Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia del Giappone - Rosa Caroli riassunti, Appunti di Storia Contemporanea

Riassunti del libro "Storia del Giappone" di Rosa Caroli e Francesco Gatti

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 11/09/2020

Marco-Cornea
Marco-Cornea 🇮🇹

4.8

(9)

21 documenti

1 / 23

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia del Giappone - Rosa Caroli riassunti e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 日本の 歴史 Capitolo 1 (pag. 123-159) Bakumatsu - fine del bakufu Nell’ultima parte del periodo Edo vi erano molti sintomi della crisi della società e del sistema economico feudale: • Un forte malessere nelle zone rurali, in cui nella società contadina, messa alle strette da forti carestie e sistemi di dazi sempre più opprimenti a causa dell’organizzazione poco efficace della seconda parte del regime Tokugawa, si diffusero movimenti religiosi di natura messianica per dare sollievo e sicurezza alleviando le incertezze e le privazioni della vita quotidiana. • Malessere avvertito anche nelle città, dove i mercanti erano messi in difficoltà dalle nuove leggi economiche (che avevano visto azzerati i debiti a loro dovuti dai bushi), e gli stessi samurai si erano impoveriti a causa dell’abbassamento del prezzo del riso, cereale col quale erano tradizionalmente pagati dai loro signori. Questi due fattori avevano provocato molte rivolte e un diffuso malcontento, ma non causarono comunque l’unità necessaria alle masse oppresse per unirsi e sovvertire il sistema del governo o l’assetto economico e sociale. Gli studi sull’occidente fatti dai kangakusha ebbero inizialmente il risultato di interessare la nazione alla sviluppata tecnologia e scienza, mutando poi in un timore generato dalla presenza degli occidentali in Asia orientale, e dalle notizie che giungevano dalla Cina, costretta ad accettare le umilianti condizioni che seguirono la sconfitta inferta nella Guerra dell’oppio. Inoltre le pressioni da parte della Russia alla fine del ‘700 per stabilire rapporti commerciali con il Giappone avevano indotto il bakufu di allora a colonizzare l’odierna Hokkaido. Parallelamente, iniziò a svilupparsi un forte sentimento nazionalistico causato principalmente dagli scritti dei kokugakusha, studiosi ed esaltatori del Giappone, della sua tradizione shintoista e imperiale e del patrimonio indigeno, mirando alla restaurazione del tenno (imperatore) e alla promozione dello shinto a culto ufficiale dello stato. Al Giappone mancava quindi un’autorità politica nazionale, che potesse risanare i problemi economici e proteggerla dalla minaccia del colonialismo e dello “stato mondo” della società capitalistica occidentale. Aveva però delle potenzialità rivolte a questo fine: • Le sue frontiere storiche non avevano subito significative modifiche negli ultimi secoli, comprendendo (ad eccezione di Hokkaido e Okinawa) lo stesso territorio che avrebbe poi costituito lo stato Meiji. • Una comune storia di Impero • La permanenza di una forma di autorità ancorata all’idea di sacralità • Il patrimonio ideale e il rituale collettivo dello Shintoismo. • La diffusione dell’idea che l’espansionismo fosse il rimedio al problema della sicurezza nazionale, prospettando l’idea di un Impero esteso fino alle Aleutine e all’estremità orientale dell’America, con capitale nel Kamchatka. La riapertura del Giappone, l’ingresso nel sistema internazionale e il crollo del sistema feudale Il tentativo russo di stabilire rapporti commerciali fu rinnovato nel 1804, ottenendo un altro rifiuto dal bafuku, impedendo l’accesso agli stranieri al di fuori del porto di Nagasaki. La pressione russa si allentò in seguito alle invasioni napoleoniche, ritrovando vigore solo dopo la guerra di Crimea, conclusasi nel 1856. Le navi britanniche comunque a inizio ‘800 continuarono ad approdare in Giappone inducendo il governo di Edo a riaffermare, nel 1825, la politica del sakoku, cioè una chiusura completa dei confini. In seguito l’attenzione britannica si rivolse verso la Cina, dove a causa del suo respingere le richieste di Londra, limitando al porto di Canton gli scambi commerciali con gli europei, la East India Company aveva dato vita a un sistema di vendita illegale di oppio, il cui uso era andato diffondendosi in varie zone dell’Asia Orientale. Oltre a produrre una enorme perdita di valuta, l’introduzione dell’oppio in Cina procurò effetti deleteri sul piano sociale, inducendo il governo di Pechino a bruciare a Canton, nel 1839, oltre 1300 tonnellate di oppio confiscato. Questo avvenimento scatenò la Prima guerra dell’oppio (1839-1842), che costrinse la Cina a sottoscrivere una serie di trattati che l’avrebbero sottoposta a un meccanismo di controllo economico e territoriale da parte delle potenze occidentali. Nel 1852, giunse la notizia, anticipata anni prima da una missiva del Re dell’Olanda, di un’imminente arrivo di una missione statunitense decisa a rompere l’isolamento del Giappone. Essa arrivò l’anno successivo, guidata dal commodoro Perry, e se ne andò dopo aver ottenuto l’impegno a vagliare la proposta dal bakufu, per tornare un anno dopo ancora. L’arrivo di Perry mostrò l’intrinseca debolezza politica e militare del regime dei Tokugawa, accendendo una disputa tra fautori e oppositori della riapertura del paese quando l’allora capo del del consiglio degli anziani, Abe Masashiro, sottopose il contenuto delle richieste al parere di tutti i daimyo. Nonostante la frattura politica che era andata creandosi, Abe decise di seguire una linea di compromesso, sottoscrivendo l’accordo finale a Kanagawa nel 1854, evitando la guerra acconsentendo ad alcune richieste, ad eccezione però di quelle relative al commercio, e permettendo l’invio di un console statunitense a Shimoda (uno dei porti interessati dall’accordo), Townsend Harris. Questi avvenimenti iniziarono lo sfaldamento della politica del sakoku, proiettando il Giappone verso una progressiva riapertura (kaikoku). Verso la fine del 1855, incapace di porre rimedio alle critiche di entrambe le fazioni (joi, più nazionalisti e per la chiusura delle frontiere, e i fautori del kaikoku), Abe lasciò la guida del Consiglio degli Anziani nelle mani di Hotta Masayoshi, ancora più aperto alle politiche kaikoku del già ben disposto Abe. Lotte interne tra i Tokugawa portarono ad ulteriori disordini, dai quali uscì alla guida del bakufu Tokugawa Iemochi, che stipulò il Trattato di amicizia e di commercio con gli Stati Uniti nel 1858, grazie anche agli incontri avvenuti negli ultimi anni tra Hotta e Harris. Questi ebbero il risultato di aprire quattro nuovi porti, di limitare i dazi per l’importazione in Giappone mettendo i nipponici in grande svantaggio dal punto di vista commerciale, la concessione di extra- territorialità agli americani residenti sottraendoli all’autorità del Giappone, e