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Storia del Giappone contemporaneo - Gatti/Caroli, Dispense di Storia dell'Asia

Riassunto dettagliato (completo di cronologia) del libro "Storia del Giappone contemporaneo" di Francesco Gatti e Rosa Caroli, dal capitolo V al capitolo XI, per l'esame di Storia del Giappone contemporaneo con il prof Del Bene

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 25/05/2024

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Scarica Storia del Giappone contemporaneo - Gatti/Caroli e più Dispense in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Storia del Giappone (Rosa Caroli - Francesco Gatti) Capitolo quinto. L’ingresso del Giappone nel sistema internazionale, la nascita dello Stato nazionale e la transizione al capitalismo 1. Nell’ultima parte del periodo Edo La crisi della società feudale e i prodromi dello Stato nazionale Nell’ultima parte del periodo Edo il malessere nelle zone rurali si manifestava con crescente ricorrenza, raggiungendo punte estreme nel corso dell’era Tenpō (1830-1844), tuttavia, il disagio e l’insoddisfazione non produssero quella unitarietà necessaria a trasformare la protesta in un’istanza più propriamente politica che vedesse le masse compartecipare al sovvertimento del sistema di governo o dell’assetto economico e sociale. La presenza degli occidentali in Asia Orientale appariva ben diversa rispetto all’esperienza verificatasi nel Cinquecento. Gli studi occidentali, cominciarono a trovare un’applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato nel 1792 dalla Russia di stabilire rapporti commerciali tale richiesta aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Ezo (Hokkaidō), dov’erano giunti i rappresentanti russi, e a stabilirvi un proprio commissario. Il rangakusha Hayashi Shihei (1738-1793) aveva già denunciato il pericolo russo così come l’inefficacia delle misure difensive predisposte dal bakufu, incorrendo nella disapprovazione delle autorità. Anche Honda Toshiaki (1743-1820), che fu tra i primi grandi conoscitori dell'Occidente, affrontò il problema della vulnerabilità delle frontiere di fronte alla minaccia esterna ricercando la soluzione nella costruzione di una solida flotta. La generazione successiva dei fautori dell’adozione della scienza e della tecnologia occidentali per scopi difensivi, tra cui Takashima Shūhan (1798-1866) e Sakuma Shōzan (1811-1864), ebbe modo di rendersi conto del reale pericolo che minacciava il proprio Paese grazie alle notizie che giungevano dalla Cina, costretta ad accettare le umilianti condizioni che seguirono la sconfitta inferta nella Guerra dell’oppio. Occorre ricordare l’opera svolta da Aizawa Seishisai (1782-1863), uno dei maggiori esponenti della scuola di Mito, la quale concorse ad alimentare lo sviluppo dell’ideologia nazionalista e del movimento antifeudale. Nella sua opera Shinron (Nuove tesi, 1825), che prese a circolare clandestinamente, egli formulò la teoria del «sistema nazionale» (kokutai) esaltando la figura e il ruolo del sovrano imperiale, condannando le perniciose dottrine straniere dell’Occidente, come una spinta per un rinnovamento morale che il Giappone avrebbe dovuto compiere per forgiare una solida identità nazionale. In queste idee emerge la portata ideologica e politica del messaggio di Aizawa, il quale sarebbe stato accolto dal movimento xenofobo noto come jōi (cioè «espulsione dei barbari» occidentali) affermatosi all’indomani della «riapertura» del Paese nel 1854 assieme al movimento lealista rappresentato dallo slogan sonnō (venerazione dell’Imperatore). La riflessione dei kokugakusha ha contribuito alla rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno. Negli ultimi anni del regime Tokugawa (cui gli storici giapponesi si riferiscono come periodo bakumatsu, o «fine del bakufu»), esistevano tensioni profonde nella società giapponese. Il senso di crisi generato dall’atteggiamento che l’Occidente andava assumendo in Asia Orientale si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte alla palese incapacità dimostrata dal bakufu di attuare un’efficace politica di risanamento economico. Ciò ebbe l’effetto di indurre le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale, dando vita a esperimenti riformistici volti a sanare le finanze dei propri domìni. I tentativi più significativi si ebbero a Chōshū e a Satsuma. Chōshū attuò un programma teso in primo luogo a migliorare l’assetto agricolo e a ridurre drasticamente le spese, Satsuma puntò soprattutto sull’attività mercantile. Occorreva trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, creando una nuova forma di potere capace di garantire la sicurezza territoriale, di gestire l’amministrazione e le risorse umane e materiali del Paese, e di dotare le masse di una solida coscienza nazionale e di un’ideologia nazionalista in grado di assicurare il loro appoggio e consenso agli imperativi dello Stato. La contestazione del primato culturale cinese aveva stimolato il processo di emancipazione dell’identità e del ruolo del Giappone e l’aspirazione a garantirsi una posizione meno marginale. Yoshida Shōin (1830-1859), samurai di Chōshū, è autore di un celebre brano in cui afferma che se il Paese non si espande declina. Per salvaguardare il Paese non basta mantenere le posizioni che esso ha, ma occorre conquistarne di nuove. 2. La ‘riapertura’ del Giappone, l’ingresso nel sistema internazionale e il crollo del feudalesimo Il tentativo russo di stabilire rapporti commerciali con il Giappone nel 1792 fu rinnovato nel 1804, ottenendo l’ennesimo rifiuto del bakufu. Pur senza riuscire a impedire del tutto le incursioni lungo le coste giapponesi, la pressione russa si allentò allorché il Paese fu invaso dalle truppe napoleoniche (1812) e ritrovò vigore solo dopo la fine della guerra di Crimea (1854-1856). Le navi britanniche presero a comparire all’orizzonte del Giappone agli inizi dell’Ottocento, e indussero il governo di Edo a riaffermare, nel 1825, la politica del sakoku. L’attenzione britannica fu distolta dal Giappone per rivolgersi alla Cina, che per decenni aveva continuato a respingere le richieste di Londra finalizzate a stabilire un libero commercio. Di fronte all’atteggiamento intransigente di Pechino, la East India Company aveva dato vita a un sistema di vendita illegale di oppio in Cina, ciò contribuì a sovvertire l’equilibrio della bilancia commerciale, dato che l’acquisto di questa merce non era più compensato dalla vendita di prodotti cinesi ma da pagamenti in argento. L’introduzione dell’oppio in Cina procurò effetti deleteri sul piano sociale, e ciò indusse il governo di Pechino a inviare a Canton un commissario speciale che, nel 1839, diede ordine di bruciare circa 1300 tonnellate di oppio sequestrato, scatenando la reazione britannica. Ebbe così inizio la Prima guerra dell’oppio (1839-1842), al termine della quale la Cina fu costretta a sottoscrivere il primo di una serie di trattati che l’avrebbero sottoposta a un meccanismo di controllo economico e territoriale da parte delle Potenze occidentali. Le notizie che giungevano dalla Cina indussero il bakufu a consentire almeno l’approvvigionamento delle navi straniere che fossero approdate nei porti giapponesi. Nel 1852, dall’Olanda giunse la notizia dell’imminente arrivo di una missione statunitense decisa a rompere l’isolamento del Giappone. Il presidente Millard Fillmore affidò al commodoro Matthew C. Perry l’incarico di presentare al Giappone la richiesta di stabilire relazioni pacifiche, garantire basi di rifornimento e soccorso alle navi e agli equipaggi statunitensi che intraprendevano la lunga traversata verso la Cina e, se possibile, concludere un accordo commerciale. Così, nell’estate del 1853, nella baia di Edo entrarono le quattro navi da guerra che componevano la missione guidata da Perry, il quale consegnò il messaggio presidenziale con un tono piuttosto perentorio. Le richieste statunitensi posero il bakufu di fronte all’urgenza di una radicale modifica dei rapporti con il mondo esterno. Il Meiji si riferisce al nome dell’era quando, nel 1868, fu decretato che il neng ō avrebbe coinciso con il periodo di regno del sovrano. Il giovane Mutsuhito divenne così l’Imperatore Meiji e, sotto il suo «governo illuminato», prese avvio l’edificazione dello Stato moderno fondata sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica delle istituzioni economico-sociali. Più che segnare un «ritorno al passato» (fukko), il ripristino del ruolo e delle prerogative imperiali coincise quindi con l’avvio di un’opera di rinnovamento (ishin) per vari aspetti radicale, alla quale gli storici giapponesi si riferiscono con l’espressione Meiji ishin, in genere tradotta come Restaurazione Meiji. La borghesia mercantile e rurale fu protagonista di uno sviluppo dell’economia protocapitalista che minò dall’interno l’assetto feudale, ma il ruolo principale nel rovesciamento del regime dei Tokugawa fu svolto da membri dell’élite militare locale i quali per buona parte avrebbero costituito la classe dirigente Meiji, che assunse le sembianze di una consapevole classe dirigente ‘nazionale’ decisa a gestire il processo di ammodernamento e di industrializzazione del Paese. Le trasformazioni introdotte dopo il 1868 presentano senza dubbio numerosi aspetti rivoluzionari, tuttavia appare opportuno parlare di una «rivoluzione dall’alto» che poté governare il processo di transizione capitalistica. Una serie di caratteristiche restarono inalterate, essendo possibile rintracciare una linea di continuità tra il periodo precedente e quello successivo al 1868, che riguarda in primo luogo la gestione del potere. «Ricco il Paese e forte l’esercito» (fukoku kyōhei), fu la parola d’ordine in nome della quale vennero avviate le Riforme Meiji, a cominciare dalla confisca del potere locale dei daimyō effettuata nel 1871. Il provvedimento fu preceduto da un atto di spontanea rinuncia compiuto dai capi dei quattro principali feudi i quali nel 1869 restituirono all’Imperatore i registri fondiari dei propri domìni (hanseki hōkan). L’esempio di Satsuma, Chōshū, Tosa e Hizen fu emulato da altri daimyō, creando una base di consenso sufficiente. Il cauto atteggiamento del governo fu motivato dal fatto che, all’epoca, esso disponeva di una esigua forza militare. Circa due anni dopo fu preparata da una serie di mosse volte ad assicurare l’assenso dei più importanti ex daimyō. Con un decreto imperiale promulgato nell’agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all’istituzione di un sistema provinciale (haihan chiken); il territorio, infatti, fu riorganizzato in province (ken), a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani (fu) in modo da sottoporre l’amministrazione locale al controllo del governo di Tōkyō. La creazione di uffici amministrativi locali fornì opportunità di impiego a membri della classe samuraica e ai capi villaggio, mentre l’istituzione di assemblee ai diversi livelli locali (dalle province sino ai villaggi) sembrò rappresentare una opportunità per partecipare alla vita politica del Paese, sebbene a tali sedi non fosse riconosciuto alcun potere decisionale. Il passo finale verso il superamento dell’autonomia locale fu compiuto con l’istituzione del ministero degli Interni nel 1873, la cui guida fu assunta da Ōkubo Toshimichi. Nel marzo del 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli (Gokajō no seimon), che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all’esempio dell’Occidente. L’Imperatore si impegnava a promulgare una Costituzione, l’unità di tutte le classi per promuovere il benessere del Paese, l’istituzione di un’assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l’adozione delle norme giuridiche internazionali e la promozione della conoscenza all’estero allo scopo di rafforzare le basi dell’Impero. Il contenuto del Giuramento fu incorporato nell’articolo 1 del Documento sulla forma di governo (Seitaisho) emanato pochi mesi dopo, il quale rappresenta il primo esperimento di stesura di una Costituzione nazionale. Il Seitaisho assegnava i pieni poteri di governo al Dajōkan, il Gran consiglio di Stato. Esso fu articolato in sette sezioni, assumendo in tal modo i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il l Seitaisho non mancò di ribadire la priorità del rango e dell’ereditarietà come criteri per procedere alla nomina agli uffici. La Costituzione del 1868 sarebbe durata sino al 1885, quando venne sostituita con il sistema di Gabinetto. Una significativa revisione si ebbe già nel 1869 quando il Dajōkan divenne l’unico e supremo organo esecutivo e fu affiancato dall’ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all’esecuzione dei riti e ritenuto come il più alto organo dello Stato. Il Dajōkan, guidato dal ministro della Sinistra (Sadaijin) e da quello della Destra (Udaijin), era composto dai membri del Consiglio consultivo (Sangi). L’Assemblea deliberativa assunse un ruolo secondario per poi essere dissolta, dimostrando l’intento di allontanare dal governo le figure secondarie. Verso il 1871, il potere del governo sembrò sufficientemente solido per procedere nell’opera riformista anche quando essa rischiava di incontrare forti resistenze. Fu abrogato l’obbligo occupazionale vincolato alla classe di appartenenza e ai singoli individui fu concessa la libertà di scegliere il proprio impiego. I cortigiani e gli ex daimyō vennero nominati membri dell’aristocrazia (kazoku) e si procedette al superamento del sistema mibun facendo confluire i contadini, gli artigiani e i mercanti nella categoria di heimin (popolazione comune), cui furono associati anche eta e hinin. Sempre in questa categoria l’anno seguente furono pure inseriti i samurai di basso rango, cui inizialmente era stato concesso il privilegio della qualifica di soldati (sotsu). A tutti gli heimin fu concessa la libertà di movimento, assieme alla possibilità di assumere un cognome, di contrarre matrimoni con individui di status diverso e di acquistare o cedere la terra. A partire dal 1873 furono introdotte la coscrizione obbligatoria e la libertà occupazionale. Ideata dal generale Yamagata Aritomo, la coscrizione obbligatoria prevedeva l’obbligo di prestare tre anni di servizio attivo e quattro come riservisti a tutti i maschi che avessero compiuto venti anni, a prescindere dalla loro provenienza sociale. Essa, scardinò l’assetto che aveva assicurato alla classe samuraica il diritto esclusivo del potere militare, gettando le basi per la creazione di un moderno esercito regolare. Al provvedimento si opposero non solo i samurai, privati delle loro prerogative, ma anche i contadini. Si registrarono numerose e violente rivolte. La condizione del Giappone nel primo Meiji era caratterizzata da una penuria di capitale disponibile. La rapida industrializzazione necessaria a rafforzare le basi dell’economia nazionale e a rendere il Giappone competitivo con le Potenze occidentali poté essere compiuta a condizione che lo Stato stesso assumesse il ruolo di ‘investitore’. Per garantirsi stabili e consistenti fonti di entrata, il governo guardò in primo luogo all'agricoltura: l'imposta fondiaria fu mossa più da motivazioni di carattere economico che di ordine sociale. Nel settembre del 1871, il Dajōkan si riunì per discutere in merito a una nuova legislazione fiscale unificata a livello nazionale. Furono impiegati i migliori talenti di cui l’oligarchia Meiji disponeva. Si discusse della necessità di abolire il divieto di compravendita della terra, premessa essenziale per trasformarla in una proprietà privata soggetta a tassazione. L’anno successivo si procedette alla verifica del possesso della terra e al rilascio dei titoli di proprietà (chiken) a coloro che, nel periodo di Edo, erano stati responsabili del pagamento delle tasse di un determinato appezzamento. Nel luglio del 1873 fu varata l’Ordinanza di revisione dell’imposta