il reperimento dei fondi necessari all’espansione dell’impresa. Oltre alle esigenze da parte delle istituzioni creditizie finanziarie, iniziarono ad assumere notevole rilevanza anche le analisi "interne", che erano indirizzate soprattutto alla valutazione delle capacità reddituali dell'impresa. 07. A quali esigenze risponde la moderna contabilità e come si è evoluta negli Stati Uniti Nasce sul finire del 19º secolo per dare risposta alle nuove esigenze della big business che si andavano affermando soprattutto in America. Si tratta di facilitare il controllo di gestione sia scopi interni che a scopi esterni, il management aveva bisogno di maggiori informazioni per controllare l'evoluzione dell'azienda. Si trattava di un'analisi scientifica basata sullo studio di alcuni quozienti di sintesi elaborati a partire dalla fine del 1800 (i cosiddetti ratio analisi). Per quanto riguarda gli scopi esterni il riferimento è al crescente ricorso al mercato finanziario per il reperimento dei fondi necessari all'espansione dell'impresa. C'è una tendenza a sistematizzare il controllo aziendale e la sua capacità reddituale. Nasce in quegli anni la programmazione e controllo e quindi l'analisi dei costi economici e finanziari, l'analisi per flussi, il budgeting. Nel 1913 nacque il Federal Reserve system secondo cui le banche che affidavano le aziende dovevano fornire alle loro società clienti modelli di bilancio secondo i nuovi standard. A partire dai primi decenni del 1900 furono sviluppate l’analisi reddituale e l'analisi finanziaria più dinamica che introdussero il prospetto del rendiconto finanziario, i flussi di cassa e il principali indici contabili quali il ROI (Return on investment) che rappresenta la redditività del capitale investito; il ROE (Return on equity) che rappresenta la redditività del capitale netto; il ROS (Return on sales) che esprime la relazione tra reddito operativo e fatturato, cioè il margine di profitto sulle vendite. 08. Quali sono le origini della moderna contabilità? Le origini della moderna contabilità possono essere identificate nel periodo prerinascimentale, quando in Italia si intravedono i prodromi della futura impresa capitalistica e al tardo Medioevo cui far risalire la storia della ragioneria. I più antichi esempi di tenuta regolare dei conti nella contabilità pubblica si rinvengono nei c.d. pipe rolls che contengono informazioni sulle risorse finanziarie del governo reale inglese, rivelando entrate ed uscite effettuate dalla tesoreria della Corona Inglese intorno al 1100; nel cartulario, manoscritto medievale contenente la trascrizione di documenti originali relativi alle istituzioni, tenuto dal tesoriere-massaro del comune di Genova (1340). Nel 1400 i contabili veneziani elaborano i primi trattati in materia di tenuta dei conti utilizzando il metodo della partita doppia. I principi della contabilità non si discostano molto fino al XIX secolo, quando si assiste a una notevole evoluzione grazie alla formazione di nuove correnti di pensiero di diverse “scuole”, che studiano della ragioneria con un elevato grado di elaborazione scientifica. Come principale studioso si ricorda Francesco Villa che nel 1850 elaborò i suoi Elementi di amministrazione e contabilità. I principali indici contabili furono successivamente introdotti nella seconda metà del 1900 sono: - il ROI (Return on investment) che rappresenta la redditività del capitale investito. - il ROE (Return on equity) che rappresenta la redditività del capitale netto. - il ROS (Return on sales) che esprime la relazione tra reddito operativo e fatturato, cioè il margine di profitto sulle vendite. 09. Quali sono le caratteristiche del self-service? Il primo negozio con modalità self-service nacque agli inizi del 1900 negli Stati Uniti che negli anni Trenta videro una vera e propria esplosione di supermarket alimentari dove servirsi da soli. L’impatto sulla società americana fu straordinario grazie alle caratteristiche specifiche insite nel concetto del self-service stesso:creazione di ambienti invitanti, spettacolarizzazione nella presentazione dei prodotti; libertà di grandi spazi espositivi. La diffusione in Europa e nei Paesi asiatici fu invece frenata da condizionamenti storici, sociali e culturali: la loro comparsa di attività self-service dovette attendere il secondo dopoguerra, con tassi di sviluppo diversi a seconda delle leggi in vigore e degli atteggiamenti del potere pubblico dei vari Paesi. 12. Quali sono state le tappe del marketing though? La “History of marketing thought” considera quattro tappe, opere, del pensiero del marketing inteso come autonoma disciplina teorica. La prima tappa, era della fondazione che si delinea nel primo ventennio del 1900, è contraddistinta dall affermarsi del Marketing come specifico corso in diverse università, dall evidenziazione degli aspetti della distribuzione e sulle sue possibili ricadute sociali. La seconda tappa è denominata del “consolidamento formale della disciplina”. Tra il 1920 e il 1950 nacquero le prime associazioni professionali , furono pubblicate diverse riviste specializzate e le università istituirono dipartimenti di Marketing. La terza era (fino al 1980) detta del “cambiamento di paradigma” provocato dall’esplosione del mercato di massa e dalla crescita esponenziale delle attività di marketing nel sistema delle imprese, è stata caratterizzata dal maggiore ricorso dei managers specializzati sull’orientamento e i gusti dei clienti, alle scienze quantitative e comportamentali e allo sviluppo del Marketing mix. La quarta ed ultima tappa, dal 1980 ad oggi, è definita l’era della “frammentazione del mainstream”. E’ collegata alla crisi del fordismo e della produzione di massa per cui il marketing though, frammentazione e specializzandosi in diverse esperienze, tende a posizionarsi per fronteggiare le nuove sfide della globalizzazione e della flessibilità. 