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Storia del Giappone, Gatti-Caroli, Sintesi del corso di Storia dell'Asia

Riassunto completo dei capitoli da IV a IX del manuale di Storia del Giappone Gatti-Caroli, esame Storia dell'Asia Orientale e Sud-Orientale, Sapienza, prof. Del Bene

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Storia del Giappone, Gatti-Caroli e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Storia del Giappone, F. Gatti [...] Capitolo quarto. Verso un «feudalesimo centralizzato»: la riunificazione del Paese e l'istituzione del «bakufu» di Edo L'avvio dell'opera di riunificazione: dall'ascesa di Oda Nobunaga al regime di Toyotomi Hideyoshi La fine del decentramento dell'epoca Sengoku fu opera di tre daimyō che dopo aver consolidato il potere nei propri territori, lo estesero sull'area di Kyōto e sul resto del Paese. La riunificazione fu però possibile grazie a una serie di fattori che portarono a una trasformazione politica, sociale ed economica del Giappone: – i daimyō affermarono un rigido controllo sui loro territori e sulle classi inferiori; – le nuove tecnologie in campo militare accrebbero la distanza tra chi poteva permettersi di armare un esercito moderno e chi no; – la generale crescita economica e l'espansione dell'attività commerciale interna ed estera, con molti daimyō che dagli scambi con l'estero acquisivano una nuova ricchezza non legata alle rendite fondiarie; Proprio per favorire l'espansione dei commerci, Oda offrì la sua protezione ai missionari cristiani, tuttavia il Cristianesimo era ancora avvertito come una minaccia per la stabilità della società giapponese e l'attività dei missionari era considerata l'apripista della conquista militare europea. Inoltre il sistema socio-economico che scaturì dalla riunificazione era incentrato tutto sull'attività agricola e pertanto il commercio con l'estero passò in secondo piano, portando il Giappone verso la chiusura definitiva. Nel 1568 che Oda Nobunaga conquistando Kyōto diede il via al processo di riunificazione. Dotato di grandi capacità militari, Oda era emerso nel 1560, dopo aver sconfitto un daimyō rivale e da allora aveva consolidato e allargato il suo potere attraverso alleanze e matrimoni. L'Imperatore si rivolse a lui per pacificare l'area della capitale e Ashikaga Yoshiaki (1537-1597) gli chiese aiuto per assicurarsi la successione alla carica di shōgun, tuttavia i due entrarono presto in contrasto e nel 1573 Oda costrinse lo shōgun all'esilio lontano dalla capitale, decretando la fine del bakufu degli Ashikaga e del periodo Muromachi. Nobunaga consolidò il suo potere, eliminando i daimyō rivali che si erano alleati con monasteri, templi e con i mercanti di Sakai (principale porto del Giappone) o costringendoli a divenire suoi vassalli. Nobunaga fu particolarmente severo nei confronti dei centri religiosi a lui ostili e mise fine all'autonomia che essi avevano sempre detenuto, ponendo le basi per l'assoggettamento del Buddhismo e dello Shintoismo al potere militare. Nei confronti del Cristianesimo egli fu invece magnanimo, attirando numerosi missionari e mercanti europei e acquistando da loro innovazioni militari. Nobunaga fu infatti il primo a usare le nuove armi per scopi offensivi e difensivi; fece erigere fortezze in grado di resistere ai bombardamenti con le armi da fuoco e inaugurò la pratica di concentrare gli eserciti in questi luoghi fortificati che venivano poi adornati e abbelliti da esperti artisti: il loro scopo era infatti quello di glorificare i signori che vi abitavano. Nel 1582 Nobunaga fu assassinato e non poté quindi completare il suo progetto di riunificazione (tenka fubu). Al momento della sua morte controllava circa 30 delle 68 province del Giappone. Oltre all'attività militare, Nobunaga aveva dato il via a una ristrutturazione amministrativa e pose le basi per la successiva riunificazione politica. Egli si riservò le terre migliori, ma affidò ai suoi vassalli i feudi confiscati ai nemici. I signori risiedevano con le proprie truppe in un castello e ciò contribuì ad avviare la separazione della classe militare da quella dei contadini, vincolati al proprio status e privati delle loro armi. Per quanto riguarda la sfera religiosa, venne introdotto l'obbligo di affiliarsi ai templi autorizzati, mentre le zone rurali vennero riorganizzare in villaggi e si procedeva a una riforma catastale e fiscale. Oda si assunse poi il diritto di trasferire i suoi feudatari, dai quali pretese obbedienza assoluta. Il commercio fu favorito con varie misure e anche le comunità mercantile vennero messe sotto controllo. Il successore di Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi, era il suo più fedele e abile generale. Nel 1584 Hideyoshi stabilì il suo controllo sulla capitale e si insediò nel castello di Ōsaka. Ottenuta la fedeltà dei vassalli di Nobunaga, concluse diverse alleanze con altri daimyō tra cui Tokugawa Ieyasu. Nel 1585 venne nominato reggente imperiale (kanpaku) e nel 1590 riuscì a portare a termine la riunificazione, divenendo il capo supremo del Paese. Tuttavia la sua forza non risiedeva solo nelle sue armate, ma anche nella rete di alleanze che aveva costruito. Nonostante la riunificazione sotto un unico governo militare, il potere rimaneva ancora frammentato in numerose entità territoriali (han) ciascuna governato da un daimyō. Essi erano circa duecento e Hideyoshi fungeva da garante della loro posizione e assicurava la pace nel Paese. Egli pertanto provvide a disporre strategicamente i daimyō nelle varie regioni e pretese l'invio di ostaggi presso il proprio castello, in modo da garantire la loro fedeltà. Il grado di importanza di ciascun daimyō dipendeva dalla rendita del territorio che governava, stabilita in base a un nuovo sistema amministrativo fondato sulla revisione catastale avviata dal suo predecessore. Tale riforma (taiko kenchi) stabilì un uniforme sistema di tassazione: i terreni furono misurati in base alla loro capacità produttiva (calcolata in koku di riso) e ogni campo veniva affidato a una famiglia contadina con l'obbligo di lavorarlo e di versare una quota del raccolto in qualità di tassa, calcolata in base alla rendita media del terreno; le famiglie vennero raggruppate in villaggi (mura) con a capo uno shōya e vennero vincolate alla terra, costituendo un forte incentivo all'incremento della produzione agricola; essi erano sottoposti unicamente al governo del daimyō il quale era l'unico depositario dei diritti sulle risorse del suo han: più koku di riso incassava, più influente era la sua posizione. Nel 1598 l'imposta totale più basso, con le zone urbane affidate a dei magistrati. Questo modello era poi ricalcato da ciascun han con al vertice il daimyō che però doveva sottostare a precisi limiti e fungere da mediatore fra il sistema locale e quello centrale. I villaggi erano infine governati dai capi villaggio e gli abitanti non potevano né abbandonare né compravendere i terreni agricoli. Tale sistema di feudalesimo centralizzato prende il nome di bakuhan e la sua efficacia dipese dall'abilità dei Tokugawa nel mantenere l'equilibrio con i signori feudali, anche attraverso l'adozione di misure sociali tese a mantenere lo status quo. Le classi vennero differenziate attraverso il modello gerarchico dello shinōkōshō, che stabilì una scala in ordine di importanza e l'esistenza di categorie privilegiate (come i kuge e i monaci) e discriminate (come gli eta e gli hinin) raggruppate sotto il nome di senmin (basso rango) poiché svolgevano attività disprezzate. Ogni classe doveva adempiere a precisi oneri e non vi era mobilità sociale. Ne scaturì una società fortemente differenziata anche su base territoriale, con la prevalenza di samurai, mercanti e artigiani nelle città. Il pilastro ideologico di tale ordinamento era la dottrina sociale neoconfuciana, che avallò in toto il potere dei governanti e fornì una base etica per la vita pubblica e privata dei giapponesi. Il Confucianesimo divenne quindi la base della cultura giapponese, in particolare della classe militare che adottò un codice apposito (bushidō) che incoraggiava la formazione di militari acculturati. Le istituzioni religiose furono anch'esse sottomesse all'autorità del bakufu e alla sua celebrazione, con i templi buddhisti ormai completamente spogliati del loro potere economico e militare. Il Buddhismo e lo Shintoismo contribuirono quindi a rafforzare il potere dello shōgun specie nel contrasto alla diffusione del Cristianesimo, visto come una pericolosa dottrina e perseguitato ferocemente. Nonostante questo Ieyasu favorì il commercio con l'estero, specie in Cina, nelle Filippine e in Messico, nel tentativo di ridurre il potere economico delle regioni occidentali. Il rifiuto della Cina di istituire un commercio ufficiale portò Ieyasu a imporre un sistema di certificati che istituì il monopoli sul commercio estero che nel 1616 venne circoscritto ai porti di Nagasaki e Hirado. Sotto i successori di Ieyasu l'intolleranza verso il Cristianesimo di acuì e si giunse a una grande rivolta (1637) fomentata da samurai convertiti. Nel 1639 i portoghesi vennero espulsi e nel 1641 gli olandesi vennero confinati a Dejima (isolotto artificiale collegato a Nagasaki da un ponte). Anche i cinesi vennero relegati in un quartiere di Nagasaki. Nel 1635 ai giapponesi venne vietato di recarsi fuori dal Paese. Si entrava così nell'era Sakoku (del Paese chiuso) durante la quale i contatti con il mondo furono limitatissimi e concentrati a Nagasaki, nell'Hokkaido con gli ainu, a Tsushima dove il clan Sō si occupava dei rapporti fra Giappone e Corea (divenuta tributaria del Giappone) e infine a Satsuma dove gli Shimazu controllavano il Regno delle Ryūkyū, un tributario della Cina che quindi faceva da tramite tra i due Paesi. L'assetto economico, sociale e politico del periodo Il periodo Tokugawa (1603-1868) viene diviso in due fasi, il cui periodo di passaggio si colloca tra gli anni Trenta e Cinquanta del Settecento. In quegli anni vi fu un profondo mutamento dei rapporti economico-sociali, scaturiti dall'evoluzione di alcune aree del Paese, che incise e sul sistema mibun e sul bakufu, ponendo le basi per il rapido sviluppo dell'era Meiji. La politica del sakoku aveva fortemente limitato il commercio estero e favorito il mercato