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Storia del Giappone (Caroli, Gatti) - riassunto, Sintesi del corso di Storia dell'Asia

Riassunto capitolo per capitolo del testo.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 08/09/2023

sara.pacella
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Scarica Storia del Giappone (Caroli, Gatti) - riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Capitolo 1 – Dalle origini alla fondazione dello Stato su modello cinese Le origini della cultura giapponese nel periodo preagricolo Riguardo la storia del Giappone molti dubbi rimangono tuttora in merito a come e a quando i primi popoli primitivi si stanziarono nell’arcipelago; secondo alcuni studiosi avvenne quando le isole giapponesi erano unite al continente, ipotesi avvalorata dal fatto che il giapponese (come il coreano, il mongolo e il turco) apparterrebbe alla famiglia delle lingue altaiche. Tuttavia, è possibile anche riscontrare analogie con la cultura polinesiana e dell’Asia Sud-orientale. Sulla cultura e la vita dei primi abitanti sappiamo che usavano utensili litici rozzamente realizzati e, di rado, utensili di osso; praticavano forme di caccia e che non erano in grado di produrre oggetti in ceramica. Non sappiamo con precisione quando ebbe inizio questo periodo, ma sappiamo che finisce intorno al 10.000 a.C., in coincidenza con l’avvio della manifattura ceramica. Si tratta del Periodo Jōmon o del “disegno a corda” (10.000 a.C. – 300 a.C.). Esso prende il nome dai segni di corda o di stuoie di paglia che decoravano la superficie di buona parte della ceramica prodotta in questo arco di tempo. Trattandosi di un periodo così lungo, sono state individuate delle fasi nell’evoluzione di questa cultura: • Una fase iniziale, di transizione tra il Paleolitico e il Neolitico, in cui la popolazione continua a vivere di caccia e della raccolta di radici, piante e frutti selvatici; • Una seconda fase, attorno al IX-VIII millennio a.C. La fine dell’era glaciale aveva portato una migliore condizione climatica, e quindi la disponibilità di nuove risorse naturali e portarono allo sfruttamento delle risorse marine. La popolazione viveva a gruppi, in piccole capanne seminterrate. Sono stati ritrovati ami da pesca, arpioni e archi, che suggeriscono la pratica della caccia e della pesca; • Una terza fase, tra il 5000 e il 3500 a.C., con un ulteriore miglioramento del clima e l’innalzamento del livello del mare. Questo comportò la trasformazione di alcune regioni in ampie paludi, consentendo di sfruttare maggiormente i prodotti raccolti lungo le coste; • Una quarta fase verso la metà del IV millennio a.C., l’abbassamento del livello del mare comportò lo spostamento delle popolazioni dalla costa alle regioni interne. Questo fu possibile grazie anche al miglioramento delle tecniche per lo sfruttamento delle risorse della terra; • Una quinta fase a partire dal 2000 a.C., dove assistiamo allo sviluppo di un’economia fondata sullo sfruttamento dei prodotti marini con tecniche più elaborate per la pesca in profondità; • Una fase conclusiva, tra il IV e il III secolo a.C. Lo studio della ceramica prodotta in questo periodo ha evidenziato la presenza di contatti con la penisola coreana, attraverso cui sarebbe stata introdotta anche la tecnica di coltivazione del riso mediante l’irrigazione. L’introduzione della risicoltura segna l’inizio del periodo Yayoi (300 a.C. – 300 d.C.), il quale vide il progressivo superamento di una cultura di cacciatori e raccoglitori a favore di una cultura agricola che vedrà sempre più persone stanziarsi in modo sedentario attorno a campi fertili e pianeggianti, e che porterà allo sviluppo di un’organizzazione socio-politica basata su comunità locali legate al territorio. I padroni dell’economia e della società agricola L’introduzione della risicoltura dal continente segna dunque l’inizio del periodo Yayoi, il quale prende il nome dalla zona di Tōkyō, che restituì i primi esemplari di un nuovo tipo di ceramica. Oltre alla tecnica della risicoltura e dell’irrigazione a essa necessaria, sarebbero giunti dal continente, e in modo particolare dalla Cina, anche oggetti e prodotti nuovi come armi e specchi di bronzo o attrezzi agricoli. Le prime testimonianze scritte, riguardo a questo periodo, sono cinesi; tuttavia, le informazioni sono limitate e frammentarie. La diffusione della risicoltura interessò, inizialmente, solo la zona vicina alle vie di comunicazione con il continente (a nord del Kyūshū), fino ad estendersi, intorno al 100 a.C., anche a nord-ovest. È comunque probabile che l’economia abbia continuato a fondarsi, per un certo periodo, anche su attività di caccia, raccolta e pesca. Successivamente, quindi, gruppi di famiglie si spostarono in zone più facilmente irrigabili, in modo da agevolare la risicoltura. Queste famiglie vivevano in capanne dal pavimento in terra, pilastri, travi di legno e tetti di paglia, costruite una accanto all’altra e raggruppate in villaggi. La capacità di costruire attrezzi in ferro contribuì a rendere più proficua la coltivazione, e permise anche di coltivare zone impervie. Cultura e religione: i culti e i riti che presero forma nel periodo risultano vari e diversificati, fintanto che non si creò interazione tra i gruppi locali. Il benessere della popolazione dipendeva dalla terra, dall’acqua e dal sole, e i riti erano finalizzati a propiziare il favore della natura, così come a scandire il tempo per le fasi della coltivazione. Il compito di garantirsi un ambiente naturale benevolo attraverso l’ottenimento della protezione delle divinità locali, i kami, assunse un ruolo centrale nella vita comune. È il culto dello shintō primitivo, caratterizzato da credenze animistiche, pratiche magiche e influssi sciamanici. Esso era orientato a regolare la vita quotidiana attraverso la ritualità, che rappresentava uno strumento per stabilire un contatto con le forze della natura e che coinvolgeva l’intera collettività. Lo Shintoismo primitivo è un culto della natura, che si esprimeva nell’identificare come kami tutti gli elementi della natura (montagne, fiumi ecc), e nel ritmare le fasi vitali e dell’attività produttiva, come la semina e il raccolto. Esso non concepita l’idea del peccato come effetto di una trasgressione; il male era piuttosto il risultato di un’azione esterna, che poteva essere cambiata attraverso il rito. Questo culto rese quasi sacro il legame tra la comunità e il territorio. Politica e società: A partire dal 100 d.C., assistiamo all’evoluzione dell’organizzazione socio-politica, attraverso forme di scambi commerciali tra le comunità locali. Andavano così trasformandosi queste comunità, all’interno delle quali inizia a vedersi una marcata stratificazione sociale. Infatti alcune di queste famiglie godevano di condizioni più favorevoli, sia perché possedevano terre più fertili, sia perché erano vicini alle vie di comunicazione con il continente, e quindi potevano avere più regni coreani, i quali, per altro, fondarono una colonia a Mimana, nell’estremità meridionale della penisola. Questi contatti furono tali da consentire una continuità culturale, politica ed economica tra la zona meridionale della Corea e le regioni sud- occidentali del Giappone. Questo suggerisce che il clan Yamato era ormai maturato al punto da rendere possibile il reclutamento di ingenti forze militari da inviare in Corea per stabilirvi forme di controllo: in questo periodo l’attività militare presso le comunità diventa infatti molto rilevante. Assistiamo, inoltre, allo sviluppo attorno alla regione di Yamato di centri dediti alla produzione di ceramiche, sale, collane di pietra e specchi di bronzo. Parallelamente si stabilì una rete di scambi commerciali con le altre regioni , che fornivano materie prime quali ferro, bronzo e vetro. A queste attività sovraintendeva il clan egemone Yamato, che andava assumendo sempre più le sembianze di un vero e proprio sovrano, anche se l’istituzionalizzazione del suo ruolo avrebbe ricevuto un decisivo apporto dalle concessioni cinesi. L’introduzione del Buddhismo Il Buddhismo nasce verso la fine del VI secolo a.C. in India ; esso individuava le cause della sofferenza umana nelle passioni, da cui era possibile liberarsi attraverso l’annullamento della propria individualità; per arrivare a ciò sono necessarie una serie di reincarnazioni che portano al nirvana, che interrompe il ciclo di reincarnazioni e segna il passaggio alla salvezza. Fu soprattutto la prospettiva di una salvezza nella vita ultraterrena a rendere popolare il Buddhismo e a favorirne la diffusione in Asia Centrale. Il Buddhismo giunge in Cina verso il I secolo d.C., suscitando reazioni da chi sosteneva la dottrina di Confucio. Il Buddhismo venne comunque accolto in un paese che stava subendo il deterioramento dinastico, accompagnato da lotte, carestie e miseria, e che trovò nel messaggio buddista una risposta alle incertezze del presente. Così il messaggio buddhista venne tradotto, diventando il credo più professato in Cina. Dalla Cina, esso ha transitato in Corea intorno al IV secolo. L’introduzione del buddhismo in Giappone avviene nella prima metà del VI secolo e si dimostra una religione in grado di offrire un buon servigio alle classi egemoni e al potere dello Stato. Questo evento è posto in relazione a un episodio che, secondo il Nihon Shoki, risalirebbe al 552 d.C. (molti studiosi lo collocano al 538). Si narra che il sovrano Paekche inviò a Kinmei, il capo della confederazione Yamato, una statua e alcune scritture buddiste, assieme a un messaggio dove il Re coreano spiegava i vantaggi derivanti da questa dottrina. Il 538 è dunque la data convenzionalmente usata per indicare l’ingresso del Buddhismo in Giappone. Esso non diede avvio a un fenomeno destinato a interessare le masse popolari, ma determinò una contrapposizione fra le élites al potere, divise in favorevoli o avverse a introdurlo nel Paese. Infatti Kinmei consultò altri capi uji, tra i quali emersero pareri contrastanti in merito alla nuova dottrina. In quel periodo, il clan Yamato aveva stabilito dei vincoli di parentela con altri uji attraverso la politica dei matrimoni atta a risaldare le alleanze. Il sistema di titoli onorifici (kabane) assegnati ai singoli clan serviva a stabilire una sorta di gerarchia di potere, proporzionale al grado di vicinanza che ciascuno di essi aveva rispetto alla stirpe egemone. I capi legati da lontani vincoli di parentela con il clan Yamato potevano ambire al più alto titolo di omi, mentre tutti gli altri al titolo di muraji. Lo status dei singoli clan corrispondeva ad una funzione precisa. Tuttavia, non sempre le alleanze, i legami parentali o il conferimento di titoli onorifici riuscivano a preservare l’autorità dell’uji Yamato dalle ambizioni dei potenti capi locali, che ostacolavano così il consolidamento di un potere centralizzato. Molti clan vedevano il Buddhismo come una minaccia alla posizione che essi occupavano grazie alla loro presunta discendenza dai kami. A favore della dottrina si schierarono i Soga, immigrati di recente dalla Corea, i quali volevano mantenere gli scambi con il continente; i Monobe erano, invece, ostili in quanto ritenevano che la nuova dottrina avrebbe potuto offendere e scatenare l’ira dei kami, posizione che assunsero tutti coloro che avevano ricavato potere dallo shintoismo, come nel caso nei Nakatomi. Il confronto tra i due schieramenti ebbe fine solo con la vittoria dei Soga a seguito di uno scontro militare nel 587, ottenendo un’importante posizione politica e favorendo l’apertura alle nuove idee provenienti dal continente, che porteranno poi all’unificazione del Giappone. L’introduzione del buddhismo stimolò una trasformazione dei costumi, dell’architettura e dei riti funebri, tra cui il superamento della sepoltura a favore della cremazione; i tumuli furono sostituiti da ricchi templi, segnando quindi la fine del periodo Kofun (VI secolo). Grazie sia al buddismo, che all’apertura verso la Corea e, quindi, anche verso la Cina, iniziarono a circolare in Giappone molti testi cinesi, portando all’introduzione del sistema di scrittura cinese; questa non diede un immediato avvio alla stesura di opere e cronologie ufficiali, bensì solo in seguito la classe dominante si rese conto dell’importanza della scrittura per la trasmissione del pensiero politico, filosofico e religioso. Pertanto, ben pochi documenti di questo periodo sono giunti sino a noi, ma le fonti cinesi del tempo e le opere giapponesi redatte agli inizi del VIII secolo contengono molte informazioni riguardo alla vita in Giappone nei secoli precedenti. In particolare, il Kojiki e il Nihon Shoki si riferiscono al periodo Kofun e contengono informazioni attendibili anche del periodo successivo al VI secolo. In questo periodo si può dunque individuare un momento di transizione rilevante: quello tra il periodo protostorico e quello propriamente storico. Il processo di creazione dello Stato imperiale nel Giappone storico Nella penisola coreana il Giappone cominciò a perdere il proprio controllo a partire dal 532, quando le truppe inviate a sostegno di Paekche vennero sconfitte da Silla. Nel 562 il controllo di Mimana fu del tutto compromesso e infine perso con l’unificazione della Cina sotto la dinastia Sui nel 589 e quindi con l’unificazione della Corea del 668, quando Silla riuscì, supportato dalla Cina, a sconfiggere Koguryŏ. La Cina rappresentava una potenza da temere e allo stesso tempo un modello da cui trarre ispirazione per creare uno stato unificato e forte. Il timore dell’espansionismo cinese avrebbe infatti contribuito ad accelerare il processo di centralizzazione del potere. La vittoria dei Soga aprì le porte all’arrivo di monaci, reliquie, artigiani e costruttori di templi, in gran parte di provenienza coreana e che diedero un apporto determinante alla diffusione del Buddhismo tra le classi dominanti. Nella zona di Asuka, sede della corte Yamato, iniziò la produzione di grandi opere artistiche, tra cui l’Asukadera, fatto edificare dai Soga e ultimato nel 596, che si ritiene essere il primo vero tempio buddhista del Giappone. L’esempio dei Soga fu seguito da molti altri uji, che finanziarono la produzione di templi in tutta la zona. Questi edifici erano il simbolo della potenza dei clan uji, che dimostravano in questo modo indipendenza dal clan Yamato. Il clan Soga, grazie alla vittoria militare, ma anche all’uso politico della nuova dottrina, iniziò a rappresentare una minaccia per il clan Yamato. Da questa posizione privilegiata fu persino possibile tentare di usurpare l’autorità del sovrano. Infatti, Soga no Umako fece uccidere l’imperatore in carica che, pur essendo suo nipote, contrastava le sue ambizioni. Nel 592 salì così al trono l’imperatrice Suiko, legata ai Soga da parte materna, che regnò sino al 628 e che fu la prima donna ad accedere a questa carica. Allo stesso tempo venne nominato un reggente dell’Imperatrice (sesshō), Shōtoku Taishi, che di fatto prese le redini del governo e fu promotore di grandi riforme che portarono alla centralizzazione del potere. Infatti, nel 600, avviò contatti diretti con la Corte di Sui e provvide ad introdurre importanti riforme ispirate al modello cinese, tra cui, nel 603, l’introduzione di un sistema di dodici ranghi di Corte, la cui assegnazione spettava al sovrano. A Shōtoku è, inoltre, attribuita la stesura della “Costituzione dei diciassette articoli”, scritta in cinese ed emanata nel 604; essa contiene un elenco di precetti e regole morali ispirati a valori confuciani, buddhisti e taoisti. Lo scopo del documento è quello di affermare il diritto sovrano e di eliminare il potere autonomo degli uji, sostituendolo con una sorta di burocrazia composta da ministri e funzionari che devono servire lo stato responsabilmente. L’imperatore rappresenta il legame tra il Cielo e la Terra, cioè tra divinità celeste e sudditi, e costituisce quindi la guida per tutto il popolo. Il contenuto della Costituzione chiarisce la fisionomia che si voleva dare allo Stato imperiale, nel quale è previsto l’uso di un nuovo titolo con cui designare il sovrano; tennō, ovvero un sovrano che governava in qualità di diretto discendente dal cielo , e che quindi aveva potere politico e sacerdotale. La morte di Shōtoku, avvenuta nel 622, interruppe solo momentaneamente il processo di riforme, che sarebbe stato ripreso una volta eliminata l’egemonia dei Soga, il cui capo cadde vittima di una congiura nel 645, ordita da parte di un principe imperiale e di un membro del clan Nakatomi, i quali furono ricompensati con importanti cariche e un nuovo prestigioso cognome, Fujiwara. L’anno successivo l’imperatore emanò delle riforme in materia politica e amministrativa, volte a gettare le basi per uno Stato imperiale, la cui ricchezza doveva fondarsi sugli introiti provenienti da tutte le zone del Paese, e che prevedeva: - L’abolizione di tutti i titoli che garantivano privilegi locali, ovvero i possessi privati delle risaie e i be, alle dipendenze degli uji, assegnando il pieno controllo delle terre e dei suoi abitanti al sovrano; -L’introduzione di un sistema amministrativo , il quale prevedeva la nomina di funzionari che dovevano servire l’imperatore. Il territorio fu quindi organizzato in province (kuni), a capo delle quali erano posti dei governatori (kokushi). Le storiografia. Nel 712 fu, infatti, completato il Kojiki, in tre volumi, il primo dei quali si riferisce all’epoca mitologica, sino alla leggendaria fondazione dell’impero a opera di Jinmu nel 660 a.C.; nel secondo volume la narrazione prosegue fino agli inizi del 300 d.C.; il terzo volume arriva sino al 628 d.C. Scritto in puro giapponese, quest’opera presenta uno stile narrativo da cui traspare l’ampio uso di fonti orali necessarie per la stesura. Pur contenendo numerose informazioni sulla vita, gli usi e le credenze diffuse nel territorio nel periodo protostorico, da un punto di vista storico risulta assai meno attendibile. Assai più attendibile da questo punto di vista è il Nihon Shoki, ultimato nel 720 e ispirato al modello delle storie ufficiali cinesi. Scritto in cinese, si compone di trenta volumi che narrano le vicende fino al 697, riportare con un rigoroso ordine cronologico. Entrambe le opere avevano come scopo la glorificazione del passato e la legittimazione del diritto perpetuo della dinastia regnante. Nonostante il successo ottenuto dal buddhismo, lo Shintoismo continuò a esercitare un forte sostegno all’istituto imperiale e, come culto popolare, restò ancorato alla vita quotidiana dei giapponesi. Le due concezioni agirono a livelli distinti e risposero a esigenze spirituali diverse, e con il tempo si sarebbe persino giunti ad una loro completa fusione. Ma il sostegno accordato dall’aristocrazia di Corte al buddhismo assorbì molte risorse economiche allo Stato e conferì al clero un potere che andava al di là di quello spirituale. Questo legame fu collegato anche alla pratica, diffusa tra la nobiltà, di diventare monaci. Nel corso del periodo Nara, il nesso tra religione e Stato fu tale da aprire una disputa per il potere tra un’imperatrice e un monaco buddhista. Salita al trono nel 749, Kōken fu una fervente buddhista, sotto il cui regno avvenne la cerimonia di inaugurazione del Grande Buddha di Nara. Istituì una legge che prevedeva severe punizioni per chiunque uccidesse un altro essere vivente. Al governo fu affiancata da due esponenti Fujiwara sino a quando, nel 758, non abdicò in favore dell’imperatore Junnin per ritirarsi a vita monastica. La fiducia riposta nel monaco Dōkyō, che ella riteneva l’avesse guarita da una malattia, la indusse a concedergli vari titoli e privilegi, grazie ai quali il monaco assunse un potere tale che fu necessario richiedere, nel 764, un intervento armato contro di lui. Ma Dōkyō riuscì a sventare l’attacco, mentre l’ex imperatrice riaccedette al trono e condannò all’esilio il suo predecessore. L’imperatrice poté così elevare la posizione del monaco attribuendogli altre cariche, tra cui la carica di hōō, con cui si identifica un imperatore che aveva abdicato per prendere i voti monastici. Il monaco pretese, quindi, di essere nominato imperatore, secondo quanto predetto da un oracolo. Ma anche l’imperatrice aveva consultato un oracolo, il quale le aveva detto che mai un suddito sarebbe potuto diventare imperatore. Così il potere di Dōkyō finì solo con la morte dell’imperatrice nel 770, quando venne esiliato. Questo episodio portò la corte ad assumere un rapporto più equilibrato con il buddhismo e a guardare con maggiore interesse una filosofia laica, il Confucianesimo. Il sostegno alle istituzioni religiose fu drasticamente ridotto. Buona parte del mecenatismo che aveva sostenuto il buddhismo si era fondato sulla pressione fiscale esercitata sugli agricoltori, tra i quali la situazione divenne grave al punto da imporre, già verso la metà dell’VIII secolo, una riduzione delle tasse per arginare l’allontanamento dei contadini dalle terre. L’estensione delle aree coltivabili, che avrebbe dovuto rispondere alla crescita demografica favorì, invece, l’affermazione di diritti nelle nuove zone messe a coltura, le quali rappresentavano il cardine delle grandi riforme attuate. Infatti, due provvedimenti introdussero la possibilità di assumere il controllo privato delle terre bonificate per una o tre generazioni e perfino in perpetuo. La grande nobiltà e le istituzioni religiose poterono, quindi, acquisire il possesso privato di terre che vennero esentate dal pagamento delle tasse al governo centrale e che richiesero la manodopera di quei contadini allontanatisi dalle risaie. Queste contraddizioni del sistema fondiario generarono una violenta ribellione delle tribù a nord-est. In questo clima l’imperatore Kanmu, che regnò dal 781 all’806, decise di allontanare la corte dai grandi templi che erano stati edificati nel perimetro di Nara e nel 784 diede ordine di trasferire la capitale a Nagaoka. Ma una serie di sciagure indusse a spostare nuovamente la sede del governo imperiale in un’area più propizia. Nel 794 la corte e il governo si mossero nella residenza imperiale edificata nella città cui Kanmu diede il nome di Heiankyō, successivamente ribattezzata Kyōto. La costruzione della città richiese l’ingente impiego di manodopera rappresentata in gran parte dal lavoro di corvée dei contadini. In questa nuova sede, Kanmu, vietò la costruzione di templi buddisti all’interno del perimetro della capitale, rese più solida l’amministrazione centrale creando nuovi organi di governo, migliorò l’amministrazione locale e la riscossione delle tasse. Al fine di disporre di un più efficiente esercito da impiegare nelle zone di frontiera, nel 792 fu abolito l’obbligo del servizio di leva e introdotto un sistema di milizie locali (kondei) arruolate tra la piccola nobiltà provinciale. L’esempio di Kanmu fu seguito anche dai suoi tre successori, che cercarono di tenere in vita i principi del codice Risturyō, ma le contraddizioni del sistema fondiario si fecero più acute, portando a crescenti aree di immunità fiscale che privarono il governo di importanti entrate. Capitolo 2 – L’allontanamento delle istituzioni dello Stato antico e la transizione alla prima età feudale Il distacco dai contenuti delle riforme e l’egemonia Fujiwara Il sistema politico giapponese continuò ad essere condizionato dal ruolo svolto dalla struttura degli uji , sui quali il governo non riuscì mai a stabilire una vera e propria autorità. Non disponendo della forza militare, si raggiunse un compromesso, per il quale i capi uji ricevevano cariche pubbliche, titoli nobiliari e anche terreni esenti dalle tasse. Per controllare il paese, la Corte fece sempre più affidamento sui governatori provinciali (kokushi), i quali si servirono di questi compiti per consolidare il loro potere. Un ulteriore sintomo della fragilità del potere imperiale è rappresentato dalla diarchia che di produsse al vertice dell’istituto imperiale, quando l’autorità del tennō fu sottoposta al controllo del clan Fujiwara, che stabilì una sorta di monopolio sulla carica di reggente. Già nel periodo Nara erano riusciti a far ottenere a membri della famiglia importanti cariche burocratiche e a rafforzare il legame con la casata imperiale grazie al fatto che molte donne Fujiwara diventarono mogli di imperatori. Un passaggio importante nell’ascesa al potere Fujiwara si ebbe nell’857, quando Fujiwara Yoshifusa ottenne la carica di dajō daini, ovvero primo ministro e capo del Consiglio di Stato, fino ad allora riservata ai principi imperiali. L’anno successivo salì al trono l’imperatore Seiwa, che aveva nove anni, di cui Yoshifusa era nonno, e che ottenne la carica di reggente imperiale (sesshō). Yoshifusa mantenne il controllo sul governo anche una volta che l’imperatore raggiunse la maggiore età, e i suoi successori seguirono il suo esempio, così che venne creata la carica di kanpaku, ovvero reggente di un imperatore adulto . Per alcuni decenni la casa imperiale cercò di contrastare il potere dei Fujiwara, ma non riuscì a contrastare la continua erosione del sistema di controllo statale sulle risorse agricole del paese e l’allargamento di tenute di privati, con pesanti conseguenze sul mantenimento del potere e dell’autorità. Così, a partire dal 967 i Fujiwara ripristinarono il monopolio sulle cariche di sesshō e di kanpaku, inaugurando il periodo detto “governo dei reggenti”, che assunse un carattere