13. Cos'è il marketing e quando diventa elemento essenziale dell'impresa moderna? Il marketing è l’attività diretta a soddisfare i bisogni e le necessità della clientela attraverso processi di scambio e la coordinazione di risorse della produzione e della distribuzione di beni e servizi per raggiungere gli obiettivi dell’azienda. La diffusione del marketing diventa un elemento essenziale dell'impresa moderna quando si diffonde il fenomeno della produzione e del consumo di massa che porta ad una società caratterizzata da una nuova forma di organizzazione del commercio. Il successo di un’impresa non dipende solo dalle sue abilità produttive, organizzative, dalla sua capacità di innovare, ma anche dalla sua capacità di interagire con il mercato e dal modo in cui essa si pone nei confronti dei suoi potenziali clienti. Il marketing viene praticato massicciamente dai manager d'impresa che si avvalgono anche allo studio delle scienze comportamentali. 14. Qual è il contributo che fornisce la scuola storica evolutiva allo studio del ruolo dell'innovazione all'interno dell'impresa e più in generale dello sviluppo economico? Il contributo che la scuola storico evolutiva fornisce allo studio dell’innovazione è quello di considerare che la natura del progresso tecnico e quindi delle L'innovazione dipende sia da fattori endogeni che esogeni. In precedenza, l’innovazione era considerata dalla scuola classica un prerequisito allo sviluppo dell'impresa, mentre la scuola neoclassica la considerava un fattore esogeno esterno al modello di crescita e quindi da escludere dalle analisi. Il progresso tecnico teorizzato dalla scuola storica evolutiva si fonda sulle considerazioni che lo stesso è un processo evolutivo incerto basato sull'interazione di imprese, istituzioni di formazione e Stato; è un processo cumulativo ma discontinuo in quanto mutamenti tecnologici straordinari possono determinare cambiamenti del paradigma tecnologico; è un processo irreversibile e caratterizzato da livelli diversi di apprendimento che dipendono dalle conoscenze tacite difficilmente trasferibili e dai path dependence. 15. Nella teoria economica come è stata considerata la natura del progresso tecnico? Nel corso del tempo la natura del progresso tecnico nella teoria economica ha avuto diverse interpretazioni. Il contributo che la scuola storico evolutiva fornisce allo studio dell’innovazione è quello di considerare che la natura del progresso tecnico e quindi delle innovazioni dipenda sia da fattori endogeni che esogeni. In precedenza, l’innovazione era considerata dalla scuola classica un prerequisito allo sviluppo dell'impresa, mentre la scuola neoclassica considerava il progresso tecnico un fattore esogeno esterno al modello di crescita e quindi da escludere dalle analisi. Il progresso tecnico teorizzato dalla scuola storica evolutiva si fonda sulle considerazioni che lo stesso è un processo evolutivo incerto basato sull'interazione di imprese, istituzioni di formazione e Stato; è un processo cumulativo ma discontinuo in quanto mutamenti tecnologici straordinari possono determinare cambiamenti del paradigma tecnologico; è un processo irreversibile e caratterizzato da livelli diversi di apprendimento che dipendono dalle conoscenze tacite difficilmente trasferibili e dai path dependence. 16. Qual è la relazione tra progresso tecnico e attività innovativa dell'impresa? Schumpeter attribuiva grande importanza alla attività innovativa dell’impresa in quanto aveva constatato che storicamente le innovazioni epocali favoriscono l'accelerazione della crescita economica e determinano il progresso tecnico dell’impresa. Nel corso del tempo la relazione tra progresso tecnico e attività L'innovazione dell'impresa ha avuto diverse interpretazioni. Il contributo che la scuola storico evolutiva fornisce allo studio dell’innovazione è quello di considerare che la natura del progresso tecnico e quindi delle innovazioni dipenda sia da fattori endogeni che esogeni. In precedenza, l’innovazione era considerata dalla scuola classica un prerequisito allo sviluppo dell'impresa, mentre la scuola neoclassica considerava il progresso tecnico un fattore esogeno esterno al modello di crescita e quindi da escludere dalle analisi. Il progresso tecnico teorizzato dalla scuola storica evolutiva si fonda sulle considerazioni che lo stesso è un processo evolutivo incerto basato sull'interazione di imprese, istituzioni di formazione e Stato; è un processo cumulativo ma discontinuo in quanto mutamenti tecnologici straordinari possono determinare cambiamenti del paradigma tecnologico; è un processo irreversibile e caratterizzato da livelli diversi di apprendimento che dipendono dalle conoscenze tacite difficilmente trasferibili e dai path dependence. 17. Cosa si intende per " produzione snella" e toyotismo? Il toyotismo è il sistema di produzione utilizzato in Giappone dalla fabbrica automobilistica Toyota. La sintesi è data della sua filosofia che "pensare all'inverso". Il flusso produttivo non è più programmato da monte a valle bensì al contrario, muove delle richieste di mercato e da questa rissa alla produzione. Si tratta di un'applicazione dell'organizzazione dell'attività produttiva conosciuta come produzione snella(lean production). La produzione snella si fonda su tre principi:1 il just in time ossia ciascun componente deve arrivare alla linea di produzione nel momento preciso in cui ce n'è bisogno e nella quantità necessaria; 2 l'auto attivazione, degli operai capaci di intervenire rapidamente in situazioni di anomalia della linea 3 il lavoro per squadre, che valorizza la responsabilità e il controllo di qualità e l'autogestione dei gruppi di lavoro. 22. Caratteristiche, pregi e difetti delle strutture monofunzionali, U-form e M-form La struttura mono funzionale : è quella tipica dell'industria americana ed europea fino alla nascita delle ferrovie e delle prime big business. Ha una struttura molto semplice, in cui il proprietario gestisce direttamente l'impresa, affiancato dal collaboratore tecnico o contabile. La nascita della big business comporta importanti innovazioni organizzative gestionali a causa della accresciuta complessità. Nasce la struttura plurifunzionale accentrata (la U form) caratterizzata da linee di comunicazione e autorità rigorosamente gerarchica. si avevano una serie di dipartimenti funzionali (marketing, produzione eccetera) dotati di responsabilità operativa. I direttori di ciascun dipartimento funzionale facevano parte del comitato esecutivo e con il consiglio direttivo pianificava la strategia, quindi non c'era separazione tra organi che si occupavano di decisione strategica e decisione operativa. Si rivelò efficiente per le aziende mono prodotto. Nei primi decenni del novecento questa forma a causa della nascita delle aziende multiprodotto si rivelò inefficiente e fu soppiantata dalla form, struttura organizzativa molti divisionale; dove ogni divisione rappresentava dei centri di profitto autonomi che avevano piena responsabilità operativa (possiamo pensare alla singola divisione come ad una "quasi impresa") si realizzò così la separazione tra le decisioni strategiche e le decisione operativa. 