interno, mentre il sistema mibun (che imponeva ai bushi di vivere nelle città e di non svolgere alcun lavoro manuale) portò al progressivo impoverimento della classe militare e l'emergere di un ristretto numero di ricchi mercanti. Il sistema di tassazione prevedeva che la rendita di ciascun feudo fosse suddivisa tra i contadini e il daimyō che pagava così i samurai e provvedeva alle sue spese personali. Il capo di ciascun villaggio si occupava di versare l'imposta (in riso) e contrattava con gli intendenti del daimyō sugli importi dovuti. Tuttavia iniziarono a mostrarsi forti squilibri: nonostante il divieto di alienare i propri terreni, molte famiglie li cedevano in favore di altre, a causa di difficoltà economiche, pertanto vi fu un'alterazione dell'assetto economico e sociale dei villaggi. Inizialmente questo processo coincise con un aumento della produzione agricola, in particolar modo nel Kinai e nel Kantō dove si espansero le maggiori città del Paese (Edo e Kyoto-Osaka). L'introduzione di nuove tecnologie, tecniche e fertilizzanti, la diffusione di manuali di agronomia diedero luogo in alcune aree ad un aumento della produttività che permise pertanto una riduzione della manodopera nel settore agricolo. Aumentarono così le colture extra-cerealicole (cotone, tè, tabacco, canapa) destinate al commercio. I contadini che disponevano quindi di rendite più elevate iniziarono a investire in attività manifatturiere nei villaggi. Tale incremento andò però a vantaggio della popolazione rurale, con la classe militare che non riusciva a trarne alcun profitto. La concentrazione dei daimyō nell'area di Edo, e di tutti i loro dipendenti, portò alla nascita di un mercato nazionale ad alta intensità produttiva. I legami dei bushi con i mercanti si fecero più stretti perché i primi dovevano inevitabilmente affidarsi ai secondi per convertire i prodotti agricoli in merci necessarie. Nacque così una borghesia mercantile o ceto dei mercanti protetti, costituita da un ristretto numero di fiduciari dei daimyō. Negli han più grandi si diffuse l'uso delle lettere di credito sul riso e sull'argento, e i mercanti protetti iniziarono a praticare l'usura, anticipando ai daimyō le quote della tassa agricola e speculando sul prezzo del riso che tenevano ammassato nei loro magazzini. L'aumento dei consumi di lusso costrinse i daimyō a indebitarsi sempre di più, tuttavia quando anche il bakufu si ritrovò sommerso dai debiti, si attuarono diverse riforme commerciali e finanziarie nel tentativo di risolvere una crisi che però traeva origine dai nodi strutturali del sistema: innanzitutto la contraddizione tra il potere socio-economico che in teoria apparteneva alla classe militare e la realtà dei fatti, con una ricca classe mercantile. La situazione si aggravò poi sotto alcuni shōgun. Con l'ascesa di Ietsuna (1651) il potere passo nelle mani dei Consiglieri anziani, mentre gli interesse dei daimyō fudai iniziavano a prevalere su quelli dello shōgun. Il suo successore, Tsunayoshi (1680-1709), si affidò invece ai suoi ciambellani (sobayōnin) ambiziosi e dalle scarse capacità. Fu così che nei trent'anni in cui fu in carica, il governo subì un declino, aggravato dall'esaurimento delle riserve monetarie del bakufu e della famiglia Tokugawa a cui si tentò di porre un freno svalutando la moneta. La condotta privata di Tsunayoshi aggravò la situazione: egli viveva nel lusso e si dedicava a pratiche considerate immorali. I suoi successori Ienobu (1709-1712) e Ietsugu (1712-1716) dovettero fronteggiare una situazione gravissima. Loro consigliere fu il grande intellettuale Arai Hakuseki che tentò di raffermare un governo secondo il modello neoconfuciano. Tuttavia il primo che si impegnò veramente per risollevare il bakufu fu lo shōgun Yoshimune (1716-1745). daimyō di Kii, appartenente a uno dei rami cadetti dei Tokugawa, Yoshimune intraprese un grande programma di riforme volte a risanare la crisi finanziaria del governo e a ripristinare l'autonomia della classe militare. Si tentò di ridurre le uscite, invocando austerità e al governo e alla classe dei bushi, mentre si ridava valore alla moneta, tuttavia tra il 1721 e il 1722 il bakufu non fu in grado di pagare gli stipendi e si vide costretto a imporre ai daimyō un prestito forzoso in cambio di alcuni privilegi. Si decise inoltre per l'adozione di una tassa fissa sui redditi agricoli. A discapito degli effetti positivi per le casse dello shōgun, tali riforme provocarono il malcontento della classe contadina e scoppiarono numerose rivolte. Seguì una nuova stagione di riforme, con il governo che aprì alla penetrazione del capitale mercantile nelle zone rurali, legandosi così alle associazioni mercantili, alle quali concesse licenze ufficiali, annullando però tutti i debito contratti dai bushi con i mercanti. Le riforme però non riuscirono ad assicurare una solida base alle finanze del governo, né a risolvere i problemi strutturali del sistema giapponese dell'era Tokugawa. Alcune misure inerenti la stabilità del prezzo del riso inoltre, generarono un profondo malcontento, mentre gli oneri fiscali irritavano sia i contadini che i mercanti. In campo politico però le riforme servirono a ribadire l'autorità dello shōgun e il ritorno a un'amministrazione burocratica efficiente. I successori di Yoshimune, Ieshige (1745-1760) e Ieharu (1760-1786), politicamente fragili, non riuscirono a seguire il suo esempio. In particolare emerse la figura di Tanuma Okitsugu che si affermò come principale consigliere di Ieharu e ottenne la carica di rōjū. Profondamente corrotto e avido, perseguì una politica economica personalistica, aprendo ai traffici verso l'estero e introducendo per la prima volta le monete d'argento. La morte di Ieharu pose fine alla carriera di Tanuma. Nel 1787, Ienari assunse la carica di shōgun (che detenne poi fino al 1837) ereditando una situazione disastrosa, dovuta alla politica di Tanuma, che aveva svuotato le casse dello shōgun e aggravato i debiti dei samurai e degli han, ma anche a una serie di calamità naturali e carestie che portarono a numerose insurrezioni contadine. Nella prima fase del governo di Ienari, dominata dal consigliere Matsudaira Sadanobu, si ebbe una seconda stagione di grandi iniziarono a sperperare molto denaro. La cultura chonin era comunque attenta agli ideali di responsabilità e dovere, come testimoniano numerosi scritti. Nel frattempo si riaccese l'interesse per il mondo esterno con Arai Hakuseki, uno dei maggiori intellettuali e consigliere di Ienobu e di Ietsugu, che si occupò a lungo di geografia, storia e religione occidentali. A interessare era soprattutto la tecnologia. Nel 1720 fu eliminato il divieto all'importazione di opere occidentali e fu consentito l'insegnamento dell'olandese, si diffuse perciò l'attività di numerosi studiosi esperti di cose olandesi e in generale occidentali, soprattutto in campo medico e scientifico. Nel 1811 lo stesso bakufu istituì un centro di traduzione delle opere occidentali. Nel frattempo gli studi confuciani videro la nascita di dottrine eterodosse, alla ricerca di soluzioni originali rispetto al modello cinese, con la precisa intenzione di definire più nettamente e valorizzare l'identità giapponese. Alla fase finale del periodo Edo viene fatto risalire la rivalutazione della tradizione indigena delle origini, con toni spesso nazionalisti e xenofobi, e una decisa esaltazione dello Shintoismo che gettarono le basi del progressivo allontanamento del Giappone dal sistema sino- centrico e quindi il suo emergere come potenza principale dell'Asia dopo il 1868. Questo fermento intellettuale, volto a rivalorizzare anche il ruolo dell'Imperatore, fu uno degli ingredienti di cui la classe dominante giapponese si servì per edificare una nazione moderna. Capitolo quinto. L'ingresso del Giappone nel sistema internazionale, la nascita dello Stato nazionale e la transizione al capitalismo La crisi della società feudale e i prodromi dello Stato nazionale Nell'ultima parte del periodo Edo divenne sempre più evidente la crisi politica, sociale ed economica del sistema feudale. Nelle zone rurali scoppiavano spesso delle rivolte che si fecero più intense nel periodo 1830-1844 e si assistette al diffondersi fra i contadini di sette religiose il cui messaggio infondeva sollievo dalle privazioni quotidiane. Anche nelle città dilagò la violenza e molti samurai ormai versavano in condizioni disastrose. Il disagio nonostante fosse diffuso, tuttavia non si trasformò mai in una vera istanza politica in grado di compromettere il sistema di governo. Negli ambienti intellettuali la crisi stimolò riflessioni interessanti: alcuni proposero il ritorno a una società agricola, altri auspicarono il rafforzamento del governo militare, altri ancora volevano il consolidamento dell'identità nazionale fondata sulla tradizione per contrastare le minacce esterne, mentre vi era anche chi desiderava aprirsi al miglioramento scientifico e tecnologico di matrice occidentale. Nel XVIII secolo infatti il Giappone era ormai consapevole dell'esistenza di un Occidente militarmente ed economicamente più forte e si sentiva pertanto minacciato, poiché iniziava a profilarsi quel sistema mondo con al vertice proprio i Paesi occidentali. Tra gli intellettuali perciò si diffusero questioni legate alla difesa dei confini, alla limitazione dei contatti con l'estero, ecc.. Quando nel 1792 la Russia tentò di stabilire rapporti commerciali con il Giappone, ottenne un secco rifiuto, e il governo provvide a colonizzare l'odierno Hokkaidō per impedire l'arrivo dei russi. Il rangakusha Hayashi Shiei aveva predetto il pericolo russo e insistito sulla necessità di rafforzare le difese ai confini, mentre Honda Toshiaki suggerì di dotarsi di una solida flotta e di orientarsi verso un'espansione territoriale, volta a conquistare nuovi spazi e nuove risorse. Altri intellettuali come Takashima Shuhan e Sakuma Shozan si resero conto del pericolo che correva il Giappone grazie alle notizie giunte dalla Cina, costretta ad accettare le pretese degli occidentali dopo la sconfitta nella Guerra dell'oppio. Nel frattempo in campo religioso, Aizawa Seishiai, della scuola di Mito, iniziò ad alimentare lo sviluppo dell'ideologia nazionalista e antifeudale. Egli formulò la teoria del sistema nazionale (kokutai) con al