fondiaria (Chiso kaisei jōrei), la quale rispondeva all’esigenza di creare un sistema di tassazione che fosse facile da esigere e difficile da evadere. La riforma segnò una radicale modifica del sistema vigente nel periodo Tokugawa. L’importo della tassa fu ora valutato secondo il valore della terra e fissato al 3% del suo prezzo legale. Non era più il villaggio, ma il singolo proprietario a essere responsabile del pagamento. Altra novità di rilievo fu poi il passaggio da una tassazione in natura a un’imposta in denaro. Non tenere conto delle fluttuazioni del raccolto ed esigere una tassa in denaro, rese assai precaria la posizione dei piccoli proprietari che passarono da una condizione di relativa autosufficienza a indebitarsi fino a cedere i propri appezzamenti. Ciò comportò un netto aumento della concentrazione di terre nelle mani di ricchi proprietari terrieri e una forte crescita di contadini spodestati. All’epoca della riforma fondiaria l’industria non era ancora sviluppata al punto da poter assorbire questa manodopera in eccesso. La riforma fiscale poté stabilizzare le entrate per il governo centrale: essendo il Giappone un Paese essenzialmente agricolo, i proventi dell’imposta fondiaria costituirono la voce principale del bilancio statale (l'80% delle entrate complessive). Il gettito proveniente dall’imposta fondiaria contribuì a finanziare i costi della modernizzazione. Gli investimenti statali si concentrarono in primo luogo nella costruzione di efficienti infrastrutture e nella creazione di alcune industrie di base. Fu avviata la costruzione di una moderna rete di trasporti e le 18 miglia della prima ferrovia Tōkyō-Yokohama inaugurata nel 1872, passarono a 76 nel 1880. Le maggiori città erano collegate da una rete telegrafica e un moderno sistema postale. Gli investimenti negli armamenti navali crebbero, contribuendo a gettare le basi del primo grande successo che la flotta giapponese avrebbe conseguito nello scontro con la Cina nel 1894-1895. L’intervento statale nel settore industriale fu orientato a creare fabbriche modello, in modo da introdurre la tecnologia occidentale e favorire l’iniziativa privata, specie per quanto riguarda le costruzioni navali, il settore tessile (lanifici, setifici e cotonifici) e quello edile (cementifici, fabbriche di mattoni, vetrerie). Si cercò di stimolare la crescita di una classe imprenditoriale garantendo sussidi e condizioni assai favorevoli ai privati. Lo Stato acquisì dall’estero la tecnologia necessaria, impiegando peraltro un gran numero di esperti e consiglieri stranieri (oyatoi gaikokujin) chiamati a trasmettere le loro conoscenze ai giapponesi. Il Giappone Meiji organizzò anche varie missioni in Europa e negli Stati Uniti. La Missione "Iwakura", che partì nel 1871 e che fece ritorno nel settembre del 1873, rappresenta lo sforzo più imponente compiuto in tal senso. Essa fu guidata dall’illustre Iwakura Tomomi e vide la partecipazione di altri importanti uomini di governo, tra cui Kido Kōin, Ōkubo Toshimichi e Itō Hirobumi. Organizzata allo scopo di revisionare i «trattati ineguali» e di acquisire una conoscenza diretta dell’Occidente, nonostante modifica dei Trattati non avvenne, i membri della Missione Iwakura poterono attingere conoscenze dirette in vari campi, dalla scienza e dall’economia sino alle istituzioni politiche e alla cultura, producendo nel corso del viaggio o al loro rientro una gran quantità di scritti che costituirono un essenziale strumento di conoscenza dell’Occidente. Aprirsi all’Occidente significò aprirsi a nuove possibilità che avrebbero consentito al Paese di rafforzarsi e resistere alla pressione esterna. L’occidentalizzazione del Giappone Meiji deve essere considerata alla luce del fatto che essa fu uno strumento per realizzare il fukoku kyōhei. 4. Gli sviluppi nella politica interna ed estera negli anni Settanta e Ottanta I capi Meiji non sempre furono concordi in merito al percorso da seguire. Queste tensioni coinvolsero in modo diretto anche il governo quando alcuni suoi influenti membri, come Saigō Takamori e Itagaki Taisuke, si convinsero dell’opportunità di dare una dimostrazione di forza alla Corea. Saigō si disse disposto persino a recarsi in Corea per essere ucciso in modo da avere un pretesto per aprire le ostilità, ma al ritorno dei membri della Missione Iwakura, il dibattito sull’invasione della Corea (seikanron) assunse i toni di un vero e proprio scontro, dato che visitando l’Occidente essi si erano persuasi che fosse necessario dare la priorità al rafforzamento interno piuttosto che all’aggressione esterna. Lo scontro giunse a resero conto dei rischi che comportava la diffusione di alcune concezioni, come la libertà e l’individualismo; essi, pertanto, preferirono limitare la validità del modello occidentale al suo «sapere» (yōsai), difendendo invece lo «spirito giapponese» (wakon). Queste scelte furono ufficializzate nella Costituzione Meiji, che riconobbe giuridicamente i giapponesi come «sudditi» (shinmin) di un sovrano divino «discendente dal Cielo». Rifiutata ogni possibilità di accogliere la visione laica dello Stato, esso continuò a essere concepito in termini confuciani. Trasformato ormai in una vera e propria ideologia di Stato, lo Shintoismo svolse un ruolo primario nella costruzione dell’identità nazionale nella misura in cui esso si rivolgeva al popolo giapponese nella sua totalità e nella sua specificità. Già nel 1885 Fukuzawa Yukichi premette affinché il Giappone si staccasse dall’Asia, reputata arretrata e barbara, e si unisse all’Occidente. L’appello di Fukuzawa, che individuava nel legame con l’Asia un forte limite alla realizzazione del bunmei kaika, risuonò come una denuncia in un clima favorevole all’idea che il Giappone dovesse assumere un ruolo di guida per «civilizzare» le società dell’Asia Orientale. Egli pareva aver accolto appieno quel darwinismo sociale che concepiva il dominio dei popoli più progrediti su quelli arretrati come un fenomeno del tutto naturale. L’intervento del celebre intellettuale era orientato al progetto di costruzione di un Impero coloniale, anticipando di fatto le scelte che il Giappone avrebbe compiuto nel decennio successivo quando, con la sconfitta della Cina e l’annessione di Taiwan (1895), entrò a pieno titolo nella competizione imperialista. Fukuzawa toccò anche un’altra questione che profilava aspetti inconciliabili con un progetto imperialista: la supremazia nipponica sarebbe stata imposta anche attraverso una politica di assimilazione (dōka), che si fondava sul presupposto secondo cui tutti i popoli dell’Asia Orientale condividessero la «medesima cultura e medesima razza» (dōbun dōshū). Nelle zone colonizzate sarebbero state adottate misure d’indottrinamento all’ideologia imperiale (kōminka) finalizzate a vincere le resistenze locali. La reazione che fece seguito alla fase di relativa apertura alle idee e alle concezioni occidentali portò a una riaffermazione dei valori tradizionali. La figura del tennō, evocata pochi decenni prima per vincere le resistenze dei daimyō, aveva ormai assunto la posizione di autorità suprema e sacra, e la «ininterrotta dinastia imperiale» rappresentava l’asse attorno al quale si reggeva lo Stato unificato. Queste tendenze furono espresse compiutamente nel Rescritto imperiale sull’educazione (Kyōiku chokugo), promulgato nel 1890 e distribuito in tutte le scuole del Giappone assieme al ritratto del sovrano. Il Rescritto individuava i valori supremi cui i giovani dovevano ispirarsi nella lealtà all’Imperatore e nel patriottismo. Anche l’educazione veniva posta al servizio dello Stato e la scuola trasformata in un luogo di indottrinamento politico capace di garantire la stabilità e l’armonia sociale. Il Giappone si apprestò a portare a compimento gli obiettivi fissati nel fukoku kyōhei. Capitolo sesto. Nazionalismo e prima espansione 1. La revisione dei «trattati ineguali» e l’inizio dell’espansione coloniale Nel biennio 1889-90 il superamento del feudalesimo può dirsi definitivamente avvenuto e il Giappone diviene uno Stato moderno. Il processo di formazione e sviluppo degli zaibatsu, la forma giapponese dei monopoli capitalistici, ebbe luogo a partire dalla cessione a privati delle imprese statali non strategiche, che fu gestita tra il 1881 e il 1885 dall’allora ministro delle Finanze Matsukata Masayoshi (1835-1924). I cosiddetti «mercanti politicamente protetti» divennero al tempo stesso possessori di capitale commerciale e finanziario e di capitale industriale di nuova acquisizione. Tra gli altri interventi di natura economica adottati sotto Matsukata va ricordata la politica deflazionistica finalizzata a porre rimedio alla drastica inflazione determinatasi con il vertiginoso aumento di carta-moneta cui il governo era stato costretto a ricorrere per coprire le spese dell’intervento militare contro Satsuma e della conversione degli stipendi dei samurai. Matsukata provvide a riorganizzare il sistema bancario istituendo la Banca del Giappone e creando le basi per un sano sistema di bilancio del governo. Il successo delle sue riforme portò, nel 1886, alla fine della deflazione. Il Giappone andava aumentando l’esportazione di seta e di filati di cotone, che costituirono i due settori industriali trainanti dell’economia nazionale e sostennero il maggior peso dell’equilibrio della bilancia commerciale. L’ideologia del blocco di potere dominante si fondava sulla sacralità dell’Imperatore e alcuni valori confuciani, la società giapponese era formata da sudditi (e non cittadini) fedeli, pronti ad ogni sacrificio per difendere il kokutai (sistema nazionale) «immutabile e senza pari» che presidia il «Paese degli dèi». N ella sua qualità di Primo ministro, Yamagata Aritomo durante la prima sessione parlamentare (1890) sostenne l’esigenza di distinguere tra «sfera della sovranità» del Giappone, costituita dal territorio nazionale, e «sfera di interesse nazionale», comprendente la penisola coreana in quanto parte dell’area di protezione strategica del Paese. La crescita accelerata dell’economia giapponese fu resa possibile dalla contrazione dei consumi interni, collegata a sua volta ai bassi salari operai e all’alta imposizione fiscale sulle rendite fondiarie. Il capitale finanziario, nella forma zaibatsu, era relativamente debole rispetto ai concorrenti internazionali. Il capitalismo giapponese fu «un capitalismo senza capitali». La scarsità di fondi avrebbe posto l’imperialismo giapponese in una situazione di fragilità rispetto agli imperialismi occidentali. La politica espansionista fu avviata con la guerra contro l’Impero cinese (luglio 1894-aprile 1895). La vittoria riportata dal Giappone ebbe risonanza tra i nazionalisti asiatici, che iniziarono a considerare il Giappone un esempio da seguire per liberare i loro Paesi dalla dominazione coloniale. In realtà, essi non colsero la natura potenzialmente imperialista del regime giapponese e del conflitto nippo-cinese. Il Giappone aveva lottato contro l’Impero cinese con l’unico obiettivo di sostituire l’influenza cinese in Corea, considerata «ponte ideale» verso i mercati continentali per l’intero blocco di potere. Lo status internazionale del Giappone non fu pienamente riconosciuto dalle grandi Potenze. La guerra nippo-cinese si concluse con il Trattato di Shimonoseki che previde pesanti clausole per Pechino: riconoscimento dell’indipendenza della Corea; apertura di quattro ulteriori porti cinesi al commercio giapponese; riconoscimento al Giappone dello status di «nazione più favorita»; cessione di Taiwan (Formosa), delle isole Pescadores e della penisola del LiaodongeI; il versamento di un risarcimento bellico. Il tentativo giapponese di annettere il Liaodong fu contrastato dal cosiddetto «Triplice intervento» nel 1895: Russia, Francia e Germania imposero al Giappone la restituzione della penisola con il pretesto che la cessione avrebbe danneggiato la Cina e messo in pericolo l’indipendenza della Corea. Il governo giapponese fu costretto a cedere alla pressione internazionale e, in cambio del Liaodong, ottenne un aumento dell’indennità di guerra. Pechino fu costretta a ricorrere a un prestito internazionale pari a circa il doppio di quanto dovuto al Giappone. Il governo giapponese, con l’espansione delle sue riserve di metallo prezioso, fu in grado di adottare, nel 1897, il gold standard, con grandi vantaggi per le esportazioni e, in generale, per l’economia. Alla svolta del secolo, la Cina fu percorsa dalla rivolta dei Boxers; il movimento, con una forte connotazione xenofoba, investì ampie regioni dell’Impero. La Corte cinese, divisa al suo interno sulla scelta politica se reprimere o appoggiare i Boxers, ormai indebolita e vicina al collasso, non intervenne e la difesa delle Legazioni ebbe momenti drammatici. La repressione della rivolta avvenne su iniziativa delle Potenze occidentali, le quali inviarono in Cina un contingente militare. Nell’estate del 1900, il Giappone partecipò alla spedizione che riuscì a soffocare la rivolta e a liberare il quartiere delle Legazioni. La partecipazione del Giappone alla spedizione militare internazionale valse a Tōkyō il definitivo riconoscimento da parte degli Stati occidentali. 2. La vittoria contro la Russia La Russia non aveva partecipato alla liberazione di Pechino, ma aveva insediato consistenti contingenti militari in Manciuria che furono ritirati solo in parte. Per Londra divenne indispensabile proteggere dalla minaccia russa l’India e Tōkyō considerò l’azione dell’Impero zarista in Manciuria una minaccia ai propri interessi in Corea. Pertanto, i governi britannico e giapponese firmarono, in funzione antirussa, un Trattato di alleanza che entrò in vigore il 30 gennaio 1902. La stipula del trattato costituì un grande successo diplomatico e politico per il Giappone, parificando il Giappone alle maggiori Potenze. All’interno del blocco di potere dominante erano presenti due teorie espansioniste che non erano praticabili simultaneamente: una sosteneva la necessità di conquiste territoriali sul continente asiatico; l'altra, propendeva per l’espansione verso i «mari del Sud», con la conquista degli arcipelaghi del Pacifico e dell’Australia. Agli inizi del Novecento, due fattori orientarono la politica espansionista verso le conquiste sul continente: l’esigenza di contenere la penetrazione russa in Asia Orientale e la vittoria statunitense nella guerra ispanoamericana (1899-1900) con la conseguente conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti. Il nemico principale e più facilmente attaccabile dal Giappone era l’Impero zarista. Il 10 febbraio 1904, due giorni dopo l’attacco giapponese alle postazioni russe nella penisola del Liaodong, Tōky ō dichiarò guerra all’Impero zarista. Le forze di terra conquistarono Port Arthur dopo un lungo assedio, ma la vittoria che più sollecitò l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale fu quella ottenuta nella battaglia navale di Tsushima, che rivelò l’importanza fondamentale dell'alleanza con la Gran Bretagna. Lo Zar Nicola II inviò la flotta del Baltico. Tuttavia, la Gran Bretagna, che controllava il Mediterraneo attraverso Gibilterra e il canale di Suez, tenendo fede al trattato con il Giappone, impedì l’accesso alla squadra navale russa, la quale fu perciò costretta a circumnavigare l’Africa. Giunta nelle acque di Tsushima gravemente inefficiente a causa della lunga navigazione, fu con facilità sconfitta dalla formazione dell’ammiraglio Tōgō Heihachirō (1848-1934). Lo sforzo finanziario e militare imposto dalla guerra indusse il governo giapponese ad accelerare la fine delle ostilità. La pace, vista con favore dalle altre Potenze, fu siglata, con la mediazione statunitense, a Portsmouth il 5 settembre 1905. Il trattato previde il riconoscimento degli interessi militari, politici ed economici del Giappone in Corea, che sarebbe stata annessa nel 1910; il trasferimento al Giappone della ferrovia sud-manciuriana; la cessione al Giappone della metà meridionale dell’isola di Sakhalin. La richiesta giapponese di ricevere un risarcimento bellico fu invece respinta. L’esito della guerra ebbe grande risonanza internazionale, ma sul fronte interno i termini della pace furono giudicati insoddisfacenti dal movimento nazionalista che assunse il concetto di razza giapponese come efficace elemento di identificazione in una società che doveva essere «armoniosa», senza conflitti, così come postulava il Neoconfucianesimo. La frustrazione nazionalistica e la insoddisfazione per i termini del Trattato di pace con la Russia diede luogo alla rivolta di Hibiya (un parco della capitale), nel corso della quale i manifestanti, sfuggiti al controllo degli organizzatori, incendiarono vari edifici pubblici. La rivolta fu sedata dall’Esercito dopo due giorni di aspri scontri, mentre la legge marziale, I trasporti marittimi, la cantieristica e l’intero settore dell’industria pesante, trassero grande giovamento dalla guerra. L’incremento del tonnellaggio navale avrebbe consentito al Giappone, negli anni successivi alla guerra, la completa indipendenza dagli armatori stranieri e la possibilità di aumentare il proprio capitale finanziario, costituito anche dai noli. La prima guerra mondiale introdusse profonde modificazioni nella struttura dell’economia giapponese che riuscì a ridurre il divario dalle economie dei Paesi più industrializzati. 