sempre più onnipotente. Esso ricevette un primo colpo quando, nel 1068, salì al trono l’imperatore Go Sanjō che, per la prima volta dopo un secolo, non era figlio di un Fujiwara. Questo governo fu, infine, superato nel 1087, quando l’imperatore Shirakawa assunse la carica di “imperatore in ritiro” (insei), riuscendo a sfuggire al controllo dei Fujiwara. La fortuna dei Fujiwara era stata favorita dall’incapacità del governo di fermare la privatizzazione delle terre, che riduceva le entrate statali. Inoltre, anche al di fuori della Corte esistevano altri centri di potere, rappresentati in primo luogo da alcune scuole buddhiste, che disponevano di armi, guerrieri e privilegi. Alla ricerca di un’autonomia culturale Nonostante queste trasformazioni, la posizione della famiglia imperiale non fu messa in discussione, né l’ascesa dell’élite guerriera privò immediatamente l’aristocrazia del suo potere e della sua ricchezza. La nobiltà di Heian continuò a essere caratterizzata dal benessere e dalla raffinatezza, visibili nello stile di vita aristocratico e nella produzione artistica e letteraria del periodo. Il Giappone ridusse i rapporti con l’esterno e si concentrò sulla rielaborazione delle idee giunte fino ad allora dal continente, dando vita, a partire dal IX secolo, a modelli autoctoni in ambito politico ed economico e maturando forme artistiche e letterarie autonome e originali. Ad ogni modo, la conoscenza della cultura classica cinese continuò a costituire un requisito indispensabile e un tratto distintivo per i maschi dell’aristocrazia, e la filosofia confuciana continuò a dettare i principi di governo. Ma la ricerca di nuove modalità di espressione autoctone spinse la cultura giapponese a trovare una dimensione “nazionale”. In questo periodo si registrano infatti alcuni cambiamenti in ambito linguistico, come nella scrittura, con l’invenzione dei kana , che testimonia il processo di emancipazione dalla scrittura cinese. Così, accanto a opere che continuarono ad essere scritte in cinese, fiorì una produzione letteraria in kana, nella quale figurano i diari (nikki), racconti (monogatari) e raccolte di poesie. Soprattutto le composizioni poetiche divennero un passatempo negli ambienti di Corte e un tratto distintivo dello status di aristocratico, per il quale l’imperizia in quest’arte poteva persino condurre alla squalifica sociale. Il processo di nipponizzazione interessò anche la coscienza estetica , che andò concedesse esenzioni fiscali, privando ulteriormente lo Stato degli introiti derivanti dalle tasse fondiarie. La manodopera essenziale al lavoro nei campi fu quindi fornita da quei contadini che si allontanavano dalle terre pubbliche e che trovavano negli shōen condizioni meno onerose e da agricoltori titolari di piccoli fondi che, assieme alla propria forza lavoro, cedevano a un potente latifondista anche il proprio appezzamento, acquisendo diritti su una parte del raccolto dello shōen. Un’ulteriore misura che trasformò queste tenute in veri e propri possedimenti privati fu quella di escludere i dipendenti del governo centrale dalla possibilità di accedervi al fine di svolgere compito amministrativi e di tutela dell’ordine. Questo avrebbe segnato la transizione verso un’istituzione nota come ichien shōen, che designa i possedimenti terrieri all’interno dei quali il beneficiario dei privilegi (dal possesso perpetuo dell’esenzione fiscale) deteneva tutti i compiti di governo e i diritti amministrativi: questa figura era nota come ryōshu, una sorta di proprietario dello shōen. Bisogna comunque tenere conto del fatto che la diffusione di tale sistema fu lenta e avvenne a partire dall’VIII secolo; attorno all’XI secolo questo processo interessò la metà delle terre agricole del paese, mentre nel XIII secolo raggiunse una completa maturazione. Gli shōen erano nelle mani di importanti clan, templi buddhisti e santuari shintoisti. Spesso un singolo proprietario controllava molteplici proprietà, il più delle volte situate in regioni diverse; questo comportava l’impossibilità di controllare tutti i territori e, quindi, la necessità di delegare i compiti amministrativi a funzionari locali, gli shōkan. Anche nelle provincie i capi delle famiglie locali più benestanti avevano cercato di trarre beneficio dalla possibilità di reclamare il possesso perpetuo delle zone bonificate e l’esenzione dal pagamento delle tasse, cercando di ottenere la proprietà degli shōen, ma non facendo parte della vita politica, si dovevano appoggiare a figure che facevano parte della Corte, come dei garanti (honke), i quali, in compenso, richiedevano una quota di prodotti agricoli forniti dal possedimento stesso. Così, a differenza dei ryōshu appartenenti alle famiglie aristocratiche di Corte e alle istituzioni religiose che risiedevano spesso lontani dalle proprie tenute agricole, i ryōshu residenti furono in grado di consolidare il proprio potere e di acquisire anche una forza militare nel momento in cui venne chiesto loro di armarsi per difendere le proprie terre. L’organizzazione interna dello shōen differiva a seconda che il proprietario risiedesse o meno in loco. Infatti, la figura dell’honke era richiesta qualora il proprietario vivesse all’interno del possedimento e in questo caso era tenuto ad occuparsi direttamente del controllo amministrativo; invece, nel caso esso non risiedesse all’interno del possedimento, si delegavano agli shōkan i compiti amministrativi, di difesa e di sorveglianza. Per quanto riguarda le gerarchie all’interno dello shōen, l’assetto era simile in entrambi i casi e comprendeva la massa di agricoltori che lavoravano i campi. I contadini erano diversificati tra loro come contadini “proprietari” (myōshu, coloro che hanno concesso le terre) e i contadini dipendenti. Queste gerarchie erano alla base della ripartizione dei prodotti della terra; ognuna di esse, infatti, aveva specifici doveri per assicurare l’assetto e la produzione delle tenute. Da questi doveri derivavano diritti o benefici (shiki) che ciascuno poteva vantare sui prodotti della terra, proporzionalmente al ruolo svolto. Lo shiki rappresentava un beneficio individuale che poteva essere ereditato, suddiviso e venduto. Gli stessi rapporti gerarchici stabiliti all’interno dello shōen erano privati e personali, nel senso che il contadino stabiliva con i propri superiori un legame che si allontanava completamente dall’idea di suddito dell’imperatore. La diffusione dello shōen ebbe importanti riflessi non solo sul sistema di comunicazione, che fu migliorato per consentire il trasporto dei prodotti verso le zone in cui risiedevano i proprietari, ma anche sul livello culturale ed economico delle campagne, dove i contatti con la cultura superiore prodotta dal centro si intensificarono e sorsero numerosi centri artigianali e commerciali. Questo sistema implicò anche una stratificazione nei villaggi, dove un gruppo ristretto di famiglie andava conquistando un potere economico che rischiava di minare i tradizionali vincoli di reciprocità tra i membri del villaggio. Spesso si trattò di famiglie discendenti dagli antichi uji, che avevano continuato a godere di una posizione privilegiata e avevano imposto un controllo militare sul territorio più efficace di quello imposto dal governo imperiale; è vero anche che non tutte le famiglie collegate all’antica élite furono in grado di trasformarsi in capi militari terrieri, ma si limitarono a mantenere le cariche civili ottenute dal governo. In questo contesto assume un preciso significato la ribellione compiuta nel 935 da Taira Masakado, dopo aver fallito il suo tentativo di ottenere un alto incarico nel governo imperiale. L’ascesa della classe guerriera All’epoca delle grandi riforme, la creazione di un esercito nazionale era stata legata alla necessità di indebolire il potere militare dei clan locali, oltre al timore che il consolidamento della Cina sotto le dinastie Sui e Tang potesse minacciare l’incolumità del Giappone. Tuttavia, l’introduzione di un sistema di reclutamento militare obbligatorio non aveva ottenuto un grande successo . Infatti, i maschi di età compresa tra i 20 e i 60 anni dovevano prestare servizio militare, obbligo per alcuni assai oneroso, sia perché bisognava provvedere da sé all’armamento, sia perché si toglieva forza lavoro alla famiglia. Ne era risultato un esercito poco disciplinato, spesso meno efficace e potente delle milizie private di alcune importanti famiglie locali. Questo sistema era stato superato nel 792 con l’istituzione di un sistema di milizie locali (kondei), che prevedeva l’arruolamento di maschi, selezionati tra le famiglie di funzionari o influenti personalità locali. Questo sistema contribuì a creare una base di potere militare locale sempre più autonomo dal centro, ai quali si affidava il governo dapprima con incarichi temporanei e successivamente permanenti, tanto da diventare ereditari. All’interno degli stessi shōen si rese necessaria l’organizzazione di corpi combattenti per scopi difensivi o punitivi. Questo concorse alla nascita dei guerrieri professionisti appartenenti all’élite locale, dediti all’addestramento militare e dotati di armature e cavalli. Fu tra il IX e il X secolo che la forza e il talento militare presero ad essere esercitati in modo esclusivo da professionisti, detti bushi o samurai. Con il passare del tempo essi andarono assumendo il controllo sulle terre agricole grazie al fatto che la forza militare che detenevano li rendeva competitivi rispetto persino alle grandi famiglie dell’aristocrazia civile, le quali avevano dimostrato un profondo disprezzo per le armi. Così l’ascesa di questi gruppi di guerrieri fu accompagnata dal declino dell’aristocrazia civile e dal progressivo superamento del potere imperiale . Già dal IX secolo gli shōen si erano sviluppati al punto che, in alcune provincie periferiche, era progressivamente venuto meno il controllo del governo imperiale. Le sempre più frequenti incursioni di bande armate nelle zone rurali avevano spinto molti contadini a difendersi armandosi o cercando protezione presso le grandi tenute legate a figure importanti. Così l’élite guerriera si consolidò parallelamente al processo che vide un aumento della produzione agricola e una trasformazione delle modalità di controllo delle terre. Nonostante il basso credito di cui godevano i guerrieri presso la nobiltà, quest’ultima necessitava di una forza militare per mantenere il controllo sulle proprie terre, così iniziò, insieme anche alle istituzioni religiose, a servirsene. La classe guerriera riuscì ad ottenere benefici da tutto questo, ma non fu così per quanto riguarda l’ambito sociale e culturale; infatti, il prestigio sociale e cultura della Corte era troppo forte, e non venne mai completamente offuscato. Di fatto la Corte restò la fonte di legittimazione del potere militare, in quanto era questa che conferiva ai capi militari il titolo di shōgun, che indicava un guerriero in grado di mantenere la pace nel Paese. D’altra parte, occorreva una forza militare per fronteggiare le popolazioni ribelli stanziate nelle regioni nord-est che premevano sulla frontiera del Giappone antico, le quali erano considerate “barbare” in quanto fonte di disordine politico ed espressione di una cultura seminomade e dedita alla caccia. Il problema della frontiera settentrionale si fece più acuto tra la fine del VIII e il IX secolo, diventando la questione di maggior rilievo per il governo imperiale, che inviò le proprie truppe o delegò i compiti di difesa all’aristocrazia locale. Questi guerrieri professionisti consolidarono un’identità di gruppo definita, dotandosi di norme comportamentali, coniando una propria cultura, acquisendo uno status ereditario e stabilendo al loro interno una rete di rapporti gerarchici fondati su legami di natura personale. Il vincolo dell’obbedienza verso il signore, che poteva essere rappresentato dal capo della casata o dal leader di un’alleanza militare, divenne l’imperativo nella condotta del guerriero, mentre fu assunto come tratto essenziale il senso dell’onore. La gerarchia della classe guerriera vedeva all’apice i capi delle grandi famiglie, che spesso avevano nobili origini; aveva presto preso avvio la pratica di escludere dalla famiglia imperiale i membri scomodi o pericolosi. A loro venne assegnato un altro cognome e delle terre. Da qui hanno origine le famiglie Taira e Minamoto, legati da vincoli di parentela con la casa imperiale ma escluse dalla successione al trono. Il tramonto dell’era dei “kuge” Il ricorso alla pratica degli imperatori in ritiro, finalizzata ad affrancare il trono dal controllo esercitato dai Fujiwara, segnò una temporanea reviviscenza della dinastia imperiale e, pur creando una sede di potere distinta da quella del sovrano in carica, consenti alla stirpe Yamato di riassumere la gestione del potere. Eppure, nel corso del periodo Heian, si verificarono importanti mutamenti nel metodo di governo: esso si era allontanato dalla concezione che voleva lo Stato al di sopra e indipendente dalla burocrazia nobiliare, per assumere invece sempre più le sembianze di un “governo familiare”. D’altra parte, i Fujiwara avevano esercitato la kuge. In tal senso, il bakufu divenne il luogo verso cui il controllo amministrativo e militare del paese si sarebbe accentrato, diventando il garante dell’ordine e della pace interna e l’arbitro delle dispute per il controllo dei terreni agricoli. Più cresceva il ruolo del bakufu, minore diventava la capacità del governo imperiale di svolgere i propri compiti. Nel corso del periodo Kamakura tale processo si verificò solo in parte, generando una sorta di “governo duale” in cui il bakufu operò in equilibrio con la Corte di Heian, e solo in seguito il governo imperiale sarebbe stato costretto a cedere ogni potere alla classe bushi, che divenne la reale detentrice del dominio sul paese. Nel 1185, dopo aver eliminato il fratello Yoshitsune, Yoritomo emerse come il più potente capo militare del Giappone alla guida di una estesa coalizione formata da guerrieri provinciali. Delle casate militari facevano parte anche i gokenin, ovvero uomini che spesso avevano origini umili e che appartenevano alle casate per legami di sangue o parentela, acquisiti per matrimoni o adozioni. Su questa stessa base Yoritomo stabilì una rete di rapporti feudali fondati sul vincolo signore-vassallo, ovvero un legame politico e allo stesso tempo personale. Ciò determinò una trasformazione anche della natura dello shiki dato che furono i vassalli inviati dal bakufu ad assumere l’amministrazione degli shōen, dapprima riducendo e poi eliminando, l’autorità dei kokushi. Yoritomo dichiarò il suo completo sostegno alla Corte e si impegnò a rispettare la tradizione imperiale, senza rinunciare a negoziati con Kyoto in merito alla spartizione del poter. Infatti egli ottenne dalla Corte, sempre nel 1185, il titolo di sōtsuibushi (capo della polizia militare), il quale gli conferiva di inviare in tutte le provincie un suo dipendente deputato a svolgere compiti di sorveglianza e a sedare la resistenza militare. Questi personaggi, detti shugo, reclutavano i dipendenti in loco per assistere i kokushi, al fine di garantire il pagamento delle tasse, l’amministrazione della giustizia e l’ordine pubblico. Questa carica sarebbe divenuta ereditaria; con il passare dei secoli sostituiranno definitivamente i kokushi , contribuendo ad eliminare i residui dell’autorità imperiale nelle province e a gettare le basi per l’ascesa di veri e propri feudatari. I poteri di Yoritomo furono ulteriormente estesi quando, nel 1190, ricevette le nomine di sōshugo (capo dei governatori militari) e quella di sōjitō (capo degli intendenti terrieri militari), grazie alle quali assumeva il diritto di inviare gli shugo e i jitō anche nelle provincie esterne al Kantō. I jitō esistevano anche in passato, ed erano gli amministratori delle tenute di alti funzionari della Corte, incaricati di raccogliere le imposte. Yoritomo aveva quindi posto alla guida delle province uno shugo e un jitō per ogni tenuta che collaborasse con i funzionari dello shōen per garantire un’equa ripartizione del prodotto agricolo tra quanti ne avevano diritto. Il jitō aveva a sua volta uno shiki, grazie al quale beneficiava di una quota del reddito dello shōen, ed era incaricato di garantire la pace e l’ordine nella tenuta, di dirimere le contese interne e di riscuotere una tassa d’emergenza nota come hyōrōmai, esatta anche nelle tenute esterne al sistema shōen. La figura del jitō, la cui posizione divenne ereditaria, assunse un ruolo rilevante all’interno dello shōen, offuscano il ruolo degli amministratori preposti dai “proprietari” e, quindi, la stessa autorità di questi ultimi. Pur traendo un sostentamento economico autonomo, i jitō erano al servizio di Yoritomo che, attraverso loro, guidava l’amministrazione militare e civile locale con un’organizzazione rigorosa. Yoritomo poté così stabilire una rete di controllo sugli affari interni degli shōen di tutto il Giappone, che diede al governo di Karakuma la fisionomia di un ente amministrativo di carattere nazionale. La sanzione ufficiale della Corte imperiale al sistema di shugo e jitō, infatti, gli consentì di estendere il proprio dominio sulle provincie lontane da Kamakura, nonché di rafforzare i propri diritti sulla raccolta delle imposte e sul conferimento di una protezione militare nelle tenute agricole. Tuttavia, l’effettiva legittimazione giunse nel 1192, quando Yoritomo ottenne la più alta carica militare, quella di shogun inviato contro i barbari, che riuscì a sottomettere estendendo la frontiera del Giappone. L’apparato amministrativo del bakufu si fondava su tre organismi: 1. L’ufficio degli affari militari, o Samurai dokoro, istituito nel 1180, cui spettava il compito di controllare i vassalli e sovrintendere agli affari militari e di polizia; 2. Il Kumonjo (Ufficio dei documenti pubblici) istituito nel 1184, che nel 1191 confluì nel Mandokoro, ovvero l’Ufficio amministrativo, nel quale erano conservati i documenti pubblici e ci si occupava delle questioni amministrative e politiche; 3. Il Monchūjo, o Ufficio investigativo, creato nel 1184, con il compito di fungere da Corte d’appello presso cui accogliere i reclami e dirimere le contese di natura legale, di far rispettare le norme penali e di conservare la documentazione giudiziaria e catastale. Si trattava di organismi privati del clan Minamoto, i quali avevano funzionato già durante la guerra e che, dopo il 1185, estesero la loro giurisdizione anche nelle regioni occidentali ed entrarono a far parte dell’organizzazione del bakufu. Ogni ufficio era guidato da un capo, scelto personalmente da Yoritomo. All’interno della classe militare esisteva una rigida gerarchia, al cui apice stava un numero ristretto di vassalli, i gokenin. Al di sotto di questi trovavano posto i samurai, che disponevano di cavalli e di un gruppo di seguaci, mentre al gradino più basso erano collocati i fanti (zusa), privi di cavalli e di elaborate armature. A tutti i livelli della classe militare era imposta l’osservanza del vincolo di obbedienza assoluta verso il superiore, e ciascuno doveva conformarsi alla virtù della lealtà, dell’onore, del coraggio, della disciplina e della frugalità che, nel loro insieme, avrebbero contribuito a creare il culto di una “via” esclusiva riservata al guerriero, noto come bushidō. Yoritomo morì nel 1199, lasciando due figli, Yoriie e Sanetomo, avuti dalla moglie Hōjō Masako, che non si mostrarono in grado di gestire l’eredità paterna. Dopo la sua morte Masako si fece monaca, pur senza rinunciare a esercitare il potere in favore della sua famiglia di origine. Yoriie venne posto come secondo shōgun, dopo dispute per la successione tra i vassalli, per un breve periodo, dal 1202 al 1203; a lui succedette il fratello Sanetomo. Nello stesso anno il padre di Masako, Hōjō Tokimasa, assunse la carica di shikken, grazie alla quale riuscì a ottenere la funzione di reggente dello shōgun. Da allora fu la famiglia Hōjō a gestire il potere, attraverso il monopolio salla carica di shikken e il controllo sulle altre cariche del governo militare. Questo periodo fu caratterizzato da pace e stabilità interna, grazie ad una solida amministrazione volta a tutelare i diritti sulle terre agricole. Questo clima portò all’aumento della produttività delle campagne, generando un miglioramento delle condizioni economiche del Paese. Inizialmente Kamakura non riuscì a stabilire un completo controllo sugli shōen, mentre ben poche terre pubbliche versavano le imposte al governo centrale. Una svolta si ebbe nel 1221, quando l’imperatore Go Toba fallì un tentativo di rivolta contro il bakufu, con il conseguente esilio di questo e altri due ex imperatori e la nomina di un nuovo imperatore più gradito a Kamakura. Il governo Hōjō ne approfittò per confiscare le terre dei kuge ribelli, le quali furono affidate a vassalli della famiglia; in questo modo ottenne il diritto di interferire con gli affari della Corte imperiale, inviando nella residenza di Rokuhara due rappresentanti incaricati di controllare l’imperatore e approvare ogni iniziativa; infine estese il sistema jitō all’intero paese. Vennero anche creati nuovi organismi, come il Consiglio di Stato, istituito nel 1126; ma la più significativa innovazione è rappresentata dal Codice Jōei, emanato nel 1232, che sostituiva le vecchie norme della Corte imperiale e dettava i principi per la legislazione della classe militare. Redatto in 51 articoli, enunciava i diritti e le norme di comportamento dei bushi e definiva i compiti dei funzionari dipendenti da Kamakura. In questo periodo il Buddhismo si affermò anche presso gli strati meno elevati della società; così al progressivo arretramento delle dottrine esoteriche, corrisponde una diffusione di concezioni fruibili anche alle persone più umili, come quelle associate al culto di Amida: - La scuola della Terra Pura (Jōdo): ebbe una forte vitalità sotto la guida di famosi monaci come Hōnen e il suo discepolo Shinran, per i quali l’insegnamento buddhista era semplificato alla sola e sincera invocazione del nome di Amida per ottenere la salvezza; - La setta del Loto (Hokke): fondata da Nichiren, il quale criticò le dottrine amidiste e delle altre scuole buddhiste per aver trascurato l’insegnamento contenuto nel Sutra del Loto (Myōhō renge kyō), affermando che la vera salvezza potesse essere conseguita invocando la preghiera racchiusa nel titolo di questo testo. La propagazione della fede buddhista fu accompagnata dal moltiplicarsi di centri religiosi in tutte le zone del Paese. L’aristocrazia guerriera trovò un sostegno culturale in un’altra scuola, quella Zen, sviluppatasi in Cina attorno a una pratica meditativa finalizzata a controllare il corpo e la mente, e giunta in Giappone agli inizi del periodo Kamakura. Lo Zen è legato soprattutto alla figura del monaco Dōgen; di origini aristocratiche, egli diede una dimensione intellettuale alla sua speculazione metafisica, rifugiandosi a meditare in remote zone montane. Il bakufu stabilì uno stretto legame con questa scuola in quanto non interferiva nella sfera politica. Il grande fervore religioso diede nuova vitalità alla letteratura, all’arte e all’architettura. Gli autori continuarono in genere a provenire dall’ambiente kuge e dai monasteri, ma il pubblico cui le opere si rivolgevano era più vasto e differenziato che in passato, composto prima di tutto dai guerrieri. Il mondo e le gesta, i gusti e i valori della classe militare presero posto nelle varie espressioni culturali e furono spesso accompagnati da messaggi o commenti d’ispirazione buddhista. La dunque, l’opportunità per procedere a una redistribuzione dei privilegi feudali che, per alcuni, significò un ulteriore consolidamento della propria forza. Ma la vittoria di Takauji e la nascita del bakufu a Kyoto non riportarono la pace nel Paese, che continuò a essere afflitto da turbolenze interne, fazionalismi e lotte civile da cui sarebbero scaturiti nuovi equilibri di potere. Il periodo Muromachi (1338-1573) Il periodo che vide succedersi 15 shōgun del clan Ashikaga prende il nome dal quartiere di Kyoto dove fu istituita la sede del governo militare (Muromachi). Sebbene il bakufu degli Ashikaga restasse formalmente in vita per circa due secoli e mezzo, il suo effettivo potere sarebbe andato declinando trasferendosi nelle mani dei grandi capi militari locali, in un clima di tensione che avrebbe portato il Giappone a vivere un lungo periodo di guerre civili. Nel gettare le basi del suo governo, Takauji si ispirò al modello del precedente bakufu, da cui prese le istituzioni, le concezioni e anche parte del personale necessario al suo funzionamento. Il governo si basava, quindi, sul Samurai Dokoro, il Mandokoro e il Monchūjo. La carica più elevata era quella di kanrei (capo dell’amministrazione). Esisteva poi un ufficio per le ricompense, Onshōgata. Takauji delegò gran parte delle responsabilità amministrative e giudiziarie a suo fratello Tadayoshi, riservandosi di esercitare l’autorità militare. Anche a livello locale fu mantenuto il sistema degli shugo e dei jitō. Fuori da Kyoto, l’autorità del bakufu era rappresentata da delegati regionali; il controllo sulla Corte, invece, non fu più delegato a funzionari, ma garantito dalla vicinanza della sede del bakufu con il palazzo imperiale. Nel 1336 Takauji emanò il Kenmu shikimoku, un codice di diciassette capitoli