la garanzia agli Stati Uniti dello status di nazione più favorita. Con la stipula di questi cosiddetti “trattati ineguali”, si ridussero le prospettive che il Giappone aveva davanti a sé, e questa posizione di subalternità fu percepita come lesiva della sovranità e degli interessi economici del Paese, acuendo i sentimenti xenofobi già diffusi e di aumentare il malcontento verso l’operato del governo di Edo, raccogliendo sempre di più la classe feudale attorno all’imperatore. Ciò fu accompagnato da numerosi gesti terrorismo politico, rivolte non solo al bakufu e alla sua cattiva gestione degli affari esteri ma anche e soprattutto a individui, navi ed edifici stranieri, causando reazioni di protesta e rappresaglia da parte degli occidentali, come accadde ad esempio nel 1863 quando le navi inglesi bombardarono e incendiarono Kagoshima. Le dimostrazioni di potenza militare occidentali alimentarono la convinzione secondo cui la riapertura fosse un passaggio obbligato per acquisire la tecnologia necessaria a rafforzare il Paese, nonostante ormai la disputa interna si era acuita formando due posizioni estreme, una allineata con Edo, e l’altra con Tokyo, e una posizione “intermedia” dei vecchi sostenitori della fazione perdente dei Tokugawa che mirava alla formazione del kobu gattai, un organo che unisce la Corte e il bakufu. giapponesi”. Essi forzarono inoltre l’apertura della Corea nel 1876 e, nel 1879, a decretare la fine del regno delle Ryukyu e ad annetterlo con lo status di provincia di Okinawa. L’offerta, mutata poi in obbligo, ai samurai di essere liquidati ottenendo una somma pari a quattro- sei annualità di stipendio non bastò ad evitare rivolte accomunate da una critica nei confronti dell’alto prezzo imposto dalla modernizzazione. Fu inoltre Saigo a far partire una ribellione di vaste proporzioni da Satsuma, dove si era ritirato, provocando scontri per diversi mesi con le truppe governative, che vinsero i ribelli e Saigo, che coerentemente alla tradizione samuraica si suicidò. Diversa fu invece la scelta compiuta da altri uomini che abbandonarono il governo a seguito del dibattito sull’invasione della Corea, e che preferirono esprimere la loro opposizione in termini politici, presentando all’Imperatore una petizione per l’istituzione di un’assemblea popolare elettiva e provocando la nascita di una serie di partiti popolari. Nel primo decennio del periodo Meiji, infatti, la cultura occidentale fu abbracciata da ogni punto di vista: la sete di conoscenza nipponica portò non solo ad avanzamenti dal punto di vista economico e militare, ma anche di libertà di pensiero, con la formazione di partiti ispirati ai pensieri liberali europei e all’istituzione di un sistema scolastico aperto a tutte le persone in età scolare, dalle elementari fino alle università, con metodi didattici molto liberi e aperti. Questi cambiamenti furono visti dagli oligarchi Meiji come un allarmante segnale, seguito infatti da una serie di provvedimenti che limitarono sempre più l’attività dei partiti politici, fino a farlo in termini costituzionali. Fu inoltre varata un’Ordinanza sull’educazione, che prevedeva una maggiore centralizzazione e un più rigoroso controllo del sistema scolastico, ora più tendente alla morale concepita in termini confuciani, dove non esisteva alcuna distinzione tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’individuo. Altri ridimensionamenti avvenirono nella sfera politica, quando un profondo disaccordo agli inizi degli anni Ottanta oppose le due più influenti personalità del governo: Okuma, propugnatore del modello inglese, e Ito, che vinse la disputa e ottenne la sostituzione del Dojokan con un sistema di gabinetto, sotto la guida di un primo ministro responsabile verso l’Imperatore. Successivamente, nel 1889, anniversario della mitica fondazione dell’Impero giapponese, fu promulgata la Costituzione dell’Impero del grande Giappone, che sanciva: • L’inviolabilità della sovranità dell’imperatore, cui spettava il controllo supremo del potere politico e delle forze armate, assieme a un potere legislativo maggiore di quello del Parlamento. • L’imperatore aveva inoltre il diritto di nomina del governo, i cui membri erano singolarmente responsabili di fronte a lui e non verso il Parlamento. • Il parlamento era composto da una Camera dei Pari riservata alla nobiltà e da una Camera dei rappresentanti eletta a suffragio ristretto e con poteri limitati, a eccezione del diritto di veto sulle leggi di bilancio. • Al popolo venivano riconosciuti diritti e doveri, pur assegnando alla legge il potere di limitarli e rivelando in tal modo la premessa assolutistica su cui si basava l’impalcatura costituzionale. Capitolo 2 (pag. 160-173) La revisione dei “trattati ineguali” e l’inizio dell’espansione coloniale Consolidato il processo di industrializzazione, con il completo passaggio al capitalismo e la creazione degli zaibatsu (forma giapponese dei monopoli capitalistici), la piena indipendenza dell’Impero dai trattati ineguali divenne obbiettivo primario del blocco di potere. Nonostante lo sviluppo accelerato e gli interventi del governo in economia (contrazione dei consumi interni, alta imposizione fiscale e vendita sul mercato di prodotti giapponesi, primo fra tutte la seta), il capitalismo giapponese fu un “capitalismo senza capitali”, in quanto comunque debole rispetto a quello delle altre forze imperialistiche del periodo. La politica espansionistica fu avviata con la guerra contro l’impero cinese (1894-95). La vittoria riportata dal Giappone ebbe l’effetto di essere considerato dai nazionalisti asiatici come un modello da seguire al fine di liberare i loro Paesi dalla dominazione coloniale. Essi non colsero però la natura imperialistica del regime giapponese e del conflitto nippo-cinese, in quanto il Giappone aveva avviato questa guerra con l’unico obiettivo di sostituire l’influenza cinese in Corea, da tempo sfera dell’interesse nazionale e ponte ideale per il commercio con i mercati continentali. La guerra nippo-cinese si concluse con il Trattato di Shimonoseki che, rifacendosi ai “trattati ineguali”, previde pesanti clausole per Pechino: • Riconoscimento dell’indipendenza della Corea, fino ad allora Stato vassallo dell’Impero cinese. • Apertura di quattro ulteriori porti cinesi al commercio giapponese. • Riconoscimento al Giappone di status di “nazione favorita”. • Pagamento di un cospicuo risarcimento bellico. • Cessione del Taiwan, isole Pescadores e della penisola del Liaodong. Quest’ultima annessione venne però ostacolata dal cosiddetto “Triplice intervento” nel 1895: Russia, Francia e Germania imposero al Giappone la restituzione della penisola con il pretesto che la cessione avrebbe danneggiato la Cina e messo in pericolo l’indipendenza della Corea. Tokyo tentò di contrastare questa decisione cercando l’aiuto