2. Mutamenti sociali e antagonismi Si espanse il settore terziario e il numero degli uomini addetti nell’industria superò per la prima volta nella storia del Giappone quello delle donne. Il proletariato maschile mostrò nel complesso una minore subordinazione ai valori sociali non conflittuali rispetto alle lavoratrici. Queste ultime tendevano a evitare antagonismi con i datori di lavoro. In conseguenza delle trasformazioni economiche e sociali verificatesi durante il conflitto, tutta la società risultò profondamente mutata. Di particolare rilievo fu il fenomeno della migrazione dalle campagne nei centri urbani minori e nelle grandi città. Nel periodo 1913 - 1920, le sei maggiori città (Tōkyō, Yokohama, Nagoya, Kōbe, Ōsaka e Kyōto) quasi raddoppiarono la popolazione Con la crescita del settore terziario si consolidò la media borghesia urbana. Nonostante i profondi mutamenti, i partiti non riuscirono a divenire organizzazioni politiche in grado di cogliere le aspirazioni delle classi e dei ceti sociali. Sulla loro piena legittimazione pesarono vari fattori. Polizia e magistratura perseguirono ripetutamente i raggruppamenti che si ispiravano al socialismo. Tra i molti interventi, ricordiamo lo scioglimento del Nihon heimintō (Partito proletario giapponese) nel 1901, della Heiminsha (Associazione proletaria) nel 1903, per giungere alla persecuzione contro il Rōdō nōmintō (Partito degli operai e dei contadini) nel 1928. Le difficoltà economiche delle masse sfociarono in una protesta inaspettata dal blocco di potere dominante. Nell’estate del 1918 si verificarono i kome sōdō (moti del riso), una rivolta originata dalla brusca impennata del costo al dettaglio per il riso, imposto dalle società commerciali degli zaibatsu. Alla base della protesta stavano la costante contrazione dei salari reali dei lavoratori industriali e le condizioni di pura sussistenza di grandi masse di coltivatori, impoveriti da affitti pari alla metà circa del raccolto. La rivolta fu inizialmente appoggiata dai quotidiani a diffusione nazionale, tuttavia, ben presto gli interventi censori del governo impedirono la diffusione delle notizie relative ai moti che si protrassero per oltre due mesi nonostante le misure poliziesche messe in atto e la partecipazione dell’Esercito alla repressione. 3. Dai governi trascendenti ai «governi di partito» La dura repressione dei «moti del riso» provocò la fine politica del Primo ministro, il generale Terauchi Masatake, che fu sostituito da Hara Takashi il 20 settembre 1918. La nomina alla carica di Primo ministro di Hara fu patrocinata dai due genrō Yamagata Aritomo e Saionji Kinmochi e seguì la prassi consolidata che non prevedeva alcuna indicazione del Parlamento. Tuttavia Hara fu il primo «uomo di partito» non appartenente né all’oligarchia che aveva diretto la trasformazione capitalistica né alla ristretta cerchia dei suoi delfini ad essere chiamato a ricoprire la carica di Primo ministro. La sua nomina fu decisa sulla base del fatto che egli era a capo del partito di maggioranza alla Camera bassa. Il governo non era più sotto il controllo dell’oligarchia, ma al suo interno la presenza di una consistente componente di funzionari civili e militari era in grado di indirizzarne le scelte in senso fortemente conservatore. Hara aveva convinzioni politiche ispirate all’ideologia dominante e dimostrò miopia politica in quanto non assecondò le aspirazioni dei ceti medi urbani attratti dalla richiesta di riforma della Costituzione e di introduzione del suffragio universale. La sua scelta contribuì al mantenimento dei partiti politici in una posizione subalterna all’interno del blocco di potere dominante. Appare riduttivo indicare l’era Taishō (1912-26) con il termine di «democrazia Taishō». Si registrò un declino del blocco di potere dominante (quali i genrō, gli alti comandi militari e il Consiglio Privato) a favore dei partiti politici presenti nella Camera bassa. Furono gli anni in cui gli ideali di pensatori liberali quali Yoshino Sakuzō (1878-1933) e Minobe Tatsukichi (1873-1948) influenzarono soprattutto i ceti urbani, richiamando l’esigenza di riforme liberali. I partiti non furono in grado di raccogliere le sollecitazioni di questi e altri intellettuali e lo stesso Hara Takashi mostrò la propria avversione ad ampliare i margini di democrazia. Hara stesso fu vittima di un nazionalista che lo assassinò nel 1921, in quanto la propaganda lo aveva indicato come il responsabile del mancato successo della diplomazia giapponese alla Conferenza di pace di Versailles. Alla sua morte, dopo il governo di Takahashi Korekiyo (1854-1936) del Seiyūkai, divennero Primi ministri due ammiragli, Katō Tomosaburō (1861-1923) e Yamamoto Gonnohyōe (1852-1933), e l’ex presidente del Consiglio Privato Kiyoura Keigo (1850-1942). Solo con la nomina a Primo ministro di Katō Takaaki (1860-1926) si aprì la breve stagione dei «governi di partito», compresa tra il 1924 e il 1932. 4. Contrapposizioni al blocco di potere La prima forma di associazione di lavoratori fu opera di Suzuki Bunji che nel 1912 aveva fondato la Yūaikai (Associazione della fratellanza). La Yūaikai aveva trovato molti ostacoli al suo sviluppo, dovuti sia alla legislazione restrittiva delle libertà politiche, sia alla cultura sociale di molti lavoratori, impregnati dell’ideologia della «armonia sociale». Suzuki fondò il primo sindacato giapponese, la Nihon rōdō sōdōmei-Yūaikai (Federazione generale del lavoro del Giappone, Associazione della fratellanza) più nota come Sōdōmei. La Sōdōmei unificò le preesistenti società di mutuo soccorso e inglobò le prime forme di organizzazioni sindacali. L’organizzazione sindacale rivendicò migliori condizioni di vita per i lavoratori. Obiettivi primari furono: la previdenza sociale, abolire il lavoro notturno e quello minorile, prevenire la disoccupazione, avviare il restauro dei fatiscenti quartieri operai, l’introduzione del suffragio universale, la democratizzazione dell’educazione e la revisione della restrittiva Legge di polizia per l’ordine pubblico. La Sōdōmei riuscì a organizzare soltanto una ristretta minoranza di lavoratori e un numero limitato di lotte perché il sindacato, nato debole, ebbe ridotte prospettive di crescita. Un gruppo sparuto di intellettuali aveva tentato di fondare un Partito socialdemocratico (1900), un Partito proletario (1901) e un Partito socialista (1906) ma aveva conosciuto i rigori della repressione della polizia. L’attività di coloro che criticavano il regime esistente doveva limitarsi alla creazione di associazioni culturali, ogni analisi della società e del sistema di potere giapponese poteva svolgersi soltanto nel chiuso delle sedi delle associazioni. Oltre alla poca coscienza di classe del proletariato, all’arretratezza politico-culturale dei ceti rurali subalterni e alla repressione dello Stato, la riflessione sul tennōsei (sistema imperiale) fu permeata di ideologismo e di personalismi. I ceti rurali subalterni (affittuari, proprietari-affittuari e piccoli proprietari), ancora impregnati di cultura sociale confuciana e in gran parte succubi dei grandi proprietari. Erano alieni da qualsivoglia azione rivoluzionaria. Né la piccola borghesia giapponese mostrava alcun segno di pulsioni rivoluzionarie. L’orizzonte politico della borghesia liberale era costituito da riforme borghesi che non mettessero in discussione né in pericolo gli equilibri di potere esistenti. 5. La pace di Versailles e la «vittoria mutilata» Nel dopoguerra, in ampi strati della popolazione si diffuse un profondo senso di orgoglio nazionale. Tuttavia, le aspettative andarono in parte deluse. L’espressione «vittoria mutilata», propria dello sciovinismo italiano ben si attaglia al sentimento diffuso in Giappone nella classe dominante e fra i ceti popolari all’indomani della firma del Trattato di pace. Durante il primo conflitto mondiale, il Giappone aveva preso possesso della penisola dello Shandong e delle isole Caroline, Marianne e Marshall. La diplomazia di Tōkyō attuò una politica finalizzata a trasformare la Cina in colonia giapponese. A tale scopo, nel 1915 presentò al presidente della Repubblica cinese, Yuan Shikai, le «Ventuno richieste», attraverso le quali Tōkyō intendeva controllare le scelte economiche e di politica internazionale della debole repubblica, fondata il primo gennaio 1912. Il governo cinese accettò soltanto sedici delle ventuno clausole. Tōkyō fu favorita sia dalla mancanza di una presenza politica occidentale a causa del conflitto europeo, sia dalla frammentazione della Cina. Tōkyō strinse una serie di accordi segreti finalizzati al mantenimento di una condizione privilegiata al termine del conflitto, spinto dal timore di una vittoria della Rivoluzione bolscevica, il governo giapponese aderì alle sollecitazioni degli Alleati e partecipò alla «spedizione» in appoggio ai generali e alle armate «bianche» che in Siberia combattevano contro i bolscevichi. La preoccupazione del Giappone era dettata dal timore che una massiccia penetrazione dell’ideologia comunista destabilizzasse i rapporti di potere esistenti. Segnali preoccupanti per il blocco di potere dominante vennero nel 1919, con i movimenti del Primo marzo in Corea e del Quattro maggio in Cina. Contro lo spettro del comunismo, l’armata giapponese fu mantenuta in Siberia fino al 1922. Alla Conferenza di pace di Versailles la delegazione giapponese, guidata da Saionji Kinmochi, non riuscì a far accogliere tutte le richieste presentate. Al Giappone fu assegnato il mandato di «tipo C» sulle isole del Pacifico ex tedesche e fu riconosciuta l’acquisizione dei diritti sulle miniere e sulla ferrovia nella penisola cinese del Jiaochou, precedentemente in affitto alla Germania; la questione dello Shandong fu tuttavia rinviata a trattative dirette fra il Giappone e la Repubblica cinese, anch’essa alleata dell’Intesa. Il punto di maggiore attrito tra il governo di Tōkyō e gli Alleati fu rappresentato dal mancato riconoscimento della parità razziale. La mancata accettazione della richiesta avanzata dal Giappone è da ricercarsi nel timore da parte dei governi statunitense e australiano per la crescente immigrazione di asiatici che nella prima metà degli anni Venti avrebbe determinato la restrizione totale dei flussi migratori dall’Asia. Dal novembre del 1921 al febbraio del 1922, si tenne la Conferenza di Washington delle nove Potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Portogallo, Cina e Giappone) che registrò il declino del primato mondiale della Gran Bretagna e sancì il contenimento delle aspirazioni giapponesi nell’area del Pacifico. Nel corso della Conferenza, fu sancita la fine del Trattato anglo-giapponese e il Giappone fu costretto a restituire alla Cina la penisola del Jiaochou. il Trattato navale stipulato il 6 febbraio fissò la formula 5:5:3:1,5:1,5 per codificare il rapporto delle grandi navi da guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia. I risultati degli accordi internazionali di Versailles e Washington furono accolti come sconfitte diplomatiche. In Giappone prevalse un giudizio fortemente negativo sulla volontà degli Stati dell’Intesa di riconoscere il ruolo di sostegno svolto dal Giappone durante il conflitto mondiale. Comparvero le prime invettive contro l’«imperialismo bianco». Le rivendicazioni dei gruppi nazionalistici trovarono fertile politica per perseguire gli avversari del regime. Essa introdusse il divieto di «alterare il kokutai» (sistema nazionale), un termine ambiguo sottoposto a qualsiasi interpretazione discrezionale. La legge perseguendo i «crimini di pensiero», dette a polizia e magistratura ampie possibilità di intervento sia contro le attività politiche sia contro le elaborazioni ideologiche considerate «pericolose». Capitolo ottavo. Dal fascismo al crollo dell’Impero 1. La repressione Nel ventennio che seguì l’approvazione della Chian ijihō, il regime adottò una politica sempre più repressiva contro i propri oppositori. I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: nello stesso 1925, furono incriminati gli studenti di sociologia dell’Università di Kyōto, associati nella Gakuren (Unione studentesca), rei, di aver propagandato l’ideologia marxista e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928, furono arrestati i dirigenti e la quasi totalità dei militanti del Partito comunista. In tale occasione, il «sistema imperiale» (tennōsei) mostrò la sua vera natura: a processo iniziato, l’Imperatore Hirohito emendò con un proprio decreto la Chian ijihō introducendovi la pena di morte. Il regime fascista giapponese perseguitò anche personalità vicine al liberalismo. In questo senso, emblematici sono il «caso Minobe», verificatosi nel 1935 e il «caso Tsuda» del 1940. Il «caso Minobe» indica un intervento repressivo contro Minobe Tatsukichi. Costituzionalista di assoluto rilievo, nel 1911 egli aveva enunciato la «teoria dell’organo», secondo la quale l’Imperatore era un organo dello Stato e non al di sopra di esso. Nel 1935, l’Associazione dei riservisti organizzò un ampio movimento di massa che attaccò Minobe in quanto la sua interpretazione della Costituzione avrebbe offeso il kokutai (sistema nazionale). Minobe fu costretto a dimettersi dalla Camera dei Pari e ad abbandonare l’insegnamento universitario, che avrebbe ripreso solo nel 1946. Tsuda Sōkichi fu tra i più autorevoli studiosi di storia antica del Giappone e delle civiltà cinese e giapponese. Nei primi anni Trenta pubblicò alcuni studi che posero scientificamente in discussione la cronologia ufficiale che fissava all’11 febbraio del 660 a.C. la fondazione del «Paese degli dèi» e, quindi, i fondamenti stessi del tennōsei. Accusato di screditare la dignità della famiglia imperiale, nel 1940, fu processato e condannato a tre mesi di detenzione e fu sospeso dall’insegnamento che poté riprendere soltanto nel secondo dopoguerra. Questi due «casi» sono emblematici perché rappresentano l’epilogo della storia della repressione di ogni dissenso. Per quanto concerne i ‘reati di opinione’, il ministero degli Interni compilò un elenco di riviste e di libri dei quali fu vietata la circolazione; il ministero dell’Educazione accentuò la sua azione di controllo sulla ricerca e sul dibattito accademico inserendo propri «supervisori» che agivano come consiglieri degli studenti e vigilavano affinché non operassero organizzazioni considerate illegali. I più temibili strumenti della coercizione furono il Tokubetsu kōtō keisatsu (o Tokkō, Apparato di polizia speciale superiore) e i «procuratori del pensiero», insediati presso ogni tribunale. Il Tokkō svolse le funzioni proprie di una polizia segreta e i «procuratori del pensiero» ebbero ampi margini di manovra all’interno della dicotomia consenso/coercizione. Nella sfera della estorsione del consenso, fu messa in atto la pratica del tenkō (abiura della posizione ideologica): l'imputato, se dichiarava di abbandonare le «idee pericolose», ritornava a essere un «buon suddito» e poteva, quindi, reinserirsi a pieno titolo nella società. Il tenkō fu un'utile arma politica, con essa veniva messa in atto la capacità di pressione della microstruttura sociale. Inoltre, con l’abiura di un imputato, si dimostrava l’errore della sua posizione ideologica ad altri «sovversivi». L’efficacia della repressione e della pressione psicologica del tenkō favorirono la soffocazione di ogni forma di dissenso. In Giappone non sarà riscontrabile alcuna forma di resistenza attiva al regime fascista. Alcuni intellettuali non allineati presero posizione semplicemente rinunciando a pubblicare le loro opere, ovvero rifiutandosi, dopo il 1937, di trasformarsi in corrispondenti di guerra. Entrati in una clandestinità «passiva», il Partito comunista e il sindacato ad esso collegato, le restanti organizzazioni politiche e sindacali sopravvissero a condizione di attenuare la loro azione entro i limiti consentiti dal blocco di potere fascista. Negli anni Trenta, il movimento operaio condusse una serie di vertenze a difesa dei propri interessi. Il loro numero raggiunse gli apici nel 1930-1932 e nel 1937. Tuttavia, il limitato livello di elaborazione teorica e l’appiattimento ideologico emersero in concomitanza con il richiamo all’unità nazionale dopo l’inizio della guerra contro la Cina nel luglio del 1937. La Sōdōmei deliberò la sospensione di tutti gli scioperi per non sabotare la produzione bellica. 