ispirato al Codice Jōei e che rimarrà in vigore per tutto il periodo. Dopo la conquista della capitale, Takauji dovette assicurarsi il controllo del Paese e sedare il conflitto tra le due “Corti imperiali del Sud e del Nord” (Nanbokuchō). Poco dopo essere stato deposto, infatti, Go Daigo era riuscito a fuggire nuovamente dalla capitale e a rifugiarsi a Yoshino, a sud di Kyoto, portando con sé le insegne imperiali. Ebbe così inizio una contesa per la legittimità del potere tra i due rami della dinastia regale, accompagnata da ripetuti scontri, la quale si sarebbe protratta fino al 1392, anno in cui l’ultimo sovrano della corte meridionale rinunciò al potere, consentendo agli Ashikaga di estendere il potere su tutto il Paese. Takauji si trovò ad agire all’interno di un quadro legale e istituzionale mutato, in cui la natura delle relazioni con i vassalli apparivano diverse da quelle che legavano i gokenin a Kamakura. I vassalli, infatti, possedevano poteri a volte pari a quelli dello shōgun. Il bakufu, quindi, non serviva più come garante dei diritti e dispensatore di potere e giustizia, e ciò contribuì a rendere meno solido il sistema di alleanze. Inoltre, potenti famiglie shugo assunsero il monopolio su cariche importanti come quella di kanrei. Il governo militare riusciva quindi a garantire equilibrio solo grazie all’influenza dei capi Ashikaga. Alla sua morte, Takauji (1358) lasciò un’eredità tutt’altro che solida, anche se la maggior parte degli shugo apparivano fedeli, trattandosi per la maggior parte di uomini legati agli Ashikaga da legami di parentela. Essi infatti appartenevano all’ichimon (o primo cerchio) al di fuori del quale stavano i tozama (signori esterni). Il terzo shōgun, Yoshimitsu, fu nominato quando era ancora un bambino, ma divenne un capo energico. Nel periodo in cui fu a capo del bakufu tentò di consolidare il suo governo, rafforzando il controllo sulle casate guerriere e sedando le rivolte che minacciavano la sua egemonia. Inoltre impose ad alcuni shugo l’obbligo di stabilire la residenza nella capitale, per controllarli. Riuscì quindi a mantenere il controllo di tutto il Paese, tranne che del Kantō, su cui gravava il potere del governatore generale della regione. Dopo aver sanato la frattura fra le due corti imperiali, Yoshimitsu lasciò la guida del bakufu al figlio Yoshimochi nel 1394, per assumere la carica di Gran ministro di Stato. Criticata, invece, fu la sua decisione di stabilire rapporti commerciali con la Cina nel 1401, fregiandosi del titolo di “re del Giappone” e accettando la condizione di tributario impostagli dall’Imperatore Ming nel 1402. Ma questo favorì una nuova interazione con la cultura cinese e aprì un fiorente commercio che comportò grandi profitti di cui beneficiò l’intero Paese. Lo stabilimento di licenze ufficiali consentì di controllare l’attività del commercio e di porre a freno la pirateria. Le autorità stabilirono una sorta di alleanza con i mercanti, garantendo protezione in cambio del loro servizio. Essi esportavano in Cina le pregiate spade d’acciaio, oltre a rame, ventagli, paraventi e rotoli dipinti, in cambio di monete, libri e ceramiche. I successori di Yoshimitsu non furono altrettanto abili nell’esercizio del potere bakufu, che cominciò a declinare dopo la sua morte nel 1408. Yoshimochi era diventato il quarto shōgun nel 1394. Venuta meno l’interferenza paterna, egli si era impegnato a eliminare gli aspetti della precedente politica che reputava eccessivi, recidendo il rapporto tributario con la Cina e riaffermando un equilibrio nei rapporti con la Corte. L’eredità paterna gli fruttò un periodo di stabilità. Anche il sesto shōgun, Yoshinori, che detenne la carica tra il 1429 e il 1441, riuscì a rafforzare l’autorità del bakufu, sconfiggendo il governatore del Kantō. Venne ucciso da uno dei suoi vassalli, il quale sospettava che Yoshinori volesse togliergli la carica di shogu. Il clan Ashikaga ne uscì indebolito, dimostrando di non avere abbastanza forza per controllare i suoi subordinati. Sul piano economico il bakufu risenti della perdita del controllo sul commercio con la Cina, che passò nelle mani di grandi famiglie guerriere. Sotto Yoshimasa (VIII shōgun tra il 1449 e il 1473), l’autorità del governo militare fu completamente dispersa . Gli effetti dei problemi politici e sociali riguardavano in primo luogo il governo locale, dal quale erano state eliminate le forme di controllo dello Stato imperiale, i kokushi. Il fallimento del tentativo di restaurazione di Go Daigo aveva determinato il superamento del sistema dei kokushi e lo smantellamento delle istituzioni imperiali deputate al controllo locale. Gli shugo poterono quindi consolidare una posizione assoluta nelle provincie, trasformandosi in veri e propri capi regionali, i quali disponevano del potere militare, civile e amministrativo (che avevano assorbito dai jitō). Gli shugo avevano tratto beneficio dalla pratica, resa legale da Takauji, detta hanzei, che consentiva agli shugo di riscuotere la metà delle imposte degli shōen per sostenere le proprie milizie e che, assieme alla tassa hyōrōmai, permise loro di assumere diritti all’interno delle tenute private. Il loro rapporto con il bakufu si basava sulla garanzia che esso poteva dare alla loro posizione. Ma con il declino dell’autorità del governo militare, tali garanzie vennero meno e, con esse, il vincolo di fedeltà che legava gli shugo allo shogun. Esisteva una marcata differenza tra i territori controllati dai diversi shugo: se, ad esempio, gli Yamana furono privati del controllo su undici provincie, gli Ōuchi riuscirono invece a mantenere i loro estesi domini. All’indebolimento della posizione di molti shugo contribuì l’obbligo di risiedere a Kyōto, che li costringeva ad affidare il controllo delle provincie a dei sostituti (shugodai). Spesso, questi si dimostravano incapaci di sedare le rivolte contadine, di garantire il prelievo delle tasse o il loro invio allo shugo e, soprattutto, di fronteggiare la competizione con i capi delle grandi famiglie residenti in loco. Ciò aprì la strada ad un rimescolamento del potere a livello locale , che avvenne con il ricorso alle armi e da cui sarebbero emersi nuovi capi militari locali. Nel 1467, primo anno dell’era Ōnin, le tensioni e le contese tra i vassalli presero la forma di un’aspra guerra, che scaturì da una disputa tra gli Hosokawa e gli Yamana legata alla successione shogunale. Destinata a perdurare sino al 1477, essa vide i grandi shugo schierarsi a sostegno dell’una o dell’altra fazione e affrontarsi nella zona di Kyoto distruggendo buona parte della capitale. Lo shōgun preferì stare lontano dalle armi e imitare il suo predecessore, dedicandosi alla cultura, alle arti e anche alla costruzione del padiglione d’argento (Ginkakuji). La guerra Ōnin segnò l’inizio di un lungo periodo di guerre civili (periodo Sengoku), che durò circa un secolo. L’autorità del bakufu, proprio a causa di queste guerre, declinò, ma a livello formare le cariche di imperatore e shōgun continuavano a rappresentare lo Stato unificato, anche se questo venne diviso in una serie di realtà autonome, svincolate dal controllo centrale. Il processo di decentramento del potere politico fu accompagnato anche dall’ascesa di capi militari locali, i sengoku daimyō, determinando quindi la completa eliminazione del sistema imperiale e l’affermazione di un feudalesimo decentrato. Questo fu possibile grazie ad una serie di trasformazioni a livello locale: - Il potere degli shugo fu ulteriormente minato dallo sforzo bellico, che li costrinse a distogliere l’attenzione dalle province su cui avevano giurisdizione; inoltre, le stesse casate shugo furono spesso divise da dispute interne, che ne causarono lo smembramento. - Parallelamente, nelle province si assistette al frazionamento del territorio in numero unità politiche, controllate dalle grandi famiglie residenti che non esitarono a usare la forza militare per affermare un potere autonomo sui propri domini. Ciò diede vita al gekokujō, ovvero il ribaltamento sociale scaturito dal trionfo degli inferiori sui superiori. Questo aspro confronto fu il tratto caratteristico del periodo Sengoku, nel corso del quale si assistette ad una completa redistribuzione del potere e all’ascesa dei nuovi leader militari, i sengoku daimyō. Diversamente dagli shugo, essi furono poco sensibili all’autorità del governo militare, concentrati ad accrescere la loro forza militare ed economica e a difendere i propri domini, i quali non coincidevano più con i limiti amministrativi delle province, né con quelli degli shōen. L’affermazione dei sengoku daimyō segnò la dissoluzione del sistema shōen. Costituite da terre e castelli, queste nuove unità avevano preso forma attorno all’effettiva possibilità di controllo esercitata dal daimyō, il quale assorbì i diritti amministrativi e di proprietà esempio da seguire in un’epoca di incertezza politica, di disordini sociali e di crescente corruzione del clero buddhista. Attorno alla metà del 1500 i mercanti portoghesi avevano stabilito una sorta di monopolio sul trasporto di merci giapponesi all’estero e sull’importazione di prodotti stranieri, e la conversione dei daimyō fu determinata più dal desiderio di partecipare alle attività commerciali che non da ragioni di natura spirituale. Tali contatti consentivano inoltre di acquisire nuovi prodotti, conoscenze e tecnologia provenienti dall’Europa, primo fra tutti l’archibugio, diffuso in Giappone con il nome di tanegashima, dall’isola dove erano sbarcati i portoghesi. Ciò, assieme all’acquisizione di nuove conoscenze militari, influenzò in modo profondo gli eventi bellici che si stavano svolgendo nel Paese, dove l’impiego di armi da fuoco determinò sempre più le sorti delle battaglie, costrinse a erigere massicci castelli entro cui difendersi e a modificare le armature dei guerrieri. L’attività militale, quindi, richiese crescenti risorse economiche di cui solo i maggiori daimyō disponevano, e ciò consenti loro di consolidare il proprio potere ed eliminare i rivali più deboli. Anche in altri campi l’apporto di conoscenze europee fu rilevante: oltre alla tecnologia nautica e a nuovi motivi artistici, i giapponesi ebbero modo di conoscere gli orologi e gli occhiali, gli articoli di vetro e i tessuti di lana e di velluto, il tabacco e la patata. A questo periodo risalgono numerosi paraventi dipinti, che ben illustravano la visione che i giapponesi ebbero delle fattezze, dei costumi e delle attività degli europei. Verso la fine del XVI secolo i giapponesi si riaffermarono nelle attività marittime dirette verso le coste del continente e il Mar Cinese Meridionale. Il Giappone tentò un’avventura espansionista inviando due spedizioni militari in Corea con l’obiettivo ultimo di conquistare la Cina. Con la riunificazione del Paese e con il consolidamento del potere, il bakufu avrebbe potuto affermare un rigido controllo sugli scambi con l’estero, che furono sottoposti a un sistema di autorizzazioni. L’intolleranza verso la fede cristiana avrebbe assunto sempre più le sembianze di una persecuzione, che si sarebbe conclusa con l’espulsione di missionari e mercanti dei Paesi cattolici e con la soppressione della Chiesa cattolica in Giappone. Capitolo 4 – Verso un “feudalesimo centralizzato”: la riunificazione del Paese e l’istituzione del “bakufu” di Edo L’avvio dell’opera di riunificazione: dall’ascesa di Oda Nobunaga al regime di Toyotomi Hideyoshi Il superamento dello stato di decentramento nel periodo Sengoku fu dovuto all’opera di tre daimyō, i quali, dopo aver consolidato una salda base nei propri territori, estesero il controllo sull’area di Kyōto e quindi sul resto del Paese. Il processo di riunificazione è dovuto ad una serie di fattori, tra cui l’emergere dei daimyō stessi, che detenevano il governo assoluto nei propri territori. Il crescente ricorso a una nuova tecnologia militare, inoltre, accrebbe ulteriormente la distanza tra quanti disponevano di risorse da investire nell’attività bellica e chi, invece, non era in grado di accedere all’uso di armi moderne. Da questo confronto militare emersero alcuni importanti capi regionali, i quali, potendo contare sull’appoggio di daimyō minori per dispiegare eserciti ingenti e ben equipaggiati, presero a nutrire l’ambizione di acquisire un potere più esteso. Concorse a disgregare il precedente assetto feudale anche la generale crescita economica derivante dall’espansione dell’attività commerciale interna ed estera. Se nel Giappone centrale il potere dei grandi daimyō continuava a fondarsi sulle risorse agricole, nel Kyūshū molti daimyō acquisirono potere economico dagli scambi con l’estero. La stessa protezione accordata da Oda ai missionari fu motivata dalla volontà di attirare verso i propri domini le navi portoghesi e i profitti derivanti dai traffici con l’estero. Anche i suoi successori seguirono il suo esempio, progettando di spostare verso est le basi degli scambi marittimi e di porre il commercio sotto un regime di monopolio. L’incapacità di attuare questa politica avrebbe condotto a una progressiva riduzione degli scambi con l’estero, fino all’adozione di una politica di chiusura quasi totale. In un paese al momento privo di una efficace autorità centrale, la presenza degli europei era avvertita come un pericolo, in considerazione anche del comportamento che questi avevano assunto in altre zone dell’Asia, dove l’opera missionaria aveva aperto la strada alla conquista militare. Lo stesso cristianesimo era percepito come una dottrina che possedeva una potenziale carica eversiva rispetto a un ordine sociale rigidamente gerarchico. Fu, dunque, all’interno di questo contesto che prese corpo il progetto di riunificare il Paese e di ristabilire un unico centro di potere. Alcuni tentativi vennero compiuti in tal senso dalla metà del XVI secolo, ma fu l’esercito guidato da Oda Nobunaga a conquistare Kyōto nel 1568. Discendente da una famiglia guerriera minore e dotato di grandi capacità miliari, egli emerse sconfiggendo nel 1560 un potente daimyō rivale che aveva tentato di occupare i suoi territori. Da allora Oda si dedicò a consolidare il potere attraverso alleanze e matrimoni e raggiunse un prestigio tale da attirare l’attenzione dell’Imperatore, che si appellò a lui per pacificare la zona della capitale, nonché di Ashikaga Yoshiaki, desideroso di assicurarsi la successione alla guida del bakufu. Oda conquistò, quindi, Kyōto e garantì a Yoshiaki la carica di quindicesimo shōgun della dinastia Asahikaga. Questo, però, iniziò a cospirare per eliminare Oda, il quale reagì costringendolo, nel 1573, a lasciare la carica e lo esiliò. Questi avvenimenti segnarono la fine del bakufu degli Ashikaga, ovvero del periodo Muromachi, e l’inizio del periodo Azuchi-Momoyama. Politica per la riunificazione: l’affermazione del potere di Oda procedette con il consolidamento del controllo sulla zona della capitale, che affermò ricorrendo a metodi di violenza estrema per eliminare quanti si opponevano alla sua ascesa. I daimyō rivali furono via via sconfitti e costretti a diventare suoi vassalli. Nel 1571 egli attaccò l’Enryakuji, sul Monte Hiei, distruggendo tremila edifici e sterminando migliaia di monaci; con metodi analoghi furono annientati gli altri centri religiosi rivali, i cui territori furono confiscati e posti sotto la guida di figure delegate da Oda. In tal modo, fu posta fine all’autonomia e al potere che queste istituzioni religiose avevano detenuto, e furono gettate le basi per l’assoggettamento del Buddhismo e dello Shintoismo al governo militare. Diverso fu l’atteggiamento riservato al Cristianesimo e, più in generale, verso gli europei e le loro innovazioni tecnologiche in campo militare, di cui fece un abile impiego. In effetti fu il primo giapponese a usare le nuove armi per scopi offensivi e difensivi e a impiegare rivestimenti di ferro nelle sue navi da guerra; inoltre, fece erigere fortezze di pietra in grado di resistere agli assalti di armi da fuoco. Il primo esempio di questo genere di costruzione è rappresentato dal castello che fece edificare nel 1576 ad Azuchi per porvi la sede del quartier generale. Oda inaugurò così la tradizione di concentrare gli eserciti in quartier generali fortificati, che proseguì nel corso di tutto il periodo Momoyama e fu simboleggiato dall’edificazione di castelli riccamente adornati, la cui magnificenza suggerisce come il loro scopo non fosse meramente difensivo, ma utile alla glorificazione del signore che lo abitava. Il favore dimostrato da Oda nei confronti di mercanti e missionari giunti dall’Europa gli fruttò una grande notorietà, al punto che fu il primo capo giapponese ad apparire nella storia occidentale. L’improvvisa scomparsa di Oda, assassinato da un suo vassallo nel 1582, impedì che il suo progetto di riunificazione fosse portato a termine. La riunificazione era stata realizzata solo in parte; alla vigilia della sua morte Oda aveva stabilito il controllo su circa 30 delle 68 province del Giappone. La sua attività aveva avuto un carattere prettamente militare, ma diede avvio ad una ristrutturazione dell’amministrazione e introdusse alcune importanti innovazioni che ridussero il potere indipendente delle province e posero le basi per la riunificazione politica. Assegnò ai suoi vassalli i feudi confiscati ai nemici sconfitti, nei quali fu ricalcato il modello di un quartier generale fortificato dove si concentravano le truppe armate. Ciò favorì l’allontanamento dei guerrieri dalle zone rurali e contribuì ad avviare la separazione della classe militare da quella contadina, nota come heinō bunri. Tale processo proseguì con una serie di provvedimenti, adottati a partire dal 1576 in alcune regioni, che furono finalizzati a confiscare le armi della popolazione non guerriera; oltre che contro le comunità religiose ribelli, essi erano rivolti ai contadini, i quali furono vincolati al proprio status e obbligati a dedicarsi esclusivamente al lavoro agricolo. Anche per quanto riguarda la sfera religiosa furono attuati interventi, come l’obbligo imposto agli abitanti dei villaggi di affiliarsi ai templi autorizzati. Un altro rilevante provvedimento è rappresentato dalla riorganizzazione delle zone rurali in villaggi e dall’imposizione della consegna dei registri catastali relativi ai territori assoggettati; in alcune aree Oda fece eseguire il rilevamento dei terreni agricoli (kenchi) ricorrendo a nuovi criteri di misurazione e introducendo un nuovo sistema fiscale. Assunse, inoltre, il diritto di trasferire da un feudo a un altro i suoi vassalli, dai quali pretese un’obbedienza assoluta, assieme ad una stretta osservanza dei regolamenti (okite) imposti. La riunificazione nei suoi territori interessò anche il commercio, che fu favorito con varie misure (tra cui l’adozione di pesi e misure uniformi), mentre veniva affermato il controllo sulle comunità di mercanti. Toyotomi Hideyoshi: la riunificazione proseguì sotto Totoyomi Hideyoshi; di umili origini, cominciò a servire Oda quando era ancora un ragazzo, ma si distinse per le sue qualità militari e politiche. Non fu pertanto difficile per lui riuscire ad assumere l’eredità lasciatagli dall’improvvisa scomparsa del suo capo. Nel 1584, egli aveva stabilito un solido controllo sulla capitale e fissato la sua base nell’imponente castello di Ōsaka; l’anno successivo riuscì a ottenere l’obbedienza dei vassalli fedeli a Oda e concluse un’alleanza con importanti daimyō, tra cui Tokugawa Ieyasu. La sua ascesa proseguì sia sul piano formale, ricevendo nel 1585 la nomina di reggente imperiale (kanpaku) e l’anno seguente il cognome Toyotomi, sia su quello strategico e, grazie a L’istituzione del regime dei Tokugawa Tokugawa Ieyasu apparteneva a una famiglia che aveva acquisito la posizione di modesto daimyo nella provincia di Mikawa e successivamente aveva assunto il controllo su un’estesa area del Giappone centrale. Egli scelse Edo (l’attuale Tokyo) per stabilire il suo quartier generale e da qui cercò di rafforzare il proprio potere in un territorio che gli assicurava una rendita tale da competere con quella di cui disponeva Hideyoshi. Lo scontro decisivo per prendere il potere si ebbe nel 1600, quando Ieyasu sconfisse i suoi rivali nella battaglia di Sekigahara, diventando il daimyo più importante del Giappone; tre anni dopo ottenne il titolo di shōgun, potere che esercitò nella nuova sede del bakufu, Edo. Nel 1605 rinunciò alla carica che diede al figlio Hidetada, e assunse quella di shōgun in ritiro (ōgosho); inoltre trasferì la sua residenza a Sunpu, da dove continuò ad esercitare il potere. Ma la vittoria non bastò ad evitare nuovi attacchi da parte di Hideyori, e per questo gli fu consentito di mantenere il castello di Ōsaka, oltre ad altri territori. Ieyasu era ormai il capo indiscusso del Paese e, quando morì nel 1616, le basi dell’egemonia della sua famiglia erano state fondate e il sistema di controllo del bakufu sugli han era ormai istituzionalizzato. Ieyasu si occupò per prima cosa della riorganizzazione dei possedimenti terrieri. Le terre confiscate non furono sufficienti a ricompensare i daimyō che lo avevano sostenuto, per questo dovette riassettare il territorio. Stabilì, in primo luogo, una gerarchia tra i daimyō fondata su vincoli di fedeltà tra questi e lo shōgun. Una posizione elevata fu assegnata ai daimyō imparentati con i Tokugawa (shinpan), ai quali seguivano quei daimyō che avevano sostenuto Ieyasu (fudai) e infine i daimyō rivali (tozama). Questi furono sistemati in modo che i daimyō rivali non potessero ribellarsi, ma anche in modo da poter controllare le vie di comunicazione e di accesso a Edo e a Tokyo. Ieyasu si servì dei vassalli per amministrare il territorio, da cui traeva le risorse necessarie a sostenere il proprio governo e a garantirsi una posizione di egemonia nel Paese; i vassalli si distinguevano in hatamoto (uomini della bandiera), i quali spesso potevano disporre di un proprio feudo, e i gokenin (uomini della casa), che occupavano una posizione inferiore e ricevevano uno stipendio. Lo shōgun era quindi il più ricco daimyō del Giappone, controllando i maggiori centri economici, le fonti di metallo prezioso e un’alta percentuale delle rendite agricole prodotte nel Paese. I Tokugawa mantennero, anche se solo formalmente, il legame con l’Imperatore, e anzi, furono proprio loro a finanziare la Corte affinché potesse mantenere uno stile di vita consono alla propria posizione. Allo stesso tempo, però, ne limitarono l’autonomia politica, disponendo l’insediamento di un governatore, il quale doveva mantenere i contatti tra l’Imperatore e il bakufu. Inoltre, nel 1615, furono emanate delle regole alle quali la famiglia Imperiale e l’aristocrazia civile dovevano attenersi, che vietavano al sovrano di partecipare agli affari di Stato e regolavano i contatti con le istituzioni religiose. Lo shōgun poteva chiedere ai feudatari l’invio di milizie in caso di necessità, o il trasferimento di fondi e manodopera per la costruzione e la manutenzione delle strade. Anche la condotta dei daimyō fu sottoposta a una normativa emanata sempre nel 1615, il Buke shohatto, il quale imponeva rigide regole ai feudatari: stabiliva che, in caso di successione o matrimonio, essi dovevano ottenere l’approvazione dello shōgun; poneva un limite al potenziamento militare dello han; vietava la costruzione di navi d’alto mare; proibiva di aderire al Cristianesimo e imponeva, inoltre, il sistema della “residenza alterna”, già utilizzato da Hideyoshi: rappresentò un efficace sistema di controllo sui daimyō, ai quali veniva imposto l’obbligo di costruire una residenza (yashiki) nella capitale, dove dovevano dimorare per un certo periodo secondo scadenze fissate e, in loro assenza, lasciare i propri familiari e altri funzionari al loro servizio. Tale pratica sottraeva molte delle risorse finanziare degli han, anche perché la casa costruita a Edo doveva essere arricchita con un lusso proporzionale all’importanza del proprietario. Lo shōgun operava con l’ausilio di due organismi:  Il Consiglio degli anziani (rōjū): formato da 4 o 6 membri selezionati tra i fudai, i quali dovevano gestire l’amministrazione e le questioni di rilevanza nazionale, tra cui quelle relative alla corte, ai daimyō, alle istituzioni religiose, agli affari militari e a quelli esteri. Inoltre aveva potere di intervento sulla tassazione e la distribuzione delle terre e disciplinava il conio e la circolazione monetaria;  Il Consiglio dei meno anziani (wakadoshiyori): contava 3 o 4 membri scelti sempre tra i fudai ma di rango inferiore ed era responsabile delle questioni interne a Edo. A questo organismo erano sottoposti i metsuke, ovvero gli ispettori e i funzionari incaricati di vigilare sull’osservanza delle norme. A questi vanno aggiunti: - Alta corte di giustizia (Hyōjōsho); - Intendenti delle finanze, che si occupavano a livello locale del controllo del governo di Edo. Da questi dipendevano intendenti locali selezionati tra gli hatamoto di medio e basso rango; - Magistrati delle città, che si occupavano del controllo delle zone urbane. Questo modello amministrativo era ricalcato anche in ogni singolo han, all’interno del quale il daimyō godeva di una certa autonomia, che riguardava anche la consistenza del suo esercito e il numero e le dimensioni delle fortezze. I guerrieri alle dipendenze dei daimyō erano iscritti in un registro personale, organizzati secondo il