23. In che sequenza si è evoluta la struttura organizzativa della grande impresa negli stati uniti La struttura organizzativa negli stati uniti, a partire dalla rivoluzione industriale e fino agli ultimi sviluppi novecenteschi, passa dallo schema organizzativo monofunzionale, tipico nel periodo della rivoluzione industriale, allo schema plurifunzionale, in qualche modo imposto dall'affermazione delle grandi società ferroviarie, per poi giungere alla più recente struttura multidivisionale. 23. In che sequenza si è evoluta la struttura organizzativa della grande impresa negli Stati Uniti? Negli Stati Uniti le grandi imprese sono passate dalla struttura monofunzionale tipica dei tempi della rivoluzione industriale, allo schema plurifunzionale tipico delle holding adottato su input dell’affermazione delle grandi società ferroviarie, per adottare recentemente la struttura multidivisionale. La holding (H-form) rappresenta un gruppo di imprese controllate da una società capogruppo attraverso partecipazioni azionarie. È pertanto connotata da un forte decentramento strategico ed operativo per cui l’intensità dei legami tra le imprese e tra queste e la capogruppo, dipende dall’intensità delle partecipazioni incrociate. Viene considerata dalla scuola USA come un retaggio del passato, la cui performance è incapace di reggere quella della moderna M-form che viene ritenuta superiore grazie alla sua visione strategica complessiva, alla chiara struttura proprietaria delle sue divisioni, alla razionale combinazione delle sue unità operative e per la netta separazione tra strategia ed attività operativa. L’impresa multidivisionale o M-form si diffuse in USA nel ‘900 come risposta alla diversificazione nel caso di industrie multi prodotto e per le grandi imprese multifunzionali per le quali si adotta una struttura organizzativa più consona che prevede le divisioni (centri di profitto autonomi, organizzate per linee di prodotto o per aree geografiche) che hanno piena responsabilità operativa di breve medio termine e il comitato esecutivo (top management) che mantiene la responsabilità strategica di lungo periodo. Lezione 059 01. Il peso della grande impresa dell'economia italiana Il peso può essere interpretato in molteplici modi, peso significa mettere in relazione qualcosa, questo peso può essere inteso: quanto pesa la grande industria in italia rispetto al resto del mondo (italia e inghilterra) quanto pesa la grande impresa all’interno del sistema italiano (piccola media e grande impresa), quanto pesa la grande impresa nei diversi settori dell’economia italiana, quanto contribuisce al pil, quanto contribuisce all’occupazione, etc.. Il paradigma chandleriano suggerisce che la grande impresa sia l’elemento portante del capitalismo manageriale. e. Storicamente questo si è verificato soprattutto negli USA e in Germania, mentre, ad esempio, una tale trasformazione non è avvenuta in Gran Bretagna. Ciò aveva indotto a credere che la crescita dimensionale avesse interessato soprattutto quei sistemi economici che avevano contribuito con maggior dinamismo alla seconda rivoluzione industriale. Tra le ricerche empiriche volte a dimostrare il peso delle grandi imprese sul prodotto dei vari paesi vi è quella di Toninelli il quale usa l’espressione e “sequoie giganti” per denotare le 100 imprese più grandi di ciascun paese, a cui contrappone quella di “foresta” per indicare tutte le altre imprese. Giannetti e vasta invece hanno cercato di valutare il peso della grande impresa italiana rispetto alle imprese di media e piccola dimensione attraverso il rapporto tra l'attivo delle maggiori 200 imprese e il pil, nell'arco temporale che va dal 1911 al 2001. Tali risultati sono stati riassunti in un grafico dove sono riportate tre serie: la prima relativa alle maggiori 200 imprese in senso assoluto, la seconda contiene soltanto le prime 200 imprese manifatturiere, la terza le 200 migliori imprese di servizi. Dall'andamento delle curve possiamo osservare che: il peso della grande impresa sul pil, nonostante la La minoranza numerica è comunque elevata e l'andamento delle top 200 è crescente fino agli anni ‘70, anche se tuttavia si riduce nel decennio successivo. 05. Le imprese cooperative in Italia Le cooperative hanno una forte base solidaristica poiché la proprietà è indivisa e la gestione coinvolge i lavoratori che fanno parte della cooperativa stessa. Per la costituzione di una cooperativa sono necessari comportamenti solidali, di appartenenza, ma anche di adattamento a eventuali cambiamenti tecnologici, di mercato e organizzativi. In Italia nacquero nella seconda metà del 1800, allora fu fondata la Federazione Nazionale delle Cooperative, trasformata poi in Lega delle Cooperative, sciolta e sostituita dalle corporazioni durante il fascismo. La rinascita avvenne con la fine della dittatura e della II guerra mondiale. Nel periodo tra il 1950 al 2000 ebbero una crescita notevole quasi quintuplicazione da circa diecimila a cinquantamila. L’entrata in vigore di una nuova legislazione nel 2003 (riforma del diritto societario) innova profondamente la disciplina delle società cooperative e rappresenta una sfida alle cooperative per crescere in autenticità e competitività. Infatti la nuova normativa rappresenta una svolta, un cambiamento radicale, una rivoluzione concettuale oltre che operativa. Oggi le imprese cooperative sono società a capitale variabile create da soggetti fisici e/o giuridici che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali attraverso un’impresa a proprietà comune, controllata democraticamente. Si tratta di enti che non perseguono fini di lucro, ma che hanno lo scopo mutualistico di fornire ai soci a condizioni favorevoli beni, servizi o occasioni di lavoro. La cooperativa è un’azienda in grado di produrre ricchezza che però deve essere reinvestita nell’azienda. Il patrimonio societario è indivisibile e i soci lo gestiscono al meglio per consegnarlo alle generazioni future. La cooperativa è un’impresa che vede la partecipazione attiva e paritaria dei soci alle decisioni imprenditoriali ed ogni socio ha diritto a un voto in Assemblea, indipendentemente dal valore della propria quota di capitale. Le cooperative sono di due tipi: a responsabilità illimitata, se alle obbligazioni sociali rispondono tutti i soci solidalmente e illimitatamente; a responsabilità limitata, se ciascun socio risponde nei limiti della quota conferita. 