2. La «fabbrica» del consenso La Teikoku zaigō gunjinkai (Associazione imperiale dei riservisti) che si estese capillarmente soprattutto nelle campagne. Le sue sezioni locali erano dedite a forgiare «uomini di carattere» attraverso i seinen dan (gruppi giovanili), riuniti in un’associazione nazionale fondata nel 1915 su iniziativa dei ministeri dell’Educazione e della Difesa. A partire dagli anni Trenta, inoltre, essa intensificò la preparazione paramilitare per i giovani in attesa del servizio di leva e per i congedati. La scuola ebbe un'importanza cruciale. Fulcro del tennōsei era l’Imperatore, trascendente la politica, sovrano dedito al «benessere» dei suoi sudditi, l’erede della dea del Sole e la personificazione del kokutai (sistema nazionale), alla gloria del quale ogni giapponese doveva contribuire come buon soldato e buon lavoratore. L’associazione dei riservisti richiamò con sempre maggior vigore quelli che erano i valori considerati fondanti della società giapponese: l’«armonia sociale», la difesa del «Paese degli dèi» e le virtù proprie di ogni suddito, ovvero pietà filiale, lealtà e obbedienza. La propaganda politica di sostegno al blocco di potere dominante fu anche oggetto di azione da parte di una miriade di club, associazioni e gruppi, alcuni fondati e animati da elementi di spicco del blocco di potere dominante. Loro obiettivi comuni furono il mantenimento dei valori tradizionali e il controllo sulla dinamica sociale. Accanto a questi si sviluppò un altro tipo di gruppuscoli, sempre di piccole dimensioni, la cui azione politica era ispirata soprattutto alle idee di Kita Ikki e di Ogawa Shūmei. Kita Ikki (1883-1937) fu il maggiore ideologo del tenn ō sei fashizumu e della necessità dell’espansione giapponese a danno dell’«imperialismo bianco». La sua attività di pubblicista iniziata nel 1905 con La teoria del «kokutai» e il socialismo puro, proseguì con Storia personale della rivoluzione cinese, scritta nel 1915-1916 e pubblicata nel 1921. La sua opera di maggiore interesse fu Lineamenti delle misure per la riorganizzazione del Giappone per la quale Kita ebbe l’autorizzazione alla pubblicazione nel 1923. Secondo Kita, occorreva prima attuare la «riorganizzazione interna», al fine di restaurare un rapporto diretto tra l’Imperatore e i sudditi. Ciò sarebbe stato possibile con la eliminazione delle «cricche» militare, burocratica e politica, la sospensione per un triennio del Parlamento, sostituito da una Camera formata da 50 uomini probi. Inoltre, egli fu un convinto assertore dell’esigenza di circoscrivere il potere degli zaibatsu, a suo giudizio causa di tutti i mali del Giappone, e propose di porre un tetto alle proprietà terriere, ai patrimoni individuali e ai capitali societari. Attuata la «riorganizzazione interna», secondo Kita la politica internazionale del Giappone avrebbe dovuto perseguire l’obiettivo di allearsi con gli Stati Uniti. Tali opinioni, dopo la sua morte furono riprese sul piano ufficiale all’atto della istituzione della Sfera di proprietà comune della Grande Asia Orientale (1942). Kita incise sul piano ideologico, influenzando sia giovani ufficiali che diedero vita a vari colpi di Stato, tutti falliti, sia componenti del blocco di potere dominante, i quali ripresero le sue idee dopo la liquidazione del «fascismo dal basso», coincidente con il soffocamento dell’«incidente del 26 febbraio» 1936. Gli anni Venti e Trenta erano stati percorsi da tensioni sociali di segno opposto che avevano provocato gli interventi della magistratura, della polizia e della burocrazia: da un lato, le agitazioni degli operai, dall’altro lato gruppuscoli occulti, ispirati soprattutto dalle idee di Kita Ikki. Soltanto l’«incidente del 26 febbraio» 1936, l’ultimo di una lunga serie, fu represso, dopo quattro giorni, con durezza. Con la condanna a morte di tredici ufficiali e di sei civili, tra i quali Kita Ikki, il regime pose fine ai tentativi di rivolta da parte dei ceti piccolo-borghesi che avevano posto in essere attività reazionarie. Ogni antagonismo con il blocco di potere dominante fu messo a tacere. 3. Il nesso fascismo-imperialismo Il 1937 rappresenta un anno cruciale nel processo storico giapponese. Sul versante interno, con la condanna a morte di Kita Ikki in conseguenza dell’«incidente del 26 febbraio» 1936, fu definitivamente sconfitto il cosiddetto «movimento fascista». Sul piano internazionale, l’imperialismo giapponese, con l’aggressione alla Cina nel mese di luglio, avviò la cosiddetta Guerra dell’Asia Orientale che avrebbe dovuto consentire al Giappone di fondare un «Nuovo Ordine» in Asia e nel Pacifico meridionale. L’espansionismo giapponese affonda le sue radici nel periodo Meiji: – annessione del Regno delle isole Ryūkyū nel 1879; – occupazione di Taiwan, sottratta all’agonizzante Impero cinese con il Trattato di pace di Shimonoseki del 1895; – spartizione con la Russia dell’egemonia sulla Manciuria e acquisizione della ferrovia della Manciuria meridionale dopo la vittoria sull’Impero zarista nel 1905; – consolidamento della dominazione sulla Corea nel 1910; – riconoscimento, ottenuto in seno alla Conferenza di Versailles, sia del mandato di «tipo C» sulle isole del Pacifico (Caroline, Marianne e Marshall) sottratte alla Germania, sia dei diritti ferroviari e minerari ex tedeschi nella penisola di Jiaochou. Nel settembre del 1931, l’armata giapponese del Kwangtung invase la Manciuria, avviando la «Guerra dei quindici anni». L’anno successivo fu fondato lo Stato fantoccio del Manchukuo con a capo l’Imperatore Pu Yi, su cui esercitava la supervisione il Governatore generale militare giapponese. Dopo la conquista, gli zaibatsu accentuarono la loro concorrenza con gli investimenti statunitensi e britannici, provocando la reazione di Washington e di Londra. Nel 1933 la Società delle Nazioni condannò l’intervento del Giappone, che abbandonò il consesso internazionale. Dopo l’intervento in Manciuria, la propaganda incentrata sulla necessità per il Giappone di garantirsi nuovi territori ebbe grande presa tra le masse. Tra la classe dirigente e nell’opinione pubblica si accentuò ulteriormente la convinzione che le maggiori Potenze volessero isolare il Giappone e che l’Impero dovesse dare una risposta forte. Il riassetto del sistema finanziario non riavviò, comunque, l’economia del Giappone. Le maggiori difficoltà derivavano dalla mancata riadozione del gold standard, in tale situazione, lo yen era sottoposto a continue oscillazioni rispetto alle altre monete. In favore del ritorno alla base aurea si erano espressi diversi settori economici: le grandi banche zaibatsu, attratte da vantaggiosi investimenti all’estero delle eccedenze di disponibilità finanziaria; le imprese operanti nel commercio internazionale per le quali le oscillazioni dello yen significavano incertezza; gli imprenditori del settore tessile, in particolare della seta, la cui produzione per l’80% era collocata sul mercato internazionale. Cedendo alle pressioni imprenditoriali, il ministro delle Finanze, Inoue Junnosuke, nel novembre del 1929, annunciò che il Giappone avrebbe nuovamente adottato la base aurea per lo yen a partire dal 1° gennaio 1930. Si trattò di una decisione governativa del tutto inopportuna, in quanto avvenne dopo il crollo di Wall Street, nel momento in cui i Paesi più avanzati avevano abbandonato o stavano abbandonando il gold standard. La crisi ebbe effetti devastanti sull’economia giapponese: ne furono colpiti il settore tessile, le famiglie contadine, le società di navigazione e la cantieristica. La depressione pesò soprattutto sui piccoli e medi imprenditori, clienti delle banche locali, delle quali, tra il 1930 e il 1931, circa 80 furono costrette a sospendere temporaneamente i pagamenti, 18 chiusero definitivamente gli sportelli e 40 fallirono. L’avvio della svolta in economia che permise l’uscita dalla crisi è dovuto all’azione di Takahashi Korekiyo, ministro delle Finanze del governo Inukai, insediatosi nel dicembre del 1931. Takahashi abbandonò la politica liberista e accentuò l’intervento dello Stato in economia. Le misure introdotte riguardarono l’abbandono della base aurea dello yen; la dilatazione della spesa pubblica, sostenuta da emissioni di titoli fiduciari dello Stato sottoscritti dalla Banca del Giappone; l’ampliamento della stessa emissione fiduciaria; la riduzione del tasso di interesse; il sostegno dell’economia rurale, particolarmente segnata dalla crisi. Misure che valsero a Takahashi il riconoscimento di «keynesiano ante litteram», con riferimento a John Maynard Keynes, l’economista inglese che sarebbe stato l’ispiratore della politica del New Deal rooseveltiano. Tra il 1931 e il 1935, periodo in cui Takahashi Korekiyo guidò il ministero delle Finanze, il governo aumentò gli stanziamenti a favore di Esercito e Marina. Nello stesso periodo, i cosiddetti «vecchi zaibatsu» attuarono una riorganizzazione finanziaria che impedì loro immediati investimenti in Manciuria e furono temporaneamente sostituiti dai «nuovi zaibatsu», legati agli ambienti militari e ai giovani funzionari civili inviati in Manchukuo. Dopo il 1935 i «vecchi zaibatsu» ripresero il sopravvento, soprattutto grazie all’ampia disponibilità di capitali finanziari (bancari, armatoriali, assicurativi) che consentì nuovi fruttuosi investimenti; disponibilità finanziaria pressoché inesistente per i «nuovi zaibatsu» che indirizzarono le loro risorse soprattutto nel settore dell’industria pesante e di quella chimica. 6. La «guerra totale» Dopo alcuni tentativi di penetrazione nella Cina settentrionale nel 1934-35, l’Esercito giapponese, nel luglio del 1937, invase la Cina, avviando così la Guerra dell’Asia Orientale. Il conflitto fu concepito come una «guerra totale» che comportò la progressiva ristrutturazione dell’economia in funzione dello sforzo bellico. Al passaggio dal parziale liberismo al dirigismo statale in economia si opponeva il mondo economico che difendeva la propria autonomia nella destinazione delle risorse e nel principio di trarre il massimo dei profitti dalla produzione, tesi alla quale i circoli militari contrapposero le esigenze belliche dell’invasione della Cina. A favore della tesi dei comandi militari si schierò gran parte dei funzionari civili, preoccupati dalle difficoltà nei rifornimenti alimentari e dalle conseguenze che la scarsità di risorse avrebbe potuto avere sulla disciplina dei ceti e delle classi sociali. Il 1° aprile 1938, il Parlamento approvò, su proposta del governo del Principe Konoe Fumimaro (1891-1945), la Kokka sōdōinhō (Legge di mobilitazione generale nazionale). Tale legge forniva le indicazioni di carattere generale al cui interno il governo o il Parlamento potevano emanare norme specifiche, riguardanti le materie indicate dalla legge stessa. La «mobilitazione» avvenne, tra il 1938 e il 1945, sulla base di 65 tra circolari, ordinanze o decreti governativi. Venne così meno la separazione tra il potere legislativo (Parlamento) e il potere esecutivo (governo). Il controllo dello Stato sull’economia e sulle forze sociali, in particolare sul proletariato industriale, veniva razionalizzato e rafforzato. Il Primo ministro Konoe proclamò la volontà di istituire in Asia un «Nuovo Ordine». Tra il 1940 e il 1941, vi fu la svolta definitiva, sia sul fronte interno sia su quello internazionale. I partiti politici, sempre più privi di potere, furono assorbiti nella Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale). Il Giappone firmò il Patto tripartito con l’Italia fascista e la Germania nazista (con la quale fin dal 1936 esisteva il Patto anti-Comintern) e, l’anno successivo, occupò l’Indocina settentrionale, con la connivenza del governo collaborazionista di Vichy. Il governo di Washington chiese al Giappone garanzie per le Filippine (colonia statunitense) e il ritiro delle truppe dalla Cina. Dopo la f irma del Patto di neutralità con l’Unione Sovietica, l’Esercito imperiale giapponese occupò l’Indocina meridionale, azione che provocò la proclamazione dell’embargo totale da parte degli Stati Uniti. Falliti i tentativi per superare la crisi, gli aerei decollati dalle portaerei giapponesi attaccarono, prima della dichiarazione di guerra, la base statunitense di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Con la successiva dichiarazione di guerra della Germania nazista agli Stati Uniti, la guerra divenne «mondiale» in senso proprio. All’inizio, i successi giapponesi parvero inarrestabili: furono occupate le Filippine, la Malesia, le Indie Orientali Olandesi (l’attuale Indonesia), la Nuova Guinea, la Birmania e fu conquistata Singapore, fortezza britannica ritenuta inespugnabile. Il primo successo degli Alleati si verificò con la battaglia delle Midway, cui seguirono numerose vittorie sulle forze terrestri e navali giapponesi. 