proprio rango e stanziati attorno al castello del signore. Il daimyō governava attraverso un ufficio centrale delle finanze, un corpo di intendenti rurali deputati al controllo dei villaggi e il magistrato che sorvegliava i distretti urbani (machi). Le unità dei mura e dei machi si autogovernavano sotto la guida di un capo scelto a livello locale. All’interno dei villaggi venne rafforzato il divieto di abbandonare, acquistare o cedere i terreni. I contadini furono organizzati in gruppi di famiglie (goningumi), reciprocamente garanti del pagamento delle tasse e del rispetto delle norme. Gli amministratori alle dipendenze del daimyō compivano ispezioni periodiche nei mura e prelevavano le tasse raccolte dal capo villaggio. Questo sistema di feudalismo centralizzato è detto bakuhan. L’efficacia del sistema dipende dalla capacità dei Tokugawa di garantire equilibrio nei rapporti di potere con i grandi signori feudali e fu sorretto dall’adozione di alcune misure sociali come il processo di differenziazione delle classi sociali sulla base del ruolo occupazionale, già utilizzato da Hideyoshi e portato in questo periodo a termine, con l’adozione del modello shinōkōshō, finalizzato a organizzare, su una scala gerarchica e in ordine di importanza, i guerrieri, gli agricoltori, gli artigiani e i mercanti. Poiché la maggior parte dei mercanti e degli artigiani si concentravano nelle zone urbane, questi erano detti chōnin (persone della città) e considerati come un’unica categoria. Venivano riconosciute anche categorie privilegiate, come i kuge, i religiosi e le monache (sō e ni), ma anche gruppi di infima reputazione, come gli eta e gli hinin, raggruppati sotto la denominazione di senmin (persone di basso rango) e posti al gradino più basso di quest’organizzazione sociale, detta mibun. Ogni livello doveva rispettare delle norme precise. Ne conseguì non solo una differenziazione netta nello stile di vita , ma anche nella disposizione sul territorio , con la concentrazione di samurai, artigiani e mercanti nei centri urbani e agricoltori nelle zone rurali. Inoltre questa divisione impediva all’individuo di cambiare la sua classe sociale ereditata alla nascita, alla quale era vincolato per sempre. A caratterizzare il periodo è il neoconfucianesimo; nato in Cina a partire dal XII secolo con l’intento di restaurare la tradizione confuciana deteriorata da Taoismo e Buddhismo, esso si affermò anche fuori dalla Cina, grazie all’opera del filosofo Zhu Xi, il quale elaborò un sistema metafisico imperniato sul dualismo tra il li, che si riferisce alla legge per cui ogni cosa esiste, e il qi, l’elemento che le conferisce concretezza. Trasferita in ambito etico-politico, questa filosofia suggeriva la condotta ideale dei governanti e del popolo, del cui benessere essi sono responsabili. Il neoconfucianesimo fu assunto come fondamento del regime di Edo e posto al servizio dello Stato grazie soprattutto all’opera di Fujiwara Seika, il quale si dedicò alla divulgazione della dottrina. I Tokugawa si dotarono di un ufficio di consiglieri confuciani e istituirono anche delle scuole confuciane, studi che divennero parte integrante nella formazione dei samurai. La dottrina venne adattata alle condizioni del Giappone, come attesta il contenuto del Codice bushidō (“la via del guerriero”) elaborato da Wamaga Sokō per giustificare il ruolo dei militari come élite governante. Dopo la sua morte, Ieyasu fu divinizzato in un imponente mausoleo edificato a Nikkō. Ciò rientrava in una politica più generale che voleva mettere le istituzioni religiose al servizio del bakufu. Le istituzioni buddhiste furono economicamente indebolite a seguito della marcata riduzione delle terre assegnate ai monasteri. I templi periferici furono riorganizzati e subordinati a quelli controllati dal governo centrale che, nel 1635, pose tutte le questioni inerenti ai tempi sotto la giurisdizione di un unico magistrato, mentre l’attività del clero venne regolata secondo quanto elencato in una serie di norme, il Jiin hatto. I Tokugawa fornirono protezione sia al sistema buddhista che a quello scintoista, data l’importanza che avevano avuto in Giappone. Inoltre, il buddhismo servì a contrastare la diffusione del cristianesimo, sottoposto a un’inquisizione religiosa che ricorse alla tortura e alla confisca dei beni dei fedeli; infine, nei templi, furono istituiti apposti registri (terauke) presso cui ognuno aveva l’obbligo di iscriversi. Ieyasu, da principio, aveva assunto un atteggiamento indulgente verso i missionari europei, in quanto voleva spostare i traffici marittimi a Edo. D’altra parte, per il bakufu era fondamentale impedire che i daimyō delle regioni occidentali si arricchissero grazie al commercio con l’estero. Ieyasu favorì quindi il commercio modello di governo personale ed efficace applicato dai primi tre shōgun. Già con l’ascesa di Ietsuna nel 1651, le redini della direzione politica erano state assunte dai Consiglieri anziani e gli interessi dei daimyō fudai avevano cominciato a prevalere su quelli del capo militare del Paese, mentre il clima di pace aveva reso meno rigido il controllo del bakufu. Il suo successore, Tsunayoshi, divenne shōgun nel 1680 e si affidò ai ciambellani , ovvero a personaggi del suo entourage privato. Nel corso dei tre decenni in cui mantenne la carica, le sorti del governo subirono un brusco e marcato declino, dovuto al contemporaneo esaurimento sia delle riserve monetarie del bakufu, sia delle maggiori miniere di oro e argento della famiglia Tokugawa, che si tentò di fronteggiare ricorrendo ad una svalutazione monetaria. Questa situazione fu ereditata dai suoi successori Ienobu, dal 1709 al 1712, e Iestugu, che mantenne la carica fino al 1716; entrambi ebbero come consigliere personale Arai Hakuseki, il quale si impegnò per riaffermare un modello di governo coerente con i principi neoconfuciani. Me il primo vero tentativo di intervenire attivamente per risollevare le sorti del bakufu si ebbe sotto l’ottavo shōgun Yoshimune, che regnò tra il 1716 e il 1745. Yoshimune intraprese quello che sarebbe stato uno dei tre grandi programmi di riforma attuati nel corso del periodo Edo. Realizzò delle riforme dette Kyōhō, volte a risanare la crisi finanziaria del governo centrale e a ripristinare l’autonomia economica della classe militare . I primi interventi riguardarono il drastico contenimento delle uscite, l’appello a una condotta di austerità nel governo e nella vita privata della classe bushi, l’imposizione di norme suntuarie per tutte le classi sociali e il ristabilimento del valore della moneta. Gli effetti di questi provvedimenti, tuttavia, non risanarono le finanze del bakufu , che decise quindi l’adozione di misure più drastiche. In cambio della riduzione del periodo di soggiorno a Edo previsto dal Sankin kōtai, ai daimyō fu imposta una serie di prestiti forzosi che vennero usati per pagare le insolvenze contratte con gli uomini alle dipendenze dei Tokugawa. Gli interventi in ambito fiscale riguardarono l’adozione di un metodo più rigoroso di esazione delle tasse agricole, che prevedeva un pagamento annuo fisso (jōmen) in sostituzione della quota calcolata sulla base della quantità di raccolto. Ciò ebbe benefici effetti per le casse shogunali, assicurando un netto aumento delle entrate e consentendo, nel 1731, di ristabilire le norme del sankin kōtai e di revocare i prestiti forzosi imposti ai daimyō. Gli anni successivi, comunque, videro una nuova flessione delle entrate provenienti dalla tassazione agricola, in concomitanza con una fase di stagnazione economica e con l’emergere di una ondata di rivolte contadine (hyakushō ikki), che chiedevano la riduzione degli oneri fiscali. Si aprì così una nuova stagione di riforme, caratterizzata da una politica di espansione finanziaria, dal ritorno alla base aurea e di argento e a misure fiscali rigorose, nonché da un atteggiamento di maggiore apertura nei confronti della penetrazione del capitale mercantile urbano nelle zone rurali, che creò le basi del successivo sviluppo commerciale. Yoshimune tentò comunque di controllare il potere del ceto mercantile attraverso la concessione di licenze ufficiali a case commerciali (kabunakama), mentre la moratoria di tutti i debiti contratti dai bushi intendeva riequilibrare il rapporto tra la classe militare e quella mercantile. Nel complesso, le riforme non riuscirono ad assicurare una solida base alle finanze shogunali né, più in generale, a risolvere i problemi strutturali del sistema economico-sociale. In taluni casi, poi, esse sortirono effetti negativi, come testimonia ad esempio la politica di stabilizzazione del prezzo del riso, la quale, unita agli interventi volti a favorire la moneta metallica e la crescita della produzione agricola, generò una drastica riduzione del prezzo del riso, con dannose conseguenze per i samurai che percepivano stipendi fissi pagati con quote di questo cereale. Né gli effetti delle riforme risparmiarono i contadini, oberati da un più severo sistema fiscale, e i mercanti, colpiti da misure arbitrarie come la cancellazione dei debiti dovuto loro dai bushi. Le ripercussioni che l’opera di riforme ebbe in campo politico furono invece rilevanti, implicando in primo luogo la riaffermazione dell’autorità personale dello shōgun, il ritorno a un’amministrazione retta e responsabile della burocrazia e il rafforzamento del controllo sugli intendenti responsabili del governo locale nei territori dei Tokugawa. L’esempio di Yoshimune, tuttavia, non fu seguito dai due successivi shōgun, Ieshige e Ieharu, entrambi ricordati come individui di fragile statura politica nelle mani dei ciambellani. Tra questi ultimi emerse Tanuma Okistugu, la cui ambizione lo portò ad affermarsi come il personaggio più influente dello shogunato Ieharu e ad assumere la carica di rōjū. Tanuma è ricordato come l’ideatore di una serie di provvedimenti che ebbero effetti disastrosi sull’economia. Egli riprese e sviluppò la politica di incoraggiamento del commercio già avviata sotto Yoshimune, concedendo licenze ad associazioni commerciali e istituendo monopoli semiufficiali in cambio di una tassazione su queste attività, e stimolò i traffici con l’estero a Nagasaki promuovendo le esportazioni di prodotti marittimi provenienti dallo Hokkaidō, che egli pianificò di colonizzare. Tentò, inoltre, di espandere la circolazione valutaria introducendo per la prima volta monete di argento e di creare un fondo nazionale finanziato dal capitale mercantile e disponibile per prestiti a basso tasso di interesse a favore della classe militare. L’attuazione di queste misure fu bruscamente interrotta alla morte di Ieharu, che consentì ai numerosi oppositori di Tanuma di provvedere alla sua destituzione, oltre che alla confisca dei beni e dei titoli acquisiti. Nel 1787, il giovane Ienari ereditò una situazione disastrosa, dovuta sia alla politica di Tanuma, sia ad una serie di calamità naturali e carestie che avevano afflitto le campagne, provocando numerose insurrezioni contadine. Il lungo governo di Ienari fu caratterizzato da due fasi assai diverse fra loro, la prima delle quali fu dominata da Mastudaira Sadanobu, nominato consigliere dello shōgun ancora minorenne. Fu sotto la sua guida che si ebbe la seconda grande stagione di riforme, che prendono nome dall’era Kansei e che furono estese anche a tutti i feudi. La politica di Matsudaira fu indirizzata verso il contenimento dell’espansione delle attività commerciali e le limitazioni finanziarie. Egli tentò in primo luogo di restituire efficienza all’amministrazione centrale, riaffermando l’autorità dei rōjū e provvedendo a epurare una serie di funzionari e, soprattutto, di ciambellani corrotti. Gli interventi nelle zone rurali furono orientati verso una più rigorosa esazione dell’imposta agricola, la creazione di riserve di riso per le cattive annate e il rafforzamento delle misure per prevenire l’allontanamento della manodopera contadina dalle campagne e per favorire lo hitosaeshi, cioè il ritorno dei contadini trasferitisi nelle zone urbane in cerca di lavoro ai loro villaggi. Assai rilevanti furono i provvedimenti che interessarono Edo, teatro di una grande rivolta avvenuta nell’estate nel 1787. La posizione finanziaria di Edo fu rafforzata rispetto a quella di Ōsaka grazie a un intervento per limitare il tasso di interesse, che consentì di controllare l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, e all’impulso dato allo sviluppo della produzione di sakè, olio, carta e cotone nella regione circostante. Pur riuscendo a migliorare le finanze del bakufu, ad allentare le tensioni economiche e sociali e a restituire vigore alla burocrazia, le Riforme Kansei furono limitate ad avere effetti immediati. Il ritiro di Sadanobu nel 1793 coincise con l’assunzione diretta dei compiti di governo da parte di Ienari, che tuttavia non mostrò un particolare interesse verso le riforme; né diede dimostrazione di maggiore zelo nel contenimento delle spese, da cui risultò un generale impulso allo sviluppo economico e culturale del Paese e, allo stesso tempo, un deterioramento delle finanze e della posizione politica del governo di Edo. La seconda fase dello shogunato di Ienari, dunque, fu caratterizzata da un governo inefficace e poco incline a tentare di risolvere i problemi di fondo che minavano il sistema economico-sociale dei Tokugawa e che emersero in modo drammatico a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, quando una serie di carestie gettò in profonda crisi i settori più fragili della società. Nel 1836, la provincia di Kai fu teatro di una violenta rivolta contadina; l’anno seguente il bakufu fu profondamente scosso dalla ribellione di un suo funzionario di Ōsaka, Ōshio Heihachirō, che, colpito dallo stato di indigenza in cui versava parte della popolazione, dapprima sollecitò il magistrato della città a distribuire le riserve di riso e quindi cercò di attaccare il castello di Ōsaka alla ricerca di beni da distribuire ai poveri. In quello stesso anno Ienari rinunciò alla carica di shōgun in favore del figlio Ieyoshi, sotto il quale si ebbe il terzo e ultimo ciclo di riforme promosso nel periodo Edo. Intraprese tra il 1841 e il 1843, le riforme si ispirarono ai modelli precedenti e furono ideate da Mizuno Tadakuni, un eminente membro del Consiglio degli anziani. Il suo programma mirò ancora una volta al risanamento della situazione economica e politica del bakufu , che egli tentò di attuare ricorrendo a misure per molti versi contraddittorie, come nel caso dell’abolizione dei monopoli commerciali e delle organizzazioni per la vendita all’ingrosso, che egli riteneva avrebbe consentito di contenere l’aumento dei prezzi. Ciò, unito alla riduzione forzata dei prezzi, degli stipendi e degli affitti, ebbe effetti negativi sulla circolazione delle merci e sul rialzo dei prezzi stessi. Altrettanto controverso fu l’editto con il quale ordinò il trasferimento di tutti i daimyō degli han situati nei dintorni di Edo e di Ōsaka che interessò quindici feudatari, compreso quello di Kii facente parte delle “tre famiglie”. L’opposizione suscitata dall’adozione di queste misure indusse Mizuno a dimettersi dal suo incarico nel 1843, lasciando dietro di sé una situazione critica e un diffuso malcontento. Le Riforme Tenpō non furono limitate al governo centrale, interessando anche molti han, che percorsero vie diverse per cercare di risolvere la difficile situazione in cui versavano le proprie finanze. Nel complesso le riforme testimoniano come la classe dirigente, nazionale e locale ricercasse gli strumenti appropriati per fronteggiare le ricorrenti crisi, le quali mostrarono in modo sempre più palese le contraddizioni insite nel sistema economico – sociale dei Tokugawa. Uno dei sintomi più evidenti del malessere è di opere occidentali, a esclusione di quelle relative al Cristianesimo, e fu consentito anche a coloro che non erano interpreti ufficiali di imparare l’olandese. L’attività dei ragakusha (studiosi di cose olandesi) e degli yōgakusha (studiosi di cose occidentali) si era diffusa in molti han, divulgando le nuove conoscenze acquisite in campo medico e in altre discipline scientifiche, mentre nel 1811 lo stesso bakufu provvide a fondare un centro di traduzione di opere occidentali. In questo stesso periodo occorre ricordare l’attività degli studiosi di cose nazionali (kokugakusha o wagakusha), dediti a rivalutare la tradizione e i valori indigeni. Kada no Azumamaro comportò una critica solo parziale nei confronti dei sinologi che assegnavano un’importanza secondaria allo studio delle cose nazionali, ma con i suoi eredi la reazione anticinese assunse una forma sempre più esplicita e radicale. Kamo no Mabuchi produsse una cospicua produzione letteraria, compresi i commenti del Man’yōshū e del Kojiki. Qui i toni anti confuciani si coniugano con un appello al ritorno alla tradizione indigena. Erede di Mabuchi fu Motoori Noranaga, il quale dedicò circa metà della sua vita alla compilazione del Kojiki den (commento al Kojiki). Quel che appare rilevante qui sottolineare è il risvolto politico dell’attività di Norinaga, dato che egli compì una rivalutazione degli antichi miti shintoisti e ripropose il ruolo storico del tennō, gettando in tal modo le basi ideologiche su cui si sarebbe fondata la Restaurazione del potere imperiale nel 1868. Ma dal neoconfucianesimo avrebbe attinto anche il nazionalismo sfrenato che si affermò in Giappone nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale. Fu però Hirata Atsutane a dare alle sue opere un esasperato tono nazionalista e xenofobo, non solo in quanto dichiarò la superiorità dello Shintoismo rispetto a tutti gli altri culti, ma soprattutto perché affermò che il Giappone fosse un paese unico e sacro essendo stato creato dai kami. L’attività dei kokugakusha contribuì non solo a segnare il distacco dalla concezione sinocentrica che aveva a lungo dominato il mondo culturale e intellettuale giapponese, gettando le basi per il primato che il Giappone avrebbe asserito in Asia dopo il 1868, ma anche a preparare il terreno sia al ritorno allo Shintoismo e alla sua trasformazione in un culto di Stato nel periodo Meiji, sia al consolidamento di un’idea di identità nazionale ispirata al principio di esclusività e di unicità. Capitolo 5 – l’ingresso del Giappone nel sistema internazionale, la nascita dello Stato nazionale e la transizione al capitalismo La crisi della società feudale e i prodromi dello Stato nazionale Nell’ultima parte del periodo Edo, si ravvisano ormai i sintomi della crisi che investiva la società e il sistema economico feudale. Il malessere nelle zone rurali si manifesta con insurrezioni contadine che raggiunsero punte estreme nel corso dell’era Tenpō (1830- 1844). Un ulteriore indice del disagio economico e sociale è rappresentato dal proliferare di movimenti religiosi di natura messianica e di nuove sette popolari. Neppure le città furono immuni da esplosioni di violenza, che interessarono diversi strati della società urbana, compresi i samurai, tra i quali si registrò un diffuso malcontento dovuto alle difficili condizioni economiche in cui molti di essi versavano. Nel complesso, il disagio e l’insoddisfazione che accomunavano i vari settori della società urbana e delle zone rurali non produssero un sovvertimento governativo né economico. Negli ambienti politici e intellettuali vi fu chi propose il ritorno a una società completamente agricola, chi auspicò il rinvigorimento dell’efficienza del governo militare e della sua politica economica, chi guardò al consolidamento di una identità nazionale fondata sul corredo tradizionale come a un mezzo adeguato per ritrovare fiducia nel sistema nazionale o, ancora, chi suggerì un miglioramento scientifico e tecnologico in campo agricolo e militare ispirato ai progressi compiuti dall’Europa. Se nel corso del XVIII secolo si era diffusa in Giappone la consapevolezza del fatto che l’occidente fosse evoluto sul piano scientifico e tecnologico, già verso la fine del secolo tale percezione fu sempre più pervasa dal timore generato dalla presenza degli occidentali in Asia Orientale, che appariva diversa rispetto all’esperienza del Cinquecento. Gli studi occidentali cominciarono a trovare un’applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato nel 1792 dalla Russia di stabilire rapporti commerciali con il Giappone. Tale richiesta, rifiutata da Edo, aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Ezo (l’odierna Hokkaidō), dove erano giunti i russi, e a stabilirvi un proprio commissario. Le opere scritte in questo periodo denunciavano il pericolo russo, l’inefficacia delle misure difensive predisposte dal bakufu e la vulnerabilità delle frontiere di fronte alla minaccia esterna. In effetti, la generazione successiva ebbe modo di constatare il pericolo che minacciava il Paese grazie alle notizie provenienti dalla Cina, costretta ad accettare le umilianti condizioni che seguirono la sconfitta nella Guerra dell’oppio. Anche le elaborazioni dei kokugakusha esercitarono un forte influsso su molti giapponesi di questo periodo, date le implicazioni che esse avevano con la sfera spirituale e religiosa, e per il primato che assegnavano al Giappone. Aizawa Seishisai fu uno dei maggiori esponenti della scuola di Mito, la quale concorse ad alimentare lo sviluppo dell’ideologia nazionalista e del movimento antifeudale. Nella sua opera Shinron (Nuove tesi) formulò la teoria del sistema nazionale (kokutai) esaltando la figura e il ruolo del sovrano imperiale e condannando le dottrine straniere (prima fra tutte il Buddhismo); inoltre concepì il confronto con l’Occidente come la spinta ad un rinnovamento morale. La riflessione dei kokugakusha, mossa dalla volontà di difendere l’identità nazionale e il patrimonio tradizionale contro il predominio culturale cinese, si distingue da quella degli studiosi della scuola di Mito, la cui reazione fu diretta in primo luogo contro la minaccia occidentale. Ciò che invece tende ad accomunare la loro opera è il contributo che essi fornirono alla rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno. negli ultimi anni del regime Tokugawa esisteva dunque un fermento intellettuale che conferma l’esistenza di tensioni profonde nella società giapponese, ma che suggerisce anche l’immagine di un Paese dinamico alla ricerca di soluzioni capaci di far fronte alla crisi interna e alla pressione esterna. Il senso di crisi generato dall’atteggiamento che l’Occidente stava assumendo in Asia Orientale si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte alla palese incapacità dimostrata dal bakufu di attuare un’efficace politica di risanamento economico, confermata ancora una volta dal fallimentare tentativo di riforma compiuto da Mizuno Tadakuni. Ciò ebbe l’effetto di aggravare la frattura tra governanti e governati e di indurre le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale. I tentativi più significativi si ebbero a Chōshū e a Satsuma: la prima attuò un programma teso in primo luogo a migliorare l’assetto agricolo e a ridurre drasticamente le spese; anche gli sforzi destinati alle attività commerciali fruttarono una certa quota di ricchezza che lo han poté investire per migliorare la sua organizzazione militare e per procurarsi equipaggiamenti occidentali. La seconda, invece, grazie al controllo che aveva istituito sui traffici commerciali e al monopolio che deteneva sulla produzione dello zucchero, puntò soprattutto sull’attività mercantile. Il successo di queste iniziative locali fu comunque limitato dall’assenza di un quadro generale di riferimento, che poteva essere assicurato soltanto da una robusta e energica autorità politica nazionale. Prima della metà dell’Ottocento il Giappone possedeva alcune potenzialità che gli avrebbero consentito di edificare uno Stato moderno, tra cui lo sviluppo di una capitale mercantile e rurale, un certo grado di accentramento politico, una struttura amministrativa e burocratica formata da personale competente e istruzione diffusa nella società. Per destreggiarsi nella rete di rivalità e alleanze occorreva trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, creando una nuova forma di potere capace di garantire la sicurezza territoriale, di gestire l’amministrazione e le risorse umane e materiali del Paese, e di dotare le masse di una solida coscienza nazionale e di un’ideologia nazionalista in grado di assicurare il loro appoggio e consenso agli imperativi dello Stato. Il Giappone del tardo Tokugawa racchiudeva molteplici risorse in tal senso. In primo luogo, le sue frontiere storiche non avevano subito significative modifiche negli ultimi secoli ed esso comprendeva lo stesso territorio che sarebbe stato inglobato nello Stato Meiji. Questo spazio geografico racchiudeva vari elementi che potevano essere usati come simboli di unità nel presente e di continuità con il passato, come la comune storia di Impero, la permanenza di una forma di autorità sovrana ancorata all’idea di sacralità, il patrimonio ideale e il rituale collettivo dello Shintoismo, da cui l’identità del popolo giapponese poteva attingere in termini di unità etnica e persino razziale. Un altro importante aspetto riguardava il problema del Giappone di ricercare una nuova posizione in un contesto internazionale in mutamento. La contestazione del primato culturale cinese e della concezione sinocentrica aveva stimolato il processo di emancipazione