centro la figura dell'Imperatore e ostile alle dottrine straniere (in primis il Buddhismo). Secondo questo pensiero il confronto con l'Occidente era un'occasione storica per il rinnovamento morale del Giappone, per forgiare una nuova identità nazionale. Da qui scaturì il movimento xenofobo jōi («fuori i barbari») ostile alla riapertura del Paese avvenuta nel 1854, legato al movimento lealista sonnō (venerazione dell'Imperatore). La volontà di questi intellettuali era di difendere la tradizione dal predominio culturale cinese e dalla minaccia occidentale. Ciò permise di rivalorizzare gli antichi miti shintoisti e la tradizione imperiale, fungendo da base per la restaurazione del ruolo del tennō e per la proclamazione dello Shintoismo a culto ufficiale, oltre che per l'affermazione del nazionalismo giapponese. Negli ultimi anni del regime Tokugawa esisteva quindi un fermento intellettuale espressione delle tensioni sociali, ma che suggerisce anche l'esistenza di una classe politica e intellettuale dinamica e in cerca di nuove soluzioni. La crisi generata dall'espansionismo occidentale in Asia, si intrecciò con l'incapacità del bakufu di risanare l'economia e sedare le tensioni sociali. Ciò compromise la compattezza politica dello shogunato e indusse alcuni han a cercare soluzioni autonome a livello locale. I tentativi di maggior successo furono quelli di Chōshū e Satsuma. Il primo migliorò l'assetto agricolo, ridusse le spese, si concentrò sullo sviluppo dei commerci, investendo la sua ricchezza in un efficiente apparato militare, con equipaggiamenti occidentali, mentre Satsuma, controllando i traffici commerciali delle Ryūkyū, puntò tutto sull'attività mercantile. Il sistema feudale e l'assenza di un potere centrale dinamico rappresentavano però ancora degli ostacoli duri da superare. Altre potenzialità del Giappone di inizio Ottocento erano lo sviluppo di un capitale mercantile e rurale, una struttura amministrativa competente e la diffusione dell'istruzione a diversi livelli della società. Occorreva solo trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, con un potere centrale stabile, in grado di garantire la sicurezza, gestire le risorse umane e materiali e dotare le masse di una coscienza nazionale. Il Giappone degli ultimi Tokugawa conteneva molteplici risorse in tal senso. I suoi confini erano rimasti stabili negli ultimi secoli e il suo territorio racchiudeva vari elementi di continuità con il passato, una storia comune, la permanenza dell'autorità imperiale, il patrimonio ideale e rituale dello Shintoismo, e quindi una sostanziale unità etnica e razziale. Gli studiosi dell'epoca sottolinearono la necessità per il Giappone di trovare una collocazione nel nuovo assetto internazionale. La fine del primato cinese aveva stimolato l'emancipazione del ruolo del Giappone e l'aspirazione a una posizione meno marginale. La sicurezza nazionale era garantita solo se vi era un'espansione territoriale, altrimenti il Giappone sarebbe divenuto anch'esso una preda degli occidentali. La riapertura del Giappone, l'ingresso nel sistema internazionale e il crollo del feudalesimo I russi tentarono nuovamente di stabilire rapporti con il Giappone (1804) ottenendo però l'ennesimo rifiuto e il bakufu ribadì il divieto d'accesso agli stranieri al di fuori di Nagasaki. La pressione russa ritrovò vigore dopo la guerra di Crimea (1854-1856), mentre già da inizio Ottocento le navi inglesi avevano fatto la loro apparizione. Ancora nel 1825 però, il governo di Edo ribadì la politica del sakoku, mentre gli inglesi rivolgevano la loro attenzione alla Cina. Questa aveva infatti limitato il commercio con gli europei al porto di Canton, ma la Compagnia delle Indie Orientali (inglese) aveva sviluppato un commercio illegale di oppio in Cina. Nonostante i divieti delle autorità cinesi, la Compagnia continuò a introdurre una crescente di quantità di oppio (prodotto in India) con effetti nefasti per la società e per la bilancia commerciale cinese. I prodotti cinesi infatti, non bastavano più per pagare l'oppio che quindi veniva scambiato con l'argento. Nel 1839 il governo di Pechino decise di sequestrare e distruggere le scorte di oppio a Canton scatenando la reazione britannica. Al termine della Prima guerra dell'oppio (1839-1842) la Cina fu costretta a sottoscrivere il primo di una lunga serie di trattati ineguali che la sottoposero al controllo economico da parte delle Potenze occidentali. La sconfitta delle Cina indusse il bakufu a mitigare la sua rigidità e a consentire all'approvvigionamento delle navi straniere nei porti giapponesi. Dal 1852 iniziarono a diffondersi le voci dell'imminente arrivo di una missione statunitense, che effettivamente giunse in Giappone nel 1853. Gli Stati Uniti erano sempre pi interessati all'Asia Orientale e il presidente Fillmore incaricò il commodoro M. C. Perry di stabilire relazioni pacifiche e commerciali con il Giappone. Quando Perry giunse nella baia di Edo con quattro navi da guerra, consegnò il messaggio del Presidente e ripartì. Tornò l'anno successivo per ottenere una risposta. Le richieste americane posero il bakufu di fronte a una scelta difficile e ne accelerarono la fine. Il capo del Consiglio degli Anziani, Abe Masahiro, manifestando tutta la debolezza del potere shogunale, decise infatti di chiedere consiglio sul da farsi a tutti i daimyō aprendo così una profonda divisione fra i favorevoli all'apertura e i contrari, una frattura insanabile che avrebbe inciso in maniera determinante sugli sviluppi politici. Dopo aver consultato i daimyō e la Corte imperiale, Abe cercò un compromesso per evitare la guerra con gli americani accontentando alcune richieste. Alla fine il 31 marzo 1854 si giunse alla stipula del Trattato di Kanagawa, che prevedeva l'apertura dei porti di Shimoda e alla caduta dei Tokugawa, con lo sviluppo dell'economia protocapitalista che minò dall'interno l'assetto del regime feudale. Il ruolo principale nel rovesciamento dei Tokugawa fu svolto infatti da membri dell'élite militare locale che poi costituirono la classe dirigente Meiji. Essi provenivano da aree diverse ed erano spinti da motivazioni disparate, tuttavia avevano degli obbiettivi comuni: l'eliminazione del potere shogunale, il ristabilimento dell'autorità imperiale e il rafforzamento politico e militare del Paese, per guidare il Giappone verso la modernizzazione e l'industrializzazione. Le trasformazioni introdotte dopo il 1868 furono dunque frutto di una rivoluzione dall'alto che coniugò le tensioni scaturite dai trattati ineguali con le problematiche interne. Pertanto, aldilà dei mutamenti che si verificarono, una serie di caratteristiche rimasero inalterate, in continuità con il periodo precedente. Centralizzare il potere significava innanzitutto superare il sistema bakuhan per realizzare uno Stato nazionale in cui governanti e governati contribuivano a sostenere lo sforzo per rendere «ricco il Paese e forte l'esercito» (fukoku kyōhei). Innanzitutto si provvide alla confisca del potere dei daimyō (1871) preceduta dall'atto di rinuncia con cui i capi del movimento e dei quattro principali feudi (Chōshū, Satsuma, Tosa e Hizen) avevano restituito i loro domini e il loro potere all'Imperatore (1869). Il loro esempio permise di trasformare gli ex signori in governatori nominati dall'Imperatore, tuttavia bisognò prima assicurarsi il consenso degli altri daimyō in particolare per rafforzare l'esercito imperiale. All'abolizione dei feudi seguì l'istituzione di un sistema provinciale (haihan chiken). A capo di ciascuna provincia (ken) vennero posti gli ex daimyō sottoposti al controllo di Tokyo. Il provvedimento non fu osteggiato dato che gli ex signori vennero risarciti con uno stipendio e un titolo nobiliare, mentre il governo non solo si faceva carico di tutti i loro debiti, ma si incaricò di pagare gli stipendi di tutti i samurai alle loro dipendenze. La creazione di uffici amministrativi offrì numerose opportunità di impiego per i samurai mentre l'istituzione di numerose assemblee locali (prive di potere) diede una parvenza di partecipazione alla vita pubblica. L'istituzione del Ministero degli Interni (1873) con numerose e rilevanti competente completò il processo, rendendo tale ufficio centrale nella gestione del Paese. La sua guida fu assunta da Okubo Toshimichi, uno dei capi più autorevoli del movimento antishogunale. Allo scopo di assicurare il consenso e l'unità tra gli ex feudatari, venne emanato il Giuramento sui cinque articoli (Gokajō no seimon) che allargava la partecipazione al potere decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone sull'esempio occidentale. L'imperatore si impegnò pertanto a promulgare una Costituzione e realizzare una serie di obbiettivi: l'unità di tutte le classi, l'istituzione di un'assemblea, la garanzia di un dibattito pubblico sulle questioni di Stato, la promozione della conoscenza all'estero per rafforzare l'Impero. Al giuramento seguì un Documento sulla forma di governo (Seitaisho), primo tentativo di una Costituzione nazionale. Esso assegnava i poteri di governo al Gran consiglio di Stato (Dajōkan), articolato in sette sezioni che detenevano il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, tuttavia seppur introducendo alcune novità, il Seitaisho ribadì la priorità del rango e dell'ereditarietà. Tale Costituzione istituì un sistema di governo che durò fino al 1885, quando venne sostituito dal sistema di gabinetto, ma una significativa revisione vi fu già nel 1869 quando, respinta l'idea della separazione dei poteri, il Dajōkan, guidato dal ministro della Sinistra (Sadaijin) e della Destra (Udaijin), assunse i pieni poteri. Esso era composti dai membri del Consiglio consultivo (Sangi) che supervisionava all'attività di sei ministeri, mentre l'Assemblea deliberativa assumeva un ruolo secondario e venne infine dissolta. Nacque così una vera e propria oligarchia formata da un ristretto numero di autorevoli capi, provenienti dalla Corte e dai quattro han principali, decisi a imporre al Paese le riforme necessarie al fukoku kyōhei. Eliminate le forme di potere locale, bisognava garantire allo Stato fonti solide di reddito, per sostenere le riforme e un esercito forte, oltre che per incentivare lo sviluppo dell'industria. Innanzitutto venne abrogato l'obbligo occupazionale