di Stati Uniti e Gran Bretagna, che rimasero però neutrali. Considerata quindi la disparità degli armamenti, il Giappone accettò a condizione di un aumento del risarcimento bellico. Il “Triplice intervento” palesò ancora di più ai dirigenti giapponesi come la forza militare e le alleanze siano una garanzia per la difesa dei propri interessi in Asia. All’inizio del Novecento, quindi, il Giappone partecipò a una spedizione internazionale in Cina con lo scopo di reprimere la rivolta dei Boxers, movimento di forte connotazione xenofoba, con circa la metà degli uomini necessari. In questo modo Tokyo ottenne il definitivo riconoscimento da parte degli Stati occidentali. La vittoria contro la Russia Nel primo decennio del Novecento, le relazioni internazionali del Giappone si inserirono entro gli equilibri tra le grandi Potenze, in particolare tra Gran Bretagna e Russia: l’Impero zarista, infatti, tentava di contrastare l’influenza britannica in Asia, estendendo la propria egemonia in Afghanistan. Inoltre, non aveva partecipato alla liberazione di Pechino, schierando invece un grande contingente militare in Manciuria, fatto considerato da Tokyo come una minaccia ai propri interessi in Corea. Pertanto, i governi britannico e giapponese firmarono, in funzione antirussa, un Trattato di alleanza nel 1902, che prevedeva: • Il reciproco aiuto per la salvaguardia dei diritti e degli interessi britannici in Cina e di quelli giapponesi in Cina e Corea; • La neutralità del partner in caso di conflitto da parte del confirmatario, ma l’entrata in guerra al suo fianco se il numero dei nemici fosse pari o superiore a due. La stipula di questo trattato, oltre a rendere il Giappone l’alleato privilegiato in Asia di quella che era ancora considerata la maggiore Potenza mondiale, gli permise di revocare, nel primo decennio del Novecento, i trattati ineguali da tutti gli Stati occidentali. Ci fu quindi un nuovo impulso alla spinta espansionistica del Giappone. All’interno del blocco dominante erano presenti due teorie espansionistiche, non praticabili simultaneamente a causa del limitato potenziale economico e bellico del Giappone: una sosteneva la necessità di conquiste territoriali sul continente asiatico, mentre l’altra propendeva per l’espansione verso gli arcipelaghi del Pacifico e dell’Australia. Due fattori orientarono la politica espansionista verso le conquiste sul continente: contenere la penetrazione russa in Asia orientale, e la vittoria statunitense nella guerra ispano-americana e la conseguente conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti. Più facilmente praticabile risultava quindi la conquista di territori continentali che non avrebbero comportato la rottura della neutralità e dell’isolazionismo di Washington. Nel 1904, quindi, due giorni dopo l’attacco giapponese alle postazioni russe nella penisola del Liaodong, Tokyo dichiarò guerra all’impero zarista. Grande risonanza ebbe la vittoria giapponese nella battaglia navale di Tsushima, favorita dalla Gran Bretagna che, controllando il Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez, impedì l’accesso alla squadra navale russa, che dovette circumnavigare quindi l’Africa, arrivando a Tsushima gravemente inefficiente e sconfitta quindi con facilità. Lo sforzo militare e finanziario imposto dalla guerra indusse il governo giapponese, nonostante la vittoria, a siglare la pace, vista con favore dalle altre Potenze, a Portsmouth nel 1905. Il trattato previde il riconoscimento degli interessi militari politici ed economici del Giappone in Corea (annessa poi nel 1910) e la cessione al Giappone di alcuni territori asiatici precedentemente in mano alla Russia. Nonostante la grande risonanza internazionale della vittoria giapponese, prima nazione non occidentale a sconfiggere uno Stato europeo, i termini della pace furono giudicati insoddisfacenti da parte del movimento nazionalista nipponico, portando alla rivolta di Hibiya, nel corso della quale i manifestanti, sfuggiti al controllo degli organizzatori, incendiarono vari edifici pubblici. La rivolta fu sedata dall’Esercito solo dopo due giorni di aspri conflitti. Con l’ “incidente di Hibiya” si assistette a un progressivo inasprimento della repressione contro ogni forma di dissenso, perseguita con determinazione dall’oligarchia Meiji, parallelamente all’edificazione dello Stato moderno. I diritti civili e politici, pur se contemplati dalla Costituzione, furono limitati con vari interventi, primo tra tutti l’approvazione della Legge di polizia per l’ordine pubblico, che diede a polizia e magistratura la possibilità di reprimere le voci di dissenso al regime. Le debolezze del sistema economico Nei decenni compresi tra la guerra nippo-russa e l’inizio della prima guerra mondiale, nonostante la crescita delle esportazioni di manufatti, furono ancora i prodotti tessili a costituire la base dell’economia giapponese, con un forte impulso all’allevamento dei bachi da seta, voce fondamentale del bilancio delle famiglie contadine. La politica economica era fondata da un lato sul sostegno alle imprese esportatrici e, dall’altro, sulla compressione dei salari reali: basse retribuzioni, orari di lavoro non inferiori a dodici ore, due riposi festivi al mese, pessime condizioni igieniche e di sicurezza sui luoghi di lavoro furono caratteristiche proprie della prima fase dell’industrializzazione. A causa dei bassi salari industriali, del sovrappopolamento delle campagne, della fragilità economica e della impossibilità di assumere forza lavoro per le piccole imprese, il mercato interno giapponese rimase estremamente ristretto. La congiuntura negativa fu determinata sia da cause interne, cioè l’assorbimento delle grandi risorse finanziarie causato dalle due guerre contro gli Imperi cinese e russo, quanto da cause esterne, cioè la crisi economica globale di fine Ottocento. Negli anni successivi alla vittoria contro la Russia, l’economia giapponese entrò in una fase di assestamento, in quanto nonostante gli impegni finanziari per lo sforzo bellico, l’acquisizione in Manciuria dei diritti che erano stati privilegio russo consentì al blocco di potere dominante di consolidare l’espansione sul continente. Il limite alle possibilità di investimenti all’estero, inoltre, fu alla base della particolare natura dell’imperialismo giapponese, caratterizzato più dalla conquista militare che non dall’espansione finanziaria nei Paesi economicamente deboli (Cina) o nelle proprie colonie (Taiwan e Corea) Giappone è da ricercarsi nel timore da parte dei governi statunitense e australiano per la crescente immigrazione di asiatici: timore che nella prima metà degli anni Venti avrebbe determinato la restrizione totale dei flussi migratori dall’Asia. All’interno del blocco di potere dominante crebbe quindi l’opinione che le Potenze occidentali intendessero