06. Sistemi di imprese distretti industriali in Italia Per quanto riguarda l’economia nazionale è opinione diffusa che l’Italia sia costituita in prevalenza dalle piccole e medie imprese e dai distretti industriali. Il termine “distretto industriale” nasce con Marshall ed inizia così ad essere considerato un concetto socioeconomico. Questa teoria è stata rielaborata in Italia da Becattini secondo il quale il distretto industriale è definito essenzialmente come un’entità socio territoriale caratterizzata dalla agglomerazione di imprese di piccola e media dimensione, specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e tra loro integrate mediante una rete di relazioni di carattere economico sociale. La stretta relazione che si instaura nel distretto fra comunità ed imprese è il fattore chiave che spinge all’innovazione, alla conoscenza, alla qualità. A ciò si può aggiungere una rete stabile di collegamenti con i fornitori e i clienti al di fuori del distretto che porta ad ampliare gradualmente la sua azione fino a raggiungere una dimensione regionale, nazionale e internazionale. Dal 1970 in poi si assiste ad un declino della grande impresa e al recupero delle piccole imprese, tra cui particolarmente dei distretti. Nel 1999 I distretti sono stati formalmente definiti come sistemi produttivi locali caratterizzati da un'elevata concentrazione di imprese industriali, nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese. 07. La dinamica dimensionale delle imprese italiane: discontinuità e continuità La presenza della piccola e media impresa del capitalismo italiano è un dato costante, un esempio di continuità storica. Per tutto il Novecento la media L'impresa italiana rappresenta la dimensione prevalente. Gli storici giustificano tale continuità dimensionale esponendo il concetto di vantaggio comparato: la consistenza delle imprese italiane sarebbe più piccola perché la specializzazione produttiva risente della dotazione di fattori (risorse naturali scarse e abbondanza di lavoro) e si rivolge verso i settori leggeri, dove gli investimenti sulle infrastrutture e sugli impianti sono minori. Tali produzioni riguardano principalmente i settori legati all'agricoltura, all'artigianato artistico e al settore tessile, produzioni che possono contare su un'abbondanza di lavoro a basso costo. La fase di ascesa della grande impresa è legata all'affermazione delle tecnologie della seconda rivoluzione industriale e poiché si basa su economie di scala è prevalse la grande impresa come forma di organizzazione della produzione. Il declino, più marcato a partire dal 1981, dipende dal nuovo regime tecnologico emerso a metà degli anni ’70, caratterizzato dall'introduzione delle tecnologie ICT. 08. Lo Stato e la grande impresa in Italia Secondo il paradigma chandleriano la grande impresa è l’elemento portante del capitalismo manageriale e questo si è verificato soprattutto nell’economia americana e tedesca. Per quanto riguarda l’economia nazionale è opinione diffusa che l’Italia sia costituita in prevalenza dalle piccole e medie imprese e dai distretti industriali, quando invece i dati di Mediobanca relativi agli anni Novanta dimostrano che il fatturato delle prime cento imprese per dimensione incide per oltre il 40% sul totale della produzione industriale, con un grado di concentrazione che si avvicina a quello dei paesi a sviluppo antico. Nonostante le PMI siano prevalenti, il peso della grande impresa è tuttavia rilevante ed incide sul Pil in maniera consistente. D’altra parte, la storia d’impresa economica italiana indica come protagoniste indiscusse del boom economico imprese quali la Fiat, la Finsider, l’Eni, l’Olivetti, l’Italcementi. L’altra peculiarità del caso italiano è la forte connessione fra il big business e lo Stato, a causa della scarsezza di risorse e della sfida tecnologica internazionale che l’Italia si appresta ad affrontare sulla via dell’industrializzazione. Lo Stato si trovò nella necessità di intervenire attraverso il protezionismo sul finire dell’Ottocento, con agevolazioni e sovvenzioni nei primi decenni del Novecento fino ad arrivare ad un vero e proprio salvataggio negli anni Trenta, per evitare il tracollo dell’economia e la dispersione di quanto fino allora compiuto. Alcuni studiosi hanno definito quello italiano come un capitalismo politico, con caratteristiche diverse da quelli manageriale americano e cooperativo tedesco perché, in virtù dell’intreccio fra Stato e industrie, il controllo pubblico delle attività industriali raggiunge dimensioni non consone in un’economia di mercato per la spiccata politicizzazione del mercato. Nel 1933 fu creato l’IRI 1933, istituto per la ricostruzione industriale ideato dal regime fascista per salvare le banche d'investimento e le grandi industrie e che operò efficacemente fino al 1963. A partire da tale data cambiò la visuale politico-economica per cui l’IRI perseguì una policy di assegnazione e distribuzioni di posti e cariche con logiche partitiche. Lo snaturamento dell’IRI e la carenza di personalità competenti, porta alla privatizzazione delle imprese e al suo scioglimento nel 1994. 