vincolato alla classe sociale di appartenenza e, mentre gli ex daimyō divennero membri di una nuova aristocrazia (kazoku), contadini, artigiani e mercanti confluirono nella categoria di heimin (popolazione comune) insieme a eta e hinin. In questa categoria entrarono anche i samurai di basso rango, mentre gli altri divennero sotsu (soldati). In seguito venne rimosso il divieto di compravendita dei terreni istituendo pertanto la proprietà privata. Tali provvedimenti contribuirono alla mobilità sociale e territoriale, liberando manodopera da impiegare nei nuovi settori in espansione. Allo stesso tempo però, molti vennero privati del monopolio su determinate occupazioni, in primis i samurai, i quali furono ulteriormente colpiti dall'introduzione della leva obbligatoria (1873). Essa prevedeva l'obbligo di tre anni di servizio (più quattro cime riservisti) per tutti i maschi sopra i vent'anni e pertanto scardinò l'assetto che per secoli aveva assicurato ai samurai il potere militare. Tale misura portò a numerose e violente rivolte contadine, aizzate dai samurai. Per rafforzare le finanze dello Stato, gravate dai debiti degli ex han, dagli appannaggi concessi ai nuovi nobili e dagli stipendi dei samurai, oltre che dalle spese militari e industriali, e poiché mancando una classe imprenditoriale disposta a investire, toccò allo Stato assumersi il ruolo trainante dell'industrializzazione, si rese necessaria una riforma fondiaria e fiscale. L'agricoltura occupava i quattro quinti della popolazione ed era il settore più importante del Giappone. Dal 1871 una serie di riforme portarono all'abolizione del divieto di compravendita dei terreni, seguito dal rilascio dei titoli di proprietà a coloro che durante il periodo Edo pagavano le tasse su determinati appezzamenti. I terreni vennero dunque stimati secondo il valore di mercato, in base al quale venne deciso l'importo dell'imposta che ciascun proprietario versava direttamente allo Stato. L'importo era fisso al 3% del valore della terra e non dipendeva più dalla sua produttività e andava corrisposto non più in natura ma in denaro. Ciò ebbe pesanti conseguenze per i piccoli proprietari e favorì la concentrazione dei terreni nelle mani di grandi latifondisti, gli unici in grado di sostenere gli oneri fiscali. Molti contadini divennero così affittuari e solo un numeoro ridotto andò a costituire il nascente proletariato, in quanto le industrie non erano ancora in grado di assorbire la manodopera espulsa dalle campagne. La riforma fiscale permise al governo di stabilizzare le proprie entrate (le imposte sulla terra costituivano l'80% delle entrate complessive) e di finanziare la modernizzazione del Paese in un momento in cui mancavano i capitali e gli imprenditori disposti a investire. Gli investimenti si concentrarono innanzitutto sulle infrastrutture e nella creazione di industrie di base e funzionali al rafforzamento militare. Nacquero così efficienti reti ferroviarie, postali e telegrafiche gestite dallo Stato, mentre iniziavano a svilupparsi le prime fabbriche tessili (lanifici, setifici, cotonifici), edili (cementifici, mattonifici, ecc.), metal-meccaniche e minerarie, che beneficiavano di macchine acquistate in Occidente. Nel frattempo lo Stato si mosse in ambito commerciale e finanziario per promuovere la nascita di una forte classe imprenditoriale. Il Giappone oltre a importare la tecnologia occidentale, organizzò numerose missioni in Europa e Usa per istruire i propri dirigenti. La Missione che partì nel 1871 e tornò nel 1873 dopo aver visitato gli Usa e molti Paesi europei fu quella più imponente. Essa fu organizzata con lo scopo di rinegoziare i tratti ineguali e, sebbene fallì in tale scopo, permise a molti dirigenti giapponesi di istruirsi sull'Occidente. Guidata da Iwakura Tomoni essa vide la partecipazioni di imminenti figure di governo tra cui Kido Kōin, Okubo Toshimichi e Itō Irobumi. Le informazioni attinte all'estero resero ancora più evidente il ritardo del Giappone rispetto all'Occidente, specie in campo militare, accelerando quindi il processo di modernizzazione. Gli oligarchi guardarono all'Occidente per modernizzare il Giappone consapevoli che altrimenti ne sarebbero stati sopraffatti, spinti dallo stesso spirito patriottico che inizialmente aveva indotto molti di loro a sostenere la chiusura. L'apertura all'Occidente dunque avrebbe consentito al Paese di rafforzarsi e resistere alla pressione esterna e pertanto non fu un fine, quanto piuttosto un mezzo per realizzare il fukoku kyōhei. All'iniziale periodo di attrazione infatti seguì una fase caratterizzata dal recupero di valori e concezioni tradizionalmente nipponici. Gli sviluppi nella politica interna ed estera negli anni Settanta e Ottanta L'età Meiji fu caratterizzata da momenti di tensione, dovuti al diffuso malcontento suscitato dal livellamento sociale, dalle riforme e dall'istituzione della leva obbligatoria. Anche il governo non fu esente da divergenze quando alcuni suoi membri, come Saigo Takamori e Itagaki Taisuke, proposero di invadere la Corea per dare una dimostrazione di forza. Essi pensavano che tale azione avrebbe rappresentato uno sfogo per gli ex samurai e raccolsero pertanto molti consensi. Al ritorno della Missione Iwakura però, il dibattito sull'invasione della Corea (seikanron) divenne un vero e proprio scontro, dato che coloro che avevano visitato l'Occidente erano convinti nel dare l'assoluta priorità alle questioni interne piuttosto che all'aggressione esterna e che un simile atto avrebbe implicato una reazione occidentale. La scelta di accantonare il progetto (1873) provocò la crisi interne ed esterne. Essendo tuttavia fondata sulla premessa della superiorità occidentale. La modernizzazione pose un dilemma in relazione all'identità nazionale. Gli oligarchi si resero conto dei rischi insiti nella diffusione di certe idee, come la libertà e l'individualismo, e preferirono limitare il modello occidentale al suo sapere, difendendo lo spirito giapponese (da qui lo slogan yōsai wakon). Tale scelta venne confermata nella Costituzione Meiji, che riconobbe i giapponesi come sudditi (shinmin) di un sovrano divino, discendente dal Cielo, attingendo quindi al patrimonio shintoista resuscitato dagli intellettuali del periodo precedente, assieme al mito dell'unità etnica e razziale giapponese. L'esistenza del popolo venne giustificata in termini etici, dato che l'Imperatore- dio costituiva il fulcro del sistema, rifiutando una visione laica dello Stato e riaffermando l'origine divina del potere. Divenuto una vera e proprio ideologia di Stato, lo Shintoismo divenne fondamentale nella costruzione dell'identità nazionale, poiché esso si rivolgeva in senso universale al popolo giapponese, ma allo stesso tempo ne rappresentava una specificità. La Costituzione non risolse i problemi legati al rapporto con il mondo esterno. Nel 1885 Fukuzawa Yukichi propose che il Giappone si staccasse dall'Asia e si unisse all'Occidente progredito e civilizzato, essendo il legame con l'Asia un limite alla modernizzazione. Si diffuse pertanto l'idea che il Giappone dovesse assumere un ruolo civilizzatore in Asia Orientale, alla pari delle Potenze occidentali, e costruirsi un Impero coloniale. Tali idee in effetti anticiparono le scelte del Giappone che a partire dalla sconfitta inflitta alla Cina e dall'annessione di Taiwan (1895) entrò nella competizione imperialista. Prendere a modello l'Occidente e riconoscerne la superiorità però entrava in contrasto con l'idea imperialista del grande Giappone. Inoltre accogliere sudditi non- giapponesi apriva un nuovo problema. La supremazia nipponica quindi doveva essere imposta attraverso l'assimilazione (dōka) che si basava sull'assunto che i popoli asiatici condividessero la stessa cultura e la stessa razza, tuttavia ciò non risolveva la contraddizione: siccome infatti i giapponesi si consideravano come popolo esclusivo e superiore, tale idea avrebbe ostacolato la dominazione dell'Asia, perché avrebbe reso sudditi dell'Imperatore anche popoli inferiori. Negli anni Ottanta si assistette quindi a un ritorno alla tradizione politica e ideologica, con la riaffermazione dei valori del passato, mentre lo Shintoismo diventava uno strumento di controllo sul popolo. Gli spazi del dissenso vennero ridotti e si assistette a una serie di interventi che limitavano tanto la sfera pubblica quanto quella privata. La figura del tennō assunse il ruolo di autorità suprema e sacra e introno alla sua dinastia si reggeva lo Stato unificato. In suo nome vennero introdotti cambiamenti radicali, facendo appello a valori supremi come l'armonia sociale, l'obbedienza ai superiori e la fedeltà alla causa imperiale. Tali misure trovarono compimento nel Rescritto imperiale sull'educazione (Kyōiku chokugo) del 1890, distribuito nelle scuole e nell'esercito. Esso enunciava i principi base dell'educazione dei giapponesi e forniva un supporto ideologico al sistema nazionale (kokutai) fondato sulla tradizione imperiale. I valori supremi a cui bisognava ispirarsi erano la lealtà all'Imperatore e il patriottismo, con elementi di etica confuciana abilmente fusi con il mito shintoista. L'educazione venne così posta al servizio dello Stato e la scuola divenne uno strumento di indottrinamento. Con queste premesse il popolo venne chiamato a sostenere gli sforzi per realizzare il fukoku kyōhei, il rafforzamento interno e la creazione di un Impero. Capitolo sesto. Nazionalismo e prima espansione Con la concessione della Costituzione il Giappone era ormai diventato uno Stato moderno con al comando il blocco di potere formato dall'oligarchia «rivoluzionaria», la Corte imperiale, gli alti ufficiali dell'Esercito e della Marina, la nuova nobiltà e i gruppi economico-finanziari, gli zaibatsu. Essi rappresentavano dei monopoli capitalistici, formatisi a partire dalla cessione ai privati di imprese statali non strategiche (tra il 1881-1885) operata dal ministro delle Finanze Matsukata Masayoshi. Tali cessioni permisero allo Stato di concentrarsi sulle industrie militari e agevolarono i cosiddetti «mercanti protetti» ovvero quei mercanti che nel periodo precedente avevano accumulato grandi ricchezze. Essi divennero così possessori di capitale industriale, che si aggiungeva ai capitali commerciali e finanziari. Questa