7. Programmazione e controllo dell’economia di guerra Dal 1937, anno di avvio della Guerra dell’Asia Orientale, esponenti di rilievo del blocco di potere fascista operarono per attuare controlli centralizzati sull’economia. Studiosi di economia come Rōyama Masamichi (1895-1980), l’opinionista Ryū Shintarō (1900-1967) e il filosofo Miki Kiyoshi (1897-1945) reclamarono interventi dello Stato per la costruzione di una nuova società e di un’economia indirizzata a rafforzare il ruolo del Giappone in Asia. Grande notorietà ebbero in Giappone gli economisti austriaci Friedrich von Gottl-Ottilienfeld e Othman Spann. Il primo sostiene che l’economia politica lega strettamente economia, società e politica e che pertanto lo Stato ha precisi e ineludibili compiti di «organizzatore». Spann afferma che esiste un universalismo della società, la quale non è un insieme di individui, ma una comunità in cui i soggetti hanno reciproche responsabilità. Le teorie di Spann furono ulteriormente rafforzate nei testi tradotti in giapponese. Il suo «universalismo» fu reso con zentaishugi, «totalitarismo», a indicare la volontà assoluta di dominazione classista della società. Grande influenza ebbero gli studi su Friedrich Nietzsche di Watsuji Tetsurō (1889-1960), il quale divenne il paladino giapponese del primato dell’uomo superiore sul popolo. Sostenitori della «riorganizzazione» dello Stato (terminologia che celava la rivendicazione di centralizzazione e più ampi interventi nella politica, nell’economia e nella società) fu anche un gruppo di shinkanryō (funzionari innovatori). Nel 1935, le loro richieste sfociarono nella costituzione del Naikaku chōsa kyoku (Ufficio ricerche del governo), divenuto Kikakuin (Sezione del Piano) nel 1937 e al quale furono destinati funzionari civili e militari di rilievo. Tra questi, ebbe un ruolo preminente Kishi Nobusuke (1896-1987) che, nel 1933, al fine di mettere a punto la strategia di intervento per introdurre in Giappone la razionalizzazione industriale (sangy ō g ō rika), trascorse nella Germania nazista un periodo di studio della organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo). Il giornalista Ryū Shintarō espresse con sempre maggior vigore l’opinione secondo cui nel futuro il mondo sarebbe stato diviso in blocchi, uno dei quali guidato dal Giappone, cui doveva essere riconosciuto il «diritto naturale» all’espansione. All’inizio del 1941, l’allora ministro degli Esteri, Matsuoka Yōsuke (1880-1946) dichiarò che a suo giudizio si sarebbe presto giunti alla spartizione del mondo in quattro zone: America Settentrionale e Meridionale sotto l’egemonia statunitense; sovietica, con la dominazione dell’Urss estesa a India e Iran; europea, comprendente anche l’Africa, soggetta alla Germania nazista; area dell’Asia Orientale e Sud-orientale guidata e governata dal Giappone. La «dottrina Matsuoka», elaborata al fine di legittimare il «Nuovo Ordine» asiatico, palesa la sua debolezza intrinseca se si tiene presente che sia Stati Uniti sia Unione Sovietica avevano una concezione universalista rispetto al prevalere di liberalismo e socialismo. Inoltre, di lì a pochi mesi la «dottrina Matsuoka» fu superata dai fatti, in quanto la Germania nazista, alleata del Giappone, il 22 giugno 1941 invase l’Unione Sovietica. L’intervento dello Stato in economia operò attraverso due direttrici. Una fu costituita da massicci investimenti pubblici nel settore degli armamenti; l’altra consistette nella promulgazione di una serie di provvedimenti legislativi di regolamentazione e controllo dei settori industriale e finanziario. L’amministrazione statale emanò una serie di norme atte a razionalizzare la raccolta e la distribuzione dei prodotti alimentari, la cui scarsità divenne, fin dal 1938, un reale problema sociale e politico. Obiettivo interno della «riorganizzazione» economica fu la separazione tra proprietà e management. I funzionari civili e militari ritenevano che l’economia di guerra avrebbe raggiunto lo scopo di sostenere la vittoria soltanto se l’industria privata avesse rinunciato alla massimizzazione dei profitti e degli investimenti. L’obiettivo divenne palese fin dal settembre del 1937, quando il Parlamento deliberò l’attuazione della Legge per la mobilitazione dell’industria degli armamenti (Gunju kōgyō dōinhō no tekiyō ni kansuru hōritsu), la Legge di regolamentazione delle esportazioni e importazioni delle merci (Yūshutsunyūhinra rinji sochihō) e la Legge sul controllo temporaneo dei capitali (Rinji shikin shōseihō), che dette all’Imperatore e all’amministrazione il potere di emanare decreti su fondazione di società, aumenti di capitale, fusioni, prestiti e fluttuazioni dei titoli. Queste tre leggi anticiparono il provvedimento quadro della Legge di mobilitazione generale nazionale (Kokka sōdōinhō) del marzo 1938. Né di minore importanza fu l’approvazione della Legge di controllo dello Stato sull’energia elettrica (Denryoku kokka kanrihō, 1937), con la quale il settore fu nazionalizzato. La neoistituita Sezione del Piano, nell’ottobre del 1937, stilò il Piano per la mobilitazione delle risorse (Busshi dōin keikaku) con il quale venivano assegnati a Esercito, Marina e industria privata ferro, acciaio, rame, alluminio, benzina, kerosene, petrolio grezzo, cotone e lana. In economia si stava ormai delineando quel «Nuovo Ordine» proclamato dal Primo ministro Konoe Fumimaro all’atto della promulgazione della Legge di mobilitazione generale nazionale e i cui princìpi furono assunti nei Lineamenti per la costituzione del Nuovo Ordine economico (Keizai shintaisei kakuritsu yōkō) del 1940. Nell’ottobre dello stesso anno, Konoe fondò la Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale), nella quale furono costretti a confluire i partiti politici e i sindacati e alla quale avrebbero aderito le preparatori fu affidata a un gruppo formato da esperti, tra i quali lo storico Edwin H. Norman e l’antropologa Ruth Benedict, e da uomini politici. Quando Tōkyō accettò la resa incondizionata, il Presidente Harry Truman nominò capo del Comando supremo delle potenze alleate (Scap) il generale Douglas MacArthur, affidandogli l’obiettivo, fissato dalla Conferenza di Potsdam svoltasi nel luglio del 1945, di democratizzare e smilitarizzare il Giappone. I vincitori istituirono la Commissione per l’Estremo Oriente (Far Eastern Commission, Fec). Tuttavia, questo organismo, così come il Consiglio alleato per il Giappone (Allied Council for Japan, Acj), ebbe limitati poteri di intervento. MacArthur ricevette da Truman una direttiva con la quale il Presidente richiamava il Comandante Supremo ad attenersi agli ordini provenienti da Washington nella politica di occupazione le scelte strategiche e gli interventi quotidiani furono prerogativa degli Stati Uniti. All’interno del periodo di occupazione la politica degli Stati Uniti verso il Giappone subì un mutamento radicale. Tra il 1946 e il 1947, infatti, si verificò la cosiddetta «inversione di rotta»: il Giappone, da nemico sconfitto, divenne il principale alleato degli Stati Uniti in Asia. Lo Scap, nell’applicare il programma di intervento, operò per mezzo di direttive impartite al governo giapponese, responsabile della loro applicazione. I primi provvedimenti furono la concessione dei diritti civili e delle libertà democratiche. Furono aboliti i ministeri della Guerra, della Marina, degli Approvvigionamenti militari e degli Interni. Furono sospesi tutti i corsi scolastici e vennero dichiarati illegali i testi di storia, geografia ed etica, quali strumenti della propaganda del blocco di potere, e fu ordinato di riscriverli prima della riapertura delle scuole e delle università. MacArthur chiese la stesura di una nuova Costituzione, un piano di scioglimento degli zaibatsu e l’avvio delle epurazioni di coloro che avevano sostenuto attivamente il passato regime. Fu disciolta la Taisei yokusankai, furono liberati dal carcere i prigionieri politici e fu sancita la libertà di ricostituire i partiti politici e i sindacati. Due ex parlamentari del Rikken Seiyūkai, Hatoyama Ichirō (1883-1959) e Ashida Hitoshi (1887-1959), fondarono il Nihon Jiyūtō (Partito liberale giapponese); un gruppo di ex aderenti al Rikken Minseitō (Partito costituzionale democratico) diede vita al Nihon Shinpotō (Partito progressista giapponese); esponenti progressisti fondarono il Nihon Shakaitō (Partito socialista giapponese), mentre i dirigenti comunisti rimpatriati dalla Cina e quelli rilasciati dal carcere fondarono il Nihon Kyōsantō (Partito comunista giapponese). Oltre a queste formazioni politiche, alle elezioni del 1946 e del 1947 si presentarono oltre cento partiti minori. L’azione dello Scap fu assai dinamica fino al giugno del 1946, per perdere poi progressivamente di incisività, sia a causa delle resistenze del governo giapponese, sia perché Washington riconsiderò le scelte politiche verso il Giappone. Paradigmatica fu tutta la vicenda della «giustizia dei vincitori», che fu attuata sia con l’applicazione di epurazioni sia con la costituzione del Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente (Imtfe secondo l’acronimo inglese), generalmente citato come Tribunale di Tōkyō. Per quanto attiene alle epurazioni, il 90% erano militari. Tuttavia, ben presto, su insistenza di Yoshida Shigeru (1878-1967) furono istituite Commissioni per la revisione delle sanzioni agli epurati, un gran numero dei quali fu riabilitato. Il Tribunale di Tōkyō fu istituito dagli Alleati il 3 maggio 1946 e fu chiamato a giudicare i crimini della «classe A», cioè quelli contro la pace, di cui dovettero rispondere alti ufficiali e politici istigatori della guerra o con responsabilità ultima per crimini di guerra commessi da loro subalterni. Dei 28 «criminali contro la pace», due morirono prima della conclusione del processo. La sentenza, emessa il 12 novembre 1948, dichiarò un imputato insano di mente; degli altri 25, sette furono condannati a morte e 18 a pene detentive di varia durata. In diverse città dell’Asia e a Yokohama furono istituiti Tribunali per giudicare i crimini di «classe B» (crimini di guerra convenzionali, commessi da militari in battaglia o contro civili di popoli nemici) e di «classe C» (crimini contro l’umanità, una categoria che era stata prevista per la condanna dei reati commessi dai nazisti contro ebrei, rom, comunisti ecc.). Nel caso giapponese, la distinzione fra crimini di classe B e C non fu chiara. Complessivamente, i Tribunali per le classi B e C comminarono 984 condanne a morte, 475 ergastoli e 2.944 pene detentive. Per volontà degli Stati Uniti, non furono prese in considerazione le prove di alcuni fatti gravissimi. In primo luogo, del «massacro di Nanchino» perpetrato nel 1938 dall’Esercito giapponese contro la popolazione civile. Inoltre, fu nascosta la documentazione degli esperimenti su cavie umane dell’Unità 731, un gruppo di medici e biologi dell’Esercito giapponese che in un campo di prigionia in Manciuria fece ricerche per la costruzione di armi chimiche e biologiche. Infine, fu occultata tutta la vicenda delle migliaia di cosiddette comfort women, donne coreane, taiwanesi e di altri Paesi occupati obbligate a prostituirsi, in campi di detenzione, ai soldati giapponesi. 2. La nuova Costituzione Il governo statunitense, con l’appoggio britannico e tra le proteste, in particolare, dell’Unione Sovietica, optò per la non perseguibilità dell’Imperatore Hirohito. Secondo le convinzioni di MacArthur, l’abdicazione avrebbe comportato la sollevazione di gran parte della popolazione, ancora fortemente subalterna all’idea che il sovrano fosse il «discendente dell’ininterrotta linea divina», e l’abdicazione avrebbe indebolito i vertici burocratici, in quanto i direttori generali dei ministeri, nominati dall’Imperatore, sarebbero stati delegittimati, oppure si sarebbero essi stessi dimessi per onorare il vincolo di fedeltà con il sovrano. Hirohito con alcuni viaggi all’interno del Giappone, diede dimostrazione di «sopportare l’insopportabile» alla popolazione che veniva quindi chiamata a collaborare con gli occupanti. Il primo viaggio imperiale, svoltosi il 19 febbraio 1946 nella provincia di Kanagawa, avvenne in un momento di tensione tra lo Scap e la Commissione giapponese per la revisione della Costituzione, presieduta da Matsumoto Jōji. Uno dei punti in discussione nei circoli intellettuali e tra i costituzionalisti giapponesi era il ruolo dell’Imperatore, non più «discendente della ininterrotta linea divina». Furono avviati contatti con lo Scap e, tra le varie proposte, alla fine prevalse la definizione, sostenuta tra gli altri da Minobe Tatsukichi e Tsuda S ō kichi, del tenn ō quale «simbolo (shōchō) dello Stato». Il 22 aprile 1946 la bozza di Matsumoto fu inviata allo Scap, che cassò la proposta e la riscrisse radicalmente. La nuova Costituzione del Giappone fu promulgata il 3 novembre 1946 ed entrò in vigore il 3 maggio 1947. L’Imperatore divenne il «simbolo dello Stato e dell’unità del popolo giapponese» e perse: il potere di emanare o respingere decreti e ordinanze, il comando delle forze armate, il potere di nomina e di revoca dei Primi ministri, dei ministri e dei funzionari di massimo grado. Con l’approvazione del governo, l'imperatore ha il potere di promulgare le leggi, i decreti legge, gli emendamenti alla Costituzione, i trattati internazionali, convocare il Parlamento, sciogliere la Camera alta, proclamare le elezioni generali, nominare e revocare i ministri e accettarne le dimissioni, ricevere le credenziali degli Ambasciatori, incontrare loro e ministri stranieri. Inoltre, l’Imperatore nomina il Primo ministro e il presidente della Corte Suprema, designati rispettivamente dal Parlamento e dal governo. La nuova Costituzione prevede la netta separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; il Parlamento è formato da due Camere, entrambe elettive. In caso di discordanza tra le due Camere per la nomina del Primo ministro, prevale il voto della Camera bassa. Primo ministro e ministri sono politicamente responsabili verso il Parlamento. La nuova Costituzione, infine, è fortemente pacifista in quanto l’articolo 9 prevede sia la rinuncia del Giappone alla guerra per la risoluzione delle dispute internazionali, sia il divieto alla ricostituzione delle forze armate. L’attuale sistema elettorale è parzialmente maggioritario. Salvo scioglimento anticipato, la legislatura ordinaria dura quattro anni. I collegi a forte concentrazione urbana sono gravemente penalizzati rispetto a quelli a prevalente popolazione rurale. Infatti, attualmente per questi ultimi occorre un terzo dei voti dei collegi urbani per eleggere lo stesso numero di parlamentari. La Costituzione del 1947 impone che il Giappone rinunci sia all’uso della forza nelle dispute internazionali sia alla ricostituzione delle forze armate. Tuttavia, poco dopo l’inizio della guerra di Corea, fu istituita la Riserva di polizia nazionale, tra il luglio del 1950 e la fine dell’anno sostituì i militari statunitensi nel mantenimento dell’ordine pubblico. Nel 1952, su pressione degli Stati Uniti nel corso della Conferenza di pace di San Francisco, alle forze di terra si aggiunsero unità navali e aeree. Nel 1954, per coordinare l’apparato militare giapponese, anche oggi modernamente armato, fu istituita l’Agenzia della difesa (Boeichō). 3. La vita politica Nel biennio 1947 - 48 furono Primi ministri inizialmente Katayama Tetsu (1887-1978), a capo di una coalizione appoggiata dal Partito socialista e dal Partito democratico, e successivamente Ashida che guidò una coalizione formata, oltre che dal suo partito, dallo stesso Partito socialista e dal Kokumin Kyōdōtō (Partito cooperativo del popolo). La coalizione ebbe vita breve e nell’ottobre del 1948 – sino al dicembre del 1954 – iniziò l’era di Yoshida Shigeru, a capo del Partito liberale dopo l’epurazione di Hatoyama Ichirō . Yoshida pose come priorità assoluta la ricostruzione dell’economia che intorno alla metà degli anni Cinquanta, raggiunse i livelli del 1933 - 35. Grande negoziatore, sotto la sua presidenza il Giappone firmò il Trattato di pace di San Francisco. Inoltre, in accordo con MacArthur, nel maggio del 1950 egli promosse la «purga rossa» che colpì dirigenti e iscritti al Partito comunista. Yoshida difese sempre gli epurati e dopo la firma del Trattato di San Francisco ne riabilitò un gran numero. Tra i riabilitati, nel 1954 riemerse Hatoyama che, nominato presidente del Partito democratico, mise in minoranza il governo Yoshida con l’appoggio dei socialisti. Hatoyama sarebbe rimasto Primo ministro fino al dicembre del 1956, dopo l’unificazione di liberali e democratici nel Jiyūminshutō (Partito liberaldemocratico, Pld, più noto in Giappone come Jimintō ), avvenuta nel 1955. Da questo momento, a eccezione del biennio 1994-96, i presidenti del Pld si succederanno alla guida di governi di coalizione o monocolore. 