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Storia del Giappone, Caroli e Gatti, Appunti di Storia dell'Asia

La storia del Giappone, dal periodo Jomon, al Meiji (cap 1-6)<br />

Tipologia: Appunti

2010/2011

Caricato il 18/06/2011

brody
brody 🇮🇹

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Scarica Storia del Giappone, Caroli e Gatti e più Appunti in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Capitolo 1 Riguardo la storia del Giappone molti dubbi rimangono tuttora in merito a come e a quando i primi popoli primitivi si stanziarono nell’arcipelago; secondo alcuni studiosi avvenne quando le isole giapponesi erano unite al continente, ipotesi avvalorata dal fatto che il giapponese (come il coreano, il mongolo e il turco) apparterrebbe alla famiglia delle lingue altaiche. Tuttavia è possibile anche riscontrare analogie con la cultura polinesiana e dell’Asia sud-orientale. Sulla cultura e la vita dei primi abitanti, sappiamo che usavano utensili litici rozzamente realizzati e, di rado, utensili di osso; praticavano forme di caccia e che non erano in grado di produrre oggetti in ceramica. Non sappiamo con precisione quando ebbe inizio questo periodo, ma sappiamo che finisce intorno al 10.000 a.C., in coincidenza con l’avvio della manifattura ceramica. Periodo Jōmon 10.000 a.C. – 300 a.C. Il periodo prende il nome dai segni di corda o di stuoie di paglia che decoravano la superficie di buona parte della ceramica prodotta in questo arco di tempo. ECONOMIA E STILI DI VITA Trattandosi di un periodo così lungo, sono state individuate delle fasi nell’evoluzione di questa cultura: • Una fase iniziale, di transizione tra il Paleolitico e il Neolitico, in cui la popolazione continua a vivere di caccia e della raccolta di radici, piante e frutti selvatici; • Una seconda fase, attorno al IX-VIII millennio a.C. La fine dell’era glaciale aveva portato una migliore condizione climatica, e quindi la disponibilità di nuove risorse naturali, che portarono allo sfruttamento delle risorse marine. La popolazione viveva a gruppi, in piccole capanne seminterrate. Sono stati ritrovati ami da pesca, arpioni e archi, che suggeriscono la pratica della caccia e della pesca; • Una terza fase, tra il 5000 e il 3500 a.C., con un ulteriore miglioramento del clima, e l’innalzamento del livello del mare. Questo comportò la trasformazione di alcune regioni, in ampie paludi, consentendo di sfruttare maggiormente i prodotti raccolti lungo le coste; • Una quarta fase vero la metà del IV millennio a.C., l’abbassamento del livello del mare comportò lo spostamento delle popolazioni dalla costa alle regioni interne. Questo fu possibile grazie anche al miglioramento delle tecniche per lo sfruttamento delle risorse della terra; • Una quinta fase a partire dal 2000 a.C., dove assistiamo allo sviluppo di un’economia fondata sullo sfruttamento dei prodotti marini con tecniche più elaborate per la pesca in profondità; • Una fase conclusiva, tra il IV e il III secolo a.C. Lo studio della ceramica prodotta in questo periodo, ha evidenziato la presenza di contatti con la penisola coreana, attraverso cui sarebbe stata introdotta anche la tecnica di coltivazione del riso mediante l’irrigazione. ARTE I dogū (manufatti in terracotta) riproducono, in modo astratto e semplice, figure a cavallo, i cui seni e addomi sono sporgenti, per questo si suppone che si tratti di donne, presumibilmente in gravidanza; si può quindi immaginare che avessero la funzione di invocare fertilità e abbondanza. Alcuni di questi manufatti sono stati rinvenuti insieme ai resti del cibo, quindi non avevano funzione religiosa, ma servivano probabilmente come degli amuleti. Periodo Yayoi 300 a.C. – 300 d.C. L’introduzione della risicoltura segna l’inizio del periodo Yayoi, il quale prende il nome dalla zona di Tōkyō, che restituì gli esemplari di un nuovo tipo di ceramica. Le prime testimonianze scritte, riguardo a questo periodo, sono cinesi; tuttavia le informazioni sono limitate e frammentarie. ECONOMIA E STILI DI VITA La diffusione della risicoltura interessò, inizialmente, solo la zona vicina alle vie di comunicazione con il continente(a nord del Kyūshū), fino ad estendersi, intorno al 100 a.C., anche a nord-ovest. È comunque probabile che l’economia abbia continuato a fondarsi, per un certo periodo, su attività di caccia, raccolta e pesca. Successivamente, quindi, gruppi di famiglie si spostarono in zone più facilmente irrigabili, in modo da agevolare la risicoltura. Queste famiglie vivevano in capanne dal pavimento in terra, pilastri, travi di legno e tetti di paglia, costruite una accanto all’altra e raggruppate in villaggi. La capacità di costruire attrezzi in ferro contribuì a rendere più proficua la coltivazione, e permise anche di coltivare zone impervie. POLITICA E SOCIETA’ A partire dal 100 d.C., assistiamo all’evoluzione dell’organizzazione socio- politica, attraverso forme di scambi commerciali tra le comunità locali. Andavano così trasformandosi queste comunità, all’interno delle quali inizia a vedersi una marcata stratificazione sociale. Infatti alcune di queste famiglie godevano di condizioni più favorevoli, sia perché possedevano terre più fertili, sia perché erano vicini alle vie di comunicazione con il continente, e quindi potevano avere più facilmente accesso alle nuove tecnologie. CULTURA E RELIGIONE I culti e i riti che presero forma nel periodo, risultano vari e diversificati, fintanto che non si creò interazione tra i gruppi locali. Il benessere della popolazione dipendeva dalla terra, dall’acqua e dal sole, e i riti erano finalizzati a propiziare il favore della natura, così come a scandire il tempo per le fasi della coltivazione. È il culto dello shintō primitivo, che si esprimeva nell’identificare come kami tutti gli elementi della natura (montagne, fiumi ecc), e nel ritmare le fasi vitali e dell’attività produttiva, come la semina e il raccolto. Era caratterizzato da credenze animistiche, pratiche magiche e influssi sciamanici. Esso non concepita l’idea del peccato come effetto di una trasgressione; il male era piuttosto il risultato di un’azione esterna, che poteva essere cambiata attraverso il rito. Questo culto rese quasi sacro il legame tra la comunità e il territorio. ARTE La ceramica Yayoi era meno decorata, lavorata al tornio e di qualità superiore a quella del periodo precedente; è infatti il risultato di apporti dall’esterno uniti agli elementi preesistenti. Dal continente erano giunti anche armi, specchi di bronzo e attrezzi agricoli in legno, pietra e ferro. Da questo momento in poi, i contatti con l’esterno sarebbero andati via via aumentando. Sono, infatti, stati ritrovati all’interno di tombe risalenti alla seconda metà del periodo, specchi, armi in bronzo e ornamenti di giada di provenienza continentale. Inoltre i contatti sono testimoniati anche dalle cronache cinesi che parlano proprio di queste popolazioni, come la “storia degli Han anteriori”, che fa menzione a missioni inviate dalle isole giapponesi alla Corte cinese; la “Storia degli Han alto titolo di Omi, mentre tutti gli altri al titolo di Muraji. Lo status dei singoli clan corrispondeva ad una funzione precisa.] Molti clan vedevano il buddhismo come una minaccia alla posizione che essi occupavano grazie alla loro presunta discendenza dai kami. A favore della dottrina si schierarono i Soga, immigrati di recente dalla corea, i quali volevano mantenere gli scambi tra i due paesi; i Monobe erano, invece, ostili in quanto ritenevano che la nuova dottrina avrebbe potuto offendere e scatenare l’ira dei kami, posizione che assunsero tutti coloro che avevano ricavato potere dallo shintoismo, come nel caso nei Nakatomi. Il confronto tra i due schieramenti ebbe fine solo con la vittoria dei Soga a seguito di uno scontro militare nel 587, ottenendo un’importante posizione politica, e favorendo l’apertura alle nuove idee provenienti dal continente, che porteranno poi all’unificazione del Giappone. L’introduzione del buddhismo stimolò una trasformazione dei costumi, dell’architettura e dei riti funebri, tra cui il superamento della sepoltura a favore della cremazione; quindi i tumuli furono sostituiti da ricchi templi, segnando quindi la fine del periodo Kofun. POLITICA E SOCIETA’ [Nella penisola coreana il Giappone cominciò a perdere il proprio controllo a partire dal 532, quando le truppe a sostegno di Paekche vennero sconfitte da Silla. Nel 562 il controllo di Mimana fu del tutto compromesso e infine perso con l’unificazione della Cina sotto la dinastia Sui nel 589 e quindi con l’unificazione della Corea del 668, quando Silla riuscì, supportato dalla Cina, a sconfiggere Koguryŏ. La Cina rappresentava una potenza da temere e allo stesso tempo un modello da cui trarre ispirazione. Il timore dell’espansionismo cinese avrebbe infatti contribuito ad accelerare il processo di centralizzazione del potere.] Il clan Soga, grazie alla vittoria militare, ma anche all’uso politico della nuova dottrina, iniziò a rappresentare una minaccia per il clan Yamato. Infatti, Soga no Umako, fece uccidere l’imperatore in carica che, pur essendo suo nipote, contrastava le sue ambizioni. Nel 592 salì così al trono l’imperatrice Suiko, legata ai Soga da parte materna, che regnò sino al 628 e che fu la prima donna ad accedere a questa carica. Allo stesso tempo venne nominato un reggente (sesshō), Shōtoku Taishi, che di fatto prese le redini del governo, e fu promotore di grandi riforme, che portarono alla centralizzazione del potere. Infatti, nel 600, avviò contatti diretti con la Corte di Sui e provvide ad introdurre importanti riforme ispirate al modello cinese, tra cui, nel 603, l’introduzione di un sistema di dodici ranghi di Corte, la cui assegnazione spettava al sovrano. A Shōtoku è, inoltre, attribuita la stesura della “Costituzione dei diciassette articoli”, emanata nel 604, che contiene un elenco di precetti e regole morali ispirati a valori confuciani, buddhisti e taoisti. Lo scopo è quello di affermare il diritto sovrano e di eliminare il potere autonomo degli uji, sostituendolo con una sorta di burocrazia. Questo rappresenta la configurazione di uno Stato imperiale, nel quale è previsto l’uso di un nuovo titolo con cui designare il sovrano; tennō, ovvero un sovrano che governava in qualità di diretto discendente dal cielo, e che quindi aveva potere politico e sacerdotale. La morte di Shōtoku, avvenuta nel 622, interruppe solo momentaneamente il processo di riforme, che sarebbe stato ripreso una volta eliminata l’egemonia dei Soga, il cui capo cadde vittima di una congiura nel 645, ordita da parte di un principe imperiale e di un membro del clan Nakatomi, i quali furono ricompensati con importanti cariche e un nuovo prestigioso cognome, Fujiwara. L’anno successivo l’imperatore emanò delle riforme in materia politica e amministrativa, volto a gettare le basi per uno Stato imperiale, la cui ricchezza doveva fondarsi sugli introiti provenienti da tutte le zone del Paese, e che prevedeva: • L’abolizione di tutti i titoli che garantivano privilegi locali, ovvero i possessi privati delle risaie e i be, alle dipendenze degli uji, assegnando il pieno controllo delle terre e dei suoi abitanti al sovrano; • L’introduzione di un sistema amministrativo, il quale prevedeva la nomina di funzionari che dovevano servire l’imperatore. Il territorio fu quindi organizzato in province (kuni), a capo dei quali erano posti dei governatori (kokushi). Le province erano a loro volta suddivise in distretti (gun), guidati da capi di distretto. A livello più basso le unità amministrative erano rappresentate da villaggi rurali e quartieri urbani, ciascuno dei quali guidati da un capo scelto tra gli abitanti delle singole località; • L’istituzione di registri di censo e delle tasse, sulla base dei quali avveniva la distribuzione delle terre; inoltre tutte le forme di tasse esistenti fino ad allora furono cancellate. Ma non tutte le riforme trovarono un’immediata attuazione. Il potere del governo imperiale si andava quindi a fondare sul controllo delle risorse della terra e a dipendere dal funzionamento del sistema di tassazione. È la riforma Taika, la quale prevedeva inoltre: • La registrazione della popolazione contadina per famiglie, che fungevano come unità di base sia per l’assegnazione delle terre, sia per il pagamento delle tasse. A loro volta le famiglie erano organizzate in villaggi; • Le terre agricole furono divise sulla base di un sistema (jōri), che prevedeva la ripartizione di un grande quadrato di terra in altri trentasei quadrati uguali, a loro volta divisi in dieci strisce; ogni striscia (tan), misurava poco meno di mille metri quadrati e costituiva la base per l’assegnazione delle terre, assegnazione che avveniva in base all’età, al sesso e allo status del destinatario. Si trattava del sistema kubunden, i cui assegnatari erano tenuti a lavorare i campi e a pagarne le relative tasse. Inoltre ai maschi era imposto l’obbligo di prestare servizi di corvée civili e militari, che potevano essere sostituiti da una tassa supplementare. L’assegnazione delle terre non era perpetua, ma soggetta a periodiche redistribuzioni, così come l’importo delle tasse. Non tutte le terre facevano parte del sistema kubunden, alcune vennero infatti assegnare sulla base di altri criteri (merito, rango), a beneficio della nobiltà e delle istituzioni religiose. Infine, una parte delle terre restò sotto la diretta amministrazione dello Stato, che poteva servirsene per ottenere un reddito diretto. La riforma Taika prevedeva anche la creazione di un consiglio di Stato (Dajōkan) e di otto ministeri da esso dipendenti; al di sotto stavano altri due ministeri, della Destra e della Sinistra con numerosi dipartimenti e uffici alle loro dipendenze. Fu anche revisionato il sistema dei ranghi di Corte, che aumentarono di numero e furono destinati a premiare personaggi meritevoli, anche se in seguito sarebbe prevalso il criterio dell’ereditarietà. L’opera di riforma proseguì, fino a quando non ci fu una nuova disputa per la successione al trono, per la quale ci fu uno scontro dal quale emerse un nuovo imperatore, che fondò il proprio potere sulla forza militare. Si trattava di Tenmu, che regnò dal 673 al 686 consolidando le riforme avviate. Inoltre ristrutturò il sistema dei titoli onorifici (kabane) che aveva regolato la gerarchia tra i capi uji, relegandoli in una posizione subalterna. Il nuovo sistema di ranghi consentì all’imperatore di far emergere i propri alleati e di far retrocedere i propri nemici. Egli iniziò anche la compilazione di un codice, che avrebbe costituito la base su cui sarebbe stato redatto il codice Taihō, emanato agli inizi dell’VIII secolo. Tenmu ritenne di consolidare la posizione del sovrano ordinando la stesura di un’opera storica finalizzata a legittimare il potere dell’imperatore, si tratta del Kojiki, che sarà ultimato molti anni dopo. Tenmu morì nella residenza di Asuka, quando ancora non era pronta una nuova capitale necessaria ad ospitare un apparato governativo ben più complesso del precedente. Ma alla sua morte, invece di abbandonare la capitale, si decise di ricorrere a riti di purificazione. Nel 694 venne sperimentata la prima capitale permanente, a Fujiwara, poco a nord di Asuka, dove l’edificazione della corte imperiale si ispirava a modelli architettonici cinesi; ma dopo solo sedici