operazione portò alla costituzione degli zaibatsu, ovvero delle concentrazioni monopolistiche, segnando il passaggio dal feudalesimo a un'economia monopolista (saltando la fase di libero scambio). Matukata adotto poi una politica deflazionistica volta a rimediare alla drastica inflazione, causata dalla svalutazione a cui il governo aveva dovuto ricorrere per coprire le spese militari e per liquidare i samurai. Il ministro si impegnò poi a riorganizzare il sistema bancario con l'istituzione della Banca del Giappone. Nel 1886 la fine delle politiche deflazionistiche e l'acquisizione di una solida base monetaria permisero di sostenere l'industrializzazione del Paese. Nel frattempo il Giappone aveva aumentato l'esportazione di seta e filati di cotone, i due settori industriali trainanti dell'economia. Sul finire dell'Ottocento inoltre, il sistema scolastico e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa avevano ormai raggiunto il loro obiettivo, ovvero la «nazionalizzazione» delle masse, con il superamento delle tensioni sociali del primo Meiji. La revisione dei trattati ineguali e l'inizio dell'espansione coloniale Consolidato il fronte interno, obbiettivo del governo divenne quello di revisionare i trattati ineguali e assicurare al Giappone un ruolo preminente in Asia. Il Primo ministro Yamagata Aritomo nel 1890 sostenne la necessità di distinguere tra la «sfera di sovranità» del Giappone (il territorio nazionale) e la «sfera di interesse nazionale», ovvero l'area di protezione strategica del Paese da porre sotto controllo. Questa concezione unì le pretese dei nazionalisti agli interessi dei grandi gruppi monopolistici e costituì la base dell'ideologia imperialista del governo. La crescita dell'economia fu resa possibile dalla contrazione dei consumi interni, causata dai bassi salari e dall'alta tassazione sulle rendite fondiarie. Questa politica permise di compensare attraverso le esportazioni sia l'alto costo della tecnologia importata sia gli investimenti industriali, tuttavia il capitale finanziario degli zaibatsu era debole rispetto ai concorrenti internazionali, essendo il capitalismo giapponese un capitalismo povero di capitali. Tale scarsità di fondi, avrebbe reso pertanto l'imperialismo giapponese molto più fragile rispetto a quelli occidentali. La politica espansionista fu avviata con la guerra contro la Cina (1894-1895). La vittoria del Giappone ebbe grande risonanza, specie tra i nazionalisti asiatici che vedevano nel Giappone un modello da seguire per liberarsi dell'influenza occidentale. In realtà il Giappone aveva come obbiettivo quello di sostituirsi all'influenza cinese in Corea e da lì penetrare sul continente. Nonostante il successo militare però, il Giappone non ottenne lo sperato riconoscimento da parte delle Potenze occidentali. La guerra si era conclusa con il Trattato di Shimonoseki che, sul modello dei trattati ineguali, aveva imposto alla Cina pesanti clausole: l'indipendenza della Corea (che formalmente era un suo vassallo), l'apertura di quattro porti al commercio giapponese con la clausola della nazione più favorita, la cessione di Taiwan, delle Pescadores e della penisola del Liaodong, oltre al versamento di 200 milioni di tael d'argento. Il tentativo di annettere il Liaodong fu però contrastato dal «Triplice intervento» di Russia, Francia e Germania che ne imposero la restituzione alla Cina. Tokyo cercò invano, appoggiata dall'Italia, il sostegno inglese e americano, e alla fine fu costretta a cedere alle pressioni internazionali. Nonostante la sconfitta diplomatica, il pagamento dell'indennità di guerra permise al Giappone di aderire al gold standard, mentre la Cina fu costretta a ricorrere a prestiti esorbitanti. All'inizio del Novecento, sfruttando la crisi della Cina e la conseguente rivolta dei Boxer, il Giappone riuscì a consolidare il proprio status internazionale. Fu il Giappone infatti, il maggior contributore del corpo di spedizione che tolse l'assedio dei rivoltosi cinesi al quartiere delle Legazioni a Pechino, portando così al pieno riconoscimento da parte degli Stati occidentali dello status di Tokyo. La vittoria contro la Russia Nel primo decennio del Novecento il Giappone riuscì a inserirsi negli equilibri tra le Potenze. In particolare entrò nella contesa fra Gran Bretagna e Russia. Quest'ultima infatti tentava di contrastare l'egemonia inglese in Asia, in particolare in Afghanistan, mentre durante la Rivolta dei Boxer, non solo non aveva partecipato alla spedizione verso Pechino, ma aveva approfittato della situazione per occupare la Manciuria. Tali mosse crearono forti apprensioni per i giapponesi, che vedevano minacciati i loro interessi in Corea, fu così che nel 1902, Gran Bretagna e Giappone firmarono un Trattato di alleanza in funzione anti-russa. I due Paesi si impegnavano a riconoscere le rispettive sfere d'influenza, oltre a intervenire al fianco del partner in caso di conflitto con due o più nemici. Tale trattato costituì un grande successo diplomatico per il Giappone in quanto, essendo divenuto il tipicamente giapponese di organizzazione del capitale. Avevano la forma di un holding plurisettoriale e diversificata che controllava la maggioranza dei pacchetti azionari di tutti i settori della produzione, della circolazione delle merci e della finanza. La loro peculiarità non stava solo nel controllo che esercitavano sul mercato, ma nel fatto di essere dei monopoli di capitale. La maggior parte del capitale veniva infatti fornita dalla holding, controllata dalla famiglia che dirigeva lo zaibatsu. Si trattava in sostanza di un autofinanziamento e pertanto incentrato sull'allargamento dell'area di controllo del gruppo. Tuttavia a differenza degli imperialismi occidentali, il Giappone presentava alcune debolezze (in comune con Germania e Italia). L'economia giapponese era entrata infatti in una fase di assestamento che ne aveva rallentato la crescita, trattandosi di un'economia povera di capitali. Nel momento in cui si entrò nella contesa imperialista quindi, il Giappone non fu in grado di operare quei cambiamenti che interessarono le colonie occidentali e che le trasformarono da semplici territori assoggettati in spazi di mercato e di investimento. L'espansionismo giapponese si incentrò quindi più sulla conquista militare e lo sfruttamento coloniale che non sugli investimenti nei nuovi domini. Capitolo settimo. Prima guerra mondiale e dopoguerra La crescita economica Nel corso del conflitto europeo, l'economia giapponese riprese a crescere e completò la seconda rivoluzione industriale con il settore metal-meccanico e l'industria pesante soppiantarono quella tessile. L'alleanza con l'Intesa permise di occupare senza grandi sforzi i territori tedeschi nel Pacifico (Marianne, Caroline, Marshall) e in Cina (Shandong) e nel corso del conflitto i prodotti giapponesi penetrarono nei mercati asiatici e nei Paesi alleati. La crescita del commercio incentivò l'espansione produttiva e lo sviluppo economico. La riduzione del flusso di merci occidentali verso l'Asia andò a vantaggio dei prodotti giapponesi, in particolare dei tessuti, mentre macchinari e armi veniva spediti ai paesi alleati impegnati in guerra. La flotta mercantile passò da 1,5 a 3 milioni di tonnellate e l'intera industria pesante trasse profitto dalla guerra. In sintesi, la guerra e l'alleanza con l'Intesa permisero al Giappone di ridurre la distanza con le altre Potenze, anche in virtù della marginale partecipazione militare. Mutamenti sociali e antagonismi L'enorme sviluppo negli anni del conflitto ebbe rilevanti conseguenze sociali. Si espanse il settore terziario, mentre per la prima volta il numero degli uomini nelle fabbriche superò quello delle donne. Questo mutamento influì sui rapporti di lavoro poiché le donne era tradizionalmente restie a provocare conflitti con i datori di lavoro. Agli inizi degli anni Venti quindi l'intera società era mutata anche a causa della crescita delle città. Tokyo raggiunse i 3 milioni di abitanti, mentre raddoppiava la popolazione delle principali città (Yokohama, Nagoya, Kobe, Osaka e Kyoto). Si consolidò la media borghesia urbana, attratta dal liberalismo occidentale, tuttavia i partiti non furono in grado di cogliere le aspirazioni delle classi sociali. Innanzitutto la repressione poliziesca ostacolò l'attività di tutti i movimenti ispirati al socialismo (ad es. il Nihon heiminto, il Partito proletario giapponese, il Rodo nominto, il Partito degli operai e dei contadini e il Partito comunista giapponese). Mancando alternative politiche, il malcontento sociale, provocato dai bassi salari, sfociò in una protesta inaspettata. Nel 1918 ebbero luogo i kome sodo (moti del riso), causati dall'aumento del prezzo del riso, imposto dagli zaibatsu che controllavano i mercati. I moti, a cui presero parte circa 700mila persone, incoraggiate dai giornali progressisti (messi subito a tacere), vennero repressi dall'Esercito e provocarono diversi morti e arresti. Dai governi trascendenti ai governi di partito I moti del riso portarono alle dimissioni del Primo ministro, il generale Terauchi Masatake, sostituito da Hara Takashi (sett. 1918). Sebbene patrocinato dagli oligarchi, Hara fu il primo Primo ministro a non far parte di nessun gruppo di potere. Egli era infatti il capo del partito politico che deteneva la maggioranza alla Camera bassa (Rikken Seiyukai), nonostante l'attività del governo non necessitasse della fiducia parlamentare. Il governo non era più sotto il controllo della vecchia oligarchia, tuttavia la presenza di numerosi funzionari civili e militai, influì comunque nell'imprimere scelte conservatrici. Lo stesso Hara infine era ispirato dall'ideologia dominante, a cui si rifacevano i partiti moderati, uniche organizzazioni politiche tollerate e presenti in Parlamento. Hara si dimostrò miope non assecondando le aspirazioni dei ceti medi urbani attratti dal liberalismo e le sue scelte maturarono nel solco tracciato dal blocco di potere dominante. Pertanto appare riduttivo definire il periodo Taisho (1912-1926) con il termine di «democrazia Taisho», poiché nonostante i gruppi dominanti (i genrō, gli alti comandi militari e il Consiglio privato) persero sempre più posizioni, favorendo i partiti politici, essi non si allontanarono dalla politica precedente. Molti