dell’identità e del ruolo del Giappone. Queste concezioni furono oggetto di un interesse che crebbe con l’aumentare della pressione occidentale, inducendo alcune autorevoli voci ad affermare come l’espansionismo fosse il rimedio al problema della sicurezza nazionale. La riapertura del Giappone, l’ingresso nel sistema internazionale e il crollo del feudalesimo Il tentativo russo di stabilire rapporti commerciali con il Giappone nel 1792 fu rinnovato nel 1804, ottenendo l’ennesimo rifiuto del bakufu. Se la pressione russa di allentò allorché il Paese fu invaso dalle truppe napoleoniche (1812), le navi britanniche presero a comparire all’orizzonte del Giappone agli inizi dell’Ottocento, inducendo il governo di Edo a riaffermare, nel 1825, la politica del sakoku. In seguito, tuttavia, l’attenzione britannica fu rivolta alla Cina, che per decenni aveva respinto le richieste di Londra finalizzate a stabilire un libero commercio. Di conseguenza, la East India Company aveva creato un sistema di vendita illegale di oppio in Cina. L’apertura dei porti al commercio estero ebbe un impatto negativo sul sistema economico giapponese, provocando fenomeni inflazionistici. Le grandi case mercantili furono private delle garanzie che sino ad allora avevano protetto le loro attività, e le imprese artigianali tradizionali risentirono del rialzo dei prezzi dei prodotti di esportazione, mentre l’aumento del costo del riso colpì quanti vivevano di un reddito fisso, compresi i samurai. Il Giappone aveva dunque fatto ingresso in un sistema economico che, dall’Europa e dal Nord America, era andato a investire nelle zone periferiche, compresa l’Asia Orientale, acquisendo una connotazione mondiale. Ciò portò a individuare due strade possibili per il Giappone: diventare soggetto attivo del sistema economico mondiale, oppure mantenere un ruolo periferico e subalterno rispetto ad essi. L’accettazione delle condizioni poste dagli occidentali fu percepita da molti come lesiva della sovranità e degli interessi economici del Paese, con l’effetto di acuire i sentimenti xenofobi e di aumentare il malcontento verso l’operato del governo di Edo tra la classe feudale. Nel 1860, l’assassinio di Ii Naosuke per mano di un gruppo di samurai di Mito costituì l’ennesimo colpo al governo di Edo. Numerosi altri gesti di terrorismo politico furono compiuti da attivisti appartenenti per più agli strati medio- bassi della classe samuraica e mossi da un forte orgoglio nazionalista, i cosiddetti shishi (uomini audaci): le loro azioni furono rivolte anche a individui, navi ed edifici stranieri, causando reazioni di protesta e di rappresaglia da parte degli occidentali. Nel frattempo, si era acuita la disputa interna; non mancava chi reputasse eccessive le concessioni fatte agli stranieri, lo stesso fronte raccoltosi attorno alla Corte adottando lo slogan sonnō jōi (onore all’imperatore, fuori i barbari) non necessariamente si opponeva alla riapertura del Paese. Tra queste due posizioni estreme, l’una allineata con Edo e l’altra con Kyōto si formò poi un movimento che riunì in primo luogo i vecchi sostenitori di Tokugawa Yoshinobu, determinati a rientrare nella competizione politica, e che suggerì di gestire la riapertura del Giappone con responsabilità e unità politica stabilendo una unione tra la Corte e il bakufu (kōbu gattai). Andò quindi crescendo la convinzione secondo cui la riapertura fosse un passaggio obbligato per acquisire la tecnologia necessaria a rafforzare il Paese. Per un breve periodo il bakufu tentò di percorrere la via del kōbu gattai, adottando di fatto una politica di compromesso con Kyōto e con i daimyō principali, e riuscendo peraltro ad allontanare dalla Corte i più strenui oppositori del regime. Ciò ebbe solo l’effetto di spostare l’attivismo antishogunale altrove, più precisamente a Chōshū, dove l’opposizione militare ai Tokugawa si rafforzò al punto da resistere a una prima spedizione punitiva inviata nello han nel 1864 e da annientare le truppe mandate nuovamente da Edo due anni dopo. Un successo militare, questo, favorito dagli accordi conclusi da Chōshū con la Gran Bretagna, che assicurarono il rifornimento di armi, e da un patto segreto di mutua alleanza stabilito con Sastuma che, abbandonando la sua posizione mediatrice tra la Corte e il bakufu, sottrasse a quest’ultimo l’appoggio dell’unico han capace di contrastare militarmente Chōshū. L’avvicinamento dei due più potenti feudi del Giappone occidentale costituì il nucleo della coalizione militare che, di lì a breve, avrebbe sconfitto i sostenitori del bakufu e, dopo il crollo del regime feudale, avrebbe assunto un ruolo di guida politica del Paese. Due avvenimenti verificatisi a distanza di pochi mesi contribuirono ad accelerare il corso degli eventi: verso la fine del 1866, la scomparsa dello shōgun Iemochi consentì a Yoshinobu di ottenere la carica che gli era stata negata alcuni anni prima e, agli inizi dell’anno seguente, salì al trono il giovane Mutsushito succedendo a suo padre Kōmei, di posizioni assai conservatrici. Convinto che le sorti del bakufu dipendessero dalla capacità di attuare riforme innovative e disposto ad accogliere l’assistenza offerta dalla Francia per modernizzare il Paese, Yoshinobu cominciò a emanare una serie di provvedimenti che non incontrarono l’assenso della Corte. Inoltre, la posizione di favore accordata alla Francia indusse la Gran Bretagna a rafforzare i propri legami con i feudi occidentali, nella convinzione che lo sviluppo dei propri traffici potesse beneficiare maggiormente dalla vittoria del fronte antishogunale. Di fronte al rischio di uno scontro militare tra il regime di Edo e la coalizione Satsuma e Chōshū, fu il feudo di Tosa ad agire come mediatore presentando un memoriale allo shōgun. La richiesta era di dimettersi dalla carica restituendo al sovrano i poteri civili, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di daimyō e nobili, in cambio della garanzia del mantenimento delle loro terre. La proposta fu accettata da Yoshinobu che, nel novembre del 1867, si rivolse all’Imperatore pregandolo di accogliere il suo atto di rinuncia alla carica di shōgun, nella speranza di evitare una guerra civile. Questo atto, comunque, non fu sufficiente a impedire che la colazione guidata da Satsuma e Chōshū muovesse le proprie truppe contro i sostenitori del bakufu e occupasse il palazzo imperiale. Il tre gennaio 1868 fu proclamata la Restaurazione del potere imperiale, con l’abolizione dello shogunato e la confisca di tutti i possedimenti alla famiglia Tokugawa. Le truppe proseguirono verso Edo senza incontrare ostacoli. Poca fu l’opposizione al nuovo governo, che si insediò in una nuova capitale e desiderava trasformare le istituzioni politiche, economiche e sociali del Giappone in nome dell’Imperatore. Edo rimase il centro politico del Paese e venne ribattezzata Tōkyō (capitale orientale); qui vennero spostate le attività governative. La riforma delle istituzioni politiche, sociali ed economiche del primo Meiji Meiji è il periodo di regno del sovrano. Il giovane Mutsushito divenne l’Imperatore Meiji e sotto il suo governo prese avvio l’edificazione dello Stato moderno, fondato sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica dell’economia e della società. Il ripristino del ruolo imperiale coincise con un’opera di rinnovamento (ishin), infatti il periodo viene anche chiamato Meiji ishin (Restaurazione meiji). A queste trasformazioni la partecipazione della borghesia mercantile e rurale è limitata, mentre sono numerosi i mercanti urbani in ascesa e a nuovi contadini ricchi. Ma il ruolo principale del rovesciamento del regime Tokugawa fu svolto da membri dell’élite militare locale, i quali per buona parte avrebbero costituito la classe dirigente Meiji. Alcuni loro obiettivi comuni riguardavano l’eliminazione del potere shogunale, il ristabilimento dell’autorità imperiale e il rafforzamento politico e militare del paese. Le trasformazioni introdotte dopo il 1868 presentano numerosi aspetti rivoluzionari; tuttavia, più che di rivoluzione borghese appare opportuno parlare di una “rivoluzione dall’alto” che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei trattati ineguali, poté governare il processo di transazione capitalistica. Riforme amministrative: l’opera di centralizzazione dei poteri implicò in primo luogo il superamento del fazionalismo insito nel sistema bakuhan a favore di una nuova concezione di Stato nazionale, in cui governanti e governati erano chiamati a sostenere lo sforzo per rendere ricco il Paese e forte l’esercito. Vennero così avviate le Riforme Meiji, a cominciare dalla confisca del potere locale dei daimyō effettuata nel 1871. Con un decreto imperiale promulgato nell’agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all’istituzione di un sistema provinciale (haihan chiken); il territorio fu riorganizzato in province (ken), a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani (fu) in modo da sottoporre l’amministrazione locale al controllo del governo. Il provvedimento non incontrò reazioni di rilievo, dato che la posizione degli ex feudatari fu garantita con uno stipendio e un titolo nobiliare, e trasferendo al governo centrale i debiti che gravavano su molti feudi, ma anche il pagamento degli stipendi versati dai daimyō ai samurai alle proprie dipendenze. La creazione di uffici amministrativi locali fornì l’opportunità di impiego a membri della classe samuraica e ai capi villaggio, mentre l’istituzione di assemblee ai diversi livelli locali sembrò rappresentare una opportunità per partecipare alla vita politica del Paese, sebbene a tali sedi non fosse riconosciuto alcun potere decisionale. Nel 1873 fu inoltre istituito il ministero degli Interni, la cui guida fu assunta da Ōkubo Toshimichi, originario di Satsuma e capo attivo del movimento antishogunale. Il percorso seguito per abolire il sistema decentrato degli han indica come il nuovo governo si impegnasse a ricercare il più ampio consenso tra la leadership feudale e una maggiore unità nel Paese, al fine di conseguire la prosperità nazionale. La Costituzione: nel marzo 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli, che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all’esempio occidentale. Con esso l’Imperatore si impegnava a promulgare una Costituzione e a realizzare quelli che erano gli obiettivi del governo, tra cui figuravano l’unità di tutte le classi, l’istituzione di un’assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l’adozione delle norme giuridiche internazionali e la promozione della conoscenza all’estero allo scopo di rafforzare le basi dell’Impero. Il contenuto del Giuramento fu incorporato nell’articolo 1 del Documento sulla forma di governo (Seitaisho) emanato pochi mesi dopo, il quale rappresenta il primo esperimento di stesura di una Costituzione nazionale. allo scopo di eliminare le difficoltà di una duplice autorità così come era stato sino ad allora con la coesistenza del bakufu e della Corte, il Seitaisho assegnava i pieni poteri di governo al Dajōkan, il Gran consiglio di Stato. Esso fu articolato in sette sezioni, assumendo in tal modo i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Sebbene introducesse alcune importanti novità, come la separazione dei tre poteri e l’idea di rappresentanza, il Seitaisho non mancò di ribadire la priorità del rango e dell’ereditarietà come criteri per procedere alla nomina agli uffici. La Costituzione istituì, quindi, un sistema di governo che sarebbe durato sino al 1885, quando venne sostituito con il sistema di gabinetto. Una significativa revisione si ebbe già nel 1869 quando, respinta l’idea di separazione dei poteri e assunta una struttura più simile a quello del periodo antico, il Dajōkan divenne l’unico organo esecutivo e fu affiancato dall’ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all’esecuzione dei riti e al controllo della sfera spirituale e, pertanto, ritenuto come il più alto organo dello allo scopo di revisionare i “trattati ineguali” e di acquisire una conoscenza diretta dell’Occidente. Nonostante l’insuccesso riportato sul fronte diplomatico con la mancata modifica dei trattati, i membri della missione poterono attingere a conoscenze dirette in vari campi producendo una gran quantità di scritti che costituirono un essenziale strumento di conoscenza dell’Occidente. Le numerose informazioni misero in luce i ritardi che il Giappone manteneva in diversi campi, specie in quello militare. Per realizzare le riforme per modernizzare il Paese, gli oligarchi Meiji guardarono costantemente all’Occidente; la consapevolezza dei progressi tecnologici e scientifici compiuti dal mondo occidentale indusse i dirigenti Meiji a comprendere come il cammino percorso dall’Europa e dal Nord America costituisse un valido esempio da seguire per rendere “ricco il Paese e forte l’esercito”. Aprirsi all’Occidente significò, quindi, aprirsi a nuove possibilità che avrebbero consentito al Paese di rafforzarsi e resistere alla pressione esterna. L’occidentalizzazione del Giappone Meiji non fu un fine, ma uno strumento per realizzare il fokoku kyōhei, che non implicò necessariamente un rifiuto della tradizione. Gli sviluppi nella politica interna ed estera negli anni Settanta e Ottanta Per alcuni capi Meiji l’eliminazione della classe militare fu un prezzo molto alto da pagare, espresso anche con atti di terrorismo e sommosse armate. Queste tensioni coinvolsero anche il governo, quando alcuni dei suoi membri si convinsero che fosse necessario dare una dimostrazione di forza alla Corea, che non voleva riconoscere i cambiamenti avvenuti in Giappone dopo il 1868. Il dibattito sull’invasione della Corea (seikanron) si fece ancora più aspro, quando tornarono i membri della missione di Iwakura, i quali sostenevano che fosse meglio pensare al rafforzamento interno, piuttosto che all’aggressione esterna. Nel 1873 venne scelto di accantonare il progetto, provocando l’uscita dal governo di alcuni importanti esponenti. Il seikanron rappresentò un punto di svolta nella vita politica giapponese. Gli oligarchi rientrati in patria dopo il lungo viaggio, si erano ormai convinti che il successo della Nazione poteva essere conseguito solo a condizione che si riuscisse a stabilire un rapporto paritario con le Potenze occidentali, ovvero raggiungendo il loro livello di sviluppo. La scelta di abbandonare l’idea di invasione della Corea fu, infatti, dettato dalla necessità di evitare delle reazioni in un Paese dove il processo di centralizzazione era ancora in atto. Le rivolte: agli inizi del 1874, Etō Shinpei si mise alla testa di una rivolta nella sua regione di origine, che fu duramente repressa dalle truppe governative. Gli ex samurai seguaci di Etō esprimevano così il loro risentimento contro il governo, che li aveva privati del loro status sociale e del monopolio sulle attività militari. Il governo, però, si era impegnato a creare altre possibilità di impiego per gli ex samurai, concedendo anticipi da investire nell’attività agricola e commerciale. Inoltre, nel 1873, era stata loro offerta l’opportunità di essere liquidati, che poi si trasformò in obbligo. Si trattava di una possibilità che permetteva di investire in capitale riscosso in attività produttive. L’opportunità concessa fu sfruttata solo da una parte dei beneficiari, mentre molti altri furono trasformati in forza lavoro da impiegare in occupazioni varie, spesso piuttosto infime. Queste misure contribuirono ad alimentare ulteriormente l’insoddisfazione e il malcontento tra quanti non vollero o non riuscirono a sfruttare tali opportunità. Alla rivolta guidata da Etō ne fecero seguito altre. La turbolenta situazione divenne esplosiva agli inizi del 1877, quando da Satsuma si levò una ribellione di vaste proporzioni. Gli scontri con le truppe governative si protrassero per mesi, sino alla sconfitta dei ribelli. Questa rappresentò l’ultima minaccia militare per il governo. Durante e dopo la ribellione di Satsuma, tra le fila dell’esercito si registrarono sintomi di disaffezione alla causa nazionale; ciò sollecitò un impegno finalizzato a inculcare alle reclute l’obbedienza assoluta all’Imperatore e allo Stato, attingendo all’etica tradizionale. I primi anni del Meiji furono segnati da un diffuso desiderio di conoscenze e da una disponibilità ad accogliere le espressioni più varie della cultura occidentale. Non solo gli usi, i costumi ecc, ma anche le idee e le teorie, che si diffusero grazie all’intensa traduzione di opere straniere, da Esopo e dal Nuovo Testamento a Rousseau. negli anni Settanta infatti si era affermata l’idea secondo cui, per emergere dall’arretratezza, occorresse guardare all’Occidente: questo obiettivo era perseguito dagli intellettuali che fondarono il Meirokusha (società del sesto anno Meiji) nel 1874. Tra i cambiamenti che più risentirono di questo clima, va citata la riforma del sistema educativo, ispirata al modello francese, e che introduceva un sistema piramidale di scuole elementari, medie, istituti tecnici e università. Essa fu basata sull’idea che l’educazione costituisse il fondamento di una nazione moderna e un diritto da garantire a tutta la popolazione in età scolare. Agli inizi del 1874, Itakagi diede vita a una società politica chiamata Aikoki kōtō (partito pubblico patriottico), la quale presentò all’Imperatore una petizione per l’istituzione di un’assemblea popolare elettiva (minkai). L’anno seguente fu fondato il primo partito politico nazionale, l’Aikokusha (società dei patrioti). In questi stessi anni nacquero molteplici associazioni, movimenti e partiti politici ispirati alle idee di libertà, sovranità nazionale e rappresentanza popolare, come il Movimento per la libertà e i diritti del popolo (Jiyū minken undō). In tutti questi esperimenti di istanza politica volontaria gli oligarchi Meiji videro un allarmante segnale, che rischiava di alienare settori della società dal proprio controllo e di allargare il consenso verso soluzioni distanti da quelle che prevalevano nel governo. A partire dal 1883 una serie di provvedimenti limitò l'attività dei partiti politici. Le modalità con cui il processo di occidentalizzazione aveva preso avvio parvero eccessive e si attestò una reazione tradizionalista orientata a porre filtri all'ingresso delle conoscenze dall'estero. Un esempio è rappresentato dagli interventi attuati nella politica educativa sin dal 1879, quando fu varata l’Ordinanza sull’educazione (Kyōikurei), che prevedeva una maggiore centralizzazione e un più rigoroso controllo del sistema scolastico. Essa ribadì il primato di una morale concepita in termini confuciani, dove non esisteva distinzione tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’individuo. Scopo del provvedimento fu quello di formare i giovani preparandoli a diventare fedeli sudditi dell’Imperatore. Per procede alla revisione dei “trattati ineguali” occorreva proseguire il lavoro di consolidamento delle istituzioni politiche ed economiche. Gli oligarchi Meiji avevano di fronte un’ampia scelta per formulare la Costituzione. Nella seconda metà degli anni Settanta si ebbero alcuni tentativi di elaborazione. I fermenti politici che si registrarono in quegli anni non sembravano creare un clima propizio alla soluzione conservatrice che la maggioranza degli oligarchi voleva. Una vera e propria crisi politica si ebbe agli inizi del 1881, quando un profondo disaccordo oppose le due più influenti personalità del governo: Ōkuma, propugnatore del modello inglese, premeva per un governo parlamentare, mentre Itō Hirobumi difendeva l’ipotesi di un governo trascendente. La minaccia di dimissioni di Itō du fu sventata da uno scandalo che coinvolse il rivale, costringendolo alle dimissioni. Quindi il governo annunciò l’istituzione di un Parlamento entro il 1890. I preparativi della Costituzione furono condotti innanzitutto da Itō Hirobumi, che nel 1882 si recò in Europa per studiare i documenti costituzionali di vari Paesi. Al suo rientro elaborò un sistema di nobiltà articolato in 5 gradi, creando le basi della futura Camera dei Pari. Inoltre nel 1885, in sostituzione del Dajōkan, fu istituito il sistema di gabinetto, che riuniva i vari ministri sotto la guida di un Primo ministro responsabile verso l’Imperatore. Tale incarico fu assegnato allo stesso Itō, che lo mantenne fino al 1888, quando andò a presiedere il Consiglio Privato, organismo creato per approvare la Costituzione e composto da membri nominati a vita dal sovrano. Erano stati predisposti quasi tutti gli organismi dell’apparato governativo, ma restavano da stabilire le modalità di composizione e le funzioni da attribuire a un’assemblea nazionale. Per promulgare la Costituzione dell’Impero del grande Giappone (DaiNihon teikoku kenpō) fu scelta una data solenne, quella dell’anniversario della mitica fondazione dell’Impero; l’11 febbraio 1889 la Costituzione fu presentata al Paese come un dono dell’Imperatore Meiji. Improntata alla tradizione giuridica tedesca accogliendo anche suggerimenti al di fuori di essa, sanciva in primo luogo l’inviolabilità della sovranità dell’Imperatore, cui spettava il controllo supremo del potere politico e delle forze armate, oltre al potere legislativo. L’Imperatore, inoltre, aveva il diritto di nomina del governo, i cui membri erano singolarmente responsabili di fronte a lui e non verso il Parlamento. Quest’ultimo era composto da una Camera dei Pari riservata alla nobiltà, e da una Camera dei Rappresentanti, eletta a suffragio ristretto e con poteri limitati. Restavano poi svincolati da ogni controllo altri potenti organi come il Consiglio Privato e il ministero della Casa imperiale. Al popolo venivano riconosciuti diritti e doveri, pur assegnando alla legge il potere di limitarli e rivelando in tal modo la premessa assolutistica su cui si reggeva la costituzione. La Costituzione Meiji rappresentò un’innovazione, in quanto gettò le basi di un moderno Stato di diritto e costituì il primo esempio di Costituzione moderna adottata in Asia. Ideologia e identità nazionale La costituzione di un moderno Stato centralizzato implicò il superamento della eterogeneità sociale e geografica che aveva caratterizzato il Giappone sotto il sistema bakuhan al fine di favorire l’unità nazionale. Ciò era necessario sia per ottenere un consenso unanime verso le trasformazioni imposte alla società, sia per far fronte ai problemi di sicurezza interna ed esterna. Tuttavia, essendo fondata sulla premessa della superiorità del modello occidentale, la modernizzazione pose un dilemma in relazione all’identità nazionale. Dopo un’iniziale infatuazione delle idee occidentali, gli oligarchi si resero conto dei rischi che comportava la diffusione di alcune concezioni, come la libertà e l’individualismo; essi, quindi, preferirono limitare la validità del modello occidentale al suo “sapere” (yōsai), difendendo invece lo “spirito relativamente debole rispetto ai concorrenti internazionali. La scarsità di fondi avrebbe posto l’imperialismo giapponese in una situazione di fragilità rispetto agli imperialismi occidentali. Politica estera: la politica espansionistica fu avviata con la guerra contro l’Impero cinese (1894-95). La vittoria riportata dal Giappone ebbe risonanza nei circoli internazionali, specie tra i nazionalisti asiatici che iniziarono a considerare il Giappone come un modello da seguire per liberare i loro Paesi dalla dominazione coloniale. La guerra aveva, in realtà, il solo fine di sostituire l’influenza cinese in Corea con quella del Giappone. Nonostante il successo militare, lo status internazionale del Giappone non fu pienamente riconosciuto dalle grandi Potenze. La guerra nippo-cinese si concluse con il trattato di Shimonoseki che, rifacendosi ai trattati ineguali, previde pesanti clausole per Pechino: riconoscimento dell’indipendenza della Corea; apertura di quattro ulteriori porti cinesi al commercio giapponese; riconoscimento al Giappone dello status di nazione favorita; cessione di Taiwan, delle isole Pescadores e della penisola del Liaodong. Infine, il trattato impose alla Cina il versamento di un ingente risarcimento bellico. Il tentativo giapponese di annettere il Liaodong fu contrastato dal cosiddetto “Triplice intervento” del 1895: Russia, Francia e Germania imposero al Giappone la restituzione della penisola con il pretesto che la cessione avrebbe danneggiato la Cina e messo in pericolo l’indipendenza della Corea. Tōkyō, attraverso la mediazione italiana, cercò invano l’appoggio diplomatico di Stati Uniti e Gran Bretagna che, tuttavia, rimasero neutrali. Alla fine il governo giapponese fu costretto a cedere alla pressione internazionale e ottenne in cambio del Liaodong un aumento dell’indennità di guerra. Il governo giapponese, con l’espansione delle sue riserve di metallo prezioso, fu in grado di adottare, nel 1897, il gold standard, con grandi vantaggi per le esportazioni e per l’economia. Tuttavia, il Triplice intervento palesò ancora più ai dirigenti giapponesi che soltanto la forza militare e le alleanze diplomatiche costituivano una garanzia per la difesa dei propri interessi in Asia. All’inizio del Novecento, il governo giapponese ebbe modo di consolidare i propri rapporti internazionali sfruttando la situazione creatasi in Asia Orientale. Alla svolta del secolo, infatti, la Cina fu percorsa dalla rivolta dei Boxers; il movimento, con una forte connotazione xenofoba, investì ampie