11. Descrivere la distinzione delle imprese manifatturiere italiane Secondo la definizione dell’ISTAT le imprese manifatturiere italiane fanno parte del settore industriale che si occupa della trasformazione delle materie prime in prodotti finiti destinati al consumo. Comprende una pluralità di ambiti: dalla meccanica, dall'alimentare, al tessile, all’elettronica e risulta in continua evoluzione per meglio rispondere alle mutevoli esigenze di consumo nonché alle innovazioni tecnologiche. Rappresentano la maggior parte del settore secondario che comprende, oltre a quelle manifatturiere, le attività minerarie, delle costruzioni, di produzione e distribuzione dell’energia. Le imprese manifatturiere italiane possono essere distinte in industria pesante che comprende le attività meccaniche, metallurgiche e siderurgiche che producono materiali di base per altre fabbriche, ma anche grandi macchine utensili, treni e navi; e industria leggera che comprende fabbriche che producono beni perlopiù di piccole dimensioni e di largo consumo. L’Italia, presenta uno scenario di aggregazione tra imprese ancora limitato. Solamente il 33% delle imprese che operano nel manifatturiero è in qualche modo aggregato, la stragrande maggioranza risulta operare in maniera isolata. Si è notato quanto le forme di aggregazione siano molto più produttive rispetto a chi opera marginalmente. I distretti industriali, infatti, hanno una produttività superiore del 10%. Negli ultimi dieci anni, la produttività nelle zone distrettuali è aumentata del 9% mentre solo del 2% nelle zone non distrettuali. 12 Potere di mercato e concentrazione delle imprese italiane Con il termine concentrazione si intende la condizione in cui un piccolo numero L'azienda di imprese esercita un alto potere sul mercato. Tale condizione contraddistingue il capitalismo italiano costituito da poche grandi famiglie che detengono il controllo della proprietà dell’azienda. Le famiglie, peraltro, sono le stesse che dominano la scena industriale per decenni, tanto che si può definire il fenomeno come una specie di nuovo feudalesimo. Questa concentrazione, che connota un sistema economico più arretrato, assume sovente la struttura dell’oligopolio, in particolar modo in quei settori industriali che necessitano maggiormente di capitali, quali l’elettrico, il meccanico, il metallurgico e il chimico. A partire dal 1960 la concentrazione diminuisce in conseguenza dell’allargamento del mercato, dell’aumento della concorrenza e per il successivo decentramento della grande impresa intervenuto negli anni 70 per bloccare gli effetti dell'inflazione. Gli economisti valutano il livello della concentrazione prendendo a riferimento parametri quali il numero di addetti, il fatturato, l'attivo totale e il valore aggiunto. Misurano l'evoluzione nel tempo del grado di concentrazione ricorrendo a degli indicatori come l'indice di concentrazione C4, calcolato come la quota percentuale della variabile “attivo totale” delle prime quattro imprese di un paese laddove: C4 > 0,59 = monopolio 0,40 <C4 <0,59 = semi concorrenza C4 <0,40 = concorrenza. 13. I gruppi di imprese in Italia I gruppi di imprese, sia pubblici che privati, caratterizzano il capitalismo italiano. Tra le caratteristiche principali che contraddistinguono il capitalismo italiano bisogna evidenziare che è costituito maggiormente da poche grandi famiglie, che detengono il controllo della proprietà attraverso la H-form. Inoltre, il capitalismo italiano presenta una struttura di tipo piramidale, in quanto ogni azienda, pur apparendo giuridicamente autonoma, appartiene in realtà a un gruppo da cui è controllata. L’attività produttiva è pertanto organizzata in un insieme di società giuridicamente separate ma legate da catene di monitoraggio tali che il capitale posseduto dall’imprenditore che detiene l’effettivo controllo risulta concentrato al vertice in un’unica società, mentre il capitale detenuto dagli altri azionisti si polverizza tra le società sussidiarie tanto da rendere inefficace il diritto di voto. 14. Il controllo dell'efficienza delle imprese italiane? Secondo la moderna teoria economica l'efficienza dell'impresa dipende da come vengono definite le modalità di proprietà e di controllo. Più semplicemente, un'impresa si può dire efficiente quando le regole del governo garantiscono che gli interessi privati non prevalgono rispetto a quelli dell'impresa stessa. In sintesi, affinché un'impresa sia efficiente è necessario che esistano due condizioni: A) assetti istituzionali in grado di assicurare che la proprietà di un'impresa sia determinata da un mercato della proprietà efficiente, ovvero la borsa; B) una governance che impedisca a coloro che la controllano di approfittarne per perseguire obiettivi diversi dal profitto degli azionisti. 15. Quali sono le caratteristiche strutturali dell'impresa italiana? Dallo studio della storiografia italiana è emerso come la grande impresa manifatturiera italiana sia di dimensioni ridotte rispetto a quelle dei principali paesi sviluppati. Giannetti e Vasta propongono uno studio sulle 200 maggiori imprese italiane( in base al rapporto dell’attivo delle varie imprese sul pil) per indagare le caratteristiche strutturali, distinguendo le aziende manifatturiere da quelle dei servizi. Dallo studio è emerso che: 1) per quanto la struttura economica italiana sia composta prevalentemente dalla piccola e media impresa, il peso della grande impresa sul Pil è comunque elevato. 2) l'andamento delle top 200 è crescente fino agli anni ‘70, si riduce nel decennio successivo per attestarsi poi intorno a valori al di sotto del 50%. 3) l'andamento delle prime 200 imprese manifatturiere è pressoché analogo, ed evidenzia in sostanza l'affermazione del regime tecnologico della seconda rivoluzione industriale del paradigma fordista, che a livello globale caratterizzano la crescita economica della cosiddetta golden age. 4) l'andamento della grande impresa dei servizi, invece, è decisamente diverso: la quota dell'attivo sul Pil cresce lentamente e costantemente per tutto il periodo considerato. 5) nel 2001 si assiste al sorpasso delle imprese dei servizi su quelle manifatturiere, segno che il processo di terziarizzazione dell'economia italiana ha raggiunto anche la grande impresa. In generale nei confronti internazionali emergono due cose: la prima come alla vigilia della prima G.M. il settore tessile e abbigliamento legato alla prima rivoluzione industriale risulti fortemente rilevante. La seconda è come nel secondo dopoguerra emergano settori come quello petrolifero dell’automobile delle macchine elettriche che in usa e GBP si erano verificati prima, a testimonianza di come l'italia sia un paese follower. 