pensatori liberali (Yoshino Sakuzo, Minobe Tatsukichi, ecc.) richiamarono sull'esigenza di riforme liberali, tuttavia i partiti non furono in grado di raccogliere queste sollecitazioni, timorosi di favorir l'ascesa dei nuovi partiti proletari di ispirazione socialista e marxista. Fu così che il blocco dominante riprese il sopravvento, mentre le controversie sociali non trovavano alcuna soluzione. Nel 1921 Hara fu assassinato da un nazionalista, poiché visto come il maggior responsabile dell'insuccesso giapponese a Versailles. Gli successero due ammiragli Kato Tomosaburo e Yamamoto Gonnohyoe, l'ex presidente del Consiglio privato Kiyoura Keigo e infine Kato Takaako, che inaugurò la breve stagione dei «governi di partito» (1924-1932). Contrapposizioni al blocco di potere Durante e dopo la guerra si assistette alla nascita di numerose organizzazioni del proletariato. La prima forma di associazione di lavoratori, la Yuaikai, era stata fondata nel 1912, ma aveva trovato molti ostacoli, primo su tutti la cultura sociale di molti lavoratori, incapaci di identificarsi in una classe. Dopo la guerra nacque il primo sindacato giapponese (Sodomei) che unificò le preesistenti associazioni sindacali. Essa rivendicò migliori condizioni di vita per i lavoratori, un sistema di previdenza sociale, l'abolizione del lavoro notturno e minorile, misure contro la disoccupazione, ma anche l'introduzione del suffragio universale, la democratizzazione dell'educazione e la revisione della Legge di polizia. La sua attività tuttavia fu molto limitata, in particolare dalla difficoltà nel convertire i lavoratori, impregnati dell'ideologia dominante, alla causa sindacale. Altri gruppi politici la cui ideologia era diversa da quella dominante subirono forti azioni repressive. Ad esempio alcuni intellettuali cristiani protestanti avevano fondato un Partito socialdemocratico (1900), poi un Partito proletario (1901) e un Partito socialista (1906), ma la polizia li aveva sciolti uno dopo l'altro. Le critiche al regime dominante potevano essere espresse solo in associazioni culturali ristrette e private e la polizia vigilava per impedir loro qualsiasi manifestazione pubblica. Inoltre gli intellettuali contrari al regime non furono mai capaci di elaborare analisi coerenti e soddisfacenti della società e la riflessione sul tennōsei (sistema imperiale) fu sempre ideologica e personale. Il Partito comunista giapponese ad esempio, nato come un club di intellettuali in contesa fra loco, non fu mai in grado di operare una sintesi concreta e convincente. Nelle «Tesi del 1922» il gruppo dirigente era convinto che la classe lavoratrice (contadini inclusi) e la piccola borghesia liberale fossero ostili al regime attuale. In realtà i ceti rurali, impregnati dai precetti confuciani, erano alieni a qualsiasi idea rivoluzionaria, mentre la borghesia semmai temeva una rivoluzione proletaria, così come accadeva in Occidente. L'orizzonte politico della borghesia liberale era infatti costituito da riforme borghesi che non mettessero in discussione gli equilibri di potere esistente, ma che semplicemente la includessero nei processi politici. La pace di Versailles e la «vittoria mutilata» La guerra e la crescita economica crearono grandi aspettative in Giappone. Si diffuse un profondo senso di orgoglio nazionale, alimentato dai nazionalisti e dalla propaganda del governo, tuttavia le aspettative, esagerate rispetto al contributo militare alla causa alleata, andarono in parte deluse. Si può parlare anche in Giappone (come in Italia) di «vittoria mutilata», un sentimento assai diffuso nella classe dominante e fra i ceti popolari all'indomani del Trattato di pace. Durante la guerra il Giappone aveva tentato di consolidare la sua presenza in Asia, attaccando le isole del Pacifico (Caroline, Marianne, Marshall) e i possedimenti in Cina dei tedeschi (penisola dello Shandong) e attuando una politica di profonda penetrazione in Cina. Essendo gli europei impegnati nella guerra dovevano versare una cauzione di 2 mila yen (circa il doppio del reddito annuale medio di un proprietario terriero autosufficiente). Tale misura impedì di fatto la partecipazione dei candidati popolari alle elezioni del 1928. A tale apertura democratica fece subito da contraltare una Legge per il mantenimento dell'ordine pubblico (Chian ijiho), nata per sopprimere le agitazioni politiche e sociali e per evitare qualsiasi sovvertimento dell'ordine costituito. Tale legge fu un momento di svolta fondamentale in quanto grazie ad essa la polizia, il ministero degli Interni e i magistrati potevano colpire legalmente ogni forma di dissenso. Si trattava in sostanza di una legge speciale, applicabile a seconda della convenienza politica, per colpire gli avversari del regime. Introdusse infatti il divieto di «alterare il kokutai» (il sistema nazionale), un termine ambiguo che lasciava spazio ad un'ampia discrezionalità. Grazie a tale misura il regime prevenne tanto le azioni rivoluzionarie, quanto quelle di coloro che aspiravano a riforme democratiche. Capitolo ottavo. Dal fascismo al crollo dell'Impero La repressione Fino al 1945 il regime attuò una politica sempre più repressiva nei confronti degli oppositori, tanto che si può dire che da autoritario esso divenne compiutamente fascista, seppure con caratteri particolari. I primi interventi furono attuati in chiave anti-marxista e anti-proletaria: nel 1925 vennero incriminati gli studenti di sociologia dell'Università di Kyoto, rei di aver propagandato l'ideologia marxista; nel 1928 toccò ai dirigenti e agli attivisti del Partito comunista. Nel frattempo un emendamento dell'Imperatore Hiroito introdusse la condanna a morte per i reati politici. La repressione colpì anche illustri pensatori liberali. Due casi sono emblematici. Il primo riguardò Minobe Tatsukichi, illustre costituzionalista, che aveva enunciato la «teoria dell'organo» secondo la quale l'Imperatore era un organo dello Stato e non era sopra di esso. Nel 1935, l'Associazione dei riservisti ne chiese la testa poiché Minobe aveva offeso il kokutai. Egli pertanto fu costretto alle dimissioni (era membro della Camera dei Pari e docente universitario). Nel secondo caso Tsuda Sokichi, autorevole storico della civiltà cinese e giapponese, aveva pubblicato degli studi che mettevano in discussione la validità della cronologia ufficiale che fissava al 660 a.C. la fondazione del «Paese degli dei» e quindi i fondamenti stessi del sistema imperiale. Nel 1940 fu processato, arrestato e le sue opere messe al bando. Per rendere ancora più efficace la Chian ijiho il regime adottò altre misure: vietò la pubblicazione di numerosi libri e riviste e accentuò il controllo sulle università e sulla ricerca, introducendo specifici supervisori. Vennero istituiti nuovi mezzi di repressione: l'Apparato di polizia speciale superiore (Tokkō), una vera e propria polizia segreta, e i procuratori del pensiero, i quali agivano attraverso il tenkō. In pratica ai trasgressori veniva data la possibilità di abiurare ponendoli sotto la pressione sociale di amici e parenti. Tale pratica era un forte strumento di condizionamento psicologico e sociale, inoltre con l'abiura dell'imputato si dimostrava l'errore della sua posizione. La repressione portò in tutto a circa 6124 condanne (contro le 4596 inflitte dall'analogo tribunale speciale fascista in Italia) e a oltre 6000 abiure. Tali pratiche fecero si che in Giappone non si manifestò alcun movimento di resistenza attiva al regime, diversamente da come accaduto in Italia e in minima parte in Germania. Nonostante le repressioni, il movimento operaio condusse una serie di vertenze, con un apice nel 1930-32 e nel 1937. Tuttavia il richiamo all'unità nazionale conseguente alla guerra in Cina (luglio 1937) portò la Sodomei a sospendere tutti gli scioperi. La fabbrica del consenso Oltre alla repressione, un pilastro fondamentale del regime era la fabbricazione del consenso. Fin dal 1910 operava in tal senso l'Associazione imperiale dei riservisti (Teikoku zaigō) molto diffusa nelle campagne. Le sue sezioni erano dedite a forgiare uomini di carattere i suoi attraverso i gruppi giovanili fondati nel 1915. Tali associazioni erano nelle mani dell'Esercito che le usò per condurre le sue campagne propagandistiche e, a partire dagli anni Trenta, per fornire una preparazione paramilitare ai giovani in attesa del servizio di leva. Anche la scuola ebbe una grande importanza nella diffusione degli stereotipi collettivi unificanti. Fulcro del sistema era l'Imperatore, discendente di un ininterrotta linea divina, trascendente la politica, erede della dea Sole e personificazione del kokutai, alla cui gloria ogni giapponese doveva contribuire come soldato o lavoratore pio, obbediente e disciplinato. Anche molti altri club, associazioni, gruppi contribuirono a veicolare il consenso. Essi sorsero appena dopo la prima guerra mondiale come risposta reazionaria ai movimenti operai e borghesi e sono riconducibili a due tipologie: – quelli fondati da elementi di spicco del blocco di potere (funzionari, militari, membri della Camera alta, ministri, ecc.) con l'obbiettivo di mantenere i valori tradizionali e il controllo sulla società; – quelli (molto piccoli) di pseudo-intellettuali, espressione dei ceti piccolo-borghesi, ispirati alle idee di Kita Ikki e di Ogawa Shumei, che miravano alla rivalutazione del patrimonio ideologico nazionale tradizionale, alla lotta contro il marxismo, il socialismo, il parlamentarismo e il grande capitale degli zaibatsu. Kita Ikki (1883-1937) fu l'ideologo del tennōsei fashizumu (il fascismo del sistema imperiale) e della necessità dell'espansione giapponese in contrasto con l'imperialismo bianco. La sua opera di maggiore interesse (Lineamenti delle misure per la riorganizzazione del Giappone) generò un grande dibattito sulle priorità del Paese, ovvero sulla scelta fra rafforzamento interno ed espansionismo. Per Kita bisognava procedere lungo la prima via, restaurando il rapporto diretto tra Imperatore e sudditi, eliminando le cricche militari, burocratiche e politiche, sospendendo il Parlamento e circoscrivendo il potere economico degli zaibatsu. Solo a quel punto si poteva procedere con l'espansione del Giappone, al fianco degli Stati Uniti che andavano considerati amici. Le idee di Kita Ikki