4. La ricostruzione economica Nel 1947, lo Scap permise al Giappone di fare fronte ai danni di guerra con l’esportazione di prodotti nazionali, in particolare beni strumentali, e con pagamenti in yen. Con una manovra dilatoria, il governo giapponese riuscì nell’intento di stemperare il piano di scioglimento delle concentrazioni monopolistiche. Anche se con l’approvazione della legge antitrust fu ridimensionato il controllo finanziario delle famiglie sugli zaibatsu, questi si riorganizzarono nella forma meno evidente di keiretsu, atta comunque a garantire scelte economiche compatibili con le linee di sviluppo del gruppo. Un punto di forza e di successo della politica dello Scap è costituito dalla riforma agraria: la legge previde estensioni proprietarie non superiori a 10 ettari nello Hokkaidō e a 3 ettari nelle altre regioni del Paese. La vendita di aree coltivabili avvenne con il ricorso alla rateizzazione e in un periodo di forte inflazione, favorendo gli acquirenti e penalizzando i grandi proprietari. Parte delle terre dei grandi proprietari furono confiscate. Dopo l’occupazione, gli ex grandi proprietari tentarono di ricuperare le terre perse con la riforma, ma il governo giapponese, la cui maggioranza si resse per decenni sul consenso della dove peraltro gli Stati Uniti mantengono tuttora importanti ed estese basi militari. Due anni dopo l’accordo Nixon-Sat ō , il governo e la diplomazia giapponesi subirono un clamoroso smacco, noto in Giappone come «Nixon shock». Senza averne informato prioritariamente il governo giapponese, il Presidente Nixon nel luglio del 1971 annunciò che, a seguito di contatti segreti tra il segretario di Stato statunitense, Henry Kissinger, e il ministro degli Esteri cinese, Zhou Enlai, egli si sarebbe recato a Pechino per incontrare Mao Zedong e gli altri dirigenti cinesi. L’incontro avvenne dal 21 al 25 febbraio 1972, dopo che la Repubblica popolare cinese era stata riammessa all’Onu. La Repubblica popolare sostituiva la Repubblica di Cina (Taiwan). Dopo la visita di Nixon, il Primo ministro giapponese Tanaka Kakuei si recò a Pechino dove fu firmato un comunicato congiunto che annunciò lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra i due Stati, premessa alla firma del Trattato di pace che avvenne nel 1978. In questa fase, si intensificarono i rapporti economici e commerciali nippo-cinesi. Nei primi anni Settanta, nacquero in Asia Orientale le premesse per nuovi scenari politici internazionali che avrebbero avuto una prima svolta nell’aprile del 1975, con la liberazione di Saigon e l’abbandono del Vietnam da parte delle truppe statunitensi. Capitolo decimo. Crisi, nuovo sviluppo e recessione 1. Dalla crisi petrolifera del 1973 alla ripresa Nei primi anni Settanta iniziarono a profilarsi in Giappone i segni della crisi. Le cause principali sono da ricercare in decisioni esterne al Giappone. Nel 1971, il Presidente statunitense Richard Nixon annunciò l’abbandono del gold standard. Con questa misura le monete iniziarono a fluttuare e nel 1973 il cambio yen/dollaro giunse al rateo di 308/1. Gli Stati Uniti, al fine di ridurre il forte saldo commerciale in passivo con il Giappone, iniziarono a porre restrizioni alle importazioni di prodotti giapponesi. In questo contesto si inserì la crisi petrolifera del 1973, conseguente alla decisione dei Paesi dell’Opec di ridurre le esportazioni di petrolio, misura che provocò un consistente rincaro di questa materia prima, indispensabile all’industria giapponese per la produzione sia di derivati, sia di energia elettrica. Le condizioni per il superamento della crisi e per la ripresa dello sviluppo ebbero radici sia endogene sia esterne. All’interno, agì da propulsore lo stesso sistema economico-sociale: concorrere all’affermazione della propria squadra di lavoro significa contribuire al miglioramento dell’impresa e, quindi, della holding di appartenenza, sostenendo, in sostanza, l’azienda Giappone. Ciò avviene in quanto i rapporti sociali e di lavoro sono fondati sull’affermazione dell’individuo all’interno del gruppo di appartenenza. Al superamento della crisi contribuì l’intera nazione: politici, burocrati, uomini d’affari, sindacalisti, lavoratori, fornitori e cittadini in genere. Il governo operò attraverso Programmi redatti dall’Agenzia per la programmazione economica. Le misure adottate per uscire dalla crisi consentirono all’economia giapponese una razionalizzazione di cui essa si sarebbe giovata negli anni Ottanta. Se l’apprezzamento dello yen diminuiva la concorrenzialità dei beni prodotti dalle imprese giapponesi, queste avrebbero tratto vantaggio dalle migliori condizioni nell’approvvigionamento delle materie prime. Si contrassero le entrate, ma diminuirono anche le uscite della bilancia commerciale. Nel 1987 il valore delle esportazioni fu superiore a quello delle importazioni. Sul piano più generale, nel 1978 e nel 1983 il governo approvò due leggi che, secondo le linee dei Programmi economici, permisero agli imprenditori la riorganizzazione con l’assistenza dello Stato. La costruzione di grandi petroliere, a seguito della caduta delle forniture di petrolio, dovette essere quasi totalmente sospesa. I grandi cantieri uscirono dalla crisi traendo vantaggio dalla loro capacità tecnologica e diversificando la produzione con la costruzione di piattaforme oceaniche e di grandi attrezzature. I cantieri medi e piccoli, in parte riuscirono ad autofinanziarsi, in parte dovettero chiudere le attività. Molti dei lavoratori che persero il posto di lavoro furono reimpiegati in altre aziende del keiretsu o in imprese appositamente create per utilizzarli. Il governo favorì le fasi di transizione dei lavoratori disoccupati con l’assegnazione di sussidi. Scelte politiche simili furono adottate per gli altri settori in declino. A partire dal 1974, la crescita fu colossale, soprattutto nella fabbricazione di automobili, di prodotti elettrici ed elettronici. All'estero le auto giapponesi si imposero per i prezzi contenuti e per l’alta qualità. La concorrenza dei veicoli giapponesi provocò tensioni commerciali, soprattutto da parte del governo statunitense che, incalzato dai costruttori nazionali, nel 1981 iniziò a negoziare restrizioni alle importazioni dal Giappone. I grandi fabbricanti, soprattutto Toyota e Nissan, risposero costruendo negli Stati Uniti loro impianti, aggirando le restrizioni dovute a contingentamento, tasse d’importazione e altre barriere non doganali. Inoltre, poterono avvantaggiarsi dall’apprezzamento dello yen e da costi del lavoro inferiori negli Usa. Anche il settore delle costruzioni elettriche ed elettroniche trasse grande vantaggio dalla crisi. Tra le prime nove imprese del settore, sette erano giapponesi. La Hitachi e la Toshiba fabbricavano attrezzature di ogni tipo. Le altre cinque imprese producevano piccoli manufatti. Tra queste la maggiore era la Matsushita, seguita da Fujitsu, Nec, Sony e Mitsubishi denki, orientate al solo mercato interno. Dai tardi anni Settanta, tutte queste imprese iniziarono la produzione di videocassette, registratori, computer, semiconduttori, circuiti integrati, fax e telefoni cellulari. Dapprima invasero il mercato interno, successivamente riscossero grande successo anche sul mercato mondiale. A seguito di questi sviluppi, accanto ai keiretsu tradizionali che controllano capitali finanziari, industriali e commerciali (come, per esempio, Mitsui e Mitsubishi), quelli nuovi si fondarono su apparati produttivi integrati per la fabbricazione di un unico prodotto. Accanto ai settori dell’auto e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nacque un gran numero di medie e piccole imprese che si avvantaggiarono delle opportunità offerte dall’incremento di domanda di nuove tecnologie, nuovi processi produttivi, nuovi prodotti. 2. Alto valore dello yen e distorsioni Lo sviluppo successivo alla prima crisi petrolifera permise la stabilità economica fino al 1985, quando l’economia giapponese entrò nella recessione endaka (apprezzamento dello yen). L’accordo del G7 (Stati Uniti, Canada, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia) siglato a Parigi nel febbraio del 1987 consentì soltanto una temporanea stabilità dello yen. Nel periodo di apprezzamento dello yen crebbero in maniera massiccia i consumi interni e gli investimenti interni ed esteri. Le banche stimolarono la domanda di prestiti dei clienti. Crebbero i consumi di beni voluttuari e la domanda di residenze. Grande espansione ebbe il commercio al dettaglio, anche in virtù del cambiamento nelle abitudini di vita degli abitanti delle grandi città. In particolare, si accentuò la tendenza alla istituzione di catene ramificate in tutto il Paese di convenience stores per i consumi quotidiani di super-stores ecc., alcune delle quali di proprietà delle società degli immensi depaato (dall’inglese department stores), fornitrici di beni di lusso. Inoltre, l’aumento dei singles accentuò la domanda di residenze, con il conseguente incremento dei prezzi delle aree fabbricabili nelle sei maggiori città e del mercato azionario. Da questa situazione trassero vantaggio soprattutto le sei maggiori imprese edili che fruirono anche di massicci lavori pubblici. Un incremento altrettanto altalenante si manifestò nel mercato azionario durante il boom dello endaka. L’euforia da endaka fece aumentare di undici volte gli investimenti all’estero tra il quinquennio 1976-80 e quello 1986-90. Furono gli anni delle grandi operazioni finanziarie internazionali, dall’acquisto delle case produttrici cinematografiche di Hollywood al Centro Rockefeller; fu il periodo dell’aggressione delle istituzioni finanziarie giapponesi ai mercati statunitense ed europeo. 3. Gli effetti sociali della recessione Tuttavia, l’economia giapponese, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha in sé i segni di una grande fragilità. Il mercato interno è sostanzialmente «drogato» dall’incentivo ai consumi consentiti dal facile ricorso al prestito bancario. Il problema, che inizierà a manifestarsi nella metà degli anni Novanta, riguarda le gravi difficoltà nel ricupero dei crediti da parte degli istituti bancari. Le grandi banche soffrono nel 1998-99 dell’insolvenza di molti clienti, singoli cittadini e imprese ed accumulano perdite che soltanto la ricapitalizzazione e il sostegno del governo riesce a contenere. La recessione colpisce imprese e famiglie. In questa situazione, grandi e piccole imprese del settore privato e il settore pubblico iniziano a ricorrere alla riduzione del personale. La percentuale di popolazione attiva senza lavoro alla fine del 2002 raggiunge il 5,2%, un record negativo. Occorre, tuttavia, rilevare che in Giappone non sono considerati disoccupati coloro che lavorano almeno una settimana nel mese della rilevazione e che l’arubaito (lavoro temporaneo) è molto diffuso. Nelle previsioni del governo, nel primo decennio del nuovo millennio, il numero dei dipendenti pubblici (poste, ministeri, enti locali) diminuirà di quasi la metà. Il licenziamento ha gravi conseguenze sociali e individuali. Il disoccupato assai spesso si considera un emarginato e vive la sua nuova condizione con un senso di vergogna, giungendo in alcuni casi alla scelta estrema di togliersi la vita. Nel 1998 i suicidi hanno superato la soglia di 30.000 unità. Un altro problema sociale che grava sulla società giapponese è costituito dall’invecchiamento della popolazione, dovuto all’allungamento della speranza di vita e al calo delle nascite, particolarmente sensibile rispetto al baby boom degli anni Sessanta. 4. I sistemi burocratico e politico Una peculiarità del Giappone è costituita dai rapporti esistenti tra il sistema burocratico e quello politico. In Giappone le proposte di legge raramente sono di iniziativa parlamentare. Sono i funzionari di medio livello dei singoli ministeri che provvedono motu proprio o su sollecitazione di enti locali e associazioni a stilare i disegni di legge, dando così avvio a un iter che va dal basso verso l’alto e che, dopo mediazioni interministeriali e interne alla coalizione di governo, si conclude con la presentazione di un disegno di legge governativo. Questa interdipendenza burocratico-politica ha conseguenze anche a livello parlamentare e politico generale. Considerato che, soprattutto nel Partito liberaldemocratico (Pld), molti parlamentari sono di provenienza burocratica, appare evidente che l’azione di quel partito è avvantaggiata dall’intreccio di rapporti personali, oltre che dalle consonanze politiche, con singoli funzionari superiori. Il sistema politico appare relativamente debole, mentre i funzionari ministeriali fruiscono di ampi margini di azione e intervento politico. Nel secondo dopoguerra, a eccezione di due brevi parentesi (maggio 1947-marzo 1948 e agosto 1993-gennaio 1996) i governi che si sono succeduti in Giappone sono sempre stati formati da politici di area liberaldemocratica. Nelle legislature in cui il partito non raggiunse la maggioranza assoluta, furono formati governi di coalizione, con l’apporto di «indipendenti» o di appartenenti ad altri partiti, fuorusciti dal Pld. Per il meccanismo elettorale misto (in parte maggioritario, in parte proporzionale) nel 1980 e nel 1986 questo partito ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera bassa. Dopo le elezioni del 1976, 1979 e 1983, formò coalizioni di governo sostenute anche dal Nuovo club liberale (Shin jiy ū kuraku). Nel periodo 1972-89, si succedettero otto Primi ministri, tutti del Pld, dei quali sette guidarono il di missili nelle acque territoriali giapponesi alla recente decisione della Rdpc di riattivare un reattore atomico. Nell’estate del 2002, Tōkyō ha riaperto il canale di comunicazione con Pyongyang. Dopo colloqui al livello di Croce Rossa e di funzionari dei ministeri degli Esteri, il 17 settembre 2002, il Primo ministro Koizumi Jun’ichirō ha incontrato a Pyongyang il Presidente Kim Jong Il. Nel 2006 il Giappone ha ritirato il suo contingente militare dall’Iraq, e nel 2007 ha visto coronati i suoi sforzi, come responsabile della missione Untac (United Nations Transitionale Authority in Cambodia) in Cambogia, per l’avvio dei processi per crimini di guerra commessi dai khmer rossi. 