mantenerlo in una posizione di subordinazione politica ed economica, con il conseguente rafforzarsi di un sentimento anti- occidentale tra le masse popolari. Poco tempo dopo (1921-22) si tenne la Conferenza di Washington delle nove Potenze, che registrò il declino del primato mondiale della Gran Bretagna e sancì il contenimento delle aspirazioni giapponesi nell’area del Pacifico, la fine del Trattato anglo-giapponese, sostituito da un Trattato del Pacifico firmato da Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia; il Giappone fu inoltre costretto a restituire alla Cina la penisola del Jiaochou. Dopo quest’altra delusione per i gruppi joi giapponesi, nel 1921 un fanatico nazionalista assassinò, come già scritto in precedenza, il Primo ministro Hara. Intanto, i ceti medi delle grandi aree urbane e gli intellettuali sostenevano rivendicazioni di stampo liberale, e nelle fabbriche e nelle campagne avvenivano scioperi operai e lotte per l’affittanza. Difficoltà economiche del Giappone nei primi anni ’20 Il periodo successivo alla prima guerra mondiale, fino ai primi anni Trenta, fu caratterizzato da una serie di difficoltà economiche: • La Rivoluzione d’Ottobre in Russia, con il suo estendersi all’Asia Centrale (dove l’intervento internazionale fallì nel contrastarla), fu considerata una minaccia incombente, alimentata da movimenti antimperialisti in Corea e Giappone (1919) • La crisi di riconversione produttiva che colpì gli Stati Uniti fece crollare la loro domanda, soprattutto dei beni di lusso, quindi anche le importazioni di seta dal Giappone • I manufatti prodotti nei Paesi dell’Intesa ripresero ad occupare il mercato asiatico, riducendo lo spazio commerciale del Giappone • Nel 1923 ci fu un disastroso terremoto nel Kanto, con oltre 100,000 morti e 3,3 milioni di feriti, e danni materiali che ammontarono a circa mezzo miliardo di yen, aggravando la bilancia dei pagamenti giapponese per la massiccia importazione di beni e materiali per la ricostruzione. Inoltre, al fine di fare fronte a questa emergenza, furono organizzati gruppi di volontari che affiancarono la polizia nel mantenimento dell’ordine pubblico. Da questi gruppi, presenti e compartecipi i poliziotti, partì una violenta persecuzione di cinesi e coreani presenti a Tokyo, che portò all’assassinio 4000 coreani e 400 cinesi. A rendere ancora più grave l’episodio, non risulta che la magistratura o i vertici del ministero degli Interni siano intervenuti per perseguire i colpevoli. I governi di partito, la debolezza dei partiti politici e la stretta autoritaria In questo clima, il Kakushin Kurabu (club riformatore) e dei partiti diedero vita a una coalizione nella Camera bassa che, dopo le dimissioni del governo “trascendente”, formarono una maggioranza in appoggio del governo di Kato Takāki, presidente del primo “governo di partito”. Con quest’espressione si indicano gli esecutivi operanti tra il 1924 e il 1932, nati sulla base di maggioranze parlamentari. Nei periodi antecedenti e successivi fino alla resa del 1945, i governi furono considerati “trascendenti”, cioè varati dai consiglieri dell’Imperatore ed investiti della funzione esecutiva senza necessariamente godere della maggioranza parlamentare. Anche i “governi di partito” dovettero sottostare ad alcune regole, determinate dai rapporti di forza interni al blocco di potere. La subalternità dei partiti politici emerse in tutta evidenza nel 1925, quando la tensione presente nella società indusse il governo a dare una risposta alle rivendicazioni del movimento per il suffragio universale, chiesto a gran voce dai ceti medi urbani, da intellettuali e dai primi gruppi femminili. Oltre alle resistenze di influenti personalità della burocrazia civile e delle forze armate, il governo si trovò di fronte all’opposizione della Camera alta, il cui voto favorevole era indispensabile per completare l’iter parlamentare. Dopo estenuanti trattative, nel 1925 fu infine approvata la legge che istituì il suffragio generale maschile; ebbero diritto di voto solo però i risiedenti da almeno un anno nel collegio elettorale e a condizione che non fossero indigenti, cioè fruitori dell’assistenza pubblica. Inoltre, i candidati dovevano versare una cauzione di 2000 yen, cifra considerevole per l’epoca, che veniva incamerata dalle casse dello Stato in caso di mancata elezione. In questo modo si rese di fatto impossibile la partecipazione alle consultazioni elettorali di appartenenti ai ceti popolari. Alla limitata apertura democratica fece immediatamente seguito l’approvazione della Chian Ijiho (Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico), che introdusse il divieto di “alterare il sistema nazionale”, termine ambiguo, sottoposto a qualsiasi interpretazione discrezionale. La legge dette a polizia e magistratura ampie possibilità di intervento sia contro le attività politiche sia contro le elaborazioni ideologiche considerate pericolose. Capitolo 4: Dal fascismo al crollo dell’impero (pag.192-216) La repressione Nel ventennio che seguì l’approvazione della Chian Ijiho, il regime adottò quindi una politica sempre più repressiva nei confronti dei suoi oppositori, tanto che si può affermare che da autoritario divenne fascista. I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: nello stesso 1925, furono incriminati gli studenti di sociologia dell’Università di Kyoto, rei di non limitarsi a discussioni accademiche ma di propagandare nella società l’ideologia marxista e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928 furono invece arrestati i dirigenti e quasi tutti i militanti del Partito comunista, e sottoposti a processo per le loro idee rivoluzionarie; in quell’occasione l’Imperatore Hirohito introdusse nella Chian Ijiho la pena di morte. Ci furono altri due casi emblematici di questo sistema repressivo: il “caso Minobe”, contro Minobe Tatsukichi, costituzionalista di assoluto rilievo, secondo la cui interpretazione della Costituzione l’Imperatore sarebbe un organo dello Stato e non al di sopra di esso; e il “caso Tsuda”, contro Tsuda Sokichi, autorevole studioso di storia antica del Giappone, che mise scientificamente in discussione la cronologia ufficiale che fissava all’11 febbraio 660 a.C. la fondazione del “Paese degli Dei” e, quindi, i fondamenti stessi del sistema imperiale. Il ministero degli Interni inoltre compilò un elenco di riviste e libri dei quali fu vietata la circolazione; il ministero dell’Educazione accentuò la sua azione di controllo sulla ricerca e sul dibattito accademico, “nipponizzando” le idee provenienti dall’estero e inserendo propri supervisori nei gruppi di ricerca. I più temibili strumenti della coercizione furono comunque l’Apparato di polizia speciale superiore (Tokko) e i procuratori del pensiero, insediati presso ogni tribunale. Il Tokko svolse le funzioni proprie di una polizia