influenzarono molti giovani ufficiali che diedero vita a vari colpi di Stato, tutti falliti, ma anche molti componenti del blocco dominante che ripresero le sue idee dopo aver sventato il movimento del «fascismo dal basso» che si ispirava proprio a Kita. Gli anni Venti e Trenta erano percorsi da tensioni sociali di segni opposto che avevano provocato la repressione della polizia. Le agitazioni del proletariato e dei contadini vennero sempre perseguite, mentre dall'altro lato i gruppi occulti, ispirati dalle idee di Kita Ikki, in particolare nell'Esercito, avevano attuato una serie di attentati a cui il governo aveva reagito in modio blando. Soltanto l'incidente del 26 febbraio 1936, un vero colpo di Stato, fu represse con durezza. Seguì la condanna a morte di tredici ufficiali e di sei civili, tra i quali Kita Ikki, considerato il mandante del golpe. Il regime pose così fine ai tentativi di rivolta reazionari e al «fascismo dal basso». Il nesso fascismo-imperialismo Il 1937 fu un anno cruciale. Sul versante interno la condanna a morte di Kita Ikki, dopo il fallimento del golpe del febbraio 1936, segnò la fine del movimento fascista, mentre in politica estera il Giappone avviò la Guerra dell'Asia Orientale, aggredendo la Cina. L'espansionismo giapponese affonda le sue radici nel periodo Meiji e iniziò con l'annessione delle Ryukyu (1879) seguita da quella di Taiwan (1895), della Corea (1910) e delle isole Caroline, Marianne e Marshall (1914). A ciò si univano i diritti di sfruttamento della ferrovia sud-manciuriana (sottratta alla Russia nel 1905) e di quella nella penisola di Jiaochou. Nel 1931, l'armata del Kwangtung (pressoché svincolata da ogni controllo) invase la Manciuria dando inizio a quella che viene ricordata come Guerra dei quindici anni (1931-1945). Sconfitti i cinesi, la Manciuria divenne uno Stato fantoccio (Manchukuo) sul cui trono venne messo l'ex Imperatore cinese Pu Yi. In realtà il governo era nelle mani del governatore giapponese, mentre gli zaibatsu avviavano la loro penetrazione economica nel nuovo vassallo. Fu soprattutto la competizione economica a provocare le reazioni negative di inglesi e americani. Nel 1933 la Società delle Nazioni condannò il Giappone che per protesta abbandonò il consesso internazionale. Iniziava così l'isolamento di Tokyo, le cui uniche sponde divennero l'Italia fascista e la Germania nazista. Tra la popolazione si diffuse sempre di più la convinzione che le Potenze volessero isolare il Giappone e che necessitasse una risposta forte. Fu così che maturò la decisione di invadere la Cina nel luglio del 1937. Con l'inizio della guerra totale, l'organizzazione del consenso fu accelerata: nacque l'Associazione patriottica per l'industria del Grande Giappone (corporativismo giapponese) e il governo riconobbe i gruppi di vicinato e le associazioni rionali. Nel 1938 l'Associazione per la collaborazione (imprenditori) nacque con lo scopo di conciliare borghesia e proletariato e allentare ogni tensione nelle fabbriche, obiettivo raggiunto nel 1940. Le associazioni di vicinato e di rione, esistenti fin dal periodo Tokugawa, affiancandosi così a quelli di nuova formazione. La guerra totale Il conflitto, prima contro la Cina poi esteso contro gli Alleati, fu concepito come una guerra totale, pertanto esso comportò la conversione dell'economia allo sforzo bellico, oltre che a un'ulteriore stretta autoritaria volta a compattare il sistema politico-sociale. Il passaggio a un vero e proprio dirigismo statale in economia era precisa volontà dell'Esercito e della Marina, mentre a opporsi era il mondo economico. Gli imprenditori in sostanza non volevano rinunciare ai profitti del libero mercato, mentre i militari volevano che tutti gli sforzi mirassero a soddisfare le esigenze belliche. Il governo e i funzionari civili si schierarono dalla parte dei militari, preoccupati dalla difficoltà nei rifornimenti alimentari che avrebbe potuto incrinare la tenuta sociale. Nel 1938 il Parlamento approvò quindi una proposta del governo del Principe Konoe Fuminmaro, la Legge di mobilitazione generale nazionale, un provvedimento che dettava le linee guida al cui interno il governo poteva emanare norme specifiche riguardanti l'economia. Venne così meno la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo, con il Parlamento che cedeva la sua funzione al governo. La Legge sulla mobilitazione fu approvata dopo norme che avevano già posto sotto controllo le importazioni e le esportazioni, i capitali, la manodopera delle industria belliche. Il Primo ministro Konoe proclamò quindi la volontà di istituire in Asia un «Nuovo Ordine» e tra il 1940 e il 1941 anche dal punto di vista politico vi fu un deciso compattamento. I partiti furono assorbiti nella Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale), il partito unico, e nacquero numerose associazioni per la produzione. In politica estera, il Giappone firmò il Patto tripartito con Italia e Germania (con la quale aveva già stipulato il patto anti-Comintern nel 1936). Nel 1940-41 occupò l'Indocina francese, con il benestare del governo collaborazionista di Vichy, mentre continuava la campagna contro la Cina. Firmato un patto di neutralità con l'Urss (con la quale si era scontrata a più riprese in Manciuria nel corso degli anni Trenta), l'Esercito giapponese sembrava inarrestabile. Gli Usa, preoccupati per i propri domini, posero un embargo al Giappone che per tutta risposta attaccò la base navale di Pearl Harbor (Hawaii) provocando la discesa in campo degli Usa al fianco della Gran Bretagna. I giapponesi occuparono le Filippine, la Malesia, le Indie Orientali Olandesi (Indonesia), la Nuova Guinea, la Birmania e Singapore. La sconfitta nella battaglia aeronavale delle Midway però, segnò la svolta nella guerra e l'iniziativa passò nelle mani degli Alleati. Programmazione e controllo dell'economia di guerra Dal 1937, con l'inizio della guerra, il blocco di potere operò per attuare controlli centralizzati sull'economia. Fin dal periodo Meiji, alcuni settori erano controllati dallo Stato, in particolare quelli dell'acciaio e quelli del commercio nelle colonie (Corea e Taiwan) e in Manciuria. Rilevante fu anche l'aumento delle commesse militari voluto da Takahashi e l'intervento statale nel settore degli armamenti. Fin dai primi anni Trenta, gli intellettuali guardavano ai sistemi italiano, tedesco, ma in particolare alla programmazione attutata in quello sovietico. Molti economisti, influenzati dall'opera dei loro colleghi austriaci Ottilienfeld e Spann, sostenevano la necessità di una politica di intervento dello Stato nell'economia per la costruzione di una nuova società e per rafforzare il ruolo del Giappone in Asia. Le teorie di Spann ebbero in particolare un grande successo: il suo «universalismo» venne tradotto con il termine zentaishigi, che però letteralmente vuol dire «totalitarismo». I sostenitori della riorganizzazione dello Stato, burocrati formatisi a stretto contatto con i militari in Manciuria, nel 1935 costituirono l'Ufficio ricerche del governo, ribattezzato poi Sezione del Piano (1937). Tra i principali funzionari vi fu Kishi Nobusuke che aveva trascorso un periodo di apprendimento in Germania. Obiettivo finale della riorganizzazione era l'espansione in Asia del Giappone in contrasto con l'imperialismo bianco. Come sosteneva il ministro degli Esteri, Matsuoka Yosuke infatti, il mondo era destinato ad essere suddiviso in quattro blocchi (americano, sovietico, tedesco, giapponese) e al Giappone sarebbe toccato il dominio sull'Asia Orientale, un vero e proprio diritto naturale. La dottrina Matsuoka legittimava il Nuovo Ordine asiatico che il Giappone voleva imporre con la forza, tuttavia l'invasione tedesca dell'Urss e la guerra contro gli Usa sconvolsero subito tale impostazione. L'intervento dello Stato in economia ebbe due direttrici, da una parte gli investimenti nel settore degli armamenti, dall'altra l'adozione di provvedimenti di regolamentazione e controllo dei settori industriali e finanziario. In parallelo il governo razionalizzò la distribuzione di prodotti alimentari, che scarseggiavano già dal 1938. Obbiettivo della riorganizzazione era la separazione tra proprietà e management, attraverso il controllo dello Stato. I funzionari governativi infatti credevano che l'economia di guerra avrebbe sostenuto la vittoria solo se l'industria privata avesse rinunciato al profitto. Si arrivò quindi all'attuazione della Legge per la mobilitazione dell'industria degli armamenti (1937), della Legge di regolamentazione delle esportazioni e delle importazioni delle merci e della Legge sul controllo temporaneo dei capitali, che anticiparono la Legge di mobilitazione generale del 1938. altro provvedimento importante fu la Legge di controllo dello Stato sull'energia elettrica. Nel frattempo la Sezione del Piano aveva stilato il Piano per la mobilitazione delle risorse che assegnava all'Esercito e alla Marina, la preminenza per ferro, acciaio, rame, alluminio, benzina, kerosene, greggio, cotone e lana. Tra il 1939 e il 1940 la Sezione elaborò poi altri piani che rafforzarono il controllo su commercio, lavoro, capitali, trasporti ed energia. I principi del nuovo ordine economico venero quindi riassunti nel 1940 nei Lineamenti del Nuovo Ordine economico, mentre Konoe fondava la Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale). Nell'agosto del 1941, essendo ormai imminente lo scontro con gli Usa, fu promulgato il Decreto sulla associazione delle industrie principali che portò alla fondazione di tredici associazioni di controllo nelle industrie chiave (acciaio, carbone, cemento, automobili, macchinari, miniere, tessile). Le associazioni di controllo collaboravano per l'attuazione di un piano economico, sul modello sovietico, ma fallirono nello scopo a causa della rivalità fra i diversi ministeri e dell'opposizione dei privati, che opposero ogni resistenza possibile per preservare i loro profitti. Con lo scoppio della Guerra del Pacifico, altri tre decreti accentuarono il controllo statale (licenza per le imprese, riorganizzazione delle imprese e controllo sui materiali) e infine nel 1943 arrivò la Legge sulle società di munizioni. Sul piano finanziario, l'amministrazione operò attraverso vari tipi di società: le società per la colonizzazione, le