02. Le privatizzazioni italiane degli anni ‘90 e le autorità di vigilanza e controllo Negli anni 90 la rilevante presenza dello stato, la scarsa presenza di investitori istituzionali e di imprese straniere iniziò a cambiare all’insegna della liberalizzazione finanziaria e dell’integrazione dell’unione monetaria europea. La politica di privatizzazione del patrimonio pubblico industriale e bancario iniziò nel 1992 con la trasformazione di grandi enti pubblici in società per azioni. Le prime operazioni vere e proprie iniziarono nel 1993 sfoltendo società dell'eni e dell'iri; fu anche conclusa l'offerta pubblica di vendita del credito italiano. L'anno successivo iniziarono a essere collocate quote dell'imi e dell'ina. In base alla legge, il processo di privatizzazione doveva essere preceduto dalla liberalizzazione dei mercati, così come era previsto dagli accordi europei. In particolare per i servizi pubblici era però previsto che contestualmente si istituissero delle autorità di controllo, quanto meno nel campo dell'energia delle telecomunicazioni. Per questo nel 1990 nacque l’autorità garante della concorrenza; nel 1997 l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni e nel 1995 l'autorità per l'energia elettrica e il gas. 03. La strategia italiana dei campioni nazionali negli anni ‘70 e ’80 La crisi degli anni ‘70 fece nuovamente emergere il legame tra stato e impresa. Si tentò la strada della cooperazione, anche se il risultato non fu efficiente poiché c'erano troppe grandi industrie pubbliche, private, piccole e medie che tentavano di far valere i propri interessi. Ciò impedì al governo di fissare una strategia. I finanziamenti fluirono indiscriminatamente, secondo logiche particolaristiche e soltanto alcuni settori ritenuti strategici furono oggetto di misure speciali. È il caso dell'industria siderurgica, dell'energia e della petrolchimica. La politica era quella di creare i cosiddetti "campioni nazionali" che, attraverso il sostegno dello stato, avrebbero dovuto competere sui mercati internazionali. I risultati ottenuti, però, furono fallimentari. 04. Le politiche industriali della golden age in Italia La politica industriale consiste in ogni forma di intervento da parte dello stato e che riguarda l’industria. È una definizione di carattere ampio in quanto include tutte le politiche messe in atto dal governo centrale, autorità locali, autorità sovranazionali e agenzie specializzate. La golden Age va dal 1950 al 1970 e segna un punto di rottura con il passato. Per quanto concerne la politica industriale si adottarono nuove forme di intervento per supportare le industrie private, ma senza intenzioni dirigiste. Furono concesse aiuti e sovvenzioni per la ricostruzione degli impianti, ma soprattutto furono distribuiti i fondi previsti dal piano Marshall. In particolare alcuni settori beneficiano maggiormente di tali aiuti e furono: il settore elettrico, quello meccanico e quello metallurgico nei quali vi era una forte presenza di grandi imprese pubbliche e private. Soprattutto per l’economia italiana, gli anni 50 furono caratterizzati da una forte espansione per l’economia. Le industrie pubbliche riuscirono ad ottenere dei risultati eccellenti e anche l'Iri investì considerevoli capitali per la modernizzazione di servizi e manifatture. Emblematico fu il caso dell'industria metallurgica, che ebbe un particolare successo nel guidare la modernizzazione del paese negli anni ’50 e ‘60, Tali successi vanno ascritti alla capacità imprenditoriale dei singoli manager che riuscirono a far approvare i loro progetti dal governo grazie anche a rapporti personali con esponenti politici. In questo stesso periodo il protezionismo lasciò il posto ad un liberismo moderato. Particolarmente importante fu l'adesione del 1951 alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio. Il governo si pone anche l'obiettivo di coordinare la politica macroeconomica con la politica industriale, tanto che la programmazione divenne il punto di forza del nuovo governo di centrosinistra. Tuttavia la corposa lista di riforme che era stata prevista nel 1967 non fu minimamente portata a termine poiché fin troppi interessi specifici impedivano di coordinare la politica macroeconomica con quelle industriale. Nonostante il fallimento della programmazione, vi furono importanti provvedimenti di politica industriale, quali la nazionalizzazione dell'industria elettrica nel 1962 e il sovvenzionamento degli investimenti attraverso contributi a fondo perduto.La crisi degli anni ‘70 fece nuovamente emergere il legame tra Stato e impresa. Si tentò la strada della cooperazione, anche se il risultato non fu efficiente poiché c'erano troppe grandi industrie pubbliche, private, piccole e medie che tentavano di far valere i propri interessi. Ciò impedì al governo di fissare una strategia. I finanziamenti fluirono indiscriminatamente, secondo logiche particolaristiche e soltanto alcuni settori ritenuti strategici furono oggetto di misure speciali. È il caso dell'industria siderurgica, dell'energia e della petrolchimica. I risultati tuttavia al termine si dimostrarono fallimentari. 