segreta, contribuendo alla diffusione del terrore, e i procuratori del pensiero ebbero ampi margini di manovra all’interno della dicotomia consenso/coercizione, mettendo in atto la pratica del tenko, sospendendo il giudizio nei confronti dell’imputato affidandolo a un garante individuale o collettivo che si impegnava a convincere il sovversivo che la sua posizione ideologica era errata, reinserendolo a pieno titolo nella società se abbandonava le sue idee pericolose e tornava a essere un “buon suddito”. Sono anche questi i motivi per cui in Giappone non si riscontrerà alcuna forma di resistenza attiva al regime, come in Italia, o di complotto contro i vertici, come in Germania. La fabbrica del consenso Accanto agli interventi repressivi, di grande rilievo è la capacità della classe dominante giapponese a veicolare il consenso. Aveva operato in tal senso l’Associazione imperiale dei riservisti, che si estese capillarmente soprattutto nelle campagne, dove non trovò le resistenze incontrate nelle aree urbane, dedita a forgiare “uomini di carattere” attraverso i gruppi giovanili, organizzando dibattiti, corsi e audizioni di massa tra la popolazione. La scuola inoltre ebbe un’importanza cruciale nella diffusione di stereotipi collettivi unificanti e non antagonistici, elevando la figura dell’Imperatore a discendente della dea del Sole, trascendente la politica e dedito al benessere dei suoi sudditi, accanto alle virtù che dovevano avere i sudditi, cioè lealtà e obbedienza dedite all’armonia sociale e alla difesa del Paese degli Dèi. Gli anni Venti e Trenta furono comunque percorsi da tensioni sociali che avevano provocato gli interventi della magistratura, della polizia e della burocrazia: da un lato, le agitazioni degli operai e dei fittavoli erano state oggetto di repressione e di azioni di contenimento; dall’altro lato, gruppi occulti, ispirati soprattutto dalle idee dello scrittore Kita Ikki (teorizzatore del movimento fascista, che voleva riorganizzare buona parte del costrutto sociale, eliminando le cricche militare, burocratica e politica, sostituire il Parlamento da una Camera, eliminare gli zaibatsu, con lo scopo di restaurare un rapporto diretto tra Imperatore e sudditi) e in gran parte provenienti dai gradi intermedi dell’Esercito, avevano attuato una lunga serie di attentati contro personalità del blocco di potere dominante, conclusi con l’ “incidente del 26 febbraio”, ribellione durata quattro giorni e repressa con durezza, e la condanna a morte di tredici ufficiali e sei civili, tra i quali lo stesso Kita Ikki. Il nesso fascismo-imperialismo Il 1937 rappresenta un anno cruciale nel processo storico giapponese: con la condanna a morte di Kita Ikki fu definitivamente sconfitto il cosiddetto “movimento fascista”, e sul piano internazionale l’imperialismo giapponese, con l’aggressione alla Cina nel mese di luglio, avviò la cosiddetta guerra dell’Asia Orientale. L’espansionismo giapponese, come si è visto, affonda le sue radici nel periodo Meiji. Le tappe dell’espansione si possono così riassumere: 1. Annessione del Regno delle isole Ryukyu nel 1879; 2. Occupazione di Taiwan, sottratta all’Impero cinese con il Trattato di pace di Shimonoseki del 1895; 3. Spartizione con la Russia dell’egemonia sulla Manciura nel 1905, a seguito della vittoria sull’Impero zarista; 4. Consolidamento della dominazione sulla Corea nel 1910; 5. Riconoscimento grazie alla Conferenza di Versailles, del mandato di “tipo C” sulle isole del Pacifico sottratte alla Germania, e dei diritti ferroviari e minerari ex tedeschi nella penisola di Jiaochou. Quindi nel 1931 l’armata giapponese invase la Manciuria, avviando la cosiddetta “Guerra dei quindici anni”. L’anno successivo lì Tokyo fondò lo stato fantoccio del Manchukuo, completamente soggetto alla dominazione giapponese. Dopo la conquista, gli zaibatsu accentuarono la loro concorrenza con gli investimenti statunitensi e britannici, provocando la reazione di Washington e di Londra. Nel 1933 la Società delle Nazioni condannò l’intervento del Giappone, che abbandonò il consesso internazionale. Dopo questi avvenimenti si rassodò il terreno di cultura ideologica della guerra espansionistica, che il Giappone intraprese nel luglio del 1937 con l’invasione della Cina, prodromo della Guerra del Pacifico. Capitolo 5: L’occupazione e il “miracolo economico” (pag. 217-231) Le riforme democratiche L’occupazione del Giappone si protrasse dal 1945 al 1952. Pur essendo alleata, fu sostanzialmente attuata dagli statunitensi, a eccezione di un piccolo contingente australiano. I Paesi occupati dal Giappone durante la Guerra del Pacifico ritornarono sotto la dominazione coloniale o furono restituiti alla Cina, mentre la Corea fu occupata a Nord dall’Unione Sovietica e a sud dagli Stati Uniti. Il Giappone usciva prostrato dalla “Guerra dei quindici anni”: i siluramenti avevano affondato circa il 70% della sua flotta, mentre i bombardamenti e l’abbandono delle colonie avevano determinato la perdita di gran parte del suo potenziale industriale. Inoltre, vi erano circa 8 milioni di senzatetto, 9 milioni di disoccupati e altri milioni di militari rimpatriati. Il piano di occupazione del Giappone era già stato elaborato nel 1942, quando le sorti della guerra iniziarono a volgere a favore degli Stati Uniti, da una commissione di esperti, tra cui lo storico Edward H. Norman e l’antropologa Ruth Benedict, e da uomini politici. Con la resa incondizionata del Giappone, il presidente Truman nominò a capo del Comando supremo delle potenze alleate il generale MacArthur, affidandogli l’obiettivo di democratizzare e smilitarizzare il Giappone. Nonostante l’istituzione alleata della Commissione per l’Estremo Oriente, MacArthur aveva ordine di attenersi agli ordini provenienti da Washington, senza attendere le indicazioni degli organismi alleati. In questo periodo di occupazione la politica degli Stati Uniti verso il Giappone cambiò radicalmente: tra il 1946 e il 1947 infatti il Giappone, da nemico sconfitto, venne trasformato nel principale alleato degli Stati Uniti in Asia. MacArthur operò per mezzo di direttive impartite al governo giapponese, responsabile della loro applicazione, approntando radicali cambiamenti: • Furono aboliti i ministeri della Guerra, della Marina, degli Approvvigionamenti militari e degli Interni; • Furono sospesi tutti i corsi scolastici e vennero dichiarati illegali i testi di storia, geografia ed etica, riscrivendoli prima della riapertura delle scuole e delle università; • Fu richiesta la stesura di una nuova Costituzione e un piano di scioglimento degli zaibatsu; • Furono liberati dal carcere i prigionieri politici e fu sancita la libertà di ricostituire i partiti politici e i sindacati, permettendo la nascita del Partito liberale giapponese, Partito progressista giapponese e del Partito comunista