anni la capitale verrà nuovamente spostata. Ma è in questo breve periodo che fu completato il codice di leggi avviato in precedenza, che venne emanato nel 702, noto con il nome di Taihō o Codice Risturyō, contenenti le leggi penali e le norme amministrative. Questa è l’ultima di una serie di riforme volte a stabilire il controllo della famiglia e del governo imperiale sulla popolazione. Il codice, revisionato nel 718, gettò le basi del sistema amministrativo che sarebbe rimasto in vigore sino alla metà del XIX secolo. Prevedeva il definitivo superamento delle realtà uji e la creazione di una massa di sudditi, intese come persone pubbliche (kōmin), sottoposte all’imperatore. Al di sotto dell’imperatore e della sua famiglia, stavano i sudditi liberi (ryōmin), che potevano essere funzionari (kannin) e coltivatori delle terre dello Stato (kōmin), mentre alla base di questa gerarchia figuravano i sudditi non liberi (senmin). In generale il codice seguiva le forme e i principi di quelli cinesi; ma a differenza di quelli cinesi non era vietato il matrimonio endogamo, anzi non c’era limite alla possibilità di scegliere un partner all’interno del gruppo familiare. Inoltre non venne nemmeno accolto il sistema meritocratico per l’assegnazione delle cariche, in quanto questo avrebbe permesso l’accesso alle cariche anche a persone di basso lignaggio. ARTE Grazie sia al buddismo, che all’apertura verso la Corea e, quindi, anche verso la Cina, iniziarono a circolare in Giappone molti testi cinesi, portando all’introduzione del sistema di scrittura cinese; questa non diede un immediato avvio alla stesura di opere e cronologie ufficiali, tant’é che solo in seguito la classe dominante si rese conto dell’importanza della scrittura per la trasmissione del pensiero politico, filosofico e religioso. Tutto questo portò alla stesura del Kojiki e del Nihon Shoki, che si riferiscono, però, al periodo Kofun. Ma a partire dal VI secolo è possibile far riferimento a documenti scritti. La vittoria dei Soga aprì le porte all’arrivo di monaci, reliquie, artigiani e costruttori di templi, in gran parte di provenienza coreana. Nella zona di Asuka, sede della corte Yamato, iniziò la produzione di grandi opere artistiche, tra cui l’Asukadera, fatto edificare dai Soga e ultimato nel 596, che si ritiene essere il primo vero tempio buddhista del Giappone. L’esempio dei Soga fu seguito da molti altri uji che finanziarono la produzione di templi in tutta la zona. Questi edifici erano il simbolo della potenza dei clan uji, che dimostravano in questo modo indipendenza dal clan Yamato. Periodo Nara 710 d.C. – 794 d.C. Il governo imperiale nel 710 d.C. si trasferì a Nara (Heijōkyō), periodo nel quale si attuarono le riforme create nel periodo precedente. Edificata in una zona pianeggiante e in una favorevole posizione strategica, la nuova capitale copriva un’estensione di circa 20 chilometri quadrati. propria autorità. Non disponendo della forza militare, si raggiunse un compromesso, per il quale i capi uji ricevevano cariche pubbliche e titoli nobiliari, e anche terreni esenti dalle tasse. Per controllare il paese, la corte fece sempre più affidamento sui kokushi, i quali si servirono di questi compiti per consolidare il loro potere. Un ulteriore sintomo della fragilità del potere imperiale è rappresentato dalla diarchia che di produsse al vertice dell’istituto imperiale, quando l’autorità del tennō fu sottoposta al controllo del clan Fujiwara, che stabilì una sorta di monopolio sulla carica di reggente. Già nel periodo Nara erano riusciti a far ottenere a membri della famiglia, importanti cariche burocratiche e a rafforzare il legame con la casata imperiale grazie al fatto che molte donne Fujiwara diventarono mogli di imperatori. Un passaggio importante nell’ascesa al potere Fujiwara si ebbe nell’857, quando Fujiwara Yoshifusa ottenne la carica di dajō daini, ovvero primo ministro e capo del consiglio di Stato, fino ad allora riservata ai principi imperiali. L’anno successivo salì al trono l’imperatore Seiwa, che aveva nove anni, di cui Yoshifusa era nonno, e che ottenne la carica di reggente (sesshō). Yoshifusa mantenne il controllo sul governo anche una volta che l’imperatore raggiunse la maggiore età, e i suoi successori seguirono il suo esempio, così che venne creata la carica di kanpaku, ovvero reggente di un imperatore adulto. Per alcuni decenni la casa imperiale cercò di contrastare il potere dei Fujiwara, ma non riuscì a contrastare la continua erosione del sistema di controllo statale sulle risorse agricole del paese e l’allargamento di tenute di privati, con pesanti conseguenze sul mantenimento del potere e dell’autorità. Così, a partire dal 967 i Fujiwara ripristinarono il monopolio sulle cariche di sesshō e di kanpaku, inaugurando il periodo detto “governo dei reggenti”, il quale ricevette un primo colpo nel 1068 salì al trono l’imperatore Go Sanjō che, per la prima volta dopo un secolo, non era figlio di un Fujiwara. Questo governo fu, infine, superato nel 1087, quando l’imperatore Shirakawa assunse la carica di imperatore in ritiro (insei), riuscendo a sfuggire al controllo dei Fujiwara. La fortuna dei Fujiwara era stata favorita dall’incapacità del governo di fermare la privatizzazione delle terre. Inoltre, anche al di fuori della corte, esistevano altri centri di potere, rappresentati in primo luogo da alcune scuole buddhiste, che disponevano di armi, guerrieri e privilegi. CULTURA, LETTERATURA, E RELIGIONE La nobiltà di Heian continuò a essere caratterizzata dal benessere e dalla raffinatezza, visibili nello stile di vita aristocratico e nella produzione artistica e letteraria del periodo. Il Giappone chiuse i rapporti con l’esterno e si concentrò sulla rielaborazione delle idee giunte fino ad allora dal continente, dando vita, a partire dal IX secolo a modelli autoctoni in ambito politico ed economico e maturando forme artistiche e letterarie autonome e originali. La conoscenza della cultura classica cinese continuò a costituire un requisito indispensabile e un tratto distintivo per i maschi dell’aristocrazia, e la filosofia confuciana continuò a dettare i principi di governo. Ma la ricerca di nuove modalità di espressione autoctone spinse la cultura giapponese a trovare una dimensione “nazionale”. In questo periodo si registrano infatti alcuni cambiamenti in ambito linguistico, come nella scrittura, con l’invenzione dei kana. Così, accanto a opere che continuarono ad essere scritte in cinese, fiorì una produzione letteraria in kana, nella quale figurano i diari (nikki), racconti (monogatari) e raccolte di poesie. Soprattutto le composizioni poetiche divennero un passatempo negli ambienti di Corte e un tratto distintivo dello status di aristocratico, per il quale l’imperizia in quest’arte poteva persino condurre alla squalifica sociale. Il processo di nipponizzazione interessò anche la coscienza estetica, che andò sviluppandosi attorno a valori e canoni autoctoni, dal culto della bellezza, alla percezione dei fenomeni e delle espressioni della natura, dall’amore contemplativo a un’intensa sensibilità verso lo scorrere del tempo. Il rispetto delle regole del buon gusto e della raffinatezza estetica fu assunto come requisito indispensabile per confermare lo status dei membri dell’aristocrazia. Le donne, escluse dall’esercizio del potere, mantennero un ruolo influente svolto dietro le quinte. La virilità non si opponeva alla femminilità, non essendo poi così diversi i requisiti richiesti ad un uomo o ad una donna per essere reputati avvenenti. Ma la letteratura Heian presenta anche un aspetto più cupo e oscuro, pervaso dal senso di ansietà che scaturisce dalla percezione del mondo. Questa visione è esemplificata dalla ricorrente metafora della fioritura dei ciliegi. Il senso di evanescenza era di chiama matrice buddhista; del resto il buddhismo costituisce lo sfondo filosofico di molte opere letterarie, prima fra tutte il Genji Monogatari, dove esso appare sotto un duplice aspetto, l’uno più terreno, l’altro proiettato verso il mondo dell’aldilà. Ciò mostra che la dottrina si era ormai affermata nella vita quotidiana dell’aristocrazia. L’evoluzione del buddhismo aveva continuato a trarre stimoli dal continente, da cui giungevano nuove scuole di pensiero; in primo luogo la scuola Tendai, introdotta agli inizi del IX secolo a opera del bonzo Saichō, il quale promosse la costruzione del complesso monastico Enryakuji sul Monte Hiei, a nord-est di Heian. La dottrina si fondava sull’idea secondo cui tutti gli esseri viventi potessero diventare Buddha, attraverso lo studio dei testi sacri, la tecnica della meditazione, l’invocazione del Buddha e la pratica di esorcismi. Questa dottrina assimilò una serie di elementi appartenenti ad altri scuole e culti, e ciò le consentì di acquisire un crescente credito. In quegli stessi anni, un altro bonzo, Kūkai, tornò dalla Cina portando con sé gli insegnamenti del buddhismo tantrico e fondando il tempio Kongōbuji sul monte Kōya, quartier generale della scuola Shingon, che ben presto guadagnò un grande favore. Si trattava di una dottrina essenzialmente esoterica, la quale tuttavia presentava anche un aspetto popolare, caratterizzato dall’uso di formule magiche e mistiche; essa concepiva l’universo come la manifestazione del Buddha Dainichi. L’edificazione di questi complessi monastici all’esterno della città, rispecchiava la volontà di impedire al clero di influenza la politica; tuttavia nel corso del periodo numerosi templi privati furono costruiti all’interno della città. Nel frattempo i complessi buddhisti avevano iniziato a rifornirsi di armi e a disporre di monaci guerrieri (sōhei) al fine di dirimere contrasti dottrinali interni. Inoltre, per ottenere esito positivo alle loro richieste, ricorrevano al potere magico- religioso intimidendo o minacciando il governo imperiale. La diffusione della fede buddhista presso le masse sarebbe avvenuta solo dopo la fine di questo periodo, ma verso la fine del X secolo essa iniziò a diffondersi grazie a dottrine di più facile accessibilità come quella Jōdo, introdotta dalla Cina, è che ebbe molto successo perché basava la sua fede nel potere salvifico di Amida. La diffusione del buddhismo beneficiò anche della sua capacità di assimilare i culti shintoisti, anche attraverso l’idea che i kami fossero una manifestazione del Buddha. Il buddhismo continuò ad ispirare opere artistiche (amida), ma lo stile e le forme tendevano ad allontanarsi dal modello continentale. La vera innovazione riguardò lo sviluppo di un’arte pittorica, nota come Yamatoe (pittura Yamato) dove si dipingevano paesaggi naturali e scene della vita di corte; cominciarono ad apparire su paraventi (byōbu), mentre successivamente si diffusero su rotoli di carta (emakimono). Le corti di ricchi templi e di importanti residenze private cominciarono a essere riempite di giardini e boschetti, di stagni e laghetti, di padiglioni e altri elementi tipicamente giapponesi. L’introduzione di nuove forme artistiche dalla Cina non interruppe la ricerca di soluzioni autonome. Sono dunque le espressioni culturali a rappresentare l’aspetto più vitale del periodo Heain, ma occorre considerare che essa ruota attorno all’aristocrazia la quale, all’epoca, rappresentava una piccola parte della popolazione. ECONOMIA E SISTEMA SHŌEN In periodo Nara, allo scopo di aumentare il volume delle entrate proveniente dalla tassazione dei kubunden e soprattutto per allentare la pressione demografica, era stata consentita la possibilità di mantenere il controllo delle aree a coloro che avevano provveduto a bonificarle. Si calcola, in effetti, che nel territorio vivessero circa 5-6 milioni di persone. Questo, unito agli obblighi fiscali, aveva generato una diffusa povertà, spingendo molti contadini ad allontanarsi dalle terre. Questo aveva spinto il governo ad attuare una riforma volta a rendere coltivabili zone delle regioni nord-orientali, ma non erano riusciti a trovare la manodopera necessaria. Così, nel 723, era stato deciso di affidare questo compito a singole famiglie in cambio della concessione del loro possesso da una a tre generazioni, una misura che con il passare del tempo era diventata perpetua. Di questo avevano approfittato innanzitutto i nobili e le istituzioni religiose, portando vantaggi solo a queste ma non al governo imperiale. Questa tendenza si accentuò nel periodo Heian, comportando una riduzione dei terreni sottoposti al sistema Kubunden e alla formazione di estese zone agricole private. Questi erano gli Shōen, verso i quali si diressero i contadini che avevano abbandonato le terre statali. Nei primi decenni del periodo Heian, furono attuati alcuni tentativi finalizzati a riaffermare il primato politico dell’imperatore e il controllo statale sulle terre agricole. Ma con l’indebolimento del governo la nobiltà di origine uji e le grandi istituzioni religiose poterono estendere il controllo su ampie zone agricole grazie al potere politico, ma anche grazie a quei contadini che cedevano loro i terreni in cambio di condizioni più vantaggiose. Infatti, con la diminuzione delle entrare provenienti dai kubunden, le tasse erano aumentate e in contadini non riuscivano più a sostenere tali oneri. Elemento essenziale dello Shōen era, inoltre, il fatto che erano esentasse. Un’ulteriore misura che trasformò queste tenute in veri e propri possedimenti privati fu quella di escludere i dipendenti del governo centrale dalla possibilità di accedervi al fine di svolgere compito amministrativi e di tutela dell’ordine. Questo avrebbe segnato la transizione vero l’ichien shōen, che designa i possedimenti terreni all’interno dei quali il beneficiario dei privilegi deteneva tutti i compiti di governo e i diritti amministrativi. Questa figura era nota come ryōshu. Bisogna comunque tenere conto del fatto che fu un processo lento, che iniziò nell’VIII secolo; attorno all’XI secolo, questo processo interessava la metà delle terre, mentre nel XIII secolo raggiunse una completa maturazione. Gli Shōen erano nelle mani di importanti clan, templi buddhisti e santuari shintoisti. Spesso un singolo proprietario controllava molteplici proprietà, il più delle volte situati in regioni diverse; questo comportava l’impossibilità di controllare tutti i territori e, quindi, la necessità di delegare i compiti amministrativi a funzionari locali, gli shōkan. come dalla stessa dinastia imperiale, la quale si servì di un’analoga organizzazione interna quando, con l’istituzione della pratica insei, poté rientrare attivamente nella competizione politica ed economica. Ciò consentì alla famiglia imperiale di sostituirsi al clan Fujiwara come arbitro nell’aspra contesa dei diritti sulle risorse della terra e di acquisire a sua volta il controllo su estese tenute agricole, trasformandosi così nel più grande proprietario terriero del Paese. Allo stesso tempo, però, il ricorso alla forza delle armi rappresentava sempre più il mezzo per dirimere i contrasti politici e per risolvere le dispute per il controllo delle terre, beneficiando in primo luogo i detentori del potere militare, cioè le grandi famiglie guerriere delle province e le istituzioni buddhiste. Non era affatto raro che nella capitale si assemblassero bande armate, la cui presenza serviva a garantire che le richieste presentate fossero di fatto accolte dalla Corte, generando un clima di