regioni dell’Impero e giunse ad assediare il quartiere delle Legazioni straniere di Pechino. La Corte cinese, divisa al suo interno sulla scelta politica se reprimere o appoggiare i Boxers, ormai indebolita e vicina al collasso, non intervenne e la difesa delle Legazioni ebbe momenti drammatici. La liberazione del quartiere diplomatico e la repressione della rivolta avvennero su iniziativa delle Potenze occidentali, le quali inviarono in Cina un contingente militare. Nell’estate del 1900, il Giappone partecipò alla spedizione e riuscì a soffocare la rivolta e a liberare il quartiere. La partecipazione del Giappone gli valse il definitivo riconoscimento da parte degli Stati occidentali. La vittoria contro la Russia Le relazioni internazionali del Giappone si inserirono entro gli equilibri tra le grandi Potenze, in particolare fra Gran Bretagna e Russia. L’Imperatore zarista, infatti, tentava di contrastare l’egemonia inglese in Asia, estendendo la propria influenza in Afghanistan. Inoltre, durante la rivolta dei Boxers, la Russia non aveva partecipato alla liberazione di Pechino, ma aveva insediato contingenti militari in Manciuria che furono ritirati con lentezza e solo in parte. Se per Londra divenne indispensabile proteggere l’India dalla Russia, il Giappone considerò l’azione russa in Manciuria come una minaccia ai propri interessi in Corea. Pertanto, i governi britannico e giapponese firmarono un Trattato di alleanza contro la Russia che entrò in vigore nel 1902. Esso prevedeva il riconoscimento del comune interesse ad opporsi all’espansione russa; il reciproco aiuto per la salvaguardia dei diritti e degli interessi britannici in Cina e di quelli giapponesi in Cina e Corea. La stipula del contratto costituì un grande successo diplomatico e politico per il Giappone. In primo luogo, questi divenne l’alleato privilegiato in Asia, inoltre fornì al Giappone la piena legittimazione internazionale. Il governo giapponese poté finalmente porre la questione della revisione dei trattati ineguali, che furono revocati da tutti gli Stati occidentali. La conclusione dell’alleanza con la Gran Bretagna diede un nuovo impulso alla spinta espansionistica del Giappone; all’interno del blocco di potere dominante erano presenti due teorie espansioniste: una sosteneva la necessità di conquiste territoriali sul continente asiatico, l’altra appoggiava le tesi dell’ammiragliato, proponendo l’espansione verso i mari del Sud, con la conquista degli arcipelaghi del Pacifico e dell’Australia. Due fattori fecero propendere la scelta verso la prima linea: il primo fu l’esigenza di contenere la penetrazione russa in Asia e il secondo è costituito dalla vittoria statunitense nella guerra ispano-americana e dalla conseguente conquista delle Filippine, che modificò gli equilibri politici e militari nel Pacifico. Il nemico principale e più facilmente attaccabile dal Giappone era quindi la Russia. Pertanto, nel 1904, venne dichiarata guerra alla Russia. Nel corso del conflitto, l’Esercito e la Marina giapponesi riportarono una serie di vittorie. Nonostante la vittoria, lo sforzo finanziario e militare imposto dalla guerra indusse il governo giapponese ad accelerare la fine delle ostilità. La pace fu siglata nel 1905; il trattato prevedeva il riconoscimento degli interessi militari, politici ed economici del Giappone in Corea, la cessione della ferrovia sud-manciuriana e di una parte di un’isola. L’esito della guerra ebbe grande risonanza internazionale. Sul piano politico, era la prima vittoria su uno Stato europeo ottenuta da una nazione non occidentale. Di conseguenza, all’indipendenza del Giappone guardarono con interesse i nazionalisti dei Paesi asiatici, i quali erano convinti che il Giappone avrebbe potuto guidarli verso l’indipendenza dal colonialismo occidentale. Sul fronte interno, tuttavia, i termini della pace furono giudicati insoddisfacenti dal movimento nazionalista. Il nazionalismo giapponese si era radicato in ampi strati della popolazione; si trattava di un nazionalismo peculiare che avrebbe caratterizzato molte scelte della politica interna e internazionale del Giappone. La frustrazione nazionalistica e la insoddisfazione per i termini del Trattato di pace con la Russia diede luogo alla rivolta di Hibiya. La rivolta fu sedata dall’esercito dopo due giorni, ma la legge marziale fu revocata molto dopo, a riprova delle forti tensioni emerse nella società giapponese. I partiti politici tra coercizione e organizzazione del consenso La rivolta di Hibiya non solo sottolinea l’esistenza di tensioni e di conflitti irrisolti all’interno della società, ma per la brutalità della sua repressione pone in risalto i modi di intervento del governo e dell’amministrazione contro ogni dissenso. La maggior parte dei condannati a pene detentive erano disoccupati che avevano manifestato l’insoddisfazione per loro condizione economico-sociale appoggiando la protesta dei nazionalisti, ma superandone intenzioni e obiettivi. Si assistette ad un progressivo inasprimento della repressione contro ogni forma di dissenso. I diritti civili e politici furono limitati con vari interventi normativi, sino all’approvazione della Chian keisastsuhō (legge di polizia per l’ordine pubblico) del 1900. Questa legge diede a polizia e magistratura la possibilità di reprimere le voci di dissenso al regime, proprio mentre iniziavano a penetrare nel Paese teorie politiche contrastanti con l’ideologia dominante. Vi furono vari casi di partiti e associazioni di ispirazione socialista disciolti dall’apparato repressivo. L’approvazione della legge di polizia da un lato aveva sancito la perdurante egemonia del blocco di potere, ma dall’altro aveva posto in luce le difficoltà dei partiti politici a enucleare linee d’azione condivise. Le formazioni politiche sorte nel periodo Meiji dall’iniziativa di appartenenti all’oligarchia furono subalterne alla logica che aveva guidato la rivoluzione dall’alto. Nei turni elettorali successivi all’approvazione della Costituzione non si formarono partiti politici inscrivibili in un’opposizione ferma. In definitiva non esisteva una chiara discriminante tra i partiti popolari e i partiti burocratici. Sia le prime elezioni del 1890, sia quelle del 1892 registrarono il successo dell’opposizione liberale. Tuttavia, anche dopo le successive elezioni, le alleanze parlamentari furono instabili e solo nel primo decennio del Novecento il sistema partitico giapponese avrebbe raggiunto un certo grado di equilibrio. Le debolezze del sistema economico Nei decenni compresi tra la guerra nippo-russa e l’inizio della Prima guerra mondiale, le esportazioni di manufatti crebbero, ma con minore rapidità rispetto ai primi anni Meiji. A cavallo del secolo furono ancora i prodotti tessili la base dell’economia e il settore diede impulso all’allevamento dei bachi da seta. La congiuntura negativa fu determinata sia da cause interne, sia da fattori esterni. Sull’andamento dello sviluppo influirono tanto le due guerre contro gli imperi cinese e russo quanto la crisi economica mondiale di fine Ottocento. Con l’avvio della trasformazione Meiji, al fine di bilanciare il peso finanziario delle importazioni di macchine utensili, la produzione interna era stata orientata all’esportazione e, con la contrazione dei prezzi, i prodotti giapponesi divennero concorrenziali sul mercato internazionale. La politica economica era fondata, da un lato, sul sostegno alle imprese esportatrici e, dall’altro, sulla compressione dei salari. Basse retribuzioni, orari di lavoro non inferiori alle 12 ore, due riposi festivi al mese, pessime condizioni igieniche e di sicurezza sui luoghi di lavoro furono caratteristiche proprie della prima fase dell’industrializzazione. Nelle campagne, soltanto i grandi proprietari terrieri poterono incrementare le loro rendite, iniziando a investire nel settore industriale. I piccoli proprietari autosufficienti e gli affittuari videro compresse le loro rendite a causa della dinamica di aumento dei prezzi industriali in presenza della stagnazione dei prezzi dei prodotti agricoli. Inoltre, le piccole imprese furono afflitte dalla carenza di fondi e dall’utilizzazione di tecnologie obsolete. A causa dei bassi salari industri, del sovrappopolamento nelle campagne, della fragilità economica e della impossibilità di aumentare la forza lavoro, il mercato interno rimase estremamente ristretto. In queste condizioni, l’esportazione di merci Mutamenti sociali e antagonismi L'imponente rapido sviluppo economico i mutati equilibri fra settori produttivi ebbero rilevanti conseguenze sul piano sociale. Si espanse il settore terziario e il numero degli uomini addetti all'industria superò per la prima volta nella storia del Giappone quello delle donne. Di particolare rilievo fu il fenomeno della migrazione dalle campagne nei centri urbani. Nel periodo 1913-20, le 6 maggiori città (Tokyo, Yokohama, Nagoya, Kobe, Osaka e Kyoto) raddoppiarono la popolazione e la capitale superò i 3 milioni di abitanti. Con la crescita del settore terziario si consolidò la media borghesia urbana, attratta dall'ideologia del liberalismo, maggiormente diffusasi in Giappone in conseguenza dei più stretti contatti culturali con l'Occidente. Nonostante i mutamenti economico-sociali, i partiti non riuscirono a divenire organizzazioni politiche in grado di cogliere le aspirazioni delle classi e dei ceti sociali. Sulla loro piena legittimazione pesarono vari fattori: in primo luogo, polizia e magistratura perseguirono ripetutamente i raggruppamenti che si ispiravano al socialismo nelle sue molteplici interpretazioni. Le difficoltà economiche delle masse, a causa dell’abbassamento dei salari reali, sfociarono in una protesta inaspettata dal blocco di potere dominante. Nell'estate del 1918 si verificarono i kome sodo (moti del riso), una rivolta originata dalla brusca impennata del costo al dettaglio per il riso, principale alimento della dieta giapponese, il cui prezzo era crollato. Il prezzo del riso, tuttavia, fu solo la causa ultima dell’insoddisfazione dei ceti rurali e urbani; i moti ebbero radici però più profonde. Alla base della protesta stavano la costante contrazione dei salari reali dei lavoratori industriali e le condizioni di pura sussistenza di grandi masse di coltivatori. La rivolta fu inizialmente appoggiata e propagandata dai quotidiani a diffusione nazionale, però ben presto gli interventi censori del governo impedirono la diffusione delle notizie relative ai moti, che si protrassero per oltre due mesi. Dai governi trascendenti ai “governi di partito” La dura repressione dei “moti del riso” provocò la fine politica del Primo ministro, il generale Terauchi Masatake, che fu sostituito da Hara Takashi il 20 settembre 1918. Alla caduta del governo Terauchi concorse lo sdegno popolare, sostenuto da molti intellettuali, ma ancor più la consapevolezza che lo spargimento di sangue e l’emergere di antagonismi erano inconciliabili con il perseguimento della “armonia sociale”. La nomina di Hara fu voluta dai due genro Yamagata Airtomo e Saionji Kinmochi e seguì la prassi consolidata che non prevedeva alcuna indicazione del Parlamento. Tuttavia, introdusse un’importante novità: Hara fu il primo “uomo di partito” non appartenente né all’oligarchia né alla ristretta cerchia dei suoi delfini ad essere chiamato a ricoprire la carica di primo ministro. La sua nomina fu decisa sulla base del fatto che egli era a capo del partito di maggioranza alla Camera bassa. In sostanza, il governo non era più sotto il controllo dell’oligarchia, ma al suo interno la presenza di una consistente componente di funzionari civili e militari era in grado di indirizzare le scelte in modo conservatore. Hara aveva convinzioni politiche ispirate all’ideologia dominante, al cui interno si collocavano ormai i partiti moderati. Pur essendo il leader di un partito politico, Hara dimostrò però una miopia politica, in primo luogo quando non assecondò le aspirazioni dei ceti medi urbani attratti dal liberalismo, cioè dalla richiesta di riforma della Costituzione e di introduzione del suffragio universale. Per quanto riguarda le vicende politiche del primo dopoguerra (era Taishō, 1912-26), si registrò un declino relativo di gruppi costitutivi del blocco di potere dominante a favore dei partiti politici presenti nella Camera bassa. I partiti non furono in gradi di raccogliere le sollecitazioni degli intellettuali e lo stesso Hara mostrò la sua avversione ad ampliare i margini di democrazia. Egli difese la situazione esistente in quanto era timoroso di operare a favore dei nuovi partiti proletari che stavano sorgendo. La miopia di Hara e dei dirigenti dei partiti presenti in Parlamento non permise loro di rovesciare i rapporti di forza e il blocco di potere dominante riprese il sopravvento. Né il forte conservatorismo di Hara fu sufficiente ad attenuare le tensioni sociali: Hara stesso fu vittima di un nazionalista che lo assassinò nel 1921, in quanto la propaganda lo aveva indicato come il responsabile del mancato successo della diplomazia giapponese alla Conferenza di pace di Versailles. Solo con la nomina a Primo ministro di Kato Takaaki si aprì una breve stagione dei “governi di partito”, tra 1924-1932. Contrapposizioni al blocco di potere Nonostante la censura e gli interventi di polizia e magistratura, i “moti del riso” diedero slancio all’organizzazione del proletariato. La prima forma di associazione di lavoratori fu opera di Suzuki Bunji, che nel 1912 aveva fondato l’Associazione della fratellanza che si ispirava alle società di mutuo soccorso europee. Essa aveva trovato molti ostacoli al suo sviluppo (legislazione restrittiva delle libertà politiche, cultura sociale di molti lavoratori), ma nonostante questi limiti Suzuki approfittò della situazione favorevole e, dopo il ritorno dalla Conferenza di Versailles, fondò il primo sindacato giapponese, noto come Sōdōmei. La Sōdōmei unificò le preesistenti società di mutuo soccorso e inglobò le prime forme di organizzazioni sindacali sorte nelle fabbriche. Era un insieme di gruppi di lavoratori uniti dal comune interesse a difendere ed ampliare i propri diritti. L’organizzazione sindacale rivendicò migliori condizioni di vita per i lavoratori. Obiettivi primari divennero le richieste di varare una legge per la previdenza sociale, di abolire il lavoro notturno e minorile, di prevenire la disoccupazione. La federazione sindacale pose più generali obiettivi di libertà democratiche, rivendicando l’introduzione del suffragio universale, la democratizzazione dell’educazione e la revisione della Legge di polizia per l’ordine pubblico. La Sodomei riuscì a organizzare solo una minoranza di lavoratori e un numero limitato di lotte. La crescita del sindacato continuò a scontrarsi sia con debolezze interne che con limiti esterni. Molte incertezze derivarono tanto dalle ambiguità teoriche del suo fondatore quanto dalla mancanza di una struttura articolata per provincia o per categoria; a ciò si aggiunse la difficoltà di far comprendere ai lavoratori l’importanza dell’unità di classe. Le leggi limitative delle libertà politiche e dei diritti civili e la supervisione della burocrazia statale furono ostacoli insormontabili. I controlli burocratici e polizieschi e la limitazione delle libertà d’azione del sindacato non rappresentavano però novità assolute. La storia dello sviluppo di istituzioni politiche e culturali antagoniste in Giappone fu costellata da azioni repressive. Un gruppo sparuto di intellettuali aveva tentato di fondare un Partito socialdemocratico, un Partito proletario e un Partito socialista, ma aveva conosciuto i rigori della repressione della polizia. L’attività di coloro che criticavano il regime esistente doveva limitarsi alla creazione di associazioni culturali, sulle quali la sorveglianza era finalizzata ad impedire manifestazioni pubbliche. Gli intellettuali contrari al regime che propugnavano ideologie antagoniste al capitalismo dovettero lottare contro difficoltà insormontabili, ma non furono in grado di elaborare analisi soddisfacenti della società e dei rapporti di classe e di forza esistenti. Oltre alla poca coscienza di classe del proletariato, all’arretratezza politico- culturale dei ceti rurali e alla repressione dello Stato, la riflessione sul sistema imperiale fu permeata di ideologismo e personalismi, come dimostrano le vicende del Partito comunista giapponese. La pace di Versailles e la “vittoria mutilata” Lo sviluppo economico e le trasformazioni sociali conseguenti alla Prima guerra mondiale crearono nella società giapponese grandi aspettative per il dopoguerra. Il Giappone era una nazione vittoriosa che doveva sedere a pieno titolo al tavolo dei vincitori occidentali, ma queste aspettative andarono deluse. L’espressione “vittoria mutilata” ben si adatta al sentimento diffuso in Giappone nella classe dominante e fra i ceti popolari. Durante il conflitto, il Giappone aveva tentato di consolidare la propria egemonia in Asia Orientale. Pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, l’Esercito e la Marina giapponesi avevano attaccato le isole del Pacifico e i possedimenti in Cina sotto giurisdizione della Germania. Il Giappone si impossessò delle isole Marianne, Caroline e Marshall e la penisola dello Shandong. La diplomazia di Tokyo attuò una politica finalizzata a trasformare la Cina in colonia giapponese. A tale scopo nel 1915 presentò al presidente della Repubblica cinese Yuan Shikai le “21 richieste”, attraverso le quali Tokyo intendeva controllare le scelte economiche di politica internazionale della debole repubblica, fondata nel 1912. Anche se la Cina accettò solo sedici delle richieste, l’egemonia giapponese in Cina crebbe. Tokyo fu favorita dalla mancanza di una presenza politica occidentale a causa del conflitto europeo, sia dalla frammentazione della Cina, causata dai signori della guerra che contrastavano gli sforzi unitari di Sun Yat-sen. Il governo giapponese rafforzò la propria offensiva diplomatica sulla questione cinese: Tokyo strinse una serie di accordi segreti finalizzati al mantenimento di una condizione privilegiata al termine del conflitto. Inoltre, il governo giapponese aderì alle sollecitazioni degli Alleati e partecipò alla “spedizione” in appoggio ai generali e alle armate bianche che in Siberia combattevano contro i bolscevichi. Il blocco di potere dominante in Giappone temeva l’eventuale vittoria bolscevica in quanto, a causa della vicinanza col Giappone, una massiccia penetrazione dell’ideologia comunista poteva destabilizzare i rapporti di potere esistenti a seguito di una massiccia adesione del proletariato al marxismo. Segnali preoccupanti vennero nel 1919, con i movimenti del Primo marzo in Corea e del Quattro maggio in Cina. L’armata giapponese fu quindi mantenuta in Siberia fino al 1922 (le truppe degli altri Paesi se ne erano andati prima). Alla Conferenza di pace di Versailles la delegazione giapponese non riuscì a far accogliere tutte le richieste presentate. Al Giappone fu assegnato il mandato di “tipo C” sulle isole del Pacifico ex-tedesche e fu riconosciuta l’acquisizione dei diritti sulle miniere e sulla ferrovia nella penisola cinese del Jiaochou; la questione dello Shandong fu rinviata a trattative dirette fra Giappone e Cina. Il punto di maggiore attrito tra Giappone e Alleati fu rappresentato dal mancato riconoscimento della parità razziale, cui si opposero Wilson e Hughes per timore di una crescente immigrazione di asiatici nei loro paesi, da cui scaturì una restrizione dei flussi migratori dall’Asia. La I partiti erano pervasi da un'ideologia e svolgevano un'azione politica tutte interne agli obiettivi e agli interessi del blocco di potere dominante, del quale erano parte integrante, seppur in una posizione subordinata. Pertanto, essi non ebbero la forza di adottare una strategia orientata ad ampliare il loro potere e capace di trasformarli in soggetti preminenti nel processo di decisione politica. Inoltre, i partiti progressisti/rivoluzionari non erano presenti nella Camera bassa. La tensione presente nella società indusse il governo a dare una risposta alle rivendicazioni del movimento per il suffragio universale. Il governo si trovò di fronte all'opposizione della Camera alta e del Consiglio Privato, al quale spettava il giudizio di costituzionalità delle leggi. Il 5 maggio 1925 fu approvata la legge che istituì il suffragio generale maschile con dei limiti: dovevano risiedere da almeno un anno nel collegio elettorale e a condizione che non fossero indigenti, cioè fruitori dell'assistenza pubblica, e dovevano versare una cauzione di 2000 ¥. L’applicazione di questa norma rese impossibile la partecipazione alle consultazioni elettorali di appartenenti ai ceti popolari. Alla limitata apertura democratica fece seguito l'approvazione della Legge per il mantenimento dell'ordine pubblico (Chian ijiho), entrata in vigore il 12 maggio 1925. Questa legge si configura come una legge speciale, applicabile secondo la convenienza politica per perseguire gli avversari del regime. Infatti, essa introdusse il divieto di alterare il “sistema nazionale”, termine ambiguo e indefinito nello stesso testo di legge e pertanto sottoposto a qualsiasi interpretazione discrezionale. La legge, perseguendo i crimini di pensiero, diede a polizia e magistratura ampie possibilità di intervento sia contro l'attività politiche sia contro le elaborazioni ideologiche considerate pericolose. Capitolo 8 – Dal fascismo al crollo dell’Impero La repressione Nel ventennio dopo l’approvazione della Chian ijiho, il regime adottò una politica sempre più repressiva contro i propri oppositori, diventando da autoritario a fascista. I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: nel 1925 furono incriminati gli studenti di sociologia dell'Università di Kyoto, rei di non limitarsi a discussione accademiche, ma di propagandare nella società l'ideologia marxista e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928 furono arrestati dirigenti e la quasi totalità dei militanti del Partito comunista. In tale occasione il sistema imperiale dimostrò la sua vera natura: l'imperatore Hirohito emendò con un proprio decreto la Chian ijiho introducendovi la pena di morte. Il regime fascista non si limitò a imprigionare militanti e a reprimere organizzazioni del proletariato, ma perseguitò anche personalità vicine al liberalismo: alcuni “incidenti” danno idea della stretta sempre più autoritaria del regime fascista. Per rendere efficace l'applicazione della Chian ijiho, il regime ricorse a una serie variegata di misure. Per quanto concerne i ‘reati di opinione’, il ministro degli Interni compilò un elenco di riviste e di libri dei quali fu vietata la circolazione; il ministero dell'Educazione accentuò la sua azione di controllo sulla ricerca e sul dibattito accademico. Vennero inseriti dei supervisori allo scopo di vigilare e fare da consiglieri agli studenti. I più temibili strumenti della coercizione furono l'apparato di polizia speciale superiore (Tokko) e i “procuratori del pensiero”, insediati presso ogni tribunale. Il Tokko svolse le funzioni proprie di una polizia segreta, contribuendo alla diffusione del terrore tra coloro che non erano in perfetta sintonia con l'ideologia del blocco di potere fascista. Nella sfera di estorsione del consenso fu messa in atto la pratica del tenko: il “procuratore del pensiero” sospendeva il giudizio nei confronti dell'imputato e lo affidava a un garante individuale o collettivo che si impegnava a convincere il "sovversivo" che la sua posizione ideologica era errata. Se questi dichiarava di aver abbandonato le sue idee, ritornata ad essere un “buon suddito” e poteva reinserirsi nella società. Il tenko fu un utile strumento di condizionamento psicologico e sociale. Con l'abiura di un imputato, inoltre, si dimostrava l'errore della sua posizione ideologica ad altri "sovversivi". L’attività di repressione del dissenso fu estesa ed efficace. In Giappone non sarà riscontrabile alcuna forma di resistenza attiva al regime fascista, con in Italia, né nella forma di complotto contro Hitler, come avvenne in Germania. Alcuni intellettuali non allineati rinunciarono a pubblicare le loro opere, rifiutandosi quindi di trasformarsi in corrispondenti di guerra. Entrati in una clandestinità passiva, il partito comunista e il sindacato ad esso collegato, le restanti organizzazioni politiche e sindacali sopravvissero a condizione di attenuare la loro azione entro i limiti consentiti dal blocco di potere fascista. Nonostante la repressione, negli anni 30 il movimento operaio condusse una serie di vertenze a difesa dei propri interessi. La Sodomei deliberò la sospensione di tutti gli scioperi per non sabotare la produzione bellica quando scoppiò la guerra contro la Cina nel luglio del 1937. La "fabbrica" del consenso Accanto agli interventi repressivi, assunse grande rilievo anche la capacità della classe dominante giapponese a veicolare il consenso. Fin dal 1910 aveva operato in tal senso l’Associazione imperiale dei riservisti, che si estese capillarmente soprattutto nelle campagne. Le sue sezioni locali erano dedite a forgiare uomini di carattere attraverso i gruppi giovanili, riuniti in un’associazione nazionale fondata su iniziativa dei ministeri dell’Educazione e della Difesa. Entrambe le associazioni condussero sempre più intense campagne propagandistiche facendo ricorso a vari strumenti. L'associazione dei riservisti organizzò dibattiti, corsi e audizioni di massa tra la popolazione. A partire dagli anni 30, inoltre, essa intensificò la preparazione paramilitare per i giovani in attesa del servizio di leva e per i congedati. La scuola ebbe un'importanza cruciale nella diffusione di stereotipi collettivi unificanti: il fulcro era l’imperatore, trascendente la politica, dedito al benessere dei suoi sudditi. In questo contesto ideologico, l’associazione dei riservisti richiamò con vigore i valori considerati fondanti per la società giapponese. La propaganda politica di sostegno al blocco di potere dominante fu oggetto di azione da parte di una miriade di club, associazioni e gruppi. Sorsero per la maggior parte tra la fine della Prima guerra mondiale e la metà degli anni 20 come risposta reazionaria alla rivendicazione del proletariato, del movimento dei fittavoli e dei ceti medi urbani ispirati dal liberalismo occidentale. Questi gruppi sono riconducibili a due categorie. Alcuni furono fondati e animati da elementi di spicco del blocco di potere dominante: il loro obiettivo comune era il mantenimento dei valori tradizionali e il controllo sulla dinamica sociale. L'altra categoria era un gruppuscolo che era l'espressione dei ceti piccolo-borghesi urbani, la loro azione politica mirò alla rivalutazione del patrimonio politico-ideologico della tradizione nazionale e alla lotta contro il marxismo, socialismo, parlamentarismo. Kita Ikki fu il maggiore sostenitore del tennosei fashizumu e dell'espansione giapponese a danno dell'imperialismo bianco. Secondo lui occorreva prima attuare la "riorganizzazione interna" al fine di restaurare un rapporto diretto tra l'imperatore i sudditi. Ciò sarebbe stato possibile con la eliminazione delle cricche militare, burocratica e politica, la sospensione per un triennio del Parlamento, sostituito da una Camera formata da 50 uomini probi. Inoltre era convinto della necessità di circoscrivere il potere degli zaibatsu e propose di porre un tetto alle proprietà terriere, ai patrimoni individuali e ai capitali societari. Attuata la “riorganizzazione interna”, secondo Kita la politica internazionale doveva perseguire l'obiettivo di allearsi con gli USA, al fine di attuare l'espansione sul continente fino all'India e sui mari fino all'Australia. Kita incise sul piano ideologico, influenzando sia giovani ufficiali che diedero vita a vari colpi di Stato, tutti falliti, sia componenti del blocco di potere dominante. Gli anni 20-30 erano stati percorsi da tensioni sociali di segno opposto che avevano provocato gli interventi della magistratura, della polizia e della burocrazia. Da un lato, le agitazioni degli operai e dei fittavoli erano state oggetto di repressione e di azioni di contenimento. Dall'altro lato, gruppuscoli occulti, ispirati soprattutto alle idee di Kita Ikki, avevano attuato una serie di attentati contro personalità del blocco di potere dominante. Solo “l’incidente del 26 febbraio” fu represso con durezza. Con la condanna morte di 13 ufficiali e di sei civili, tra cui Kita Ikki, il regime pose fine ai tentativi di rivolta da parte dei ceti piccolo-borghesi che avevano posto in essere attività reazionarie. Il nesso fascismo-imperialismo Il 1937 rappresenta un anno cruciale per la storia giapponese. Sul versante interno, con la condanna a morte di Kita Ikki in conseguenza dell’”incidente del 26 febbraio” fu definitivamente sconfitto il movimento fascista. Sul piano internazionale, l’imperialismo giapponese, con l'aggressione della Cina nel mese di luglio, avviò la cosiddetta guerra dell'Asia Orientale che, nelle intenzioni del blocco di potere dominante, avrebbe dovuto consentire al Giappone di fondare un “nuovo ordine” in Asia e nel Pacifico meridionale. L’espansionismo giapponese affonda le sue radici nel periodo Meiji. Nel settembre del 1931 l’armata giapponese invase la Manciuria avviando la "Guerra dei 15 anni". L'anno seguente, nella regione cinese di nuova conquista, fu fondato il governo fantoccio del Manchukuo, completamente soggetto alla dominazione giapponese. Nominalmente il governo, formato da manciuriani dipendeva dall'Imperatore cinese Pu Yi. Tuttavia, su di esso esercitava la supervisione il Governatore generale militare giapponese. Dopo la conquista, gli zaibatsu accentuarono la loro concorrenza con investimenti statunitensi britannici, provocando la reazione di Washington e di Londra. Nel 1933 la Società delle nazioni condannò l'intervento del Giappone, che abbandonò la società. Tokyo si sentiva isolata e costretta a subire la preponderanza navale e strategica degli USA e Gran Bretagna dal trattato internazionale di Londra stipulato nel 1930. Dopo l'intervento in Manciuria, la propaganda incentrata sulla necessità per il Giappone di si erano espressi diversi settori economici e nel novembre del19 29 il ministro delle Finanze annunciò che dal 1º gennaio 1930 sarebbero ritornati al gold standard. Si trattò tuttavia di una scelta inopportuna, in quanto avvenne dopo il crollo di Wall Street, nel momento in cui i paesi più avanzati avevano abbandonato il gold standard per consentire la libera fluttuazione delle loro monete. Di conseguenza alla scelta governativa, la crisi ebbe effetti devastanti sull’economia giapponese: furono colpiti il settore tessile, le famiglie contadine le società di navigazione e la cantieristica. La depressione pesò sui piccoli e medi imprenditori, clienti delle banche locali che furono costrette a sospendere temporaneamente i pagamenti. L'avvio della svolta in economia che permise l'uscita dalla crisi è dovuto all'azione di Takahashi Korekiyo, che accentuò l'intervento dello Stato in economia. Le misure riguardarono l'abbandono della base aurea dello yen; la dilatazione della spesa pubblica; l'ampliamento della stessa emissione fiduciaria; la riduzione del tasso di interesse; il sostegno dell'economia rurale. La “guerra totale” Dopo alcuni tentativi di penetrazione nella Cina settentrionale nel 134-35, nel luglio 1937 il Giappone invase la Cina avviando la Guerra dell'Asia Orientale. Il conflitto fu concepito come "guerra totale" che comportò la progressiva ristrutturazione dell'economia in funzione dello sforzo bellico, l’ulteriore stretta autoritaria nel controllo sulla società e la riorganizzazione del sistema politico-partitico. Il 1º aprile 1938, il Parlamento approvò la Legge di mobilitazione nazionale generale. Questa legge era un provvedimento quadro e forniva le indicazioni di carattere generale al cui interno il governo o il Parlamento potevano emanare norme specifiche riguardanti le materie indicate dalla legge stessa. Veniva così meno la separazione tra potere legislativo (Parlamento) e potere esecutivo (governo). Inoltre, il controllo dello Stato sull’economia e sulle forze sociali veniva razionalizzato e rafforzato. Promulgata la legge, il Primo ministro Konoe proclamò la volontà di istituire in Asia un "Nuovo Ordine". Sul piano interno, i partiti politici, già privi di potere, furono assorbiti dall’Associazione per il sostegno della direzione imperiale e furono fondate le associazioni per la produzione. Sul piano internazionale, il Giappone firmò il Patto tripartito con l’Italia fascista e la Germania nazista e occupò l'Indocina settentrionale. Con l’estensione dell’occupazione della Cina, il governo di Washington chiese al Giappone garanzie per le Filippine e il ritiro delle truppe dalla Cina. Dopo la firma del patto di neutralità con l'URSS, l'Esercito imperiale giapponese occupò l'Indocina meridionale, azione che provocò la proclamazione dell’embargo totale da parte degli USA. Falliti i tentativi di superare la crisi, nel dicembre 1941 gli aerei giapponesi attaccarono, prima della dichiarazione di guerra, la base statunitense di Pearl Harbor nelle Hawaii. Con la successiva dichiarazione di guerra della Germania agli USA la guerra divenne propriamente mondiale. Programmazione e controllo dell'economia di guerra Dal 1937 esponenti del blocco di potere fascista operarono per attuare controlli centralizzati sull'economia. L’intervento dello Stato in economia aveva trovato valida applicazione nel corso della trasformazione capitalistica del periodo Meiji e in alcuni specifici settori era ancora in atto. In particolare, la partecipazione pubblica era preminente o totalizzante nell'industria dell'acciaio o nella società che indirizzavano gli investimenti di capitale oltremare, nelle colonie e in Manciuria. Né minore importanza aveva avuto la politica economica di intervento dello Stato attuata da Takahashi attraverso l’incentivazione delle commesse di armamenti. Le esperienze del fascismo, del nazismo e della programmazione dell’economia attuata in URSS portavano molti intellettuali giapponesi a richiedere riforme atte a creare un nuovo sistema economico e sociale. Grande notorietà ebbero in Giappone alcuni economisti austriaci: uno sosteneva che l'economia politica lega strettamente economia, società e politica e che pertanto lo Stato a precisi e ineludibili compiti di organizzatore; l'altro afferma che esiste un universalismo della società, la quale non è un insieme di individui, ma è una comunità in cui soggetti hanno reciproche responsabilità. Sostenitori della riorganizzazione dello Stato fu un gruppo di funzionari innovatori. Questi burocrati fin dal 1932 avevano fatto esperienze gestionali nel Manchukuo, a stretto contatto con i militari. Nel 35, le loro richieste sfociarono nella costituzione dell'Ufficio ricerche del governo, al quale furono destinati funzionari civili e militari di rilievo. Tra questi, Kishi Nobusuke, che trascorse nella Germania nazista un periodo di studi dell'organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo). Il nesso esistente tra la riorganizzazione e il suo obiettivo finale era l'espansione in Asia Orientale e Meridionale del Giappone in sostituzione dell'imperialismo bianco. Il giornalista Ryu Shintaro espresse con sempre maggior vigore l'opinione secondo cui nel futuro il mondo sarebbe stato diviso in blocchi, uno dei quali guidato dal Giappone. La sua tesi ebbe risonanza all'inizio del 1941, quando l'allora ministro degli Esteri dichiarò che a suo giudizio si sarebbe presto giunti alla spartizione del mondo in quattro zone: America settentrionale e meridionale sotto l’egemonia statunitense; sovietica, con la dominazione dell'URSS estesa a India e Iran; europea, comprendente anche l'Africa, soggetta la Germania nazista; area dell'Asia orientale e sud-orientale guidata e governata dal Giappone. Questa fu chiamata dottrina Matsuoka, che fu però superata quando la Germania, alleata del Giappone, invase l’Urss nel 1941. L'intervento dello Stato in economia operò attraverso due direttrici. Una fu costituita da massicci investimenti pubblici nel settore degli armamenti; l'altra consistette nella promulgazione di una serie di provvedimenti legislativi e di regolamentazione e controllo dei settori industriale e finanziario. Accanto a questi provvedimenti, lo Stato emanò delle norme per razionalizzare la raccolta e la distribuzione dei prodotti alimentari, la cui scarsità divenne un reale problema. L'obiettivo della riorganizzazione economica era la separazione tra proprietà e management, da attuarsi attraverso l'intervento e il controllo dello Stato. I funzionari civili e militari e ritenevano che l'economia di guerra avrebbe raggiunto lo scopo di sostenere la vittoria soltanto se l'industria privata avesse rinunciato al suo fine primario, la massimizzazione dei profitti e degli investimenti. L'obiettivo diviene palese quando il Parlamento deliberò l’attuazione della Legge per la mobilitazione dell'industria degli armamenti, approvò la Legge di regolamentazione delle esportazioni e importazioni delle merci e la Legge sul controllo temporaneo dei capitali che dette all'imperatore e all'amministrazione il potere di emanare decreti su fondazione di società, aumenti di capitale, fusioni, fluttuazioni di titoli. Queste tre leggi anticipare nel provvedimento quadro della Legge di mobilitazione generale nazionale del marzo del 1938. La regolamentazione dell'economia non avvenne soltanto tramite leggi, decreti e ordinanze. Nel 1937 venne stilato il Piano per la mobilitazione delle risorse con il quale venivano assegnati a Esercito, Marina e industria privata ferro, acciaio, rame, alluminio, benzina, kerosene, petrolio grezzo, cotone e lana. Inoltre, tra il 1939 e il 1940 vennero elaborati ulteriori piani per rafforzare il controllo sul commercio, lavoro, capitali, energia elettrica, trasporti. Anche in economia si stava delineando il “Nuovo ordine” proclamato dal Primo ministro Konoe Fumimaro all'atto della promulgazione della Legge di mobilitazione nazionale generale e i cui principi furono assunti nei Lineamenti per la costituzione del Nuovo Ordine economico del 1940. Il perdurare della Guerra dell’Asia Orientale, l’irrigidimento delle relazioni diplomatiche con Washington e il possibile conflitto con gli USA sfociarono in ulteriori controlli sull’economia. Nell'agosto del 41 fu promulgato il Decreto sull'associazione delle industrie principali che permise la fondazione di 13 Associazioni di controllo delle industrie chiave. Queste associazioni avrebbero dovuto collaborare all’attuazione di un piano economico ispirato al modello sovietico, ma fallirono. L'insuccesso ebbe due diverse cause: la rivalità fra i ministeri non consentì l’indispensabile coordinamento a livello dell'amministrazione statale e il capitale privato mise in atto ogni possibile resistenza al fine di preservare i margini di autonomia alle linee elaborate dai funzionari civili e militari. Negli anni della guerra totale non furono predisposti piani economici come in Urss, ma fu invece attuata una economia controllata dall’amministrazione statale. Sul piano dell'intervento finanziario dello Stato in economia, l'amministrazione giapponese operò attraverso vari tipi di società per la politica nazionale: le società per la colonizzazione, cui si affiancarono le società per la difesa nazionale e le società di controllo. Negli anni successivi al 1937 il potere dello Stato in economia si accentuò progressivamente e negli ultimi mesi del conflitto si contemplò la separazione tra proprietà e management. La "guerra totale" dei sudditi giapponesi I sudditi giapponesi parteciparono attivamente alla guerra. I soldati giapponesi, oltre agli orrori di guerra, affrontarono sacrifici inumani per carenza di rifornimenti, giungendo in alcuni casi al cannibalismo. La popolazione giapponese fu sottoposta al razionamento dei prodotti tessili e alimentari e subì incursioni aeree e bombardamenti distruttivi, il cui epilogo è costituito dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le prime restrizioni dei consumi furono attuate poco dopo l’inizio della guerra con la Cina e riguardarono i prodotti tessili, ma nel 1941 il razionamento interessava tutti i beni di prima necessità. Le difficoltà di approvvigionamento indussero il ministero del Commercio, dell'Industria e dell'Agricoltura a mettere in atto il "Nuovo ordine dei consumi". Si tese a ridurre il numero dei punti vendita. L’aggravarsi della situazione impose ulteriori interventi dell’amministrazione pubblica. Le associazioni di rione e le associazioni di vicinato divennero il nerbo del sistema. I responsabili di tali associazioni raccoglievano bonus attestanti il diritto ai prodotti alimentari per le singole famiglie e si rivolgevano a quei negozianti che erano in grado di soddisfare le richieste. Nonostante ciò, la penuria di cibo si fece sentire fin dal convocare il Parlamento, sciogliere la Camera alta, proclamare elezioni generali. Inoltre, l’Imperatore nomina il Primo Ministro e il presidente della Corte Suprema, designati dal Parlamento e dal governo. La nuova Costituzione prevede la netta separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; il Parlamento è formato da due Camere, entrambe elettive. In caso di discordanza tra le due Camere per la nomina del Primo ministro, prevale il voto della Camera bassa. Inoltre, la Costituzione è fortemente pacifista, in quanto l’art. 9 prevede sia la rinuncia del Giappone alla guerra per la risoluzione delle dispute internazionali sia il divieto alla ricostruzione delle forze armate. L’attuale sistema elettorale è parzialmente maggioritario. La Camera bassa è oggi composta da 500 parlamentari e la legislatura ordinaria dura 4 anni. La Camera alta è formata da 252 membri. Anche se la Costituzione del 1947 impone che il Giappone rinunci all’uso della forza nelle dispute internazionali e alla ricostituzione delle forze armate, poco dopo l’inizio della guerra di Corea è stata istituita la Riserva di polizia nazionale, che sostituì per un periodo i militari statunitensi nel mantenimento dell’ordine pubblico. Su pressione degli USA, alle forze di terra si aggiunsero unità navali e aeree e nel 1954 fu istituita l’Agenzia della difesa. La vita politica Durante i primi anni dopo la sconfitta, la vita politica giapponese attraversò una fase caratterizzata dalla formazione e dissoluzione di partiti. Dall’ottobre 1948 fino al dicembre 1954 a capo del Partito liberale si ha Yoshida Shigeru che pose come priorità assoluta la ricostruzione dell’economia, che intorno alla metà degli anni Cinquanta raggiunse i livelli del 1933-35. È con lui che fu firmato il Trattato di pace di San Francisco. Inoltre egli promosse, in accordo con MacArthur, una purga rossa che colpì i membri iscritti al Partito comunista. Yoshida difese sempre gli epurati e dopo la firma del Trattato di San Francisco ne riabilitò un gran numero. La ricostruzione economica In economia, inizialmente lo Scap attuò uno stretto controllo nell’allocazione delle risorse e impose che il pagamento delle riparazioni di guerra avvenisse in valute pregiate o con il trasferimento di impianti industriali giapponesi. Tuttavia, già nel 1947, lo Scap permise al Giappone di fare fronte ai danni di guerra con l’esportazione di prodotti nazionali e con pagamenti in yen. Queste misure furono osteggiate debolmente dalla Gran Bretagna e in modo più vigoroso da Cina e Urss, ma senza alcun esito. Un punto di forza e di successo della politica dello Scap è costituito dalla riforma agraria. L’affittanza, già emersa nel corso dell’era Meiji e che alla fine della guerra era estesa a circa la metà delle aree coltivabili, nel 1950 fu ridotta al 10% del totale. I proprietari terrieri e i contadini medi videro le loro proprietà ridotte. Infatti, la legge previde estensioni proprietarie non superiori a 10 ettari nell’Hokkaido e 3 ettari nelle altre regioni. La vendita di aree coltivabili avvenne con il ricorso alla rateizzazione e in un periodo di forte inflazione, favorendo gli acquirenti e penalizzando i grandi proprietari. Inoltre, parte delle terre dei grandi proprietari fu confiscata. A seguito della ripresa industriale, la popolazione attiva in agricoltura diminuì progressivamente. Oltre che per il successo della riforma agraria, il 1950 può essere considerato un anno di primaria importanza per l’economia giapponese, che vide aumentare la propria produzione a seguito delle maggiori commesse militari da parte degli USA per la guerra di Corea. Il progresso economico fino ai primi anni Settanta Tra la fine della guerra e il 1975 (anno della seconda crisi petrolifera) il Giappone conobbe varie fasi di sviluppo. La ripresa economica, oltre che comportare molti sacrifici alla popolazione, fu lenta e problematica fino al 1950, per trarre poi un primo giovamento dalle forniture per la guerra di Corea. Verso la metà degli anni 50, il Giappone completò la ricostruzione economica, ritornando ai livelli prebellici. Il decennio successivo fu di notevole difficoltà, ma rappresentò anche la premessa degli anni del successo, appena incrinati dalla crisi petrolifera del 1973 e protrattisi fino agli inizi degli anni Novanta. Il successo fu possibile grazie a diversi fattori: i governi giapponesi fecero della ricostruzione la priorità assoluta, attuandola con interventi a sostegno del settore industriale e chiedendo alla popolazione di sopportare immani sacrifici. In questo quadro si inseriscono la debolezza del movimento operaio e la limitata libertà sindacale alle quali contribuì l’azione dello Scap. Infatti, nonostante il riconoscimento dei diritti sindacali, il 1° febbraio 1947 lo Scap vietò lo sciopero dei dipendenti pubblici, dando un forte segnale repressivo alle organizzazioni sindacali e agli oppositori delle scelte politiche dello Scap e del governo conservatore. È in questo periodo che si afferma l’ “inversione di rotta”, cioè il Giappone, da nemico sconfitto, divenne per gli USA un alleato. Un ulteriore intervento politico dello Scap fu la “purga rossa”, attuata nel 1950: molti comunisti furono licenziati dagli uffici pubblici e privati. Inoltre fu vietata la diffusione della Bandiera rossa, organo ufficiale del Partito comunista. L’epurazione fu decisa pochi mesi dopo la vittoria della lotta di liberazione e la proclamazione della Repubblica popolare in Cina. Sebbene Yoshida abbia avuto un ruolo fondamentale nell’indirizzare la ricostruzione economica, occorre rilevare che dopo la fine dell’occupazione statunitense molta parte del potere decisionale rimase ai funzionari superiori. In campo economico, fondamentali furono e rimangono l’intervento dello Stato e il ruolo svolto dai burocrati del ministero dell’Industria e del Commercio estero, da quello delle Finanze, dal ministero delle Costruzioni, dell’Agenzia per la programmazione economica. Il governo giapponese iniziò ad approvare i programmi economici elaborati dall’amministrazione centrale. All’interno dei Programmi sono previsti anche gli interventi dello Stato, in particolare per quanto attiene sia alla collaborazione tra capitale privato ed enti pubblici nei settori di ricerca avanzata, sia ai tassi di interesse. Ogni Programma ha durata almeno quinquennale, ma in molti casi viene superato dagli eventi e quindi sostituito da un nuovo Programma. Lo sforzo della ripresa e per gettare le basi al futuro sviluppo si protrasse fino alla fine degli anni Settanta. Il Giappone sviluppò con coerenza una politica economica fondata su 3 principi: 1. Limitazione delle importazioni all’indispensabile; 2. Trasformazione della struttura produttiva in funzione della concorrenza sul mercato mondiale; 3. Stimolo alle esportazioni, necessari a compensare i flussi delle importazioni. La dinamicità del commercio internazionale fu favorita dall’adesione al Gatt nel 1955. Inoltre, gli scambi del Giappone con i mercati di tutto il mondo furono favoriti dall’attività delle società commerciali internazionali, che svolgono il ruolo di mediazione sui mercati. Dal punto di vista strettamente economico, i commerci internazionali del Giappone furono favoriti dalla sottostima del tasso di cambio dello yen con il dollaro. Dal 1965 la bilancia commerciale del Giappone fu costantemente attiva, cioè il valore delle esportazioni superò quello delle importazioni. Fino al 1965 la popolazione fu sottoposta a gravi sacrifici. I livelli salariali degli impiegati furono mantenuti bassi; gli addetti delle piccole e medie imprese fruirono di redditi notevolmente inferiori. Pertanto, fino alla metà degli anni Settanta i consumi interni furono molto contenuti. Un problema che si manifestò con evidenza è l’altissimo livello di inquinamento. Nel 1956, a causa dell’inquinamento marino da scorie di mercurio, gli abitanti di Minamata subirono mutazioni genetiche. In generale l’alto grado di inquinamento si è manifestato in tutte le aree urbane e industriali. Il livello di vita iniziò a migliorare nei tardi anni Sessanta. Le relazioni internazionali Nel 1951 il Giappone siglò il Trattato di San Francisco, non firmato da Urss, India, Taiwan e contemporaneamente il Trattato di sicurezza nippo-americano. Anche se firmarono il Trattato di San Francisco, gli USA continuarono a occupare Okinawa e conservarono basi militari in altre zone del Giappone. Il riconoscimento internazionale giapponese avvenne nel 1956 con la sua entrata all’ONU. La politica internazionale del Giappone fino al 1956 fu completamente soggetta alla volontà degli USA. Nel 1956 Giappone e Urss ristabilirono relazioni diplomatiche. Le ottime relazioni fra Giappone e USA furono ribadite nel 1960 con il rinnovo del Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti. Negli anni successivi il maggior successo lo ottenne il Primo ministro Satō Eisaku, che nel 1969 si accordò con Nixon per il ritorno di Okinawa al Giappone. Due anni dopo l’accordo Nixon- Satō, il Giappone subì un clamoroso smacco, noto come “Nixon shock”: infatti, senza informare il governo giapponese, Nixon nel 1971 annunciò che si sarebbe recato in Cina per incontrare Mao Zedong e altri dirigenti cinesi. l’incontro avvenne nel 1972, dopo che la Repubblica popolare cinese era stata riammessa all’Onu, entrando a far parte del Consiglio di sicurezza. Dopo la visita di Nixon, il Primo Ministro giapponese Tanaka Kakuei si recò a Pechino dove fu firmato un comunicato congiunto che annunciò lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra i 2 Stati. Capitolo 10 – Crisi, sviluppo e recessione Dalla crisi petrolifera del 1973 alla ripresa Nei primi anni Settanta si presentano in Giappone i segni della crisi. Le cause principali sono da ricercarsi in decisioni esterne al Giappone. Nel 1971, il presidente Nixon annunciò l'abbandono del gold standard . In questo modo le monete, il cui valore verso l'altro e che si conclude con la presentazione di un disegno di legge governativo. Segno evidente del potere burocratico è la stessa organizzazione dei vertici dei singoli ministeri e agenzie governative. Infatti, al ministro e a uno o più sottosegretari di appartenenza politica si affianca un sottosegretario di provenienza burocratica che è anche il vertice dell'apparato. In conseguenza dello spirito di gruppo i funzionari di grado inferiore si sentono responsabili verso il sottosegretario burocratico. Ciò implica che i politici responsabili dei dicasteri debbano tenere in considerazione le sue opinioni politiche al fine di non vedere vanificate le loro iniziative. Questa interdipendenza burocratico-politica ha conseguenze anche a livello parlamentare e politico generale: soprattutto nel Partito liberaldemocratico molti parlamentari sono di provenienza burocratica, quindi appare evidente che l'azione di quel partito è avvantaggiato dall'intreccio di rapporti personali con singoli funzionari superiori. In sostanza, il sistema politico appare relativamente debole, mentre i funzionari ministeriali fruiscono di ampi margini di azione e intervento politico. Del secondo dopoguerra i governi che si sono succeduti in Giappone sono sempre stati formati da politici di area liberaldemocratica. Liberali e democratici erano divisi fino al 1955, poi si unirono nel tuttora resistente Partito liberaldemocratico. Nelle legislature in cui il partito non raggiunse la maggioranza assoluta furono formati governi di coalizione, con l'apporto di indipendenti o di appartenenti ad altri partiti. Nel periodo 1972-89 si succedettero otto Primi ministri, tutti del Pld, dei quali sette guidarono il governo per due anni e uno, Nakasone Yasuhiro, tenne il premierato per 5 anni. Egli fu un'eccezione, in quanto per regole interne al Pld ogni due anni viene eletto un nuovo presidente del Partito che diviene anche Primo ministro. Con le elezioni della Camera bassa nel 1989 si apre una fase di incertezza e turbolenza politica. I seggi del Pld diminuirono a favore di quelli dei socialisti. Nacquero coalizioni fragili, caratterizzate da rapidi cambiamenti di governo. I tentativi di riforma Il premier Hashimoto lanciò un programma di riforme che, tuttavia, ebbe difficoltà a decollare. Le riforme proposte riguardavano il sistema finanziario, l'economia, il sistema politico-burocratico e quello dell'educazione. Punti di maggiore attrito sono le riforme che riguardano la scuola e i rapporti tra politica e burocrazia. Nei rapporti tra politica e burocrazia, allo stato attuale, sembra di poter affermare che i funzionari cedano su punti marginali e che anche oggi riescono a mantenere intatto il loro potere di decisione ed intervento. Pare stia emergendo un indirizzo di non cambiamento per quanto concerne la scuola, una chiusura che è tuttora in vigore attraverso il divieto di adozione nelle scuole di libri di testo privi del visto ministeriale. Inoltre la scuola giapponese è molto selettiva. Determinanti per la vita futura sono già i primi passi come scolaro delle elementari, che permetteranno l'accesso a una buona scuola media, a una scuola superiore e di conseguenza al superamento degli esami d'accesso per l'università. Solo in questo modo e assicurata ai laureati la possibilità di carriera; ciò significa che lo studente giapponese, oltre a frequentare la scuola tempo pieno, deve nel tardo pomeriggio frequentare una scuola privata per migliorare la sua preparazione. Una difficile collocazione internazionale Le relazioni internazionali del Giappone per lungo tempo sono state caratterizzate dall’allineamento alla politica statunitense, sebbene l'azione di Tokyo sia stata sviluppata soprattutto attraverso gli interventi di carattere economico. Per il governo è sempre stato di particolare importanza mantenere buone relazioni con i paesi fornitori di materie prime o esportatori di prodotti finiti. In questo contesto si colloca la contrattazione permanente dei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti, maggiore importatore mondiale di manufatti giapponesi. Per quanto riguarda i paesi fornitori di materie prime, è riconoscibile l'obiettivo giapponese di una più spiccata indipendenza da Washington. Durante la crisi petrolifera, al fine di mantenere buone relazioni con i fornitori di petrolio, il presidente di una società giapponese di importazione di pretorio partì per i Paesi arabi e seppe ben sfruttare i suoi legami personali e i suoi rapporti d'affari. Nel 1988 sorse per il Giappone un problema internazionale: nella guerra del Golfo, l'Onu invio contro l'Iraq una forza di combattimento e chiese al Giappone di partecipare alle fasi di appoggio. Sebbene la Costituzione vieti la partecipazione del Giappone a qualsiasi azione militare, il Parlamento approverà una norma che consente al Corpo di sicurezza nazionale di partecipare alle operazioni di peacekeeping dell'Onu in Cambogia. Con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell'Unione sovietica, la diplomazia giapponese ha tentato di trovare con la Russia un accordo per la restituzione delle isole a nord dello Hokkaido, tuttavia sinora senza successo. La nuova politica economica del “socialismo di mercato” perseguita dalla Repubblica popolare cinese e il ritorno alla madrepatria di Hong Kong pongono al Giappone problemi complessi. Pechino, così come Taipei, rivendica di essere legittimo governo della Cina e su questo problema il Giappone ha tenuto una posizione di equidistanza. Nel loro complesso, le relazioni diplomatiche del Giappone non presentano punti di tensione. Spesso si riapre la questione del mancato pieno riconoscimento delle atrocità imputabili all'esercito durante la Guerra dei quindici anni contro le popolazioni dell'Asia Orientale e Sud-orientale (massacro di Nanchino, esperimenti biochimici in Manciuria, costruzione alla prostituzione a favore dei militari giapponesi delle donne). In questo ambito le capitali asiatiche imputano al Giappone di perfetti con la sua storia. Dall'ultimo decennio del XX secolo, le linee di politica internazionale Del Giappone tendono all' affermazione dello stesso come potenza regionale. Si tratta di un lungo processo che non solo deve trovare un equilibrio tra l'alleanza con gli Stati Uniti e la crescita economica e i nuovi indirizzi politici della Repubblica popolare cinese, ma anche agire in presenza di punti di conflittualità in Asia. Tokyo, oltre che puntare sulla politica dell'assegno con investimenti in Cina, Corea del Sud e paesi dell’Asean, Ha compiuto alcune scelte politiche. in questa direzione vanno inserite le partecipazioni alla Untac (Autorità transnazionale delle Nazioni Unite in Cambogia), alla Untaet (Autorità transitoria delle Nazioni Unite a Timor Est) e alla Unmiset (Missione di sostegno delle Nazioni Unite a Timor Est). Il caso di maggiore tensione è costituito dalla condanna della Repubblica democratica popolare della Corea come facente parte dell’ “asse del male” da parte del presidente statunitense Bush. L'agenda delle relazioni internazionali con la Corea del nord presenta molti punti di tensione, dal rapimento di alcuni cittadini giapponesi operati dai nord coreani, dal lancio di missili nelle acque territoriali giapponesi alla recente decisione della Repubblica democratica popolare della Corea di riattivare un reattore atomico. Nell'estate del 2002 Il Giappone ha riaperto la comunicazione con Pyongyang, interrotto dal 1996. Dal 2003 il Giappone fa parte, con Stati Uniti, Repubblica di Corea, Russia, Repubblica popolare cinese E Repubblica democratica Popolare di Corea del Gruppo dei sei. Nel 2006 il Giappone ritirato il suo contingente militare dall'Iraq e nel 2007 ha visto coronati i suoi sforzi come responsabile della missione Untac in Cambogia. Dalla grave recessione alla ripresa economica Il Giappone, tra la fine della seconda guerra mondiale e l'ultimo uno scorcio del Novecento, da paese con un apparato industriale ridotto del 70% è diventato la seconda potenza economica del mondo. Tuttavia, la recessione, profilatasi nei primi anni 90 con lo scoppio della baburu ekonomi, si è allentata soltanto nel 2005. La contrazione della domanda interna non favorisce la ripresa della produzione e il commercio interno. Il Giappone appare incerto nella scelta tra libero mercato intervento statale. La risposta delle istituzioni economiche e finanziarie non è stata risolutiva; il Giappone appare incerto nella scelta tra libero mercato intervento statale non optando con determinazione per la prima soluzione l'altra. Nel 1997 il mondo finanziario è stato percorso da una grave crisi, avviata dal fallimento di cinque banche a causa della inesigibilità dei prestiti concessi con estrema disinvoltura durante l'economia della bolla. Negli anni seguenti si assiste la fusione delle banche sino ad allora considerate il nucleo dei gruppi finanziari; questa fusione ha in parte modificato le dinamiche interne ai due keiretsu di cui fanno parte. A questi profondi cambiamenti nel settore bancario si sono contrapposte le serie difficoltà nel settore industriale: tra i colossi dell'auto, la Toyota e la Mitsubishi hanno attuato riduzioni del personale; la Nissan ha attuato la chiusura di stabilimenti e il taglio di posti di lavoro. Inoltre, la recessione ha favorito l'ingresso di capitali stranieri in molte società giapponesi. La lunga fase recessiva è stata superata nel 2005. Pertanto la Banca del Giappone ha abbandonato il tasso zero introducendo il tasso di interesse dello 0,25%. Il Giappone tenta di perseguire l'internalizzazione, ma l'armonizzazione tra globalizzazione e politiche economiche tradizionali non appare semplice, a causa delle resistenze del mondo economico e finanziario e della potente burocrazia ministeriale. Un primo passo in direzione del cambiamento è stato compiuto nel 2006, con l'approvazione di una legge di riforma amministrativa che riduce il numero dei funzionari civili, avvia la vendita di società pubbliche e riforma le organizzazioni finanziarie pubbliche. Nel settembre 2007 il liberaldemocratico Fukuda Yasuo è stato eletto Primo ministro. Capitolo 11 – Sviluppi interni e sfide internazionali nel nuovo millennio Dal “ventennio perduto” all’Abenomics della legge fiscale del 2012, che prevedeva un aumento della tassa sui consumi sino al 10% entro il 2015, e stata possibile solo grazie a un compromesso con il partito liberal democratico. la nuova legge ha provocato un diffuso malcontento presso un'opinione pubblica che aveva espresso un assenso di più di fronte all'intenzione di Noda di riattivare due reattori, ritirando in tal modo il suo iniziale impegno a ridurre la dipendenza dall'energia nucleare. mentre diventava sempre più difficile individuare una linea di separazione tra la linea dei democratici e quella dei liberaldemocratici, Noda sciolse la Camera bassa e indisse le elezioni anticipate. Con le elezioni finì l'era democratica e ritornarono i liberal democratici alla guida del governo. La rielezione a Primo ministro di Abe Shinzō, che aveva ricoperto questo incarico nel 2006, ha riportato sulla scena politica un esponente determinato a trovare una soluzione alla prolungata tendenza alla deflazione e alla bassa crescita con un ambizioso programma di politica economica noto come Abenomics. Tale programma mira a promuovere lo sviluppo economico attraverso una politica monetaria espansiva, una politica fiscale flessibile e riforme strutturali finalizzate ad aumentare la competitività dell'economia del paese. L'immissione di un'ingente liquidità nel sistema economico e finanziario intende correggere la spirale deflattiva producendo una svalutazione dello yen che favorisca le esportazioni; di ciò beneficerebbero le grandi aziende esportatrici che contribuirebbero ad aumentare i consumi interni. Inoltre, la politica della Banca del Giappone mira a promuovere gli investimenti tramite la riduzione dei tassi di interesse. Questo programma ha prodotto sinora esiti altalenanti. Le trasformazioni economiche e sociali L'aumento della disoccupazione e della precarizzazione del lavoro ha prodotto un divario tra le generazioni entrate nel mercato del lavoro nella fase di prosperità economica e quelle che sono divenute adulte negli anni successivi. Dalla metà degli anni Novanta, il ricorso a forme di lavoro temporaneo piuttosto che al tradizionale impiego a vita è andato affermandosi anche tra le grandi aziende, allo scopo di tagliare i costi del personale e rendere i livelli di manodopera flessibili alle fluttuazioni della domanda di mercato. Inoltre va tramontando l'idea secondo cui la retribuzione debba essere proporzionale all'anzianità di servizio, a favore di criteri fondati su meritocrazia e produttività. Tutto ciò si riflette in un progressivo aumento del numero di persone con impieghi a tempo indeterminato e remunerazioni più basse rispetto a quelle previste per gli impieghi regolari. Il divario il che separa i lavoratori regolari da quelli irregolari si riflette in una crescita della disuguaglianza nei redditi e nei consumi. nelle famiglie composte da due o più persone il reddito e la propensione al consumo crescono proporzionalmente all'età. Questa tendenza, tuttavia, interessa in modo diverso le coppie con uno o più figli, quelle senza figli e le famiglie composte da figli che vivono con un solo genitore. Infatti, poiché gran parte delle donne rinuncia al posto di lavoro dopo il parto, le famiglie con prole sono in genere sostenuti da un solo reddito, ed è tra queste che si registrano i livelli maggiori di difficoltà economiche. Tra i nuclei con un solo componente vi è stato un progressivo calo dei consumi, maggiormente accentuato tra le fasce in età lavorativa più giovane e, in particolare, tra i maschi, ovvero le categorie più colpite dalla precarietà occupazionale. Questo calo è meno marcato tra le femmine, che tendono invece a elevare i loro livelli di consumo. I livelli di spesa si mantengono alti soprattutto tra i pensionati. Le disuguaglianze economiche e sociali si sono quindi accentuate, sullo sfondo di una situazione economica e occupazionale che penalizza soprattutto le generazioni più giovani, propense a ritenere che non potranno godere del livello di benessere garantito ai loro genitori. È tra queste generazioni che si registrano allarmante segnale di disagio: il tasso di suicidi continua a restare a livelli elevati nella fascia di età compresa tra i 15 e i 39 anni, per quale il suicidio nel 2013 la prima causa di morte. A modificare la fisionomia della società giapponese concorre l'andamento demografico, che funge da freno alla ripresa economica. coloro che sono nati durante il baby boom del primo dopoguerra (1947-49) e che hanno potuto assicurarsi un impiego a vita e aumenti salariali legati all'anzianità sono ormai andati in pensione, accrescendo la quota di anziani. Questo gruppo di persone ha reso il Giappone il paese con la più elevata percentuale di anziani al mondo. Il rapido e progressivo invecchiamento della popolazione e generato non solo da un'elevata speranza di vita, ma anche da un tasso di natalità tra i più bassi al mondo. Gli effetti di questa bassa natalità hanno cominciato a manifestarsi in termini di una decrescita demografica. Oltre a ostacolare la crescita economica, la tendenza all'invecchiamento e alla decrescita demografica pone inediti problemi, a partire dal fatto che genererà un progressivo ridimensionamento della forza lavoro e che la spesa pensionistica e sanitaria di un numero crescente di anziani graverà su una popolazione in età lavorativa sempre meno consistente. Gli interventi volti a favorire la natalità potrebbero produrre effetti solo nel lungo periodo e non appaiono sufficienti a mutare le tendenze in atto, tanto più in presenza del progressivo disinteresse verso le relazioni di coppia che si registra tra i giovani, di un aumento dell'età media della procreazione femminile e di una persistente disparità tra i generi in ambito lavorativo, che induce un numero crescente di donne a rinunciare alla famiglia in favore della carriera. Le donne che abbandonano il lavoro per prendersi cura dei figli possiedono spesso un elevato livello di qualificazione e quindi privano il paese di manodopera indispensabile, ma anche di talenti e capacità. una soluzione al problema demografico potrebbe derivare da politiche che favoriscono l'immigrazione di stranieri; tuttavia, persiste una diffusa resistenza in tal senso, dovuta al timore che ciò possa generare un aumento del tasso di criminalità e delle tensioni etniche, minando la coesione sociale di uno dei paesi più sicuri al mondo. Un altro problema connesso all' invecchiamento demografico è costituito dalla maggiore incidenza di malattie e di perdita di autosufficienza tra un numero crescente di persone in età avanzata. La cura e l'assistenza agli anziani, un tempo affidate alle donne più giovani della famiglia, necessiteranno sempre più di un lavoro specializzato, che difficilmente i giapponesi sono disposti a svolgere. Il personale impiegato per l'assistenza pubblica agli anziani ha già mostrato di essere inadeguato ai livelli attuali di invecchiamento della popolazione, mentre i programmi per reclutare donne provenienti dai paesi del Sud-est asiatico non hanno prodotto risultati positivi. piu che favorire un maggior flusso di lavoratori stranieri Il Giappone sembra orientato ad affidare il futuro della cura e assistenza agli anziani a robot. Il Giappone post 11 Marzo La drammatica catastrofe dell’11 Marzo 2011 ha rappresentato il momento più critico che il paese ha dovuto affrontare dalla fine del periodo bellico e che ha contribuito ad acuire il senso di precarietà e di vulnerabilità. il trauma provocato da una straordinaria concomitanza di eventi che hanno cancellato interi centri costieri, interrotto la viabilità, impedito la comunicazione tra Tokyo e i governi locali e costretto a evacuare le zone contaminate si hai scritto nella memoria collettiva, accrescendo la consapevolezza di vivere in una delle zone geologicamente più instabili del pianeta. Per quanto riguarda l'incidente all'impianto di Fukushima, Il Giappone si è dimostrato impreparato a gestire la crisi nucleare, dei cui sviluppi la popolazione è stata informata in modo tardivo e contraddittorio. Ad aggravare il bilancio dell' 11 Marzo c'è la lenta opera di ricostruzione nelle regioni colpite dallo tsunami e di decontaminazione delle zone interessate dal disastro nucleare di Fukushima, oltre a un elevato numero di evacuati. La triplice catastrofe ha posto nuovi problemi, segnando per alcuni versi l'inizio di una nuova epoca in Giappone. La traumatica esperienza e la comune condizione di vivere in un paese esposto a calamità naturali hanno posto l'urgenza di potenziare la previsione, la prevenzione e il controllo degli eventi naturali, tanto più in presenza di cambiamenti climatici e di un nuovo evento sismico che si prevede interesserà l'area della capitale. Oltre a una tecnologia antisismica già all'avanguardia, si è intervenuti per rendere più efficienti i sistemi di allerta precoce, elevare il livello di preparazione ai disastri, migliorare i sistemi di evacuazione e dare maggiori poteri autorità nella gestione dell’emergenza. Nonostante questi sviluppi la scarsa reattività e trasparenza con cui è stata affrontata l'emergenza nucleare, insieme ai ritardi nell'opera di decontaminazione e di ricostruzione delle zone colpite dallo tsunami, hanno indebolito il mito della sicurezza che i governanti avevano saputo garantire in passato. L'accresciuto scetticismo verso la leadership politica si è tradotto in un marcato aumento dell'astensionismo dalla partecipazione politica. Con una legge che abbassa il diritto di voto da 20 a 18 anni ci si aspetta che il numero di elettori torni ad aumentare, tanto più alla luce dell'attivismo studentesco. La crisi ha indotto molti cittadini a interrogarsi sui problemi relativi alla governance nazionale e locale, alla dipendenza dalle fonti di energia nucleare e al ruolo dell'informazione e a considerare il tema delle responsabilità umane nella gestione di un incidente. Essi appaiono inclini ad affidarsi scelte della classe dirigente dirigente e più disposti a elevare il proprio livello di alfabetismo politico, anche attraverso mezzi d'informazione alternativi ai media nazionali. L’11 Marzo ha aperto una nuova stagione di attivismo popolare, caratterizzato una spontanea e informale partecipazione dei singoli individui. In termini continuità temporale, queste dimostrazioni hanno superato qualunque altra forma di protesta avvenuta in passato. Sviluppi e contese internazionali Asō Tarō è stato il primo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca nel Febbraio del 2009, all'indomani dell'insediamento di Barack Obama, ottenendo rassicurazioni sulla solidità della collaborazione nippo-statunitense sul piano economico e della sicurezza. Il programma elettorale che alcuni mesi dopo ha portato alla vittoria il democratico Hatoyama prevedeva invece una maggiore indipendenza È dunque anche nel contenimento della Cina che gli obiettivi del Giappone si saldano con quelli dell'alleato statunitense, orientato ad attuare un riposizionamento strategico verso il Pacifico e l’Asia, e a spostare il focus della propria politica estera verso questa regione. Se è dall'Asia che provengono le maggiori sfide all'egemonia statunitense e allo status quo delineatosi con la fine della guerra fredda, il dinamismo economico asiatico e la crescita del volume degli scambi commerciali transpacifici hanno indotto l'amministrazione Obama ad adottare la strategia del “pivot to Asia”, che identifica la regione dell'Asia e del Pacifico come il fulcro della politica statunitense. Tale strategia individua nell'Asia e nel Pacifico lo spazio in cui estendere ulteriormente gli scambi commerciali con i partner asiatici. Tale politica si è tradotta nella conclusione nel 2015 di un Trattato di libero scambio cui hanno aderito Stati Uniti, Giappone e altri 10 paesi che si affacciano sul Pacifico, con l'obiettivo di favorire gli scambi commerciali tra i paesi membri attraverso l'abolizione delle barriere commerciali, la riduzione delle tariffe doganali e una comune regolamentazione in tema di investimenti, ambiente e lavoro. L’accordo ha un'importanza rilevante, dal momento che i paesi interessati esprimono circa il 40% della produzione mondiale e avrà evidenti riflessi anche sulle economie dei paesi non direttamente coinvolti in esso. mirando contenere l'espansione economica cinese e rappresentando il primo accordo di libero scambio cui aderiscono Giappone e Stati Uniti, il trattato ricopre una notevole importanza nelle relazioni nippo-statunitensi anche in termini geopolitici. Nel 2013 è stata decisa la creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale giapponese ed è stata approvata una legge che introduce pene detentive pirla rivelazioni di segreti di Stato e permette al governo di secretare documenti relativi alla difesa, la diplomazia, le misure di antiterrorismo e di controspionaggio. poco dopo il governo ha allentato i vincoli posti alle esportazioni di armi di tecnologia militare, infrangendo uno dei capisaldi del pacifismo postbellico. Un'altra svolta storica si è avuta nell'aprile del 2015, con l'annuncio di nuove linee guida per la cooperazione alla difesa, in base alle quali il Giappone può collaborare attivamente al di fuori dei confini nazionali. Sono poi state approvate delle leggi che espandono il ruolo delle forze di autodifesa, consentendo il loro intervento all'estero a supporto di forze armate di paesi amici o alleati, anche in assenza di una diretta minaccia per il Giappone. A fronte della minaccia rappresentata dalla Cina in linea con le ambizioni statunitensi nella regione dell’Asia e del Pacifico, il governo di Abe ha dunque ridefinito alcuni elementi chiave della politica estera e di difesa del Giappone, consolidando una rete di intese con l'India, le Filippine e l'Australia. Questi sviluppi alimentano il clima di tensione con i vicini asiatici, che vedono nella politica promossa dal Giappone un fattore che contribuisce alla corsa agli armamenti nella regione ma anche al riarmo dello stesso Giappone. Sui rapporti tra Tokyo e Seoul pesano numerosi problemi, a partire dal l'irrisolta questione delle comfort women, che furono costrette a prostituirsi per le truppe nipponiche nel corso del conflitto. Nel 2007 Abe aveva affermato di ritenere che le prestazioni sessuali di queste donne fossero state volontarie e remunerate. Un altro problema è rappresentato dalla contesa per il gruppo di isolotti Takeshima. L'Asia orientale è caratterizzata da un dinamismo economico, ma è anche pervasa da profonde conflittualità e spinte nazionaliste. Un segnale di distensione si è tuttavia e registrato nel corso del 2015, che ha visto riunirsi ministri degli esteri del Giappone, della Cina e della Corea del Sud dopo tre anni. A dicembre è stato possibile raggiungere un importante accordo tra Tokyo e Seoul, nel quale l'ammissione delle responsabilità nipponiche nel reclutamento forzato delle “donne di conforto” è stata accompagnata dallo stanziamento di un contributo che il Giappone verserà al fondo per le vittime istituito dalla Corea del Sud.
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