7. Dalla grave recessione alla ripresa economica Il Giappone da Paese con un apparato industriale ridotto del 70% è diventato la seconda potenza economica del mondo. La recessione, profilatasi nei primi anni Novanta con lo scoppio della baburu ekonomi si è allentata soltanto nel 2005. La contrazione della domanda interna – causata dalla diminuzione del monte salari dovuta alla crescita della disoccupazione e dalla contrazione dei «bonus» integrativi delle retribuzioni – non ha favorito la ripresa della produzione e del commercio interno. La risposta delle istituzioni economiche e finanziarie, pubbliche e private, per lungo tempo, non è stata risolutiva. Il Giappone è apparso (e appare tuttora) incerto nella scelta tra libero mercato e intervento statale, non optando con determinazione per la prima soluzione o l’altra. Nel 1997 il mondo finanziario è stato percorso da una grave crisi. Negli anni seguenti si assiste alla fusione delle banche sino ad allora considerate il nucleo dei gruppi finanziari: nel 2000 la DaiIchi, la Fuji e la Nihon sangyō si sono alleate per dare vita al Mizuho Finansharu Gurūpu (Mizuho Financial Group, Inc.); nel 2001 Sumitomo e Mitsui hanno formato un gruppo che si colloca al secondo posto nella classifica mondiale degli istituti di credito per dimensione patrimoniale, superando la Deutsche Bank e la svizzera UBS. A questi profondi cambiamenti nel settore bancario, riscontrabili anche tra le società di assicurazione, si sono contrapposte le serie difficoltà del settore industriale. Tra i colossi dell’auto, la Toyota e la Mitsubishi hanno attuato drastiche riduzioni di personale. La Nissan, il cui acquisto del pacchetto di maggioranza da parte della Renault fece scalpore, ha attuato la chiusura di cinque stabilimenti. Inoltre, la persistente recessione ha favorito l’ingresso di capitali stranieri, seppure con pacchetti di minoranza, in molte società giapponesi. La lunghissima fase recessiva è stata superata nel 2005, con una crescita prevista per il 2006 del prodotto interno lordo intorno al 2-2,5%. Pertanto, la Banca del Giappone ha deciso di abbandonare il «tasso zero», introducendo il tasso di interesse dello 0,25%. Nel settore dell’auto, la Toyota, anche in conseguenza della crisi della General Motors, ha ripreso la sua corsa verso il primo posto nel settore. Con la conferma di Koizumi Jun’ichirō alla guida del governo con le elezioni del 2005, il Giappone tenta di perseguire la kokusaika (internazionalizzazione), ma l’armonizzazione tra globalizzazione/liberalizzazione e politica economica tradizionale non appare semplice, a causa delle resistenze del mondo economico e finanziario e della potente burocrazia ministeriale. Un primo passo in direzione del cambiamento è stato compiuto nel marzo del 2006, con l’approvazione di una legge di riforma amministrativa che riduce il numero dei funzionari civili, avvia la vendita di società pubbliche e riforma le organizzazioni finanziarie pubbliche. Nel settembre del 2007, dopo le elezioni generali, Fukuda Yasuo, un liberaldemocratico di lungo corso, è stato nominato Primo ministro. Capitolo undicesimo. Sviluppi interni e sfide internazionali nel nuovo millennio 1. Dal «ventennio perduto» all’Abenomics Se, alle soglie del nuovo millennio, il periodo di crisi successivo allo scoppio della bolla è stato definito «decennio perduto», la stagnazione economica proseguita ben oltre gli anni Novanta induce oggi a parlare piuttosto di «ventennio perduto». Nel 2010 il Giappone ha dovuto cedere alla Cina il posto di seconda economia mondiale. Dopo aver registrato una ripresa agli inizi del nuovo millennio, la situazione economica giapponese ha pesantemente risentito degli effetti della crisi finanziaria generata dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008, che ha causato una grave caduta delle esportazioni e della domanda interna, generando un forte calo della produzione e un aumento del tasso di disoccupazione. Il governo guidato da Asō Tarō (succeduto a Fukuda nel settembre 2008) ha dimostrato numerosi limiti nella sua capacità di fronteggiare le ricadute economiche della crisi finanziaria mondiale, alle quali il premier ha fornito risposte spesso incoerenti. Ciò ha indotto Asō a indire elezioni anticipate nell’agosto del 2009, il cui esito ha determinato un cambio di guida nel governo: il Partito democratico ha infatti riportato un marcato successo ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera bassa. Il 16 settembre il democratico Hatoyama Yukio si è pertanto insediato come Primo ministro alla guida di una coalizione che includeva il Partito socialdemocratico e il Nuovo partito del popolo (Kokumin shintō). Questa vittoria è apparsa come un fatto storico, tuttavia la scarsa capacità di Hatoyama di tradurre nella pratica gli intenti annunciati, e il suo coinvolgimento in uno scandalo per violazione della legge sui finanziamenti ai partiti, hanno determinato un repentino calo di consensi già a pochi mesi dal suo insediamento. La sua impopolarità è stata alimentata da nuovi scandali che hanno coinvolto il potente segretario generale del partito Ozawa Ichirō e, infine, dall’esplicita ammissione di non poter rispettare l’impegno di ridurre la presenza delle basi militari statunitensi a Okinawa. Le dimissioni di Hatoyama sono arrivate il 2 giugno 2010. La popolarità del suo successore Kan Naoto, attivista per i diritti civili negli anni giovanili e tra i fondatori del Partito democratico, si è riflessa in una ripresa di consensi che, tuttavia, non è stata sufficiente a garantire il successo alle elezioni dell’11 luglio. La perdita della maggioranza alla Camera alta ha reso meno incisivo il programma di governo, volto a contenere un debito pubblico vicino al 200% del prodotto interno lordo, ad aumentare la spesa sociale e la tassa sui consumi, a limitare l’apprezzamento dello yen e a rilanciare le esportazioni. Nel 2011 nuovi gravi problemi sono sorti a seguito del triplice disastro (il sisma, lo tsunami e l’incidente alla centrale di Fukushima) dell’11 marzo che, oltre a causare circa 18.500 perdite tra morti e dispersi, a produrre ingenti danni materiali e a richiedere fondi per la ricostruzione delle aree colpite, ha indotto a sospendere progressivamente l’attività di tutte le centrali nucleari presenti in Giappone, generando un incremento delle importazioni destinate a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese, con riflessi negativi sulla bilancia commerciale. La scarsa efficacia dimostrata da Kan e dal suo governo ha suscitato aspre critiche non solo presso l’opposizione, ma anche da parte di membri dello stesso Partito democratico, in primis Ozawa, minandone la già fragile coesione interna. A fine agosto egli rassegnava quindi il suo mandato, e come suo successore alla carica di Primo ministro veniva eletto il suo ex ministro delle Finanze, Noda Yoshihiko. La scelta di Noda, individuata come una soluzione di compromesso volta a ricomporre le tensioni interne al suo partito, ha tuttavia segnato un ulteriore allontanamento dal programma che era stato premiato dall’elettorato due anni prima. Noda ha adottato una politica di rigore nella spesa e un rialzo dell’imposta sui consumi, rivelatisi incoerenti con l’obiettivo di superare la crisi post 11 marzo. L’approvazione della legge fiscale nell’estate del 2012, che prevedeva un aumento della tassa sui consumi sino al 10% entro il 2015, è stata possibile solo grazie a un compromesso con il Partito liberaldemocratico, il quale ha dato il proprio appoggio in cambio dell’impegno di Noda a convocare le elezioni anticipate. Oltre a indurre Ozawa a dimettersi dal partito, la nuova legge ha provocato un diffuso malcontento presso un’opinione pubblica. Mentre diveniva sempre più difficile individuare una netta linea di separazione – in politica interna così come in quella estera – tra la linea dei democratici e quella dei loro maggiori rivali liberaldemocratici, Noda provvedeva a sciogliere la Camera bassa e a indire le elezioni anticipate. Meno del 60% dell’elettorato si è recato alle urne il 16 dicembre per decretare la fine dell’era democratica e il ritorno dei liberaldemocratici alla guida del governo. La rielezione a Primo ministro di Abe Shinzō, che aveva ricoperto questo incarico nel 2006-07, ha riportato sulla scena politica un esponente della corrente più conservatrice del Partito liberaldemocratico, determinato a trovare una soluzione alla prolungata tendenza alla deflazione e alla bassa crescita con un ambizioso programma di politica economica noto come Abenomics. Tale programma mira a promuovere lo sviluppo economico attraverso una politica monetaria espansiva, una politica fiscale flessibile e riforme strutturali finalizzate ad aumentare la competitività dell’economia del Paese, con una svalutazione dello yen che favorisca le esportazioni a beneficio delle grandi aziende esportatrici che, incrementando i salari, contribuirebbero ad aumentare i consumi interni, con positive ricadute sull’intero ciclo economico. La politica della Banca del Giappone mira, pur senza grandi successi, a promuovere gli investimenti tramite la riduzione dei tassi di interesse. Questo programma ha prodotto esiti altalenanti: l’aumento dell’imposta sui consumi ha avuto un riflesso negativo, il prodotto interno lordo ha continuato a subire oscillazioni nelle stime trimestrali; il debito pubblico si è avvicinato al 250% del prodotto interno lordo, e le riforme economiche finalizzate ad aumentare gli investimenti nel settore privato e ad innalzare il tasso di popolazione attiva procedono con difficoltà. La politica di Abe è orientata verso un modello di società maggiormente competitiva e meritocratica, dove alle tradizionali garanzie occupazionali e di carriera vanno sostituendosi una crescente flessibilità e mobilità nel mercato del lavoro. Un sondaggio del 2015 ha rivelato che il 90% degli intervistati non riteneva di aver tratto beneficio dalle politiche economiche del governo. 2. Le trasformazioni economiche e sociali L’aumento della disoccupazione e della precarizzazione del lavoro ha prodotto un divario tra le generazioni entrate nel mercato del lavoro nella fase di prosperità economica e quelle che sono divenute adulte negli anni successivi. Dalla metà degli anni Novanta, il ricorso a forme di lavoro temporaneo è andato affermandosi anche tra le grandi aziende. Va tramontando l’idea secondo cui la retribuzione debba essere proporzionale all’anzianità di servizio, a favore di criteri fondati su meritocrazia e produttività. Il divario che separa i lavoratori regolari da quelli irregolari si riflette in una crescita della disuguaglianza nei redditi e nei consumi. Nelle famiglie composte da due o più persone, il reddito e la propensione al consumo crescono proporzionalmente all’età: i nuclei più giovani spendono (e guadagnano) meno di quelli più adulti. Questa tendenza, tuttavia, interessa in modo diverso le coppie con uno o più figli, quelle senza figli e le famiglie composte da figli che vivono con un solo genitore. Poiché gran parte delle donne continua a rinunciare al posto di lavoro dopo il parto, le famiglie con prole sono in genere sostenute da un solo reddito, ed è tra queste che si registrano livelli maggiori di difficoltà economiche. Tra i nuclei con un solo componente, la tipologia prevalente in Giappone, vi è stato un generale e progressivo calo dei consumi, maggiormente accentuato tra le fasce in età lavorativa più giovane e, in particolare, tra i In particolare, nel corso della campagna elettorale aveva assunto un impegno che toccava un punto nevralgico nelle relazioni con gli Stati Uniti, quello cioè di trasferire la base militare statunitense di Futenma al di fuori della provincia di Okinawa la quale alloggia il 74% delle strutture militari americane presenti in Giappone. Lo spostamento di Futenma situata nel centro urbano di Ginowan, era stato concordato nel 1996, dopo che l’ondata di proteste levatasi a Okinawa l’anno precedente a seguito dell’ennesimo caso di violenza sessuale da parte di militari americani – stavolta a carico di una dodicenne – aveva indotto Tōkyō e Washington a considerare la necessità di ridurre l’arsenale militare nella provincia. Nel 2006 il governo liberaldemocratico di Koizumi e l’amministrazione Bush avevano sottoscritto un accordo sulla riallocazione della base di Futenma nella meno popolata baia di Henoko, a nord dell’isola di Okinawa, entro il 2014. Il governo di Tōkyō , su cui avrebbe dovuto peraltro gravare gran parte delle spese necessarie all’operazione, aveva continuato a vagliare la possibilità di individuare un sito alternativo a Okinawa, pur senza successo. Nonostante la presenza di un democratico alla Casa Bianca, la cui elezione aveva segnato una forte discontinuità con i suoi predecessori, la prospettiva di rivedere l’accordo del 2006 provocò immediate reazioni nell’esecutivo di Obama, il cui ministro della Difesa Robert Gates, in visita a T ō ky ō nell’ottobre del 2009, escluse espressamente l’eventualità di ridiscuterlo. A maggio Hatoyama è stato costretto ad ammettere l’impossibilità di trasferire la base di Futenma al di fuori di Okinawa e a riconoscere l’importanza della cooperazione con gli Stati Uniti per garantire la pace e la sicurezza nella regione, provocando l’uscita dei socialdemocratici dal governo, e concludendo l’esperienza del suo governo. Il suo successore Kan ha ribadito, all’indomani del suo insediamento, la centralità dell’alleanza con gli Stati Uniti, impegnandosi a tener fede agli accordi del 2006 circa il trasferimento di Futenma a Henoko, mentre Noda si è recato a Washington nella primavera del 2012 per sottoscrivere con Obama una dichiarazione congiunta che definiva tale alleanza come una pietra miliare per la pace e la sicurezza nella regione dell’Asia e del Pacifico. Allo stesso tempo, è stato anche deciso di separare il tema del trasferimento dei militari statunitensi in territori esterni al Giappone da quello della riallocazione di Futenma, confidando che ciò avrebbe facilitato la soluzione del problema. Il ritorno dei liberaldemocratici al governo alla fine del 2012 ha fornito un’ulteriore conferma della solidità dell’alleanza nippo-statunitense. Il permesso per avviare i lavori nella baia di Henoko è stato revocato nell’ottobre del 2015 dal governatore Takeshi Onaga, la cui elezione con un programma esplicitamente contrario alla permanenza di Futenma nella provincia ha confermato l’orientamento prevalente tra l’opinione pubblica locale. Il governo centrale ha reagito alla sfida di Onaga citandolo in giudizio, e trasferendo in tal modo la contesa nelle aule di un tribunale. Per quel che riguarda la Corea del Nord, l’impegno di porre termine al programma nucleare assunto dal governo di Pyongyang nel 2007 è stato disatteso due anni dopo con un secondo test nucleare. Nel 2010 l’affondamento di una corvetta sudcoreana, presumibilmente da parte della Corea del Nord, ha acuito le tensioni nella regione, che non si sono attenuate dopo l’ascesa al potere del giovane Kim Jong-un nel 2011. A febbraio del 2013 il giovane dittatore ha fatto eseguire un terzo test nucleare, mentre le minacce rivolte al Giappone e alle basi militari statunitensi stanziate nel proprio territorio hanno indotto il governo di Abe a schierare, due mesi dopo, batterie anti-missile nella capitale e a chiedere agli Stati Uniti rassicurazioni circa la loro disponibilità a difendere il Giappone dalla minaccia nordcoreana. L’ascesa economica e militare della Cina, e i riflessi che ne conseguono in termini geopolitici, hanno contribuito a rendere sempre più conflittuali le relazioni tra T ō ky ō e Pechino. Emblematica, in tal senso, è la disputa territoriale per le Senkaku (Diaoyu in cinese), un gruppo di isole disabitate situate in una zona ricca di riserve petrolifere, minerarie e ittiche del Mar Cinese Orientale, non lontane da Taiwan. Le isole rientrarono negli accordi di pace del 1952 e, pertanto, furono poste sotto l’occupazione statunitense sino al 1972. La Cina, che non sottoscrisse il Trattato di pace, denuncia invece la mancata restituzione delle isole, che sarebbero state occupate dal Giappone imperiale e, dunque, avrebbero dovuto essere riottenute con il crollo dell’impero coloniale nipponico nel 1945. La contesa tra Tōkyō e Pechino si è riacuita nel settembre del 2010, con l’arresto del capitano di un peschereccio cinese fermato dalla guardia costiera giapponese nei pressi delle isole. A questo incidente hanno fatto seguito altre provocazioni e prove di forza da entrambe le parti, finché nell’estate del 2012 il governo di Noda ha annunciato l’acquisto di una parte delle isole dai legittimi proprietari, ciò ha provocato accese reazioni da parte di Pechino e nuove, violente dimostrazioni antigiapponesi in Cina. Ad allentare le tensioni non ha contribuito il ritorno di Abe al potere, né l’elezione di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare cinese: i leader della seconda e della terza economia del mondo, infatti, sono determinati ad assicurare al proprio Paese un ruolo di maggior rilievo nello scenario regionale e internazionale. Nel novembre del 2013 Pechino ha annunciato l’intenzione di istituire una Zona d’identificazione per la difesa aerea su una porzione di mare che comprende anche le isole contese. Non solo per Tōkyō, ma anche per Washington ciò confermerebbe i progetti egemonici della Cina nella regione, che gli Stati Uniti e i suoi alleati asiatici intendono invece contenere. La reazione statunitense è arrivata pochi giorni dopo, quando due bombardieri americani sono entrati nella zona di difesa aerea istituita dalla Cina la quale, tuttavia, si è limitata a denunciare l’episodio come una violazione dello