tensione. Il mantenimento del governo civile venne così a dipendere in modo crescente dalla classe militare, come dimostrò la guerra civile che si scatenò nel 1156 a seguito di una disputa per la successione imperiale, nota come Hōgen no ran. Infatti, nel 1155, l’imperatore in ritiro Sutoku non era riuscito nel suo intento di porre suo figlio sul trono, cui era invece asceso Go Shirakawa, e l’anno seguente alcune grandi famiglie militari presero le armi schierandosi a sostegno dell’una o dell’altra fazione. Protagonisti principali dello scontro furono i due clan Taira e Minamoto, i primi (noti anche come Heishi o Heike) discendevano dall’imperatore Kanmu e avevano stabilito un potere personale nelle regioni del Mare interno, mentre i secondi appartenevano al ramo Seiwa del clan Minamoto (o Genji), creato nell’814 dall’imperatore Saga, e si erano affermati nella zona del Kantō. I Taira, guidati dal loro leader Kiyomori, appoggiando la causa di Go Shirakawa, nel 1156 riuscirono a sconfiggere i Minamoto, sostenitori dell’imperatore in ritiro. La vittoria riportata dai Taira segnò l’inizio di una fase di supremazia esercitata da questo clan in bari ambiti della vita politica ed economica. Dal suo quartier generale fissato nella residenza di Rokuhara, a Heian, Kiyomori poté dirigere una politica resa efficace dal diretto controllo che egli stabilì sulla corte, presso cui ottenne importanti cariche (come quella di consigliere e di gran ministro) e onorificenze, tra cui il terzo rango, sino ad allora riservato alla nobiltà della corte. Così, per la prima volta nella storia del paese, un membro dell’aristocrazia provinciale entrava nella gestione diretta degli affari e negli organismi politici della corte. Ma il potere di Kiyomori si fondò anche sul ricorso al dispotismo e alla violenza, che dispiegò in modo cruento contro chiunque potesse minare la sua posizione; esemplare, a questo proposito, è l’azione condotta contro alcune istituzioni religiose, che furono distrutte e saccheggiate. Ma, ancora una volta lo scontro si risolse attraverso il ricorso alla forza di cui disponevano le potenti famiglie guerriere e le grandi istituzioni religiose, che si raccolsero sotto la guida del capo clan Minamoto. Si trattava di Minamoto no Yoritomo, il quale sconfisse la coalizione guidata dai Taira e uscì vittorioso dalla guerra Genpei, tra il 1180 e il 1185 e che si concluse con la battaglia navale di Dannoura. In questa celebre battaglia, la nave che trasportava l’Imperatore bambino Antoku, nipote di Taira Kiyomori, e molti membri della corte affondò causando la morte dei passeggeri e la perdita della spada, che rappresentava una delle tre insegne dell’autorità imperiale. Queste vicende confermarono come nel paese fossero avvenuto profonde trasformazioni nelle istituzioni politiche, economiche e scoiali, e segnarono il definitivo tramonto di ogni possibilità di ripristinare l’assetto e gli equilibri che le riforme del passato avrebbero voluto creare e sostenere. CAPITOLO 3 Periodo Kamakura 1185 d.C. – 1333 d.C. Il periodo Kamakura ha inizio con la battaglia di Dannoura, e prende il nome dalla città, appunto Kamakura, dove Minamoto Yoritomo aveva istituito il governo militare. Questo stava a indicare come, ormai, il potere stava passando dalla Corte aristocratica (kuge) alla classe militare (buke). Questo periodo segna una nuova fase nella storia, in quanto fu creato un centro di potere alternativo ed esterno a quello della corte imperiale. ECONOMIA Dal punto di vista economico, si andava estendendo il sistema degli shōen controllati dalle famiglie guerriere, i quali non aumentarono così solo la loro ricchezza, ma anche il loro potere. Per la kuge, invece, diventava sempre più difficile ottenere il reddito derivato dalla produzione agricola, dato che gli amministratori degli shōen fingevano problemi del raccolto per non inviare prodotti all’aristocrazia. ARTE Il periodo vede affermarsi la classe dei bushi, che iniziarono ad attirare l’attenzione degli intellettuali, diventando protagonisti in molte pagine della letteratura, come nel caso dello Heike monogatari (storia dei Taira) e nei racconti di guerra (gunki monogatari) che fioriscono nello stesso periodo. POLITICA AMMINISTRAZIONE E SOCIETA’ Heiankyō restò la sede del potere imperiale, ma perse il suo ruolo centrale nella vita politica, economica e sociale. Yoritomo decise di restare nella sua residenza di Kamakura, preferendo creare un centro di potere militare nuovo. Si tratta del bakufu (governo della tenda). A partire dal 1192, la carica di shōgun “generalissimo contro i barbari”, assegnata a Yoritomo dall’imperatore Go Toba, assunse un significato inedito; non più solo il conferimento di poteri militari, ma anche la delega di potere politico, anche se effettivamente Yoritomo riuscì a vincere i barbari estendendo la frontiera del Giappone sino all’estremità settentrionale dello Honshū. Il bakufu divenne il luogo verso cui il controllo amministrativo e militare sarebbe andato a mano a mano accentrandosi, ed è ovvio come più cresceva il ruolo del bakufu, minore diventava la capacità del governo imperiale. Nel 1185, dopo aver eliminato il fratello Yoshitsune, Yoritomo emerse come il più potente capo militare del Giappone alla guida di una estesa coalizione formata da guerrieri provinciali. Delle casate militare facevano parte anche i gokenin, ovvero uomini che spesso avevano origini umili e che appartenevano alle casate per legami di sangue o parentela, acquisiti per matrimonio o adozione. Yoritomo stabilì una rete di rapporti feudali fondati sul vincolo signore-vassallo, ovvero un legame politico e allo stesso tempo personale. Ciò determinò una trasformazione anche degli shiki dato che furono i vassalli inviati dal bakufu ad assumere l’amministrazione degli shōen, dapprima riducendo e poi eliminando, l’autorità dei kokushi. Yoritomo ottenne anche, sempre nel 1185, il titolo di sōtsuibushi (capo della polizia militare), il quale gli conferiva di inviare in tutte le provincie un suo dipendente deputato a svolgere compiti di sorveglianza, sono gli shugo, i quali reclutavano i dipendenti in loco per assistere i kokushi, al fine di garantire il pagamento delle tasse, l’amministrazione della giustizia e l’ordine pubblico. Questa carica sarebbe divenuta ereditaria; con il passare dei secoli sostituiranno definitivamente i kokushi, contribuendo ad eliminare i residui dell’autorità imperiale nelle province. I poteri di Yoritomo furono ulteriormente estesi quando, nel 1190, ricevette le nomine di sōshugo (capo dei governatori militari) e quella di sōjitō (capo degli intendenti terrieri militari), grazie alle quali assumeva il diritto di inviare gli shugo e i jitō anche nelle provincie esterne al Kantō. I jitō esistevano anche in passato, ed erano gli amministratori delle tenute di alti funzionari della corte, incaricati di raccogliere le imposte. Yoritomo aveva quindi posto alla guida delle province uno shugo e un jitō per ogni tenuta che collaborasse con i funzionari dello shōen per garantire un’equa ripartizione del prodotto agricolo. Il jitō aveva a sua volta uno shiki, grazie al quale beneficiava di una quota del reddito dello shōen, ed era incaricato di garantire la pace e l’ordine nella tenuta, di dirimere le contese interne e, anche, di riscuotere una tassa d’emergenza, l’hyōrōmai, esatta anche nelle tenute esterne al sistema shōen. Questa figura, la cui posizione divenne ereditaria, assunse un ruolo rilevante all’interno dello shōen, offuscano il ruolo degli amministratori preposti dai “proprietari” e, quindi, la stessa autorità di questi ultimi. Pur traendo un sostentamento economico autonomo, i jitō erano al servizio di Yoritomo che, attraverso loro, guidava l’amministrazione militare e civile locale. Yoritomo poté così stabilire una rete di controllo sugli affari interni degli shōen; la sanzione ufficiale della Corte imperiale al sistema di shugo e jitō, infatti, gli consentì di estendere il proprio dominio sulle provincie lontane da Kamakura, nonché di rafforzare i propri diritti sulla raccolta delle imposte e sul conferimento di una protezione militare nelle tenute agricole. L’apparato amministrativo del bakufu si fondava su tre organismi: • L’ufficio degli affari militari, o Samurai dokoro, istituito nel 1180, cui spettava il compito di controllare i vassalli e sovrintendere agli affari militari e di polizia; • Il kumonjo (ufficio dei documenti pubblici) istituito nel 1184, che nel 1191 confluì nel mandokoro, ovvero l’ufficio amministrativo, nel quale erano conservati i documenti pubblici e ci si occupava delle questioni amministrative e politiche; • Il Monchūjo, o Ufficio investigativo, creato nel 1184, con il compito di fungere da Corte d’appello presso cui accogliere i reclami e dirimere le contese di natura legale, di far rispettare le norme penali e di conservare la documentazione giudiziaria e catastale. Si trattava di organismi privati del clan Minamoto, i quali avevano funzionato già durante la guerra e che, dopo il 1185 estesero la loro giurisdizione anche nelle regioni occidentali. Ogni ufficio era guidato da un capo, scelto personalmente da Yoritomo. All’interno della classe militare esisteva una rigida gerarchia, al cui apice stava un numero ristretto di vassalli, i gokenin. Al di sotto di questi trovavano posto i samurai, che disponevano di cavalli e di un gruppo di seguaci, mentre al gradino più basso erano collocati i fanti (zusa), privi di cavalli e di elaborate realizzare le proprie ambizioni, occorreva aprire una disputa con il governo di Kamakura che andava bel oltre il piano politico; per tanto Go Daigo cercò di guadagnarsi l’appoggio militare di quanti auspicavano la fine della supremazia Hōjō. Di fronte ai ripetuti tentativi di complotto contro il bakufu, nel 1331 Kamakura reagì punendo gli esponenti di rilievo e, quindi, inviando uomini armati a Heiankyō. Dopo un breve e inutile tentativo di difendersi, Go Daigo fuggì dalla capitale, portando con se i simboli dell’autorità imperiale. Fu però catturato e riportato a Heiankyō, dove venne deposto e mandato in esilio. Questo non gli impedì, però, di evadere nel 1333. Kamakura inviò quindi due contingenti di truppe verso ovest, guidati da due generali, uno sei quali cadde in battaglia, lasciando l’altro al comando delle forze shogunali: si trattava di Ashikaga Takauji. La sua era una famiglia di nobili origini, che discendeva dal clan Minamoto e aveva consolidato una posizione di prestigio e di potere nella regione orientale. Trovandosi da solo non esitò a compiere un atto di insubordinazione schierandosi dalla parte della coalizione filo imperiale e rivolgendo le truppe contro gli Hōjō. Il suo ingresso a Heiankyō nel 1333, dove sconfisse la resistenza shogunale, fu seguito da quella di Go Daigo, che si reinsediò nella capitale. A est, nel frattempo, un altro valente capo militare, Nitta Yoshisada, completava la rovina degli Hōjō attaccando Kamakura e distruggendo le sue istituzioni, mentre l’ultimo reggente compiva il suicidio rituale assieme ai suoi vassalli e servitori. Questi eventi segnarono la fine del bakufu, mentre a Heiankyō Go Daigo proclamò l’inizio dell’era Kenmu nel 1334 e diede inizio al suo progetto di restaurazione del potere. Tuttavia, esso si rilevò inopportuno e anacronistico, in quanto il ripristino del governo imperiale implicava in primo luogo la garanzia di maggiori entrare, e ciò sarebbe stato possibile solo assumendo la gestione delle contese per il controllo delle terre agricole, abolendo le immunità e riducendo il potere di shugo e jitō. Go Daigo stesso parve esser consapevole di non possedere la forza per sovvertire il sistema di privilegi feudali consolidatosi nel Paese, né la coalizione che lo aveva sostenuto mantenne una sua coesione dopo la caduta di Kamakura. Il vero scopo che mosse i grandi clan guerrieri gu quello di partecipare alla competizione per ottenere maggiore potere. Go Daigo doveva esserne conscio se, nel ricompensare quanti avevano sostenuto la sua causa, assegnò importanti cariche ai grandi capi militari. Molti provvedimenti varati dal sovrano contraddicevano gli obbiettivi stessi della restaurazione. Takauji, che disponeva di una forza militare maggiore di quella di qualunque altro capo militare, si ritenne insoddisfatto delle pur importanti cariche ottenute e del fatto che l’imperatore aveva provveduto a concedere il titolo di shōgun a suo figlio, il principe Morinaga. Nel 1336, dopo essersi ribellato al sovrano e aver sconfitto le truppe imperiali, Takauji poté di nuovo entrare trionfalmente a Heiankyō, dove provvide subito a deporre Go Daigo sostituendolo con un imperatore della linea principale. Qui Takauji stabilì la sede del suo governo, che ricevette la definitiva legittimazione nel 1338, anno in cui ottenne la carica di shōgun. Il tentativo di restaurazione terminò quindi con la nascita di un nuovo governo militare nella capitale imperiale, e con un ulteriore spostamento del potere verso l’autorità militare. A livello amministrativo, Takauji aveva dato vita a una fusione tra cariche civili e cariche militari che consentì ai governatori militari di ottenere un prete maggiore rispetto a quello detenuto sino ad allora. La nobiltà civile e le istituzioni religiose, che già da tempo avevano visto diminuire la possibilità di reclamare i pieni diritti sugli shōen, si trovarono a essere scarsamente competitive di fronte ai jitō e agli shugo, propensi a ricorrere all’esercizio della forza militare per ottenere il controllo, parziale o completo, sulle risorse agricole che i possedimenti fornivano. La stessa casa imperiale, pur mantenendo un ruolo e un prestigio a livello formale, si trovò privata delle proprietà che, al fine di ripristinare il governo imperiale, centralizzato, erano state assegnate al tesoro pubblico. Più che limitare l’autorità dell’élites guerriera e riasserire il controllo economico e politico della Corte e dell’aristocrazia civile, l’opera di Go Daigo fornì, dunque, l’opportunità per procedere a una redistribuzione dei privilegi feudali che, per alcuni, significò un ulteriore consolidamento della propria forza. Ma la vittoria di Takauji e la nascita del bakufu a Heiankyō non riportarono la pace nel Paese, che continuò a essere afflitto da turbolenze interne, fazionalismi e lotte civile da cui sarebbero scaturiti nuovi equilibri di potere. Il periodo Ashikaga – Muromachi 1338 d.C. – 1573 d.C. Il periodo che vide succedersi 15 Shōgun del clan Ashikaga, prende il nome dal quartiere dove fu istituito il governo (Muromachi). POLITICA E SOCIETA’ Takauji si ispirò al modello del precedente bakufu, da cui prese le istituzioni, le concezioni e anche parte del personale necessario al suo funzionamento. Il governo si basava, quindi, sul Samurai Dokoro, il Mandokoro e il Monchūjo. La carica più elevata era quella di kanrei (capo dell’amministrazione). Esisteva poi un ufficio per le ricompense, Onshōgata. Takauji delegò gran parte delle responsabilità amministrative e giudiziarie a suo fratello Tadayoshi, riservandosi l’autorità militare. Anche a livello locale fu mantenuto il sistema degli shugo e dei jitō. Fuori da Heiankyō, l’autorità del bakufu, era rappresentata da delegati regionali; il controllo sulla corte non fu, invece, delegato a funzionari, ma garantito dalla vicinanza con la sede del governo militare. Nel 1336 emanò il Kenmu