giapponese. Fu dunque istituito nel 1946 il Tribunale di Tokyo, chiamato a giudicare i crimini di “classe A”, cioè quelli contro la pace, di cui dovevano rispondere alti ufficiali e politici istigatori della guerra. Dei 28 criminali contro la pace, 2 morirono prima della conclusione del processo, 1 fu imputato come insano di mente, 7 condannati a morte e 18 a pene detentive. Furono inoltre istituiti numerosi tribunali di classe B (crimini di guerra convenzionali) e C (crimini contro l’umanità), che comminarono quasi mille condannati a morte e circa 2500 pene detentive, molte delle quali ergastoli. Per volontà degli Stati Uniti, non furono però prese in considerazione le prove di alcuni fatti gravissimi: • Il massacro di Nanchino, con a oggi stimate circa 200-300.000 vittime; • Fu nascosta la documentazione degli esperimenti su cavie umane; • Fu occultata tutta la vicenda delle migliaia di donne coreane, taiwanesi e di altri Paesi occupati obbligate a prostituirsi, in campi di detenzione, ai soldati giapponesi. La nuova Costituzione Il governo statunitense, con l’appoggio britannico e tra le proteste, in particolare, dell’Unione Sovietica, optò per la non perseguibilità dell’Imperatore Hirohito. La scelta fu dettata da varie ragioni: • Washington ebbe il timore che a imporre l’abdicazione dell’Imperatore si corresse il rischio (infondato) del passaggio a un regime repubblicano; • Secondo le convinzioni di MacArthur, l’abdicazione avrebbe comportato la sollevazione di gran parte della popolazione, ancora fortemente subalterna all’idea della discendenza divina del sovrano, prerogativa alla quale l’Imperatore Hirohito rinunciò con un radiomessaggio il 1 gennaio 1946; • L’abdicazione avrebbe infine indebolito i vertici burocratici, nominati dall’Imperatore e quindi delegittimati, o si sarebbero essi stessi dimessi per onorare il vincolo di fedeltà con il loro sovrano. La nuova Costituzione del Giappone entrò in atto nel 1947, apportando sostanziali cambiamenti: • L’Imperatore divenne il “simbolo dello Stato e dell’unità del popolo giapponese”, perdendo le prerogative previste dalla Costituzione Meiji; • Prevede inoltre la netta separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, con il Parlamento formato da due Camere, entrambe elettive; • La nuova Costituzione, infine, è fortemente pacifista in quanto prevede sia la rinuncia del Giappone alla guerra per la risoluzione delle dispute internazionali, sia il divieto alla ricostituzione delle forze armate. Tuttavia, poco dopo l’inizio della Guerra di Corea, fu istituita la Riserva di polizia nazionale, che andò a sostituire i militari statunitensi nel mantenimento dell’ordine pubblico. La vita politica Nel 1948 iniziò l’era di Yoshida Shigeru, a capo del Partito liberale, che pose come priorità assoluta la ricostruzione dell’economia che, a prezzo di immani sacrifici da parte della popolazione, intorno alla metà degli anni ’50 raggiunse i livelli del ’33-35, i più alti del periodo prebellico. In accordo con MacArthur, egli promosse la “purga rossa” che espulse oltre 20.000 lavoratori dalle imprese private e 1.200 dipendenti pubblici, per essere dirigenti o iscritti al Partito Comunista. Dopo la firma del Trattato di San Francisco ne riabilitò un gran numero, tra cui Hatoyama che, nel 1954, mise in minoranza il governo Yoshida con l’appoggio dei socialisti. La ricostruzione economica In economia, inizialmente lo Scap attuò uno stretto controllo nell’allocazione delle risorse e impose che il pagamento delle riparazioni di guerra avvenisse in valute pregiate o con il trasferimento di impianti industriali giapponesi; tuttavia, già nel 1947 permise al Giappone di fare fronte ai danni di guerra con l’esportazione di prodotti nazionali e con pagamenti in yen, decisione osteggiata debolmente dalla Gran Bretagna e in modo più vigoroso dalla Cina e dall’Unione Sovietica, ma senza alcun esito. Gli zaibatsu, inoltre vennero ridimensionati ma tuttavia le famiglie che li controllavano si riorganizzarono nella forma meno evidente di keiretsu. Un punto di forza e di successo della politica dello Scap è costituito dalla riforma agraria, che ridusse l’affittanza, già emersa nel corso dell’era Meiji, al 10 percento del totale, a scapito di proprietari terrieri e contadini medi che videro le loro proprietà drasticamente ridotte. A seguito della ripresa industriale, la popolazione attiva in agricoltura passò dal 41% del 1955 a poco più del 9% nel 1990. Il progresso economico fino ai primi anni ’70 Nel corso del trentennio che separa la fine della guerra dal 1975, anno della seconda crisi petrolifera, l’economia giapponese ebbe varie fasi di sviluppo. La ripresa economica fu particolarmente lenta e problematica fino al 1950, traendo poi un primo giovamento dalle forniture per la guerra di Corea. Il decennio successivo fu comunque di notevole difficoltà, ma rappresentò anche la premessa degli anni del successo protrattisi fino agli anni Novanta. Questo successo fu possibile grazie alla priorità che il governo giapponese diede alla ricostruzione, con interventi a sostegno del settore industriale e chiedendo alla popolazione di sopportare immani sacrifici. Sebbene Yoshida abbia avuto un ruolo fondamentale nell’indirizzare la ricostruzione economica, molta parte del potere decisionale rimase ai funzionari superiori quali Ministero dell’Industria e del Commercio Estero, quello delle Finanze e l’Agenzia per la programmazione economica. Lo sforzo della ripresa si protrasse fino alla metà degli anni Sessanta, quando la bilancia dei pagamenti diventò attiva. La politica economica si basò su tre princìpi: 1. La limitazione delle importazioni all’indispensabile; 2. La trasformazione della struttura produttiva in funzione della concorrenza sul mercato mondiale; 3. Lo stimolo alle esportazioni. La dinamicità nel commercio internazionale fu favorita dall’adesione all’Accordo generale su tariffe e commercio (Gatt) e dall’attività delle sōgō shōsha, società commerciali internazionali il cui ruolo è ancora oggi quello di reperire delle materie prime a prezzi concorrenziali, il trasporto dei prodotti, il finanziamento delle attività commerciali e la pubblicità dei prodotti stranieri per invogliare i consumatori all’interno del Paese. Fino al 1965 la popolazione fu sottoposta a gravi sacrifici, ed un problema che si manifestò con drammatica violenza è l’altissimo livello di inquinamento; il livello di vita iniziò a migliorare nei tardi anni ’60. Le relazioni internazionali Nel 1951 il Giappone siglò il Trattato di Pace di San Francisco e contemporaneamente il Trattato di sicurezza nippo-americano, con il conseguente termine dell’occupazione alleata, nonostante gli Stati Uniti tennero in Giappone molte basi militari, e il pieno riconoscimento internazionale del Giappone e la sua ammissione nell’Onu nel 