spazio aereo nazionale. È dunque anche nel contenimento della Cina che gli obiettivi di Tōkyō si saldano con quelli dell’alleato statunitense. Se è dall’Asia che provengono le maggiori sfide all’egemonia statunitense e, più in generale, allo status quo delineatosi con la fine della guerra fredda, il dinamismo economico asiatico e la crescita del volume degli scambi commerciali transpacifici hanno indotto l’amministrazione Obama ad adottare la strategia del cosiddetto «pivot to Asia». Tale strategia individua nell’Asia e nel Pacifico lo spazio in cui espandere ulteriormente gli scambi commerciali con i partner asiatici. Una politica che si è tradotta nella conclusione, nell’ottobre del 2015, della Trans Pacific Partnership (Tpp), un Trattato di libero scambio cui hanno aderito Stati Uniti, Giappone e altri dieci paesi che si affacciano sul Pacifico. L'accordo ha un’importanza rilevante, dal momento che i paesi interessati esprimono, nel loro insieme, circa il 40% della produzione mondiale. Mirando a contenere l’espansione economica cinese e rappresentando il primo accordo di libero scambio cui aderiscono Giappone e Stati Uniti, il trattato ricopre una notevole importanza nelle relazioni nippostatunitensi anche in termini geopolitici, tanto più alla luce di altri cruciali provvedimenti promossi dal governo Abe, volti a dare un nuovo indirizzo strategico alle politiche di sicurezza e di difesa del Giappone e a rinsaldare l’alleanza tra i due paesi. Già nel novembre del 2013 è stata decisa la creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale giapponese, e il mese successivo è stata approvata una legge che introduce pene detentive per la rivelazione di segreti di Stato e permette al governo di secretare documenti relativi alla difesa, la diplomazia, le misure di antiterrorismo e di controspionaggio. Un’altra svolta storica si è avuta nell’aprile del 2015, con l’annuncio di nuove linee guida per la cooperazione alla difesa, in base alle quali il Giappone può collaborare attivamente al di fuori dei confini nazionali. A settembre si è concluso il contrastato iter parlamentare di un pacchetto di leggi che espandono il ruolo delle Forze di autodifesa, consentendo il loro intervento all’estero a supporto di forze armate di paesi amici o alleati (in primis statunitensi), anche in assenza di una diretta minaccia per il Giappone. Il provvedimento si pone all’interno di un progetto che, secondo Abe, dovrebbe consentire al Giappone di fornire un «contributo proattivo alla pace» e che, di fatto, mira a rafforzare il profilo politico del Paese sulla scena internazionale attraverso un accresciuto ruolo delle proprie forze armate. A fronte della minaccia rappresentata dalla Cina, il governo di Abe ha consolidato una rete di intese strategicomilitari con l’India, le Filippine e l’Australia. Sui rapporti tra Tōkyō e Seoul pesano numerosi problemi, a partire dall’irrisolta questione delle cosiddette comfort women, sulla quale Abe si era già espresso nel corso del suo primo mandato. Nel 2007, infatti, egli aveva affermato di ritenere che le prestazioni sessuali di queste donne fossero state volontarie e remunerate, sconfessando in tal modo la storica dichiarazione votata dal Parlamento giapponese nel 1993, che ammetteva per la prima volta le responsabilità delle autorità militari nipponiche nel reclutamento forzato di queste donne. Un altro problema è rappresentato dalla contesa per il gruppo di isolotti Takeshima (Dokdo in coreano), peraltro acuita dall’annuncio fatto agli inizi del 2014 dal ministro dell’Educazione giapponese, il quale ha dichiarato che i manuali in uso nelle scuole del Paese saranno revisionati specificando che il territorio nazionale include le isole Takeshima e, anche, le Senkaku disputate con la Cina. I manuali scolastici, soggetti ad approvazione governativa, continuano a suscitare polemiche anche per le reiterate omissioni circa i crimini commessi dai militari nipponici nel periodo bellico. L’Asia Orientale è pervasa da profonde conflittualità e da spinte nazionaliste, che si sono acuite soprattutto con l’ascesa, tra la fine del 2012 e gli inizi del 2013, di Abe, Xi e Park alla guida dei rispettivi paesi. A novembre 2015, inoltre, si sono riuniti per la prima volta il Premier Abe, la Presidente Park e il Primo ministro cinese Li Keqiang: oltre a dibattere temi che vanno dalla cooperazione economica al problema nordcoreano, i tre leader si sono impegnati a riavviare i periodici vertici trilaterali. A dicembre, infine, è stato possibile raggiungere un importante accordo tra Tōkyō e Seoul, nel quale l’ammissione delle responsabilità nipponiche nel reclutamento forzato delle cosiddette «donne di conforto» è stata accompagnata dallo stanziamento di un contributo che Tōkyō verserà al fondo per le vittime istituito dalla Corea del Sud. 5. Prospettive future È plausibile ritenere che Pyongyang si limiti a usare la minaccia di ricorrere all’arma atomica per scongiurare un attacco esterno, e che la presenza statunitense nell’area funga da deterrente a eventuali iniziative militari da parte di Pechino. Tuttavia, è all’interno di questo scenario che Tōkyō ha orientato la propria politica estera, consolidando l’alleanza con Washington e compiendo scelte rilevanti che implicano una riconsiderazione del ruolo del Giappone sulla scena internazionale e, anche, della clausola costituzionale pacifista. Tali scelte hanno generato reazioni negative non solo tra i vicini asiatici, ma anche presso l’opinione pubblica di un Paese che ha ricostruito la propria identità postbellica attorno al pacifismo sancito dall’articolo 9 della Costituzione. Una delle sfide cruciali riguarda il costante calo della popolazione, soprattutto di individui in età riproduttiva e lavorativa, sul quale si potrebbe intervenire rivedendo le restrittive politiche sull’immigrazione. Oltre a determinare una rivoluzione culturale non solo nel mercato del lavoro ma anche nella società giapponese, tale mutamento potrebbe fornire un’alternativa alla prospettiva di vedere i centri urbani, dove si concentra oggi oltre il 90% della popolazione, trasformarsi in spazi meno densamente popolati ed economicamente sviluppati, ma più vivibili e sostenibili sotto il profilo sociale, ambientale e umano. Anche rivedendo le politiche in materia di immigrazione, è probabile che in una società sempre più 1881 dimissioni di Ōkuma; il governo annuncia l’istituzione di un Parlamento entro il 1890; Matsukata ministro delle Finanze 1882 promulgato il Rescritto imperiale ai soldati e ai marinai; nasce la Banca del Giappone 1884 istituzione del sistema di nobiltà in cinque gradi 1885 appare l’articolo «Datsu A ron» di Fukuzawa Yukichi; adottato il sistema di gabinetto in sostituzione del Dajōkan; Itō Primo ministro 1886 fine della deflazione; il Paese acquisisce una solida base monetaria in grado di sostenere l’industrializzazione; fondazione dell’Università imperiale di Tōkyō 1887 introdotta a Tōkyō l’energia elettrica 1888 istituito il Consiglio Privato, di cui Itō assume la guida 1889 promulgata la Costituzione 1890 prime elezioni in Giappone; convocazione della prima assemblea nazionale; Rescritto imperiale sull’educazione 1894 inizia la guerra contro la Cina 1895 Conferenza di pace a Shimonoseki; Triplice intervento di Russia, Francia e Germania; annessione di Taiwan 1897 adozione del gold standard 1898 nasce il Partito costituzionale 1899 abolizione della clausola dell’extra-territorialità; è importata dagli Stati Uniti la prima automobile 1900 approvata la Legge di polizia per l’ordine pubblico; il Giappone invia 8.000 uomini in Cina in occasione della rivolta dei Boxers; Itō fonda il Partito degli amici del governo costituzionale 1901 a due giorni dalla sua fondazione, il Partito socialdemocratico è messo al bando 1902 Trattato di alleanza con la Gran Bretagna 1903 scioglimento dell’Associazione proletaria 1904 il Giappone muove guerra alla Russia 1905 la flotta russa del Baltico è annientata nella battaglia di Tsushima; Conferenza di pace a Portsmouth; rivolta di Hibiya; promulgata la legge marziale; la Corea diventa protettorato del Giappone 1906 nasce il Partito socialista giapponese; fondata la Società ferroviaria della Manciuria Meridionale 1909 Itō Hirobumi ucciso da un patriota coreano 1910 annessione della Corea; fondazione dell’Associazione imperiale dei riservisti; Kōtoku Shūsui e altri attivisti di sinistra sono processati per lesa maestà: dodici i condannati a morte 1911 raggiunta la completa autonomia tariffaria 1912 muore l’Imperatore Meiji Periodo Taishō (1912-1926) 1912 Suzuki Bunji fonda l’Associazione della fratellanza 1913 l’ammiraglio Yamamoto Gonnohyōe è Primo ministro 1914 il Giappone occupa i territori cinesi e le isole del Pacifico sotto la dominazione tedesca 1915 Tōkyō presenta le «Ventuno richieste» alla Cina 1918 spedizione in Siberia; scoppiano i «moti del riso»; Hara Primo ministro 1919 Conferenza di pace a Versailles; movimenti del Primo marzo in Corea e del Quattro maggio in Cina; nasce la Federazione generale del lavoro del Giappone Associazione della fratellanza 1921 Hara è ucciso da un nazionalista; Takahashi Korekiyo del Seiyūkai diventa Primo ministro; si apre la Conferenza di Washington 1922 Trattato navale e Trattato delle nove Potenze di Washington; l’ammiraglio Katō Tomosaburō è Primo ministro 1923 autorizzata la pubblicazione dell’opera Lineamenti delle misure per la riorganizzazione del Giappone di Kita Ikki; secondo governo Yamamoto; grande terremoto del Kantō 1924 al breve governo di Kiyoura Keigo succede quello di Katō Takaaki, presidente del primo «governo di partito»; varata la Legge per l’arbitrato dell’affittanza 1925 diritto di voto a tutti i maschi adulti; promulgata la Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico; arresto degli studenti del Gakuren; prime trasmissioni radiofoniche 1926 muore l’Imperatore Taishō Periodo Shōwa (1926-1989) 1926 Hirohito, già reggente, è il 124° Imperatore; massicci scioperi e azioni di sabotaggio nel Paese 1927 «panico Shōwa»: il governo proclama la moratoria di 21 giorni per tutti i prelievi da parte dei clienti delle banche 1928 prime elezioni a suffragio generale maschile; arresto di dirigenti e militanti del Partito comunista giapponese; con decreto imperiale, viene introdotta la pena di morte per i «crimini di pensiero» 1929 crollo del mercato azionario di Wall Street; il ministro delle Finanze Inoue Junnosuke annuncia la riadozione della base aurea 1930 Trattato internazionale di Londra; la terra ceduta in affitto tocca quasi il 47% del totale 1931 l’armata giapponese del Kwangtung invade la Manciuria: inizia la «Guerra dei quindici anni»; Takahashi Korekiyo ministro delle Finanze del governo Inukai; definitivo abbandono del gold standard 1932 fondato lo Stato fantoccio del Manchukuo; il Primo ministro Inukai è assassinato; fine dei «governi di partito» 1933 il Giappone abbandona la Società delle Nazioni 1935 «caso Minobe» 1936 «incidente del 26 febbraio»; Patto anti-Comintern con la Germania nazista 1937 Konoe Fumimaro Primo ministro; inizio della guerra contro la Cina; condanna a morte di Kita Ikki; deliberata l’attuazione della Legge per la mobilitazione dell’industria degli armamenti e approvate la Legge di regolamentazione delle esportazioni e importazioni delle merci e la Legge sul controllo temporaneo dei capitali; l’Italia aderisce al Patto anti-Comintern; le truppe giapponesi entrano a Nanchino 1938 l’Associazione per la collaborazione (Kyōchōkai) propone lo «Schema per la regolamentazione dei rapporti fra capitale e lavoro»; approvata la Legge di mobilitazione generale nazionale proposta dal governo Konoe; Legge di controllo dello Stato sull’energia elettrica 1940 «caso Tsuda»; il Giappone firma il Patto Tripartito con l’Italia fascista e la Germania nazista; Konoe fonda l’Associazione per il sostegno della direzione imperiale; nascono l’Associazione patriottica per l’industria del Grande Giappone e altre associazioni patriottiche; annunciati i Lineamenti per la costituzione del Nuovo ordine economico 1941 proclamato il razionamento di tutti i beni di prima necessità; Patto di neutralità con l’Unione Sovietica; la Germania invade l’Unione Sovietica; il Giappone occupa l’Indocina francese; embargo totale delle importazioni verso il Giappone da parte degli Stati Uniti; emanati i decreti sulle licenze per le imprese, sulla riorganizzazione delle imprese e sul controllo dei materiali; promulgato il Decreto sulla associazione delle industrie principali; attacco alla base statunitense di Pearl Harbor 1942 istituzione della Sfera di prosperità comune della Grande Asia Orientale; battaglia delle Midway 1943 Legge sulle società produttrici di munizioni 1944 caduta di Saipan; inizio dei bombardamenti alleati sulle città giapponesi 1945 gli Alleati conquistano Iwojima; incursione aerea su Tōky: 84.000 morti; sbarco alleato a Okinawa; Conferenza di Potsdam; bombardamenti atomici su Hiroshima (6 agosto) e su Nagasaki (9 agosto); entrata in guerra dell’Unione Sovietica (8 agosto); Tōkyō accetta la resa incondizionata (15 agosto); inizia l’occupazione alleata del Giappone 1946 Hirohito rinuncia alla sua natura divina; inizio del «tour imperiale»; inviata allo Scap la bozza della Costituzione di Matsumoto; si aprono i lavori del Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente istituito dagli Alleati e di Tribunali per i crimini di guerra in varie città asiatiche; promulgata la nuova Costituzione del Giappone; avvio della riforma fondiaria 1947 lo Scap vieta lo sciopero dei dipendenti pubblici; entra in vigore la nuova Costituzione 1948 Piano Dodge; Yoshida Shigeru Primo ministro; terminano i lavori del Tribunale di Tōkyō: 7 condannati a morte e 18 a pene detentive 1949 il tasso di cambio dello yen contro dollaro è fissato a 360/1; il primo accordo «privato» avvia il commercio tra Giappone e Cina 1950 «purga rossa» contro dirigenti e iscritti al Partito comunista; inizio della guerra di Corea; istituzione della Riserva di polizia nazionale 1951 Trattato di pace di San Francisco; Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti 1952 fine dell’occupazione alleata 1953 il Giappone aderisce al Fondo monetario internazionale; prime trasmissioni televisive 1954 istituita l’Agenzia della Difesa 1955 nasce il Partito liberaldemocratico; il Giappone aderisce al Gatt 1956 ristabilimento delle relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica; scoppia il «caso Minamata»; il Giappone è ammesso all’Onu 1960 rinnovo del Trattato di sicurezza con gli Stati Uniti: massicce le proteste popolari 1964 nuova linea ferroviaria superveloce tra Tōkyō e Ōsaka; Olimpiadi a Tōkyō 1965 la bilancia commerciale giapponese comincia a essere in attivo 1968 premio Nobel per la letteratura a Kawabata Yasunari 1969 accordo con gli Stati Uniti per il «ritorno» di Okinawa; studenti occupano l’Università di Tōkyō 1970 il Giappone sottoscrive il Trattato di non proliferazione nucleare; l’1,1% della popolazione attiva è senza lavoro 1971 primo «Nixon shock»: il Presidente statunitense in visita a Pechino 1972 secondo «Nixon shock»: gli Usa abbandonano il gold standard; un comunicato congiunto nippo-cinese annuncia lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra i due Stati; nasce l’Agenzia governativa per l’Ambiente; Sapporo sede delle Olimpiadi invernali; il Giappone riottiene la piena sovranità su Okinawa; il Primo ministro Tanaka annuncia il riconoscimento della Repubblica popolare cinese 1973 inizia la prima crisi petrolifera 1975 l’Imperatore Hirohito in visita negli Stati Uniti 1976 l’ex Primo ministro Tanaka Kakuei è travolto dallo scandalo Lockheed 1978 Trattato di pace con la Repubblica popolare cinese; inaugurato il nuovo aeroporto internazionale di Narita 1979 summit a Tōkyō dei Paesi industrializzati
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