società per la difesa nazionale e le società di controllo. In queste società la maggioranza del capitale era fornita dallo Stato, con la partecipazione dei maggiori zaibatsu, forzati ad acquisirne le azioni. La guerra totale dei sudditi giapponesi La propaganda, incentrata sullo sciovinismo, sul comunitarismo e sull'unicità della razza giapponese ebbe facile presa. Mancò infatti qualsiasi forma di resistenza. I soldati giapponesi, oltre alla guerra, affrontarono spesso sacrifici inutili e le privazioni causate dalla mancanza di rifornimenti (si parla addirittura di cannibalismo nei confronti di commilitoni e prigionieri di guerra). Queste atrocità, unite a quelle contro la popolazione civile, si riversarono poi sul Giappone stesso. La popolazione giapponese fu sottoposta al razionamento alimentare e tessile e subiva incursioni aeree e bombardamenti distruttivi, di cui le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki furono solo l'epilogo. Già all'inizio della guerra vi furono le prime restrizioni dei consumi, ma nel 1941 esse riguardavano ormai tutti i beni di prima necessità: si distribuirono carte annonarie e fu attuato un sistema che mirava a razionalizzare la distribuzione, tuttavia l'aggravarsi della situazione impose interventi più drastici mentre le famiglie non avevano di che sfamarsi. Si diffuse il mercato nero, con prezzi mille volte superiori a quelli del mercato ufficiale, e si diffusero i crimini “economici” ovvero le violazione della Legge sui prezzi. In molti furono chiamati sostenere lo sforzo produttivo per la guerra totale: molte donne furono assunte nei servizi pubblici o dalle imprese, mentre tra il 1943 e il 1945 gli studenti delle scuole superiori vennero inviati nelle campagne e nelle fabbriche di armamenti. A partire dall'estate del 1944, con l'avanzata del fronte alleato, iniziarono i bombardamenti. Dopo la conquista di Iwojima (febbraio 1945), Tokyo subì un attacco aereo che causo 84mila morti. 250mila persone morirono in tutto sotto le bombe e 8 milioni furono gli sfollati. Nel 1945, quando ormai la sconfitta era certa, il blocco di potere non si diede per vinto. Centinaia di giovani vennero mandati a morire come kamikaze, piloti suicidi. Dopo la fine della guerra in Europa (aprile-maggio 1945) il Giappone continuò a combattere. Dopo l'occupazione di Okinawa, i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e l'entrata in guerra dell'Urss, il 15 agosto il Giappone si arrese. L'Imperatore Hiroito si rivolse per la prima volta nella pressione americana, fu concesso di aggiungere forze aeree e navali. Nel 1954 per gestire le forze di difesa fu istituita l'Agenzia della difesa. La vita politica Durante la prima fase del dopoguerra la vita politica giapponese fu caratterizzata dalla formazione e dissoluzione di molti partiti. Nel biennio 1947-48 guidarono il Paese Katayama Tetsu (coalizione tra Partito socialista e Partito democratico) e Ashida Hitoshi (Partito liberale, Partito socialista e Partito cooperativo del popolo) tuttavia la coalizione ebbe vita breve e dal 1948 al 1954 iniziò l'era di Yoshida Shigeru (Partito liberale). Per Yoshida la ricostruzione economica era la priorità e a prezzo di immani sacrifici il Giappone degli anni '50 riuscì a tornare ai livelli del 1933-35. Yoshida firmò il Trattato di pace di San Francisco e, in accordo con MacArthur, nel 1950 promosse la «purga rossa» colpendo dirigenti e iscritti al Pcg. Oltre 20mila lavoratori privati e pubblici persero il lavoro, compresi docenti universitari e scolastici, tuttavia dopo la firma del Trattato egli ne riabilitò molti. Tra questi nel 1954 emerse Hatoyama che, divenuto capo del Partito democratico, mise in minoranza Yoshida, appoggiato dai socialisti. Hatoyama fu Primo ministro fino al 1956. Nel 1955, liberali e democratici si erano uniti nel Pld (Partito liberaldemocratico) e da allora i presidenti del Pld si succederanno alla guida del Paese (a eccezione del bienni 1994-96). La ricostruzione economica All'inizio lo Scap impose un rigido controllo sulle risorse, oltre al pagamento delle riparazioni di guerra attraverso valute pregiate e il trasferimento di impianti industriali. Dal 1947 però lo Scap consentì la ripresa delle esportazioni e i pagamenti dei debiti in denaro, permettendo l'avvio della ripresa economica a cui si opponevano, senza successo, Gran Bretagna, Cina e Urss. Il governo riuscì a temprare il piano di scioglimento degli zaibatsu, nonostante l'approvazione di una legge antitrust che limitasse il controllo delle famiglie su di essi che vennero riorganizzati nella forma di keiretsu. Altra riforma importante fu quella agraria. L'affittanza riguardava circa la metà dei terreni e nel 1950, a riforma compiuta, fu ridotta al 10% del totale, con i grandi e medi proprietari che videro ridursi notevolmente le loro proprietà. Inoltre a causa dell'inflazione la vendita a rate favorì gli acquirenti e penalizzò i proprietari costretti a vendere. Con la ripresa industriale la popolazione agricola (circa 17 milioni, 41% del totale) scese notevolmente (nel 1990, 9%). La Guerra di Corea (1950-53) rappresentò una svolta: l'industria giapponese aumentò la produzione a seguito delle commesse militari americane, mentre il governo aveva mantenuto alcuni elementi di controllo economico istituiti durante la guerra. Gli investimenti nel settore vennero indirizzati nei settori più importanti. Il progresso economico fino ai primi anni Settanta Negli anni 1945-1975 l'economia giapponese ebbe varie fasi di sviluppo. A partire dal 1950, trainata dalla Guerra in Corea, l'industria riprese a produrre e versò la metà degli anni '50 il Giappone tornò ai livelli prebellici. Nei dieci anni che seguirono vi furono notevoli difficoltà, ma poi si assistette a un grande sviluppo, leggermente intaccato dalla crisi petrolifera del 1973. Tale sviluppo si arrestò solo negli anni Novanta con lo scoppio della bolla economica. Il successo fu possibile grazie a diversi fattori: i politici fecero della ricostruzione la priorità assoluta, intervenendo nel settore industriale e chiedendo alla popolazione immani sacrifici. La compattezza sociale dei giapponesi, unita alla debolezza del movimento operaio e sindacale permise di raggiungere tutti gli obbiettivi. Lo Scap aveva favorito l'indebolimento dei sindacati, vietando gli scioperi, sostenendo così le azioni del governo conservatore. Comunisti e socialisti presero strade diverse dinnanzi alla svolta nei rapporti tra Usa e Giappone. Mentre i socialisti osservarono le direttive dello Scap, i comunisti tentarono di sostenere la legittimità degli scioperi. La «purga rossa» voluta dallo Scap portò infine al licenziamento di 22mila comunisti dagli uffici pubblici e privati, oltre al divieto di diffusione degli organi ufficiali del Partito comunista. L'opposizione progressista venne ulteriormente indebolita, con liberali e democratici che si unificarono nel Partito liberaldemocratico e aprirono una stagione di governo che non si è ancora conclusa. In campo economico l'intervento statale fu fondamentale, in particolare quello del ministero dell'Industria e del Commercio estero. Altrettanto importanti furono il ministero delle Finenze, quello delle costruzioni e l'Agenzia per la programmazione economica. I Programmi quinquennali, elaborati dal governo insieme ai privati, riguardano soprattutto l'intervento statale e il mantenimento di bassi tassi d'interesse. Negli anni dello sviluppo il Giappone sviluppò con coerenza una politica economica su tre principi: – limitazione delle importazioni all'indispensabile (materie prime e prodotti alimentari); – trasformazione della struttura produttiva in funzione della concorrenza sui mercati mondiali; – stimolo alle esportazioni per bilanciare le importazioni. L'adesione al General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt, 1955) reintegrò il Paese nel circuito degli scambi internazionali, favoriti da società specializzate, le sogo shosha, nate nel periodo Meijii, e che fornirono servizi essenziali. Tra il '55 e il '75 ne emersero sei, di cui tre controllate dagli ex zaibatsu Mitsui, Mitsubishi e Sumitomo. I commerci internazionali erano inoltre favoriti dalla sottostima del tasso di cambio dello yen con il dollaro (fissato nel 1949 a 360/1, immutato fino al 1971, quando passò a 308/1). Dal 1965 la bilancia commerciale fu sempre attiva nonostante le esportazioni non costituissero che il 10% del Pil. Fino al 1965 i livelli salariali furono notevolmente bassi e gli addetti alle piccole e medie imprese (la maggioranza) avevano redditi bassi, pertanto i consumi interni furono molto contenuti. Un altro problema fu l'atto livello di inquinamento nelle aree urbane e industriali. Il livello di vita migliorò solo sul finire degli anni Sessanta, grazie soprattutto all'espansione edilizia, con il settore dei lavori pubblici che passò dallo spendere 750 milioni di dollari nel 1965 ai 3581 milioni del 1975. Le relazioni internazionali Nel 1951 il Giappone firmò il Trattato di pace di San Francisco (non firmato da Urss, India e Taiwan) e il trattato di sicurezza nippo-americano e nel 1952 ebbe termine l'occupazione. Tuttavia gli Usa mantennero delle basi a Okinawa e in altre zone. Nel 1956 il Giappone fu ammesso all'Onu (nel 1953 e nel 1955 aveva aderito al Fondo monetario internazionale e al Gatt) ma la politica internazionale del Giappone dipese sempre dalle scelte americane. Nel 1956 Giappone e Urss ristabilirono le relazioni diplomatiche rinviando la soluzione del problema delle isole a nord dell'Hokkaido (tuttora contese). Le ottime relazioni con Washington si mantennero negli anni, nonostante l'opposizione di una parte del Parlamento. Nel 1969 il Primo ministro Sato Eisaku ottenne da Nixon la restituzione di Okinawa, con gli americani che vi mantengono tuttora delle basi. In seguito però, l'incontro tra Mao e Nixon a Pechino nel 1972, e il riconoscimento della Repubblica popolare cinese, causò un vero e proprio shock in Giappone. Ciò nonostante Cina e Giappone ristabilirono le relazioni diplomatiche e firmarono un trattato di pace nel 1978 che permise l'intensificarsi dei rapporti economici. La fine della guerra del Vietnam (1975) e il conseguente ritiro americano aprirono nuovi scenari. [...]
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