1956. Nello stesso anno, inoltre Giappone e Unione Sovietica ristabilirono le relazioni diplomatiche. Successivamente, il Primo ministro Satō Eisaku si accordò nel 1969 con il Presidente Nixon per il ritorno Okinawa in Giappone. Due anni dopo questo accordo, il Presidente Nixon, a seguito di contatti segreti tra il segretario di Stato statunitense Kissinger e il ministro degli Esteri cinese, si recò a Pechino per incontrare Mao Zedong, ammettendo la Repubblica popolare cinese nell’Onu ed entrando a far parte del Consiglio di Sicurezza. A seguito di ciò anche il giappone firmò un comunicato congiunto che annunciò lo stabilimento di relazioni diplomatiche con la Cina, intensificando i rapporti economici-commerciali nippo-cinesi. Dall’ultimo decennio del XX secolo le linee di politica internazionale di Tōkyō tendono all’affermazione del Giappone come potenza economica in Asia Orientale, caratterizzati però da difficili rapporti con la Cina, a causa della visione triangolare comprendente gli Stati Uniti e le loro numerose basi in questo continente e della coesistente necessità dei rapporti commerciali con la Repubblica popolare cinese, e con la Corea del Nord. L’agenda delle relazioni internazionali con questo paese presenta molti punti di tensione, dal rapimento di alcuni cittadini giapponesi operato dai nord-coreani alle navi spia, dal lancio di missili nelle acque territoriali giapponesi alla recente decisione della Rdcp di riattivare un reattore atomico. Nel 2002 comunque il Giappone ha riaperto il canale di comunicazione con Pyongyang, seguito da un incontro tra l’allora Primo Ministro giapponese Koizumi e il Presidente Kim Jong Il. Dalla grave recessione alla ripresa economica Il Giappone, tra la fine della WWII e l’ultimo scorcio del Novecento è diventato la seconda potenza economica mondiale del mondo; tuttavia, la recessione profilatasi nei primi anni ’90 si è allentata solo nel 2005. La contrazione della domanda interna non ha favorito la ripresa della produzione e del commercio interno; inoltre, il Giappone appare tuttora incerto nella scelta tra libero mercato e intervento statale, non optando con determinazione per la prima soluzione o per l’altra. A seguito del fallimento di cinque delle maggiori banche giapponesi a causa dell’inesigibilità dei prestiti conferiti durante l’ “economia della bolla”, si assistette nei primi anni 2000 alla fusione delle banche fino ad allora considerate il nucleo dei gruppi finanziari. A questi profondi cambiamenti del settore bancario si sono contrapposte serie difficoltà nel settore industriale, con drastiche riduzioni del personale da parte di Toyota e Mitsubishi, e l’acquisto del pacchetto di maggioranza Nissan della Renault. D’altro canto, in conseguenza alla crisi della General Motors, la Toyota ha ripreso la corsa verso il primo posto nel settore. Capitolo 7: Sviluppi interni e sfide internazionali nel Nuovo Millennio (pag.247/269) Dal “ventennio perduto” all’Abenomics Dopo aver registrato una ripresa agli inizi del nuovo millennio, grazie a un deprezzamento dello yen capace di rivitalizzare le esportazioni, la situazione economica giapponese ha pesantemente risentito gli effetti della crisi finanziaria del 2008, causata dal fallimento della Lehman Brothers e la conseguenza caduta delle esportazioni su cui si basava e della domanda interna; nel 2010 il Giappone ha dovuto quindi cedere alla Cina il posto di seconda economia mondiale. Il governo ha dimostrato numerosi limiti nella sua capacità di fronteggiare le ricadute economiche della crisi finanziaria mondiale, indicendo il primo ministro Asō a indire elezioni anticipate nel 2009. Il Partito democratico ha riportato un marcato successo, triplicando i propri rappresentanti e ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera bassa, con Hatoyama Yukio come primo ministro. Ponendo fine al lungo potere liberal-democratico, questa vittoria è apparsa come un fatto storico. Il drastico calo di consensi al partito liberal-democratico è dovuto alla sua incapacità di superare la lunga crisi; allo stesso modo, la scarsa capacità di Hatoyama di tradurre nella pratica gli intenti annunciati, e la sua esplicita ammissione di non poter rispettare l’impegno di ridurre la presenza delle basi militari statunitensi a Okinawa, hanno determinato un repentino calo di consensi già a pochi mesi dal suo insediamento. Se agli inizi del 2011 si sono registrati segnali di una ripresa dell’economia, nuovi gravi problemi sono sorti a seguito del triplice disastro (il sisma, lo tsunami e l’incidente alla centrale di Fukushima) dell’11 marzo che, oltre a causare 18.500 perdite tra morti e dispersi, a produrre ingenti danni materiali e a richiedere fondi per la ricostruzione delle aree colpite, ha indotto a sospendere progressivamente l’attività di tutte le centrali nucleari presenti in Giappone, generando un incremento delle importazioni destinate a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese, con riflessi negativi sulla bilancia commerciale. Ciò ha prodotto nell’immediato un clima di collaborazione tra le forze politiche. La prospettiva di ridurre progressivamente la dipendenza del Paese dall’energia nucleare ha trovato un ampio favore tra l’opinione pubblica, che non fu nonostante il suo iniziale impegno messa in atto dal governo, che già nel 2012 intendeva riattivare due reattori nella provincia di Fukui. Questo clima di sfiducia ha portato meno del 60% dell’elettorato a recarsi alle urne e far ritornare i liberal-democratici al governo. Il primo ministro Abe Shinzō, già stato al potere nel 2006/07 diede vita quindi a un ambizioso programma economico noto come Abenomics, che consiste nell’immissione di un’ingente liquidità da parte della banca del Giappone nel sistema economico, allo scopo di favorire il deprezzamento dello yen e quindi le esportazioni. Le trasformazioni economiche e sociali Dalla metà degli anni ’90, il ricorso a forme di lavoro temporaneo, piuttosto che al tradizionale impiego a vita, è andato affermandosi anche tra le grandi aziende, allo scopo di tagliare i costi del personale e rendere i livelli di manodopera flessibili alle fluttuazioni della domanda di mercato. Parallelamente, va tramontando l’idea secondo cui la retribuzione debba essere proporzionale all’anzianità di servizio, a favore di criteri fondati su meritocrazia e produttività. Le disuguaglianze economiche e sociali si sono quindi accentuate, con una situazione economica e occupazionale che penalizza soprattutto le generazioni più giovani, che non potranno godere del livello di benessere garantito ai loro genitori (tasso di suicidi altissimo, primaria causa di morte tra i 15 e i 39 anni). Si sviluppa inoltre un progressivo invecchiamento della popolazione, generato dalla maggiore speranza di vita a livello mondiale, ma anche da un tasso di natalità