05. La politica industriale del fascismo La politica industriale consiste in ogni forma di intervento da parte dello stato e che riguarda l’industria. È una definizione di carattere ampio in quanto include tutte le politiche messe in atto dal governo centrale, autorità locali, autorità sovranazionali e agenzie specializzate. Il fascismo (1922-1943) fu per la storia d'italia un capitolo molto delicato e ancora oggi la letteratura si divide nel valutare gli effetti e conseguenze. La prima fase del fascismo è caratterizzata da una politica economica, e dunque anche una politica industriale di impronta liberista che si orienta alla rimozione dei vincoli alla libertà di impresa istituiti durante la Grande guerra e a massicci interventi statali finalizzati ad incoraggiare gli investimenti privati, oltre che al salvataggio di banche e industrie. Rapidamente però l’economia italiana si trova a dover far fronte all’indebitamento e ad una inflazione crescente. Nella seconda metà degli anni venti perciò lo stato oltre che il ruolo di garante assume anche il ruolo di protagonista e organizzatore del ciclo economico. Vi furono comunque degli elementi di novità nella politica industriale fascista: le tariffe, l'autarchia i poli di sviluppo e la regolamentazione dei mercati dei beni del lavoro. Le tariffe doganali furono aumentate e le importazioni ridotte. Sicuramente, l'autarchia è la politica economica che maggiormente rappresenta il fascismo. Consiste in una serie di politiche volte a rendere l'italia autosufficiente nella prospettiva di un conflitto militare.. Pur di non ricorrere all'estero il governo fascista ricercò ogni possibile fonte di prodotti primari nell'Italia stessa, poi nelle colonie, e poi mettendo a punto una serie di surrogati autarchici, come la gomma sintetica.Il governo fascista intervenne anche nel mercato dei beni concedendo esenzioni fiscali alle fusioni e riconoscendo la validità dei cartelli 08. La Borsa valori in Italia In Italia la creazione e il funzionamento del mercato borsistico valori erano rimessi all’autorità pubblica. La più conosciuta delle Borse fu quella di Milano, che operò dalla fondazione risalente ai primi anni del 1800 fino al 1996, quando a seguito di una procedura di privatizzazione tutte le funzioni organizzative delle borse sono state trasferite alla CONSOB, Commissione nazionale per le società e la borsa in virtù del recepimento delle direttive comunitarie che hanno decretato il superamento dell’impostazione pubblicistica del mercato di borsa a favore di un modello di mercato-impresa la cui organizzazione e gestione sono state rimesse all’iniziativa di società per azioni private denominate SGM, società di gestione del mercato. Previa autorizzazione della Consob, tali società possono esercitare una serie di attività quali l’istituzione, la gestione e la regolamentazione del mercato. 09. Il finanziamento pubblico italiano Una peculiarità dell’approccio italiano al finanziamento pubblico è la forte connessione fra il big business e lo Stato, a causa della scarsezza di risorse e della sfida tecnologica internazionale che l’Italia si appresta ad affrontare sulla via dell’industrializzazione. Lo Stato si trovò nella necessità di intervenire attraverso il protezionismo sul finire dell’Ottocento, con agevolazioni e sovvenzioni nei primi decenni del Novecento fino ad arrivare ad un vero e proprio salvataggio negli anni Trenta, per evitare il tracollo dell’economia e la dispersione di quanto fino allora compiuto. Alcuni studiosi hanno definito quello italiano come un capitalismo politico in virtù dell’intreccio fra Stato e industrie: il controllo pubblico delle attività industriali raggiungeva dimensioni non consone in un’economia di mercato per la spiccata politicizzazione del mercato. Nel 1933 fu creato l’IRI, Istituto per la ricostruzione industriale ideato dal regime fascista per salvare le banche d'investimento e le grandi industrie e che operò efficacemente fino al 1963. A partire da tale data cambiò la visuale politico-economica per cui l’IRI perseguì una policy di assegnazione e distribuzioni di posti e cariche con logiche partitiche. Lo snaturamento dell’IRI e la carenza di personalità competenti, porta alla privatizzazione delle imprese e al suo scioglimento nel 1994. 10. Gli investimenti nelle attività di ricerca Schumpeter condusse una serie di studi sui cambiamenti del sistema economico che lo portò a considerare che lo sviluppo economico dipendeva soprattutto dalle innovazioni tecnologiche grazie agli investimenti nelle attività di ricerca avviate dagli imprenditori che avevano avuto accesso al credito delle banche. Una prima definizione di attività di ricerca è riscontrabile nel modello neoclassico di crescita di Solow, dove però l'innovazione tecnologica veniva considerata un fattore esogeno al modello. Successivamente si ipotizzò di inserire l'innovazione tecnologica nei modelli di crescita come fattore endogeno, cosa che portò allo sviluppo del il ruolo delle attività di ricerca e sviluppo (R&S) e alla introduzione del concetto di capitale umano, considerato l'insieme delle abilità e delle conoscenze dei lavoratori che interagiscono con la capacità di utilizzare, creare e implementare nuove tecnologie. Gli economisti attribuiscono un ruolo fondamentale nei processi di crescita alla tecnologia tanto che a partire dagli anni ‘80 del 900 si sviluppa la teoria neo schumpeteriana, che considera le dinamiche innovative come se scandite dal susseguirsi dei diversi regimi tecnologici. Gli studi hanno evidenziato come la capacità dei paesi imitatori di cogliere le opportunità scaturite dalle nuove tecnologie sia determinata anche dalla disponibilità al loro interno delle social capabilities mix tra istruzione tecnica, organizzazione del sistema delle imprese, mercato finanziario. Negli ultimi anni gli storici hanno posto particolare attenzione sul sistema nazionale di innovazioni che può definirsi come un insieme di processi all'interno dei quali l'interazione tra le istituzioni (l'insieme delle regole delle abitudini), il sistema educativo e le reti tra vari soggetti giocano un ruolo centrale nel generare la capacità innovativa di un paese. 11. La composizione del sistema bancario italiano La composizione del sistema bancario italiano essenzialmente fa riferimento a due diverse tipologie: le banche medio grandi che, fondate allo scopo di sostenere l'industria investendo direttamente nel capitale azionario delle imprese, fornirono ingenti finanziamenti per la crescita economica; e gli istituti di risparmio di piccole dimensioni, come le casse di risparmio e le banche popolari cooperative che agivano da finanziatori di vicinato per le piccole imprese. Le grandi banche universali facilitarono lo sviluppo delle imprese italiane da fine Ottocento fino alla crisi del 1929 a seguito della quale fu creato l’IRI, Istituto per la ricostruzione industriale, ideato dal regime fascista per salvare le banche d'investimento e le grandi industrie e che operò efficacemente fino al 1963. Dopo la seconda guerra mondiale fu valorizzato il sistema delle banche minori in quanto ritenute più vicine alle logiche produttive territoriali. La forte inflazione sviluppatesi negli anni 70 ridusse la capacità di autofinanziamento delle imprese favorendo il processo di privatizzazione e fusione tra le banche, e aprendo alla possibilità per le grandi banche di poter esercitare nuovamente il finanziamento diretto alle imprese. 12. Sistemi finanziari bank oriented e market oriented Il sistema finanziario market oriented, tipico dei paesi anglosassoni si contraddistingue per la prevalenza del ricorso al mercato come forma di finanziamento esterno alle imprese attraverso l’emissione di azioni e obbligazioni accanto all’autofinanziamento. I titoli emessi vengono trattati nel libero mercato e il ruolo delle banche è in prevalenza quello di finanziare il credito ordinario anziché quello industriale. Il sistema bank oriented, più diffuso in Germania, Giappone e altri Paesi dell’Europa continentale, è orientato verso gli intermediari e prevede che il finanziamento esterno giunga alle imprese prevalentemente attraverso il credito bancario e altri intermediari finanziari. Gli istituti bancari forniscono finanziamenti sia a breve che a lungo termine ed espletano funzioni di sostegno e di controllo nei riguardi delle imprese. 18. Le misure del progresso tecnico Le misure del progresso tecnico, quali input output e tai, servono a ricostruire i tratti di lungo periodo del sistema di innovazione italiano. Gli indicatori di input, misurano le quantità di risorse che un sistema nazionale dedica alle attività di ricerca e all'implementazione dei processi innovativi. L'indicatore standard e il volume di spesa in r&s sostenuto all'interno di un paese rispetto al pil. L’indicatore di output, è la capacità di realizzare brevetti. L'idea di fondo è quella che i brevetti rappresentano lo specchio dell'attività inventiva e innovativa. Per quanto i due tipi di indicatore possano entrambi misurare il cambiamento tecnologico, le analisi di lungo periodo restano comunque ancora difficili da svolgere poiché per i dati di input non esistono dati antecedenti alla seconda guerra mondiale, mentre le statistiche sui brevetti esistono a partire dal 1880. Un altro indicatore recente, è il tai (technology achievement index), che si basa su una pluralità di variabili sia di input sia di output. Lo scopo di questo indicatore è quello di rappresentare la multidimensionalità del progresso tecnico e collocare diversi paesi rispetto alla frontiera tecnologica. 19. Il ruolo della tecnologia nei processi di crescita economica Nella sua teoria dei cicli economici, Schumpeter attribuiva una vitale importanza all'innovazione tecnologica poiché aveva potuto constatare che storicamente le innovazioni epocali favorivano l'accelerazione della crescita economica. Negli anni ‘80 si è affermato il cosiddetto filone teorico neo-schumpeteriano, che osserva proprio le dinamiche innovative come se fossero scandite dal susseguirsi dei diversi regimi tecnologici. Le osservazioni storiche hanno anche messo in evidenza come la capacità dei paesi imitatori di sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie sia determinata da una parte dalla congruenza tecnologica di un paese con la frontiera del progresso tecnico, ma anche dalla disponibilità al suo interno di social capabilities. 20. Concorrenza, regolazione politiche industriali italiane del 21º secolo L'eccessiva esposizione dello Stato nei confronti delle imprese emerse come un grave problema negli anni ’90.La privatizzazione iniziò in questi anni, ma non per effetto di una scelta di politica economica predeterminata, quanto per alcune congiunture sfavorevoli. Innanzitutto alla base vi era un problema di natura monetaria. L'Unione europea, infatti, aveva stabilito una rigida disciplina per i cambi dei paesi aderenti e un regime di cambi flessibili. Questo impedì all'Italia di utilizzare la svalutazione come strumento di politica economica e di conseguenza le industrie ne furono favorite. Un secondo motivo che portò alle privatizzazioni fu l'eccessivo indebitamento. In base alla legge, il processo di privatizzazione doveva essere preceduto dalla liberalizzazione dei mercati, così come era previsto dagli accordi europei. In particolare per i servizi pubblici era però previsto che contestualmente si istituissero delle autorità di controllo, quanto meno nel campo dell'energia delle telecomunicazioni. Con la fine del 20º e l'inizio del 21º secolo, le politiche industriali mutano radicalmente. Come abbiamo visto in precedenza, lo Stato aveva mantenuto una politica interventista sin dalla fine dell'Ottocento, ottenendo risultati variabili .Con l'istituzione dell'Unione europea è stato regolato il funzionamento del Mercato unico, che ha imposto di sostituire alla visione interventista una visione che inquadrava le politiche industriali all'interno della tutela della concorrenza in generale e della regolazione per i settori in rete come quelli delle imprese di pubblica utilità. Le direttive comunitarie hanno di fatto comportato una riduzione degli aiuti erogati dallo Stato al sistema economico; inoltre gli interventi non sono stati più verticali, cioè a favore di uno specifico settore o tipologia di impresa, ma orizzontali, cioè trasversali rispetto al settore e alle imprese .L'Unione Europea definisce le seguenti tipologie di intervento:1. Aiuti per la tutela dell'ambiente 2. Aiuti a ricerca, sviluppo innovazione 3. Aiuti per il salvataggio la ristrutturazione di imprese in difficoltà 4. Aiuti alle piccole e medie imprese 5. Aiuti all'occupazione 6. Aiuti alla formazione Il cambiamento di indirizzo nella politica industriale, sia a livello nazionale che a livello europeo regionale, ha avuto effetti negativi sul Mezzogiorno, che si è visto ridurre i trasferimenti pubblici, e accrescere il divario rispetto alle altre regioni italiane più sviluppate .La politica industriale inaugurata con il nuovo secolo pare non abbia raggiunto gli obiettivi fissati per due motivi: a) l'instabilità degli interventi legata alle persistenti difficoltà del bilancio pubblico; b) l'impostazione che non prevede un sistema di incentivi ai destinatari per perseguire gli obiettivi prefissati dalla legge.
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