shikimoku, un codice di diciassette articoli ispirato al Codice Jōei, che rimarrà in vigore per tutto il periodo. Dopo la conquista della capitale dovette assicurare il controllo sul Paese e sedare il conflitto tra le due “corti imperiali del Sud e del Nord” (Nanbokuchō). Poco dopo essere stato deposto, infatti, Go Daigo era riuscito a fuggire nuovamente dalla capitale e a rifugiarsi a Yoshino, a sud di Heiankyō, portando con sé le insegne imperiali. Ebbe così inizio una contesa per la legittimità del potere, accompagnata da ripetuti scontri, la quale si sarebbe protratta fino al 1392, anno in cui l’ultimo sovrano della corte meridionale rinunciò al potere, consentendo agli Ashikaga di estendere il potere su tutto il Paese. Takauji si trovò ad agire all’interno di un quadro legale e istituzionale mutato, in cui la natura delle relazioni con i vassalli apparivano diverse da quelle che legavano i gokenin a Kamakura. I vassalli, infatti, possedevano poteri a volte pari a quelli dello shōgun. Il bakufu, quindi, non serviva più come garante dei diritti e dispensatore di potere e giustizia, e ciò contribuì a rendere meno solido il sistema di alleanze. Inoltre potenti famiglie shugo preso il monopolio della carica di kanrei. Il governo militare riusciva quindi a garantire equilibrio solo grazie all’influenza dei capi Ashikaga. Alla sua morte, Takauji (1358) lasciò un’eredità tutt’altro che solida, anche se la maggior parte degli shugo apparivano fedeli, trattandosi per la maggior parte di uomini legati agli Ashikaga da legami di parentela. Appartenevano, infatti, all’ichimon (o primo cerchio) al di fuori del quale stavano i tozama (signori esterni). Il terzo shōgun, Yoshimitsu, fu nominato quando era ancora un bambino, ma divenne un capo energico. Nel periodo in cui fu a capo del bakufu tentò di consolidare il suo governo, rafforzando il controllo sulle casate guerriere e sedando le rivolte che minacciavano la sua egemonia. Inoltre impose ad alcuni shugo l’obbligo di stabilire la residenza nella capitale, per controllarli. Riuscì quindi a mantenere il controllo di tutto il Paese, tranne che del Kantō, su cui gravava il potere del governo generale della regione. Dopo aver sanato la frattura fra le due corti imperiali lasciò la guida del bakufu al figlio Yoshimochi nel 1394, per assumere la carica di Gran ministro di Stato. Criticata, invece, fu la sua decisione di stabilire rapporti commerciali con la Cina nel 1401, fregiandosi del titolo di “re del Giappone” e accettando la condizione di tributario impostagli dall’Imperatore Ming nel 1402. Ma questo favorì una nuova interazione con la cultura cinese e aprì un fiorente commercio che comportò grandi profitti di cui beneficiò l’intero Paese. Lo stabilimento di licenze ufficiali consentì di controllare l’attività e di porre a freno la pirateria. Le autorità stabilirono una sorta di alleanza con i mercanti, garantendo protezione in cambio del loro servizio. Essi esportavano in Cina le katana, oltre a rame, ventagli, paraventi e rotoli dipinti, in cambio di monete, libri e ceramiche. I successori di Yoshimitsu non furono altrettanto abili nel’esercizio del potere, e il bakufu cominciò a declinare dopo la sua morte nel 1408. Yoshimochi era diventato il quarto shōgun Ashikaga; si era impegnato a eliminare gli aspetti della precedente politica che reputava eccessivi, recidendo il rapporto tributario con la Cina. L’eredità paterna gli fruttò un periodo di stabilità. Anche il sesto shōgun, Yoshinori, che detenne la carica tra il 1429 e il 1441, riuscì a rafforzare l’autorità del bakufu, sconfiggendo il governatore del Kantō. Venne ucciso da uno dei suoi vassalli, il quale sospettava che Yoshinori volesse togliergli la carica di shogu. Il clan Ashikaga ne uscì indebolito, dimostrando di non avere abbastanza forza per controllare i suoi subordinati. Sul piano economico il bakufu risentì della perdita del controllo sul commercio con la Cina, che passò nelle mani di grandi famiglie guerriere. Sotto Yoshimasa (VIII shōgun tra il 1449 e il 1473), l’autorità del governo militare fu completamente dispersa. Gli effetti dei problemi politici e sociali riguardavano in primo luogo il governo locale, dal quale erano state eliminate le forme di controllo dello Stato imperiale, i kokushi. Il fallimento di Go Daigo aveva determinato il superamento di questo sistema; gli shugo poterono quindi consolidare una posizione assoluta nelle provincie, trasformandosi in veri e propri capi regionali, i quali disponevano del potere militare, civile e amministrativo (che avevano assorbito dai Jitō). Avevano tratto beneficio dalla pratica, resa legale da Takauji, dell’Hanzai, che consentiva agli shugo di riscuotere la metà delle imposte degli shōen per sostenere le proprie milizie e che, assieme alla tassa Hyōrōmai, permise loro di assumere diritti all’interno delle tenute private. Il loro rapporto con il bakufu si basava sulla garanzia che esso poteva dare alla loro posizione. Ma con il declino dell’autorità del governo militare, tali garanzie vennero meno e, con esse, il vincolo di fedeltà. Esisteva una marcata differenza tra i territori controllati dai diversi shugo; se, ad proficuo non solo per il bakufu, ma anche per i monasteri, le famiglie militari e i ricchi mercanti. Il deterioramento del governo degli Ashikaga minò la capacità di reprimere il commercio illegale e la pirateria, inoltre l’onere finanziario derivante dall’accoglienza delle missioni non sempre era compensato dal valore delle merci che giungevano alla Corte Ming, così venne presa la decisione dapprima di limitare e poi di proibire il commercio marittimo. L’ultima missione partì dalla Cina nel 1547, e poco dopo i contatti con la Cina furono formalmente interrotti. Parallelamente a questi eventi era andato crescendo il numero di pirati e di trafficanti non autorizzati attivi nel commercio clandestino, i quali si trovarono in concorrenza con i mercanti europei. L’arrivo dei primi mercanti portoghesi in una piccola isola del Kyūshū fu registrato nel 1543. L’attività dei portoghesi non si limitò al commercio, ma interessò anche l’ambito religioso. L’opera di evangelizzazione fu svolta principalmente dai gesuiti; l’attività di questi uomini fu essenziale sia nella divulgazione di nuove conoscenze nel Paese, sia nella trasmissione in Europa di notizie sul Giappone. Tra i fondatori di questo ordine vi era anche Francesco Saverio, il quale sbarcò in Giappone nel 1549. Recatosi a Heiankyō con l’intento di ottenere il consenso a svolgere la sua attività missionaria, istituì la prima chiesa cattolica a Yamaguchi. Furono in primo luogo i daimyō del Kyushu ad accogliere la nuova fede, che da qui si spostò poi nel Giappone centrale, interessando anche le classi rurali. Dopo la sua ascesa, lo stesso Oda accordò la propria protezione ai missionari gesuiti. Per oltre mezzo secolo i rapporti con gli europei furono limitati ai portoghesi, mentre dopo il 1584 giunsero nel Paese anche gli spagnoli, che garantirono la loro protezione all’attività missionaria dei francescani (a differenza degli olandesi, arrivati nel 1609, e degli inglesi, sbarcati nel 1613, determinati da scopi puramente commerciali). I giapponesi erano più ricettivi rispetto ad altri popoli dell’Asia verso questa religione, per questo molti studiosi hanno definito questo periodo (fino al 1639) “secolo cristiano”. Ma il numero ridotto dei convertiti, il limitato impatto che la nuova dottrina ebbe sulla cultura e l’interesse extra-religioso che spinse molti signori ad accogliere i missionari nei loro feudi, rende eccessiva questa definizione. A livello popolare, la religione introdotta dagli europei era percepita con un sentimento genuino, la solida fede e la forza morale mostrate dai missionari costituivano un esempio da seguire. Attorno alla metà del 1500 i mercanti portoghesi avevano stabilito una sorta di monopolio sul trasporto di merci giapponesi all’estero e sull’importazione di prodotti stranieri, e la conversione dei daimyō fu determinata più dal desiderio di partecipare alle attività commerciali che non da ragioni di natura spirituale. Tali contatti consentivano inoltre di acquisire nuovi prodotti, conoscenze e tecnologia provenienti dall’Europa, primo fra tutti l’archibugio, diffuso in Giappone con il nome di tanegashima, dall’isola dove erano sbarcati i portoghesi. Ciò, assieme all’acquisizione di nuove conoscenze militari, influenzò in modo profondo gli eventi bellici che si stavano svolgendo nel Paese, dove l’impiego di armi da fuoco determinò sempre più le sorti delle battaglie, e costrinse a erigere massicci castelli entro cui difendersi e costrinse a modificare le armature dei guerrieri. L’attività militale, quindi, richiese crescenti risorse economiche di cui solo i maggiori daimyō disponevano, e ciò consentì loro di consolidare il proprio potere ed eliminare i rivali più deboli. Oltre alla tecnologia nautica e a nuovi motivi artistici, i giapponesi ebbero modo di conoscere gli orologi e gli occhiali, gli articoli di vetro e i tessuti di lana e di velluto, il tabacco e la patata. A questo periodo risalgono numerosi paraventi dipinti, che ben illustravano la visione che i giapponesi ebbero della fattezze, dei costumi e delle attività dei “barbari meridionali”. CAPITOLO 4 Periodo Azuchi-Momoyama 1573 d.C. – 1600 d.C. Il superamento dello stato di decentramento fu dovuto all’opera di tre daimyō, i quali, dopo aver consolidato una salda base nei propri territori, estesero il controllo sull’area di Heiankyō e quindi sul resto del Paese. Il processo è dovuto ad una serie di fattori, tra cui l’emergere dei daimyō stessi, che detenevano il governo assoluti nei propri territori. Il crescente ricordo a una nuova tecnologia militare, inoltre, accrebbe ulteriormente la distanza tra quanti disponevano di risorse da investire nell’attività bellica e chi, invece, non era in grado di accedere all’uso di armi moderne. Da questo confronto militare emersero alcuni importanti capi regionali, i quali, potendo contare sull’appoggio di daimyō minori, presero a nutrire l’ambizione di acquisire un potere più esteso. Concorse, inoltre, la generale crescita economica. Se nel Giappone centrale il potere dei grandi daimyō continuava a fondarsi sulle risorse agricole, nel Kyūshū molti acquisirono potere economico dagli scambi con l’estero. La stessa protezione accordata da Osa ai missionari fu motivata dalla volontà di attirare verso i propri domini le navi portoghesi. Anche i suoi successori seguirono il suo esempio, progettando di spostare verso est le basi degli scambi marittimi e di porre il commercio sotto un regime di monopolio. L’incapacità di attuare questa politica avrebbe condotto a una progressiva riduzione degli scambi con l’estero. In un paese al momento privo di una efficace autorità centrale, la presenza degli europei era avvertita come un pericolo, in considerazione anche del comportamento che questi avevano assunto in altre zone dell’Asia, dove l’opera missionaria aveva aperto la strada alla conquista militare. Lo stesso cristianesimo era percepito come una dottrina che possedeva una potenziale carica eversiva rispetto a un ordine sociale rigidamente gerarchico. Fu, dunque, all’interno di questo contesto che prese corpo il progetto di riunificare il Paese e di ristabilire un unico centro di potere. Alcuni tentativi vennero compiuti in tal senso dalla metà del XVI secolo, ma fu l’esercito guidato da Oda Nobunaga a conquistare Heiankyō nel 1568. Discendente da una famiglia guerriera minore e dotato di grandi capacità miliari, egli emerse sconfiggendo nel 1560 un potente daimyō rivale che aveva tentato di occupare i suoi terrioti. Da allora Oda si dedicò a consolidare il potere attraverso alleanze e matrimoni e raggiunse un prestigio tale da attirare l’attenzione dell’Imperatore, che si appellò a lui per pacificare la zona della capitale, nonché di Ashikaga Yoshiaki, desideroso di assicurarsi la successione alla guida del bakufu. Oda conquistò, quindi, Heiankyō e garantì a Yoshiaki la carica di quindicesimo shōgun della dinastia Asahikaga. Questo, però, iniziò a cospirare per eliminare Oda, il quale reagì costringendolo, nel 1573, a lasciare la carica e lo esiliò. Questi avvenimenti segnarono la fine del bakufu degli Ashikaga, e l’inizio del periodo Azuchi-Momoyama. POLITICA PER LA RIUNIFICAZIONE L’affermazione del potere di Oda procedette con il consolidamento del controllo sulla zona della capitale, che affermò ricorrendo a metodi di violenza estrema per eliminare quanti si opponevano alla sua ascesa. I daimyō rivali furono via via sconfitti e costretti a diventare suoi vassalli. Nel 1571 egli attaccò l’Enryakuji, sul Monte Hiei, distruggendo tremila edifici e sterminando migliaia di monaci; con metodi analoghi furono annientati gli altri centri religiosi rivali, i cui territori furono confiscati e posti sotto la guida di figure delegate da Oda. In tal modo, fu posta fine all’autonomia e al potere che queste istituzioni avevano detenuto, e furono gettate le basi per l’assoggettamento del Buddhismo e dello Shintoismo al governo militare. Diverso fu l’atteggiamento riservato al Cristianesimo e, più in generale, verso gli europei e le loro innovazioni tecnologiche in campo militare, di cui fece un abile impiego. In effetti fu il primo giapponese a usare le nuove armi e a impiegare rivestimenti di ferro nelle sue navi da guerra; inoltre, fece erigere fortezze di pietra in grado di resistere agli assalti di armi da fuoco. Il primo esempio di questo genere di costruzione è rappresentato dal castello che fece edificare nel 1576 ad Azuchi, per porvi la sede del quartier generale. Oda inaugurò così la tradizione di concentrare gli eserciti in quartier generali fortificati, che proseguì nel corso di tutto il periodo Momoyama e fu simboleggiato dall’edificazione di castelli riccamente adornati, la cui magnificenza suggerisce come il loro scopo non fosse meramente difensivo, ma utile alla glorificazione del signore che lo abitava. L’improvvisa scomparsa di Oda, assassinato da un suo vassallo nel 1582, impedì che il suo progetto fosse portato a termine. La riunificazione era stata realizzata solo in parte; alla vigilia della sua morte Oda aveva stabilito il controllo su circa 30 dei 68 province del Giappone. La sua attività aveva avuto un carattere prettamente militare, ma diede avvio ad una ristrutturazione dell’amministrazione e introdusse alcune importanti innovazioni che ridussero il potere indipendente delle province e posero le basi per la riunificazione politica. Assegnò ai suoi vassalli i feudi confiscati, nei quali fu ricalcato il modello di un quartier generale fortificato dove si concentravano le truppe armate. Ciò favorì l’allontanamento dei guerrieri dalle zone rurali e contribuì ad avviare la separazione della classe militare da quella contadina, nota come heinō bunri. Tale processo proseguì con una serie di provvedimenti, adottati a partire dal 1576 in alcune regioni, che furono finalizzate a confiscare le armi della popolazione non guerriera; oltre che contro le comunità religiose ribelli, essi erano rivolti ai contadini, i quali furono vincolati al proprio status e obbligati a dedicarsi esclusivamente al lavoro agricolo. Anche per quanto riguarda la sfera religiosa furono attuati interventi, come l’obbligo imposto agli abitanti dei villaggi di affiliarsi ai templi autorizzati. Un altro rilevante provvedimento è rappresentato dalla riorganizzazione delle zone rurali in villaggi e dall’imposizione della consegna dei registri catastali relativi ai territori assoggettati; in alcune aree Oda fece eseguire il rilevamento dei terreni agricoli (kenchi) ricorrendo a nuovi criteri di misurazione e introducendo un nuovo sistema fiscale. Assunse, inoltre, il diritto di trasferire da un feudo a un altro i suoi vassalli, dai quali pretese un’obbedienza assoluta, assieme ad metallo, inizialmente impiegata per pubblicare i testi religiosi, classici giapponesi e occidentali, e dizionari di lingua, e che contribuì a dare impulso alle arti popolari e all’allargamento del pubblico di lettori. Periodo Edo-Tokugawa 1603 d.C. – 1868 d.C. Hideyoshi aveva cercato di assicurare la successione al figlio Hideyori e per questo aveva istituito un Consiglio di cinque grandi anziani (gotairō), i quali avrebbero dovuto vegliare sul giovane. Ma questi non gli furono così fedeli e, uno tra questi, Tokugawa Ieyasu, riuscì a prevalere sugli altri. POLITICA, AMMINISTRAZIONE E SOCIETA’ Lo scontro decisivo per prendere il potere si ebbe nel 1600, quando Ieyasu sconfisse i suoi rivali nella battaglia di Sekigahara; tre anni dopo ottenne il titolo di Shōgun, potere che esercitò nella nuova sede del bakufu, Edo. Nel 1605 rinunciò alla carica che diede al figlio Hidetada, e assunse quella di shōgun in ritiro (ōgosho); inoltre trasferì la sua residenza a Sunpu, da dove continuò ad esercitare il potere. Ma la sconfitta non bastò ad evitare nuovi attacchi da parte di Hideyori, e per questo gli fu consentito di mantenere il castello di Ōsaka, oltre ad altri territori. Ieyasu si occupò per prima cosa della riorganizzazione dei possedimenti terrieri. Le terre confiscate non furono sufficienti a ricompensare i Daimyō che lo avevano sostenuto, per questo dovette riassettare il territorio. Stabilì, in primo luogo, una gerarchia tra i daimyō fondata su vincoli di fedeltà tra questi e lo shōgun. Una posizione elevata fu assegnata ai daimyō imparentati con i Tokugawa (shinpan), ai quali seguivano quei daimyō che avevano sostenuto Ieyasu (fudai) e infine i daimyō rivali (tozama). Questi furono sistemati in modo che i daimyō rivali non potessero ribellarsi, ma anche in modo da poter controllare le vie di comunicazione e di accesso a Edo. Ieyasu si servì dei vassalli per amministrare il territorio; questi si distinguevano in hatamoto (uomini della bandiera), i quali spesso potevano disporre di un proprio feudo e i gokenin (uomini della casa), che occupavano una posizione inferiore e ricevevano uno stipendio. I Tokugawa mantennero, anche se solo formalmente, il legame con l’Imperatore, e anzi, furono proprio loro a finanziare la Corte, affinchè potesse mantenere uno stile di vita consono alla propria posizione. Allo stesso tempo, però, ne limitarono l’autonomia politica, disponendo l’insediamento di un governatore, il quale doveva mantenere i contatti tra l’Imperatore e il bakufu. Inoltre, nel 1615, furono emanate delle regole alle quali la famiglia Imperiale e l’aristocrazia civile dovevano attenersi, che vietavano al sovrano di partecipare agli affari di Stato. Lo shōgun poteva chiedere ai feudatari l’invio di milizie in caso di necessità, o il trasferimento di fondi e manodopera per la costruzione e la manutenzione delle strade. Anche la condotta dei daimyō fu sottoposta a una normativa emanata sempre nel 1615, il Buke shohatto, il quale imponeva rigide regole ai feudatari: stabiliva che in caso di successione o matrimonio, essi dovevano ottenere l’approvazione dello shōgun; poneva un limite al potenziamento militare dello han; vietava la costruzione di navi d’altro mare; proibiva di aderire al Cristianesimo e imponeva, inoltre, il sankin kōtai, già utilizzato da Hideyoshi. Rappresentò un efficace sistema di controllo sui daimyō, ai quali veniva imposto l’obbligo di costruire una residenza (yashiki) nella capitale, dove dovevano dimorare per un certo periodo secondo scadenze fissate e, in loro assenza, lasciare i propri familiari e altri funzionari al loro servizio. Tale pratica sottraeva molte delle risorse finanziare degli han, anche perché la casa costruita a Edo doveva essere arricchita con un lusso proporzionale all’importanza per proprietario. Lo shōgun operava con l’ausilio di due organismi: • Il Consiglio degli anziani (rōjū): formato da 4 o 6 membri selezionati tra i fudai, i quali dovevano gestire l’amministrazione e le questioni di rilevanza nazionale, tra cui quelle relative alla corte, ai daimyō, alle istituzioni religiose, agli affari militari e a quelli esteri. Inoltre aveva potere di intervento sulla tassazione e la distribuzione delle terre e disciplinava il conio e la circolazione monetaria; • Il Consiglio dei meno anziani (wakadoshiyori): contava 3 o 4 membri scelti sempre tra i fudai ma di rango inferiore ed era responsabili delle questioni interne a Edo. A questo organismo erano sottoposti i metsuke, ovvero gli ispettori e i funzionari incaricati di vigilare sull’osservanza delle norme. A questi vanno aggiunti: • Alta corte di giustizia (Hyōjōsho); • Intendenti delle finanze, che si occupavano a livello locale, del controllo del governo di Edo, da questi dipendevano intendenti locali selezionati tra gli hatamoto di medio e basso rango; • Magistrati delle città, che si occupavano del controllo delle zone urbane. Questo modello amministrativo era ricalcato anche in ogni singolo han, all’interno del quale il daimyō godeva di una certa autonomia, che riguardava anche la consistenza del suo esercito e il numero e le dimensioni delle fortezze. I guerrieri alle dipendenze dei daimyō erano iscritti in un registro personale, organizzati secondo il proprio rango e stanziati attorno al castello del signore. Il daimyō governava attraverso un ufficio centrale delle finanze, un corpo di intendenti rurali deputati al controllo dei villaggi e il magistrato che sorvegliava i distretti urbani (machi). Le unità dei mura e dei machi si autogovernavano sotto la guida di un capo scelto a livello locale. All’interno dei villaggi venne rafforzato il divieto di abbandonare, acquistare o cedere i terreni. I contadini furono organizzati in gruppi di famiglie (goningumi). Gli amministratori alle dipendenze del daimyō compivano ispezioni periodiche nei mura e prelevavano le tasse raccolte dal capo villaggio. Questo sistema è detto bakuhan. L’efficacia del sistema dipende dalla capacità dei Tokugawa di garantire equilibrio nei rapporti di potere con i daimyō e sorretto dall’adozione di alcune misure sociali come il processo di differenziazione delle classi sociali, sulla base del ruolo occupazionale, già utilizzato da Hideyoshi e portato in questo periodo a termine, con l’adozione del modello shinōkōshō, finalizzato a organizzare i gruppi guerrieri, gli agricoltori, gli artigiani e i mercanti in questo ordine. Poiché la maggior parte dei mercanti e degli artigiani si concentravano nelle zone urbane, questi erano detti chōnin (persone della città) e considerati come un’unica categoria. Venivano riconosciuti anche categorie privilegiate, come i kuge, i religiosi e le monache (sō e ni), ma anche gruppi di infima reputazione, come gli eta e gli hinin, raggruppati sotto la denominazione di senmin (persone di basso rango), e posti al gradino più basso di quest’organizzazione, detta mibun. Ogni livello doveva rispettare delle norme precise. Ne conseguì non solo una differenziazione netta nello stile di vita, ma anche nella disposizione sul territorio, con la concentrazione di samurai, artigiani e mercanti nei centri urbani e agricoltori nelle zone rurali. Inoltre questa divisione impediva all’individuo di “mescolare” la sua classe sociale, alla quale era vincolato. A caratterizzare il periodo è il neoconfucianesimo; nato in Cina a partire dal XII secolo, esso si affermò anche fuori dalla Cina, grazie all’opera del filosofo Zhu Xi, il quale elaborò un sistema metafisico imperniato sul dualismo tra il li, che si riferisce alla legge per cui ogni cosa esiste, e il qi, l’elemento che le conferisce concretezza. Trasferita in ambito eitco-politico, questa suggerisce la condotta ideale dei governanti e del popolo, del cui benessere essi sono responsabili. Il neoconfucianesimo fu assunto come fondamento del regime di Edo, grazie soprattutto all’opera di Fujiwara Seika, il quale si dedicò alla divulgazione della dottrina. I Tokugawa si dotarono di un ufficio di consiglieri confuciani e istituirono anche delle scuole confuciane, studi che divennero parte integrante nella formazione dei samurai. La dottrina venne adattata alle condizioni del Giappone, come attesta il contenuto del Codice bushidō (“la via del guerriero”) elaborato da Wamaga Sokō, per giustificare il ruolo dei militari come élite governante. RELIGIONE Dopo la sua morte, Ieyasu fu divinizzato in un imponente mausoleo edificato a Nikkō. Ciò rientrava in una politica più generale che voleva mettere le istituzioni religiose al servizio del bakufu. Le istituzioni buddhiste furono economicamente indebolite a seguito della marcata riduzione delle terre assegnate ai monasteri. I templi periferici furono riorganizzati e subordinati a quelli controllati dal governo centrale che, nel 1635, pose tutte le questioni inerenti ai tempi sotto la giurisdizione di un unico magistrato, mentre l’attività del clero venne regolata secondo quanto elencato in una serie di norme, il Jiin hatto. I Tokugawa fornirono protezione, sia al sistema buddhista che a quello scintoista, data l’importanza che avevano avuto in Giappone, inoltre il buddhismo servì a contrastare la diffusione del cristianesimo; infine, nei templi, furono istituiti apposti registri (terauke) presso cui ognuno aveva l’obbligo di iscriversi. ECONOMIA e POLITICA ESTERA Ieyasu, da principio, aveva assunto un atteggiamento indulgente verso i missionari europei, in quanto voleva sposare i traffici marittimi a Edo. D’altra parte per il bakufu era fondamentale impedire che i daimyō delle regioni occidentali si arricchissero grazie al commercio con l’estero. Ieyasu favorì quindi il commercio estero, verso la Cina, le Filippine e il Messico. Oltre che con portoghesi e spagnoli, cercò di trattare con gli olandesi e gli inglesi, senza successo. Questo, oltre al rifiuto cinese di istituire un commercio ufficiale sottoposto a un sistema di autorizzazioni, lo indusse a tentare di ottenere il monopolio sul commercio attraverso il controllo dei porti e l’imposizione del sistema di certificati di autorizzazione (shuinsen). Nel 1612 impose una limitazione della fede cristiana, percepita come un pericolo politico e ideologico. Ma fu sotto i suoi due successori che l’intolleranza verso questa fede si fece aspra, ricorrendo a torture, martiri, esecuzioni ecc. Misure estreme furono assunte dopo una rivolta nel 1673 a Shimabara, che il bakufu sospettò fosse fomentata da samurai convertiti e che fu repressa l’anno seguente. Nel 1639 furono espulsi i portoghesi, due anni dopo gli olandesi furono confinati a Dejima (isolotto artificiale collegato a Nagasaki) e i cinesi relegati in un quartiere di Nagasaki che divenne l’unico porto del Giappone autorizzato da Edo a svolgere limitate attività commerciali con l’estero. a risanare la crisi finanziaria del governo centrale e a ripristinare l’autonomia economica della classe militare. I primi interventi riguardarono il drastico contenimento delle uscite, l’appello a una condotta si austerità nel governo e nella vita privata della classe bushi, l’imposizione di norme suntuarie per tutte le classi sociali e il ristabilimento del valore della moneta. Gli effetti di questi provvedimenti, tuttavia, non risanarono le finanze del bakufu. Decise quindi l’adozione di misure più drastiche. In cambio della riduzione del periodo di soggiorno a Edo previsto dal Sankin kōtai, ai daimyō fu imposta una serie di prestiti forzosi che vennero usati per pagare le insolvenze contratte con gli uomini alle dipendenze dei Tokugawa. Gli interventi in ambito fiscale riguardarono l’adozione di un metodo più rigoroso di esazione delle tasse agricole, che prevedeva un pagamento annuo fisso (jōmen) in sostituzione della quota calcolata sulla nase della quantità di raccolto. Ciò ebbe benefici effetti per le casse shogunali, assicurando un netto aumento delle entrate e consentendo, nel 1731, di ristabilire le norme del Sankin kōtai e di revocare i prestiti forzosi imposti ai daimyō. Gli anni successivi, comunque, videro una nuova flessione delle entrate provenienti dalla tassazione agricola, in concomitanza con una fase di stagnazione economica e con l’emergere di una ondata di rivolte contadine (hyakushō ikki), che chiedevano la riduzione degli oneri fiscali. Si aprì così una nuova stagione di riforme, caratterizzata da una politica di espansione finanziaria, dal ritorno alla base aurea e di argento e a misure fiscali rigorose, nonché da un atteggiamento di maggiore apertura nei confronti della penetrazione del capitale mercantile urbano nelle zone rurali, che creò le basi del successivo sviluppo commerciale. Yoshimune tentò comunque di controllare il potere del ceto mercantile attraverso la concessione di licenze ufficiali a case commerciali (kabunakama), mentre la moratoria di tutti i debiti contratti dai bushi intendeva riequilibrare il rapporto tra la classe militare e quella mercantile. Nel complesso non riuscirono ad assicurare una solida base alle finanze shogunali ne, più in generale, a risolvere i problemi strutturali del sistema economico-sociale. In taluni casi, poi, esse sortirono effetti negativi, come testimonia ad esempio la politica di stabilizzazione del presso del riso, la quale, unita agli interventi volti a favorire la moneta metallica e la crescita della produzione agricola, generò una drastica riduzione del presso del riso, con dannose conseguenze per i samurai che percepivano stipendi fissi pagati con quote di questo cereale. Né gli effetti delle riforme risparmiarono i contadini, oberati da un più severo sistema fiscale, e i mercanti, colpiti da misure arbitrarie come la cancellazione dei debiti dei bushi. Le ripercussioni che l’opera di riforme ebbe in campo politico furono invece rilevanti, implicando in primo luogo la riaffermazione dell’autorità personale dello shōgun, il ritorno a un’amministrazione retta e responsabile della burocrazie e il rafforzamento del controllo sugli intendenti responsabili del governo locale nei territori dei Tokugawa. L’esempio di Yoshimune, tuttavia, non fu seguito dai due successivi shōgun, Ieshige e Ieharu, entrambi ricordati come individui di fragile stratura politica nelle mani dei ciambellani. Tra questi ultimi emerse Tanuma Okistugu, la cui ambizione lo portò ad affermarsi come il personaggio più influente dello shogunato Ieharu e ad assumere la carica di rōjū. ECONOMIA Tanuma è ricordato come l’ideatore di una serie di provvedimenti che ebbero effetti disastrosi. Egli riprese e sviluppò la politica di incoraggiamento del commercio già avviata sotto Yoshimune, concedendo licenze ad associazioni commerciali e istituendo monopoli semiufficiali in cambio di una tassazione su queste attività, e stimolò i traffici con l’estero a Nagasaki promuovendo le esportazioni di prodotti marittimi provenienti dallo Hokkaidō, che egli pianificò di colonizzare. Tentò, inoltre, di espandere la circolazione valutaria introducendo per la prima volta, monete di argento, e di creare un fondo nazionale finanziato dal capitale mercantile e disponibile per prestiti a basso tassi di interesse a favore della classe militare. L’attuazione di queste misure fu bruscamente interrotta alla morte di Ieharu, che consentì ai numerosi oppositori di Tanuma di provvedere alla sua destituzione, oltre che alla confisca dei beni e dei titoli acquisiti. Nel 1787, il giovane Ienari ereditò una situazione disastrosa, dovuta anche ad una serie di calamità naturali e carestie che avevano afflitto le campagne, provocando numerose insurrezioni contadine. Il lungo governo di Ienari fu caratterizzato da due fasi assai diverse fra loro, la prima delle quali fu dominata da Mastudaira Sadanobu, nominato consigliere dello shōgun ancora minorenne. Fu sotto la sua guida che si ebbe la seconda grande stagione di riforme, che prendono nome dall’era Kansei e che furono estese anche a tutti i feudi. ECONOMIA La politica di Matsudaira fu indirizzata verso il contenimento dell’espansione delle attività commerciali e le limitazioni finanziarie. Egli tentò in primo luogo di restituire efficienza all’amministrazione centrale, riaffermando l’autorità dei rōjū e provvedendo a epurare una serie di funzionari e, soprattutto, di ciambellani corrotti. Gli interventi nelle zone rurali furono orientati verso una più rigorosa esazione dell’imposta agricola. La creazione di riserve di rico per le cattive annate e il rafforzamento delle misure per prevenire l’allontanamento della manodopera contadina dalle campagne e per favorire lo hitosaeshi, cioè il ritorno dei contadini trasferitisi nelle zone urbane in cerca di lavoro ai loro villaggi. Assai rilevanti furono i provvedimenti che interessarono Edo, teatro di una grande rivolta avvenuta nell’estate nel 1787. La posizione finanziaria di Edo fu rafforzata rispetto a quella di Ōsaka grazie a un intervento per limitare il tasso di interesse, che consentì di controllare l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, e all’impulso dato allo sviluppo della produzione di sakè, olio, carta e cotone, nella regione circostante. Pur riuscendo a migliorare le finanze del bakufu, ad allentare le tensioni economiche e sociali e a restituire vigore alla burocrazia, le Riforme Kansei furono limitare ad avere effetti immediati. Il ritiro di Sadanobu nel 1793 coincise con l’assunzione diretta dei compiti di governo da parte di Ienari, che tuttavia non mostrò un particolare interesse verso le riforme; né diede dimostrazione di maggiore zelo nel contenimento delle spese, da cui risultò un generale impulso allo sviluppo economico e culturale del Paese e, allo stesso tempo, un deterioramento delle finanze e della posizione politica del governo di Edo. La seconda fase dello Shogunato di Ienari, dunque, fu caratterizzata da un governo inefficace e poco incline a tentare di risolvere i problemi di fondo che minavano il sistema economico- sociale dei Tokugawa e che emersero in modo drammatico a partire dagli ani Trenta dell’Ottocento, quando una serie di carestie gettò in profonda crisi i settori più fragili della società. Nel 1836, la provincia di Kai fu teatro di una violenta rivolta contadina; l’anno seguente il bakufu fu profondamente scosso dalla ribellione di un suo funzionario di Ōsaka, Ōshio Heihachirō, che, colpito dallo stato di indigenza in cui versava parte della popolazione, dapprima sollecitò il magistrato della città a distribuire le riserve di riso e quindi cercò di attaccare il castello di Ōsaka alla ricerca di beni da distribuire ai poveri. In quello stesso anno Ienari rinunciò alla carica di shōgun in favore del figlio Ieyoshi, sotto il quale si ebbe il terzo e ultimo ciclo di riforme promosso nel periodo Edo. POLITICA Intraprese tra il 1841 e il 1843, le riforme si ispirarono ai modelli precedenti e furono ideate da Mizuno Tadakuni, un eminente membro del Consiglio degli anziani. Il suo programma mirò ancora una volta al risanamento della situazione economica e politica del bakufu, che egli tentò di attuare ricorrendo a misure per molti versi contraddittorie, come nel caso dell’abolizione dei monopoli commerciali e delle organizzazioni per la vendita all’ingrosso, che egli riteneva avrebbe consentito di contenere l’aumento dei prezzi. Ciò, unito alla riduzione forzata dei prezzi, degli stipendi e degli affitti, ebbe effetti negativi sulla circolazione delle merci e sul rialzo dei prezzi stessi. Altrettanto controverso fu l’editto con il quale ordinò il trasferimento di tutti i daimyō degli han situati nei dintorni di Edo e di Ōsaka che interessò quindici feudatari, compreso quello di Kii facente parte delle “tre famiglie”. L’opposizione suscitata dall’adozione di queste misure indusse Mizuno a dimettersi dal suo incarico nel 1843, lasciando dietro di se una situazione critica e un diffuso malcontento. Le Riforme Tenpō non furono limitate al governo centrale, interessando anche molti han, che percorsero vie diverse per cercare di risolvere la difficile situazione in cui versavano le proprie finanze. Nel complesso le riforme testimoniano come la classe dirigente, nazionale e locale, ricercasse gli strumenti appropriati per fronteggiare le ricorrenti crisi, le quali mostrarono in modo sempre più palese le contraddizioni insite nel sistema economico – sociale dei Tokugawa. Uno dei sintomi più evidenti del malessere è rappresentato dalle rivolte popolari che, specie nel corso della seconda parte del periodo Edo, costellarono la storia del Giappone con crescente frequenza. SOCIETA’, ARTE E CULTURA Si ebbero mutamenti significativi per quanto riguarda l’organizzazione politica, la struttura sociale, l’assetto economico e l’ambito culturale. La marcata crescita economica che si registrò nel corso di tutto il periodo fornì nuove opportunità alla distribuzione della ricchezza. Ciò introdusse una serie di elementi politicamente e socialmente destabilizzanti, com’è testimoniato dall’arricchimento sia di una parte della classe contadina che investì le eccedenze in attività extra agricole, sia delle categorie legate alle attività commerciali da cui sempre più spesso vennero a dipendere economicamente i samurai. Questi ultimi, infatti, nonostante occupassero uno status sociale elevato, beneficiarono solo marginalmente del progresso economico disponendo di un’unica fonte di reddito costituita dagli stipendi in riso che ricevevano dal proprio signore. L’economia mercanti fu inoltre stimolata avrebbe attinto anche il nazionalismo sfrenato che si affermò in Giappone nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Fu però Hirata Atsutane a dare alle sue opere un esasperato tono nazionalista e xenofobo, non solo in quanto dichiarò la superiorità dello Shintoismo rispetto a tutti gli altri culti, ma soprattutto perché affermò che il Giappone fosse un paese unico e sacro essendo stato creato dai kami. L’attività dei kokugakusha contribuì non solo a segnare il distacco dalla concezione sino centrica che aveva a lungo dominato il mondo culturale e intellettuale giapponese, gettando le basi per il primato che il Giappone avrebbe asserito in Asia dopo il 1868, ma anche a preparare il terreno sia al ritorno allo Shintoismo e alla sua trasformazione in un culto di Stato nel periodo Meiji, sia al consolidamento di un’idea di identità nazionale ispirata al principio di esclusività e di unicità. Capitolo 5 LA CRISI DELLA SOCIETA’ FEUDALE Nell’ultima parte del periodo Edo, si ravvisano ormai i sintomi della crisi che investiva la società e il sistema economico. Il malessere nelle zone rurali si manifesta con insurrezioni contadine che raggiunsero punte estreme nel corso dell’era Tenpō (1830-1844). Un ulteriore indice del disagio economico e sociale è rappresentato dal proliferare di movimenti religiosi di natura messianica e di nuove sette popolari. Neppure le città furono immuni da esplosioni di violenza, che interessarono diversi strati della società urbana, compresi i samurai tra i quali si registro un diffuso malcontento dovuto alle difficili condizioni economiche in cui molti di essi versavano. Negli ambienti politici e intellettuali vi fu chi propose il ritorno a una società completamente agricola, chi auspicò il rinvigorimento dell’efficienza del governo militare e della sua politica economica, chi guardò al consolidamento di una identità nazionale fondata sul corredo tradizionale come a un mezzo adeguato per ritrovare fiducia nel sistema nazionale , ancora, chi suggerì un miglioramento scientifico e tecnologico in campo agricolo e militare ispirato ai progressi compiuti dall’Europa. Gli studi occidentali cominciarono a trovare un’applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato nel 1792 dalla Russia di stabilire rapporti commerciali con il Giappone. Tale richiesta ,rifiutata da Edo, aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Ezo (l’odierna Hokkaidō), dove erano giunti i Russi, e a stabilirvi un proprio commissario. Anche le elaborazioni dei kokugakusha esercitarono un forte influsso su molti giapponesi di questo periodo, date le implicazioni che esse avevano con la sfera spirituale e religiosa, e per il primato che assegnavano al Giappone. Aizawa Seishisai fu uno dei maggiori esponenti della scuola di Mito, la quale concorse ad alimentare lo sviluppo dell’ideologia nazionalista e del movimento antifeudale. Nella sua opera Shinron (Nuove tesi) formulò la teoria del sistema nazionale (kokutai) esaltando la figura e il ruolo del sovrano imperiale e condannando le dottrine straniere (prima fra tutte il Buddhismo); inoltre concepì il confronto con l’Occidente come la spinta ad un rinnovamento morale. La riflessione dei kokugakusha, mossa dalla volontà di difendere l’identità nazionale e il patrimonio tradizionale contro il predominio culturale cinese si distingue da quella degli studiosi della scuola di Mito, la cui reazione fu diretta in primo luogo contro la minaccia occidentale. Ciò che invece tende ad accomunare la loro opera è il contributo che essi fornirono alla rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno. Esisteva dunque un fermento intellettuale che conferma l’esistenza di tensioni profonde nella società giapponese, ma che suggerisce anche l’immagine di un Paese dinamico alla ricerca di soluzioni capaci di far fronte alla crisi interna e alla pressione esterna. Il senso di crisi si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte alla palese incapacità dimostrata dal bakufu di attuare un’efficace politica di risanamento economico, confermata ancora una volta dal fallimentare tentativo di riforma compiuto da Mizuno Tadakuni. Ciò ebbe l’effetto di aggravare la frattura tra governanti e governati e d indurre le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale. I tentativi più significativi si ebbero a Chōshū e a Satsuma. La prima attuò un programma teso in primo luogo a migliorare l’assetto agricolo e a ridurre drasticamente le spese; anche gli sforzi destinati alle attività commerciali fruttarono una certa quota di ricchezza che lo han poté investire per migliorare la sua organizzazione militare e per procurarsi equipaggiamenti occidentali. La seconda, invece, grazie al controllo che aveva istituito sui traffici commerciali e al monopolio che deteneva sulla produzione dello zucchero, puntò soprattutto sull’attività mercantile. Il successo di queste iniziative locali fu comunque limitato dall’assenza di un quadro generale di riferimento, che poteva essere assicurato soltanto da una robusta e energica autorità politica nazionale. Per destreggiarsi nella rete di rivalità e alleanze occorreva trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, creando una nuova forma di potere capace di garantire la sicurezza territoriale, di gestire l’amministrazione e le risorse umane e materiali del Paese, e di dotare le masse di una solida coscienza nazionale e di un’ideologia nazionalista in grado di assicurare il loro appoggio e consenso agli imperativi dello Stato. Il Giappone del tardo Tokugawa racchiudeva molteplici risorse in tal senso. In primo luogo, le sue frontiere storiche non avevano subito significative modifiche negli ultimi secoli. Questo spazio geografico racchiudeva vari elementi che potevano essere usati come simboli di unità nel presente e di continuità con il passato, come la comune storia di Impero, la permanenza di una forma di autorità sovrana ancorata all’idea di sacralità, il patrimonio ideale e il rituale collettivo dello Shintoismo, da cui l’identità del popolo giapponese poteva attingere in termini di unità etnica e persino razziale. La contestazione del primato culturale cinese e della concezione sino centrica aveva stimolato il processo di emancipazione dell’identità e del ruolo del Giappone. Queste concezioni furono oggetto di un interesse che crebbe con l’aumentare della pressione occidentale, inducendo alcune autorevoli voci ad affermare come l’espansionismo fosse il rimedio al problema della sicurezza nazionale. LA RIAPERTURA DEL GIAPPONE Il tentativo Russo di stabilire rapporti commerciali con il Giappone nel 1792 fu rinnovato nel 1804, ottenendo l’ennesimo rifiuto del bakufu. Se la pressione russa di allentò allorché il Paese fu invaso dalle truppe napoleoniche (1812), le navi britanniche presero a comparire all’orizzonte del Giappone agli inizi dell’Ottocento, inducendo il governo di Edo a riaffermare, nel 1825, la politica del Sakoku. Il bakufu, però, consentì l’approvvigionamento delle navi straniere che fossero approdate nei porti giapponesi. In quello stesso periodo, dal Re olandese, giunse una missiva che esortava le autorità giapponesi a mutare la propria politica estera prima di esservi costretti dalla forza militare degli occidentali. Nel 1852, sempre dall’Olanda, giunse la notizia dell’imminente arrivo di una missione statunitense decisa a rompere l’isolamento del Giappone. Infatti, il presidente Millard Fillmore, affidò al commodoro Matthew C. Perry l’incarico di presentare al Giappone la richiesta di stabilire relazioni pacifiche, garantire basi di rifornimento e soccorso alle navi e agli equipaggi statunitensi che intraprendevano la lunga traversata verso la Cina e, se possibile, concludere un accordo commerciale. Così, nell’estate del 1853, nella baia di Edo entrarono le quattro navi da guerra che componevano la missione guidata da Perry, il quale consegnò il messaggio presidenziale, sarebbero ritornati l’anno successivo per ottenere una replica. Le richieste statunitensi posero il bakufu di fronte all’urgenza di operare una scelta; ciò ebbe l’effetto di accelerare il processo di sgretolamento del regime shogunale. Lo shōgun sottopose il contenuto delle richieste presentate dagli Stati Uniti al parere di tutti i daimyō, così come fece il capo del Consiglio degli anizani, Abe Masahiro; equivalse ad ammettere la palese incapacità del bakufu di fronteggiare la crisi. Dopo aver preso atto degli orientamenti dei feudatari consultati, Abe decide di seguire la linea di compromesso: evitare la guerra acconsentendo ad alcune richieste, a eccezione però di quelle relative al commercio, data la diffusa resistenza emersa in merito all’opportunità di fare concessioni in tal senso. Venne quindi sottoscritto un accorso a Kanagawa il 31 Marzo 1854, il quale prevedeva l’apertura dei porti di Shimoda e Hakodate al rifornimento di navi e all’assistenza di naufraghi americani, oltre all’inviso di un console statunitense a Shimoda. Il trattato segnò l’inizio dello sfaldamento della politica del sakoku, proiettando il Giappone verso una progressiva, rapida e completa riapertura (kaikoku) al mondo esterno. La riapertura ebbe profonde ripercussioni su vari aspetti della vita politica giapponese. In primo luogo, la necessità di affrontare la crisi provocata dalla pressione di una Potenza straniera sulle frontiere del Paese mise in luce le carenze insite sotto questo profilo. Il sistema bakuhan era di per se inadeguato a sostenere uno sforzo unitario dello Stato e i mutamenti intervenuti nella politica estera nipponica richiedevano un rafforzamento della difesa realizzabile solo se concepito in termini nazionali e guidato da un solido ed efficace governo. La riapertura parve poi rappresentare l’ennesima sfida al decadente sistema feudale e fornire un ulteriore stimolo a rivolgere attenzioni e fiducia all’istituto imperiale. L’accordo concluso con Perry costituì una sorta di premessa ai trattati ineguali che il bakufu avrebbe sottoscritto a partire dal 1858. Tra il 1854 e il 1857 non si ebbero mutamenti sostanziali nella politica estera giapponese, dato che i trattati stipulati con la Gran Bretagna, la Russia e l’Olanda ricalcarono il modello di quello concluso con gli Stati Uniti. All’interno del Paese, tuttavia, questi accorsi suscitarono critiche sia da parte del fronte jōi, sia tra i fautori del kaikoku. Gli sforzi compiuti per migliorare le difese e modernizzare la tecnologia militare si rivelarono tardivi e modesti, oltre che onerosi per le finanze del bakufu. Verso la fine del 1855, incapace ormai di ricomporre la frattura che si era creata nel paese e che opponeva gli stessi fudai legati ai Tokugawa, Abe lasciò la guida del Consiglio degli anziani nelle mani di Hotta Masayoshi. Nel frattempo, andavano aumentando le pressioni esercitate dai rappresentanti delle potenze e degli affaristi occidentali affinché il Giappone si aprisse al commercio estero. Il periodo Meiji 1868 d.C. – 1912 d.C. Il tre gennaio 1868 fu proclamata la Restaurazione del potere imperiale, con l’abolizione dello shogunato e la confisca di tutti i possedimenti alla famiglia Tokugawa. Poca fu l’opposizione al nuovo governo. Edo rimase il centro politico del Paese, ma venne ribattezzata Tōkyō (capitale orientale). Meiji è il periodo di regno del sovrano, il giovane Mutsushito, sotto il cui governo prese avvio l’edificazione dello Stato moderno, fondato sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica dell’economia e della società. Si trattò di un’opera di rinnovamento (ishin), infatti il periodo viene anche chiamato Meiji ishin (restaurazione meiji). A queste trasformazioni la partecipazione della borghesia mercantile e rurale è limitata, mentre sono numerosi i mercanti urbani in ascesa e o nuovi contadini ricchi. Ma il ruolo principale del rovesciamento del regime Tokugawa fu svolto da membri dell’élite militare locale, i quali per buona parte avrebbero costituito la classe dirigente Meiji. Queste trasformazioni presentano numerosi aspetti rivoluzionari; tuttavia più che di rivoluzione borghese appare opportuno parlare di una “rivoluzione dall’alto” che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei trattati ineguali, poté governare il processo di transazione capitalistica. RIFORME AMMINISTRATIVE L’opera di centralizzazione dei poteri implico in primo luogo il superamento del fazionalismo insito nel sistema bakuhan a favore di una nuova concezione di Stato nazionalismo. Questo avvenne a cominciare dalla confisca del potere locale dei Daimyō effettuata nel 1871. Con un decreto imperiale promulgato nell’agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all’istituzione di un sistema provinciale (haihan chiken); il territorio fu riorganizzato in province (ken), a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani (fu) in modo da sottoporre l’amministrazione locale al controllo del governo. Il provvedimento non incontrò reazioni di rilievo, dato che la posizione degli ex feudatari fu garantita con uno stipendio e un titolo nobiliare. La creazione di uffici amministrativi locali fornì l’opportunità di impiego a membri della classe samuraica e ai capi villaggio, mentre l’istituzione di assemblee ai diversi livelli locali sembrò rappresentare una opportunità per partecipare alla vita politica del Paese, sebbene a tali sedi non fosse riconosciuto alcuni potere decisionale. Nel 1873 fu inoltre istituito il ministero degli Interni, la cui guida fu assunta da Ōkubo Toshimichi, originario di Satsuma e capo attivo del movimento antishogunale. Il percorso seguito per abolire il sistema decentrato degli han indica come il nuovo governo si impegnasse a ricercare il più ampio consenso tra la leadership feudale e una maggiore unità nel Paese, al fine di conseguire la prosperità nazionale. LA COSTITUZIONE Nel marzo 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli, che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all’esempio occidentale. Con esso l’Imperatore si impegnava a promulgare una Costituzione e a realizzare quelli che erano gli obbiettivi del governo, tra cui figuravano l’unità di tutte le classi, l’istituzione di un’assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l’adozione delle norme giuridiche internazionali e la promozione della conoscenza all’estero allo scopo di rafforzare le basi dell’Impero. Il contenuto del Giuramento fu incorporato nell’articolo 1 del Documento sulla forma di governo (Seitaisho) emanato pochi mesi dopo, il quale rappresenta il primo esperimento di stesura di una Costituzione nazionale. allo scopo di eliminare le difficoltà di una duplice autorità, il Seitaisho assegnava i pieni poteri di governo al Dajōkan, il Gran consiglio di Stato. Esso fu articolato in sette sezioni, assumendo in tal modo i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Sebbene introducesse alcune importanti novità, come la separazione dei tre poteri e l’idea di rappresentanza, il Seitaisho non mancò di ribadire la priorità del rango e dell’ereditarietà come criteri per procedere alla nomina agli uffici. La costituzione istituì, quindi, un sistema di governo che sarebbe durato sino al 1885, quando venne sostituito con il sistema di gabinetto. Una significativa revisione si ebbe già nel 1869 quando, respinta l’idea di separazione dei poteri e assunta una struttura più simile a quello del periodo antico, il Dajōkan divenne l’unico organo esecutivo e fu affiancato dall’ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all’esecuzione dei riti e al controllo della sfera spirituale e, pertanto, ritenuto come il più alto organo dello Stato. Il Dajōkan, guidato dal ministro della Sinistra e da quello della Destra, era composto dai membri del Consiglio consultivo (Sangi), presso cui confluirono le principali funzioni di governo, e sovraintendeva l’attività di sei ministeri. L’Assemblea deliberativa assunse un ruolo secondario per poi essere dissolta, dimostrando l’intento di allontanare dal governo le figure secondarie. Si profilava così la nascita di una vera e propria oligarchia, formata da un ristretto numero di uomini, decidi a far prevalere gli interessi nazionali rispetto a quelli particolaristici. RIFORME SOCIALI Venne innanzitutto abolito il sistema Mibun, eliminando, quindi, l’obbligo occupazionale, consentendo la libera scelta dell’impiego. Mentre i cortigiani e gli ex Daimyō divenivano membri dell’aristocrazia (kazoku), contadini, artigiani e mercanti vennero uniti in una stessa categoria, gli heimin, che comprendeva anche gli eta e gli hinin. Sempre in questa categoria, l’anno successivo, furono inseriti anche i samurai di basso rango. A tutti gli heimin fu concessa libertà di movimento, possibilità di assumere un cognome, di sposare individui di altro strato sociale e infine di acquistare o cedere la terra. Quest’ultima resa possibile dall’abolizione del divieto di compravendita. Tutto questo favorì la mobilitazione della popolazione; allo stesso tempo, però, privarono alcuni strati della popolazione del monopolio su determinate occupazioni. È il caso della classe samuraica, colpita anche dall’introduzione della coscrizione obbligatoria, introdotta nel 1873. Ideata dal generale Yamagata Aritomo, la riforma prevedeva l’obbligo di prestare tre anni di servizio attivo e quattro come riservisti a tutti i maschi che avessero compiuto 20 anni. Al provvedimento non si opposero solo i samurai, ma anche i contadini. RIFORMA ECONOMICA Per raggiungere il sistema capitalistico il governo aveva attinto dai contributi di alcuni han, dai prestiti di case commerciali e dalle rendite dei terreni, ma questo non fu sufficiente a coprire le uscite. Alle spese si aggiungevano, inoltre, gli stipendi per gli ex samurai, per i Daimyō e altre voci, come la difesa o l’amministrazione. Infine occorrevano fondi anche per acquisire nuove tecnologie dall’estero. La rapida industrializzazione necessaria a rafforzare l’economia nazionale e a rendere il Giappone competitivo rispetto all’Occidente, poté essere compiuta a condizione che lo Stato si assumesse il ruolo di investitore. Per garantirsi stabili e consistenti fonti di entrata, il governo guardo in primo luogo all’agricoltura, in quanto era l’unico settore la cui tassazione poteva garantire consistenti entrate. Questa era la situazione in cui furono attuate le riforme sulla proprietà e sull’imposta fondiaria. Nel 1871 il Dajōkan si riunì per decidere in merito ad una nuova legislazione fiscale; si discusse anche della necessità di abolire il divieto di compravendita della terra, premessa essenziale per trasformala in una proprietà privata soggetta a tassazione. Si procedette alla verifica del possesso della terra e al rilascio dei titoli di proprietà a coloro che, nel periodo precedente, erano stati responsabili del pagamento delle tasse di un determinato appezzamento. Ciò consentì di procedere alla stima della terra secondo il valore di mercato, in modo da calcolare la quota di imposta. Nel 1873 fu varata l’Ordinanza di revisione dell’imposta fondiaria, necessaria per creare un sistema di tassazione che fosse facile da esigere e difficile da evadere, e che garantisse entrate stabili. L’importo della tassa fu valutato secondo il valore della terra e fissato al tre per cento del suo prezzo legale. Inoltre non era più il villaggio, ma il singolo proprietario terriero a essere responsabile del pagamento, mentre il governo centrale si sostituiva ai Daimyō come ricevente. Se prima a pagare l’imposta era il produttore diretto, ora era il proprietario. Importante fu, poi, il passaggio da una tassazione in natura a un’imposta in denaro. Questo rese assai precaria la condizione dei piccoli contribuenti. Costretti a convertire in denaro una parte dei propri raccolti, essi passarono da una condizione di relativa autosufficienza a una dipendenza diretta dal mercato, che li portò spesso a indebitarsi, sino a cedere gli appezzamenti. La stessa liberalizzazione della vendita della terra aprì la strada all’acquisizione illimitata di proprietà fondiarie attraverso vendite forzate, ipoteche e procedimenti analoghi, e ciò comportò un netto aumento della concentrazione di terre nelle mani di ricchi proprietari terrieri e una forte crescita di contadini spodestati. Molti di loro si trasformarono così in una classe di affittuari. All’epoca della riforma fondiaria l’industria non era ancora sviluppata al punto da poter assorbire questa manodopera in eccesso. Il governo centrale poté così stabilizzare le entrate. I proventi dell’imposta fondiaria costituirono nel primo decennio dopo la riforma oltre l’80 per cento delle entrate complessive. Inoltre il governo riuscì ad adottare un moderno sistema finanziario basato sul bilancio preventivo. Il gettito proveniente dall’imposta fondiaria contribuì a formare il capitale necessario per finanziare i costi della modernizzazione. Gli investimenti statali si concentrarono nella costruzione di infrastrutture e di industrie di base. Fu avviata la costruzione di una moderna rete di trasporti e nel 1872 venne inaugurata la prima rete ferroviaria Tōkyō-Yokohama. In quello stesso anno le maggiori città erano collegate da una rete telegrafica e un moderno sistema postale. Gli investimenti negli armamenti navali crebbero rappresentanza popolare, come il Movimento per la libertà e i diritti del popolo (Jiyū minken undō). In tutti i vari esprimenti di istanza politica gli oligarchi Meiji videro un allarmante segnale, che rischiava di allontanare settori della società dal proprio controllo e di allargare il consenso verso soluzioni diverse dal quello che prevalevano nel governo. A partire dal 1883, pertanto, una serie di provvedimenti limitò in modo sempre più rigido l’attività dei partiti politici. LA COSTITUZIONE MEIJI Per procede alla revisione dei “trattati ineguali” occorreva proseguire il lavoro di consolidamento delle istituzioni politiche ed economiche. Gli oligarchi Meiji avevano di fronte un’ampia scelta per formulare la costituzione. Nella seconda metà degli anni Settanta si ebbero alcuni tentativi di elaborazione. I fermenti politici che si registrarono in quegli anni non sembravano creare un clima propizio alla soluzione conservatrice che la maggioranza degli oligarchi voleva. Una vera e propria crisi politica si ebbe agli inizi del 1881, quando un profondo disaccordo oppose le due più influenti personalità del governo: Ōkuma, propugnatore del modello inglese, premeva per un governo parlamentare, mentre Itō Hirobumi difendeva l’ipotesi di un governo trascendente. La minaccia di dimissioni di Itō du sventata da uno scandalo che coinvolse il rivale constringendolo alle dimissioni. Quindi il governo annunciò l’istituzione di un Parlamento entro il 1890. I preparativi della Costituzione furono condotti innanzitutto da Itō Hirobumi, che nel 1882 si recò in Europa per studiare i documenti costituzionali di vari Paesi. Al suo rientrò elaborò un sistema di nobiltà articolato in 5 gradi. Inoltre nel 1885, in sostituzione del Dajōkan, fu istituito il sistema di gabinetto, che riuniva i vari ministri sotto la guida di un Primo ministro responsabile verso l’Imperatore. Tale incarico fu assegnato allo stesso Itō, che lo mantenne fino al 1888, quando andò a presiedere il Consiglio Privato, organismo creato per approvare la Costituzione e composto da membri nominati a vita dal sovrano. Ma restavano da stabilire le modalità di composizione e le funzioni da attribuire a un’assemblea nazionale. Per promulgare la Costituzione dell’Impero del grande Giappone (DaiNihon teikoku kenpō) fu scelta una data solenne, quella dell’anniversario della mitica fondazione dell’Impero; l’11 febbraio 1889 la Costituzione fu presentata al Paese come un dono dell’Imperatore. Improntata alla tradizione giuridica tedesca accogliendo anche suggerimenti al di fuori di essa, sanciva in primo luogo l’inviolabilità della sovranità dell’Imperatore, cui spettava il controllo supremo del potere politico e delle forze armate, oltre al potere legislativo. L’Imperatore, inoltre, aveva il diritto di nomina del governo, i cui membri erano singolarmente responsabili di fronte a lui e non verso il Parlamento. Quest’ultimo era composto da una Camera dei Pari riservata alla nobiltà, e da una Camera dei Rappresentanti, eletta a suffragio ristretto e con poteri limitati. Restavano poi svincolati da ogni controllo altri potenti organi come il Consiglio Privato e il ministero della Casa imperiale. Al popolo venivano riconosciuti diritti e doveri, pur assegnando alla legge il potere di limitarli e rivelando in tal modo la premessa assolutistica su cui si reggeva la costituzione. La Costituzione Meiji gettò le basi di un moderno Stato di diritto e costituì il primo esempio di Costituzione moderna adottata in Asia. IDEOLOGIA E IDENTITA’ NAZIONALE La costituzione di un moderno Stato centralizzato implicò il superamento della eterogeneità sociale e geografica che aveva caratterizzato il Giappone, al fine di favorire l’unità nazionale. ciò era necessario sia per ottenere un consenso unanime verso le trasformazioni imposte alla società, sia per far fronte ai problemi di sicurezza interna ed esterna. Tuttavia la modernizzazione pose un dilemma in relazione all’identità nazionale. Dopo un’iniziale infatuazione delle idee occidentali, gli oligarchi si resero conto dei rischi che comportava la diffusione di alcune concezioni, come la libertà e l’individualismo; essi, quindi, preferirono limitare la validità del modello occidentale al “sapere” (yōsai), difendendo invece lo “spirito giapponese” (wakon). Queste scelte furono ufficializzate nella Costituzione Meiji, che riconobbe giuridicamente i giapponesi come sudditi di un sovrano divino. Rifiutata ogni possibilità di accogliere la visione laica dello Stato consolidatasi in Occidente e riaffermato il tradizionale principio secondo cui il potere politico si basava sulla legittimazione divina, lo Stato continuò a essere concepito in termini confuciani. Lo Shintoismo svolse un ruolo primario nella costruzione dell’identità nazionale in quanto si rivolgeva al popolo tutto. Le soluzioni accolte nella Costituzione Meiji non risolsero tutti i problemi collegati all’identità nazionale, specie quelli relativi al rapporto con il mondo esterno. Già nel 1885 Fukuzawa Yukichi premette affinché il Giappone si staccasse dall’Asia, reputata arretrata e barbara, e si unisse all’Occidente. L’intervento era orientato a fornire una prospettiva al progetto di costruzione di un Impero coloniale. Ma Fukuzawa toccò anche un’altra questione, che riguardava il modo in cui l’identità giapponese dovesse essere definita in rapporto al mondo esterno, indicando la civiltà occidentale come l’unico modello a cui ispirarsi. La supremazia nipponica sarebbe stata imposta anche attraverso un politica di assimilazione, che si fondava sul presupposto secondo cui tutti i popoli dell’Asia Orientale condividessero la medesima cultura e razza. Inoltre, nelle zone colonizzate, sarebbero state adottate misure d’indottrinamento all’ideologia imperiale finalizzate a vincere le resistenze locali. Gli anni Ottanta furono caratterizzati da un ritorno alla tradizione, che interessò il piano politico e ideologico. La reazione che fece seguito alla fase di relativa apertura alle idee e alle concezioni occidentali portò a una riaffermazione dei valori tradizionali, mentre lo Shintoismo veniva messo al servizio dello Stato e usato come uno strumento di controllo sul popolo. Era iniziata così una progressiva riduzione degli spazi di dissenso attraverso una serie di interventi, che si rivelarono efficaci in quanto furono tesi a governare la sfera privata ed emotiva del singolo. Il ritorno alla tradizione fu una valida soluzione al rischio rappresentato dalla transazione al capitalismo e all’imperialismo. CAPITOLO 6 ECONOMIA Nel biennio 1889-90 il superamento del feudalesimo può dirsi avvenuto. Inoltre il Giappone diviene uno Stato moderno grazie alla Costituzione. Nello stesso periodo si è completato il processo di consolidamento del capitalismo e si è ormai saldato il blocco di potere dominante formato da eminenti personalità dell’oligarchia, corte imperiale, alti gradi dell’Esercito e della Marina, nuova nobiltà e gruppi economico-finanziari noti come zaibatsu. Il processo di formazione e sviluppo degli zaibatsu ebbe luogo a partire dalla cessione a privati delle imprese statali, consentendo al governo di concentrarsi sulle industrie militari e segnando una trasformazione della sua politica industriale. La cessione di tali imprese agevolò i mercanti che avevano accumulato grandi ricchezze. In tal modo, essi divennero al tempo stesso possessori di capitale commerciale e finanziario e di capitale industriale. Questa operazione pose così le basi per la costituzione degli zaibatsu che avvenne in una fase precoce. Tra gli altri interventi va ricordata la politica deflazionistica finalizzata a porre rimedio alla drastica inflazione determinatasi con il vertiginoso aumento di carta-moneta cui il governa era stato costretto a ricorrere per coprire le spese dell’intervento militare contro Satsuma. Si provvide anche a riorganizzare il sistema bancario istituendo la Banca del Giappone. Il successo delle riforme portò, nel 1886, alla fine della deflazione e all’acquisizione di una solida base monetaria. Parallelamente, il Giappone andava aumentando l’esportazione di seta e di filati di cotone, che costituiscono i due settori industriali trainanti dell’economia nazionale. Il sistema scolastico, l’alfabetizzazione delle reclute e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa stavano ormai producendo risultati positivi nella nazionalizzazione delle masse, con il superamento delle tensioni sociali indotte dalla trasformazione. L’ideologia del blocco di potere dominante si fondava sulla sacralità dell’Imperatore, discendente divino e trascendente la politica, e sulla persistenza di alcuni valori confuciani, in particolare lealtà e obbedienza, quali garanzie dell’armonia sociale. Si postula l’assenza di contraddizioni e antagonismi all’interno della società giapponese, formata da sudditi (E non cittadini) fedeli, pronti ad ogni sacrificio per difendere il sistema nazionale. LA REVISIONE DEI “TRATTATI INEGUALI” Obbiettivo primario divenne la piena indipendenza dell’Impero da conseguire attraverso la revisione dei “trattati ineguali”, la quale avrebbe contribuito ad assicurare al Giappone una posizione preminente in Asia e all’interno della comunità internazionale. Il primo ministro Yamagata Aritomo, sostenne l’esigenza di distinguere tra sfera della sovranità del Giappone, costituita dal territorio nazionale, e sfera di interesse nazionale, comprendente la penisola coreana in quanto parte dell’area di protezione strategica del Paese. Questa concezione saldò le aspirazioni dei nazionalisti, difensori del sistema nazionale, e gli interessi dei grandi gruppi monopolistici. La crescita accelerata dell’economia giapponese fu resa possibile dalla contrazione dei consumi interni, collegata a sua volta ai bassi salari operai e all’alta imposizione fiscale sulle rendite fondiarie. Questa scelta di politica economica permise sia la vendita sul mercato internazionale dei prodotti giapponesi al fine di compensare l’importazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico, sia il sostegno della dinamica degli investimenti. Tuttavia, il capitale finanziario, nella forma zaibatsu, era relativamente debole rispetto ai concorrenti internazionali. POLITICA ESTERA La politica espansionistica fu avviata con la guerra contro l’Impero cinese (1894-95). La vittoria riportata dal Giappone ebbe risonanza nei circoli internazionali, specie tra i nazionalisti asiatici che iniziarono a considerare il Giappone come un modello da seguire per liberare i loro Paesi dalla inscrivibili in un’opposizione ferma. In definitiva non esisteva una chiara discriminante tra i partiti popolari e i partiti burocratici. Sia le prime elezioni del 1890, sia quelle del 1892, registrarono il successo dell’opposizione liberale. Tuttavia, anche dopo le successive elezioni, le alleanze parlamentari furono instabili. LE DEBOLEZZE DEL SISTEMA ECONOMICO Nei decenni compresi tra la guerra nippo-russa e l’inizio della prima guerra mondiale, le esportazioni di manufatti crebbero, ma con minore rapidità rispetto ai primi anni Meiji. A cavallo del secolo furono ancora i prodotti tessili la base dell’economia. Il settore diede impulso all’allevamento dei bachi da seta. La congiuntura negativa fu determinata sia da cause interne, sia da fattori esterni. Sull’andamento dello sviluppo influirono tanto le due guerre quanto la crisi economica mondiale di fine Ottocento. Al fine di bilanciare il peso finanziario delle importazioni di macchine utensili, la produzione interna era stata orientata all’esportazione e, con la contrazione dei prezzi, i prodotti giapponesi divennero concorrenziali sul mercato internazionale. La politica economica era fondata, da un lato, sul sostegno alle imprese esportatrici e, dall’altro, sulla compressione dei salari. Basse retribuzioni, orari di lavoro non inferiori alle 12 ore, due riposi festivi al mese, pessime condizioni igieniche e di sicurezza sui luoghi di lavoro furono caratteristiche proprie della prima fase dell’industrializzazione. Nelle campagne, soltanto i grandi proprietari terrieri poterono incrementare le loro rendite, iniziando a investire nel settore industriale. I piccoli proprietari autosufficienti e gli affittuari videro compresse le loro rendite a causa della dinamica di aumento dei prezzi industriali in presenza della stagnazione dei prezzi dei prodotti agricoli. Inoltre, le piccole imprese furono afflitte dalla carenza di fondi e dall’utilizzazione di tecnologie obsolete. A causa dei bassi salari industri, del sovrappopolamento nelle campagne, della fragilità economica e della impossibilità di aumentare la forza lavoro, il mercato interno rimase estremamente ristretto. In queste condizioni, l’esportazione di merci divenne irrinunciabile. Tuttavia, la concorrenzialità dei prezzi poté essere mantenuta soltanto con il contenimento dei prezzi e la compressione delle condizioni di vita di operai e contadini. La politica economica si fondò sul nesso tra sviluppo delle esportazioni e contrazione del mercato interno. In conseguenza di questo, il blocco di potere dominante percorse la strada dell’espansionismo. Questa scelta risultò necessaria per incrementare e proteggere le esportazioni e anche per ovviare alla grave carenza di materie prime. Negli anni successivi alla vittoria contro la Russia, l’economia entrò in una fase di assestamento. Da un lato, sullo sviluppo pesarono gli impegni finanziari per lo sforzo bellico che ridusse i margini del sostegno governativo agli investimenti delle grandi imprese; dall’altro lato, l’acquisizione in Manciuria dei diritti consentì di consolidare l’espansione sul continente. Strumento dello sfruttamento in Manciuria fu la Società ferroviaria per azione della Manciuria Meridionale, fondata nel 1906. La società avrebbe svolto un ruolo fondamentale per gli investimenti giapponesi e per l’ampliamento del commercio con questa regione. Infatti, la concessione della ferrovia al Giappone non riguardò soltanto l’utilizzazione del sistema dei trasporti, ma consentì di esercitare il diritto di sfruttamento su ampie aree adiacenti alla massicciata ferroviaria, ricche di materie prime. La Mantetsu divenne lo strumento del capitale giapponese, nella sua forma di zaibatsu, per i propri investimenti in Manciuria. Gli zaibatsu rappresentarono una forma di organizzazione del capitale. Innanzi tutto, essi avevano la forma del Konzern plurisettoriale, diretto da una holding: questa aveva un’organizzazione manageriale diversificata e, con il possesso della maggioranza dei pacchetti azionari, ricopriva praticamente l’intero campo della produzione, della circolazione delle merci e della finanza. Tuttavia, nell’era Meiji, all’interno degli zaibatsu l’industria pesante e il settore chimico erano poco estesi in confronto agli altri settori. Inoltre, il settore finanziario e quello della circolazione delle merci avevano un’importanza relativamente alta. La peculiarità degli zaibatsu non era soltanto quella di regolare il mercato, ma di essere soprattutto monopoli di capitale, questo significa che la maggior parte del capitale delle imprese veniva fornito dalla holding, sotto forma di approvvigionamento monopolistico di fondi da parte della famiglia. Pertanto, un livello estremamente alto di accumulazione di capitale fu realizzato attraverso l’autofinanziamento; ne consegue che le varie società finanziarie controllate dallo zaibatsu agivano con l’obbiettivo principale dell’ampliamento dell’area di controllo del gruppo e non come istituzioni finanziarie quali le banche. Inoltre, a garanzia del capitale investito, esistevano norme precise che definivano i rapporti tra i diversi rami della famiglia. Tuttavia, l’Imperialismo giapponese ha una peculiarità rispetto alle forme di dominazione proprie delle potenze occidentali più avanzate. Superata la fase del consolidamento, dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino all’inizio della prima guerra mondiale, l’economia giapponese entrò in una lunga fase di assestamento, caratterizzata da una crisi endemica che ne rallentò la crescita. Oltre alle conseguenze della guerra nippo-russa, pesò il fatto che il capitalismo giapponese fu un capitalismo senza capitale. Questa debolezza si palesò, in modo particolare, negli anni in cui iniziò, a livello mondiale, la fase dell’imperialismo. La categoria di imperialismo indica una mutazione nei rapporti economico-sociali tra gli Stati coloniali e i territori assoggettati. Con l’entrata in circolo del capitale finanziario, le colonie, oltre che essere mercati per le merci prodotte nella madrepatria, iniziarono a divenire anche luoghi per l’investimento di capitali, atti a produrre a costi più vantaggiosi manufatti per il mercato interno o per l’esportazione. È in questo periodo che si manifesta con evidenza la debolezza del capitalismo giapponese. La conseguenza fu che il blocco di potere dovette scegliere un’espansione fondata su una “via intermedia”: investimenti, ma anche conquiste coloniali in senso stretto. Insomma, una forma di dominazione che può essere definita sub-imperialismo o imperialismo coloniale. Agli inizi del Novecento il capitalismo giapponese risentiva ancora dei bassi consumi interni e di una ristretta base di accumulazione. Tale situazione pose il capitale zaibatsu in una posizione di inferiorità rispetto alla concorrenza straniera. Infatti, verso la svolta del secolo, la conquista coloniale non era più l’unico né il principale strumento della dominazione su popoli e Paesi stranieri poveri, in quanto si stava affermando, da parte delle nazioni a capitalismo avanzato, la pratica degli investimenti di capotale in quei Paesi nei quali il basso costo della forza lavoro consentiva maggiori margini di profitto. In sostanza, il colonialismo stava cedendo il passo all’imperialismo. Tuttavia, la relativa debolezza politica ed economica del Giappone e i ristretti livelli di accumulazione del capitalismo giapponese non consentono investimenti in Asia in misura adeguata a sostenere la concorrenza britannica e statunitense. Questi limite alle possibilità di investimenti all’estero fu alla base della particolare natura dell’imperialismo giapponese, caratterizzato più dalla conquista militare che non dall’espansione finanziaria nei Paesi economicamente deboli (quali la Cina) o nelle proprie colonie.
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