tra i più bassi al mondo; la decrescita demografica pone nuovi problemi, a partire dal fatto che genererà un progressivo ridimensionamento della forza lavoro, e che la spesa pensionistica e sanitaria di un numero crescente di anziani graverà su una popolazione in età lavorativa in costante flessione. (40% di anziani sul totale della popolazione entro il 2060). Una soluzione al problema demografico potrebbe derivare da politiche volte a favorire l’immigrazione di stranieri, ma persiste una diffusa resistenza in tal senso, a causa del timore che ciò possa generare un aumento del tasso di criminalità e delle tensioni etniche, minando la coesione sociale in un Paese tra i più sicuri al mondo. Sviluppi e contese internazionali Stati Uniti: Asō è stato il primo leader straniero ad essere ricevuto alla Casa Bianca nel 2009, all’indomani dell’insediamento di Obama, ottenendo rassicurazioni sulla solidità della collaborazione nippo-statunitense sul piano economico e della sicurezza. Il programma elettorale del democratico Hatoyama, invece, mirava a una maggiore indipendenza da Washington e una politica estera maggiormente incentrata sull’Asia Orientale. In particolare, aveva assunto l’impegno di trasferire la base militare statunitense di Futenma al di fuori della provincia di Okinawa, che pur occupando meno dell’1% del territorio giapponese ospita il 74% delle strutture militari americane in Giappone. Lo spostamento di Futenma era già stato concordato nel 1996, dopo le proteste a seguito dell’ennesimo caso di violenza sessuale da parte di militari americani (stavolta a carico di una dodicenne); nel 2006 il governo liberaldemocratico di Koizumi e l’amministrazione Bush avevano sottoscritto un accordo che prevedeva il trasferimento di Futenma nella meno popolata baia di Henoko, a nord di Okinawa. Ciò aveva comunque provocato una nuova mobilitazione da parte della popolazione locale, a causa del devastante impatto che avrebbe prodotto sulla barriera corallina e le rare specie marine della baia, e che chiedeva lo spostamento della base al di fuori della provincia. L’amministrazione Obama, in ogni caso, escluse espressamente di ridiscutere questo accordo ad Hatoyama, comportando l’uscita dei suoi socialdemocratici dal governo, non in grado di mantenere i loro impegni. Nonostante la successiva riconferma giapponese per lo spostamento a Henoko, ci sono tuttora numerose manifestazioni e critiche da parte del popolo di Okinawa per evitarne l’attuazione. Corea del Nord: l’impegno di porre termine al programma nucleare assunto dal governo di Pyongyang nel 2007 è stato disatteso due anni dopo con un secondo test nucleare. Le tensioni nella regione non si sono attenuate dopo l’ascesa al potere di Kim Jong-Un: nel 2013 il giovane dittatore ha fatto eseguire un terzo test nucleare, mentre le minacce rivolte al Giappone hanno indotto il governo a schierare barriere anti-missile nella capitale e a chiedere agli Stati Uniti rassicurazioni circa la loro disponibilità a difendere il Giappone. A reiterati lanci di missili dalla Corea del Nord verso il Mar del Giappone ha fatto seguito, nel 2016, un nuovo test atomico, cui Abe e Obama hanno risposto chiedendo un immediato avvio di consultazioni al Consiglio di sicurezza Onu. Altri lanci missilistici nel 2017 causano l’entrata della Corea del Nord nella lista nera dell’Onu, e la situazione non sembra migliorare con il fallimento del vertice di Hanoi nel 2019. Cina: l’ascesa economica e militare della Cina hanno contribuito a rendere sempre più conflittuali le relazioni tra Tōkyō e Pechino, in primo luogo a causa della disputa territoriale per le Senkaku, un gruppo di isole disabitate situate in una zona ricca di riserve petrolifere, minerarie e ittiche, tra il Taiwan e la provincia di Okinawa. Nonostante rientrarono come Okinawa sotto l’occupazione statunitense fino al 1972 a seguito degli accordi di pace del 1952, la Cina, che non sottoscrisse questo trattato, denuncia la mancata restituzione delle isole, originariamente occupate dal Giappone imperiale durante la seconda guerra mondiale. Ci furono quindi numerose provocazioni e prove di forza da entrambe le parti, finché nel 2012 il governo giapponese ha annunciato l’acquisto di una parte delle isole dai legittimi proprietari, provocando accese reazioni da parte di Pechino e nuove violente dimostrazioni anti-giapponesi in Cina. Nel 2013, quindi, Pechino ha annunciato l’intenzione di istituire una Zona d’identificazione per la difesa aerea su una porzione di mare che comprende anche le isole contese, sottoponendo l’accesso a tale spazio al permesso delle autorità cinesi. È dunque anche nel contenimento della Cina che gli obiettivi di Tōkyō si saldano con quelli dell’alleato statunitense: il dinamismo economico asiatico e la crescita del volume degli scambi commerciali transpacifici hanno indotto infatti l’amministrazione Obama ad identificare la regione dell’Asia e del Pacifico come il fulcro della politica statunitense. Politica che si è tradotta nella conclusione, nel 2015, del Trattato di libero scambio, cui hanno aderito Stati Uniti, Giappone e altri dieci paesi che si affacciano sul Pacifico, escludendo la Cina e mirando a contenerne l’espansione economica. Nel 2013 è stato istituito il Consiglio di sicurezza nazionale giapponese, introducendo inoltre pene detentive per la rivelazione di segreti di Stato e permettendo al Governo di secretare documenti relativi alla difesa, la diplomazia, le misure di antiterrorismo e spionaggio. Nel 2014 il governo ha allentato i vincoli posti all’esportazione di armi e di tecnologia militare, infrangendo in tal modo uno dei capisaldi del pacifismo post-bellico; altra svolta in tal senso si ha nell’anno successivo, con l’annuncio della possibilità della nazione di collaborare attivamente al di fuori dei confini nazionali e espandendo il ruolo delle Forze di autodifesa, consentendo il loro intervento all’estero a supporto di forze armate di paesi amici o alleati, anche in assenza di una diretta minaccia per il Giappone. Questi sviluppi alimentano il clima di tensione con i vicini asiatici, ulteriormente fomentato dalle convinzioni politiche nazionaliste di Abe, incline a considerare le memorie e le narrazioni del passato coloniale e bellico come lesive dell’orgoglio nazionale, e restio ad ammettere le responsabilità del proprio Paese nel corso del conflitto condotto in Asia. Nel 2007 aveva infatti affermato di ritenere che le prestazioni sessuali delle comfort women fossero state volontarie e remunerate; dal 2014 i manuali nelle scuole sono revisionati specificando che il territorio nazionale include sia le isole contese con la Cina che quelle con la Corea del Sud, e reiterando l’omissione circa i crimini commessi dai militari nipponici nel periodo bellico.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved