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Storia del giornalismo: dalle origini alla nascita dei primi giornali, Appunti di Letteratura Italiana

La storia del giornalismo dalle origini fino alla nascita dei primi giornali. Si parla delle origini del giornalismo nell'antichità classica, del costante lavoro di trasmissione del sapere durante il medioevo, della svolta nella diffusione del giornalismo e dell'informazione con la stampa, della necessità di nuove forme sintetiche rispetto al libro, della nascita dei primi giornali dell'informazione e della diffusione delle gazzette di informazione. Si parla anche dell'informazione più colta e raffinata destinata agli intellettuali e del Journal de Sçavans, il primo giornale intellettuale in assoluto.

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 01/05/2023

elisa.barattoni
elisa.barattoni 🇮🇹

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Scarica Storia del giornalismo: dalle origini alla nascita dei primi giornali e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LEZIONE 10 – 02/11/22 Il giornalismo è bisogno di informazione e di condivisione della conoscenza. Le origini del giornalismo si confondono con il sorgere della storia intesa come documentazione delle vicende umane. Se pensiamo all’antichità classica, anche in Grecia c’era il banditore, l’araldo, che offriva notizie; a Roma c’erano i cosiddetti precones, che erano dei pubblici ufficiali incaricati di declamare notizie di carattere civile e religioso, mentre nei pressi del foro c’erano i cosiddetti forenses, che erano coloro che nei prezzi della piazza, che allora era un luogo di ritrovo, a pagamento fornivano informazioni e indiscrezioni di ogni genere. Già durante tutto il corso del medioevo, ancora prima dell’avvento della stampa e della diffusione del giornalismo, c’è un costante lavoro di trasmissione del sapere. Dalle trascrizioni dei monaci amanuensi noi dobbiamo la salvaguardia e l’accesso dell’antica cultura classica, ma vi fu anche l’opera quotidiana di altri amanuensi, chiamati menandi, che erano dei giornalisti ante litteram, ossia i reali antenati dei giornalisti, che scrivevano quotidianamente a mano avvisi, ebdo madai (pubblicazioni settimanali che davano notizie di vario genere) La svolta nella diffusione del giornalismo e dell’informazione fu la stampa, sviluppatasi nella seconda metà del Quattrocento con la diffusione del torchio da stampa, inventato da Gutenberg. I primi giornali dell’informazione nacquero sfruttando gli esiti positivi della stampa, il cosiddetto effetto moltiplicatore della stampa. Basti pensare che permise la divulgazione di 30000 copie delle opere di Lutero e infinite edizioni tradotte della Bibbia; non è un’esagerazione affermare che, senza la diffusione della stampa, la rivoluzione protestante non sarebbe mai avvenuta. La stampa introdusse numerosi vantaggi: - Testi uniformi, non più soggetti all’errore o alla svista, o persino alla modifica, del singolo copista; - Un costo dei testi relativamente basso; - Un’esecuzione rapida, necessaria per il giornale perché le notizie devono correre velocemente su strumenti di lettura e con una periodicità definita. A favorire la nascita del giornalismo e di questo tipo di informazione, vi è la necessità di nuove forme sintetiche rispetto al libro, lettura generalmente monotematica e impegnativa. Intorno alla metà del Cinquecento, ben dopo l’avvento della stampa, non si può ancora parlare di veri e propri giornali in senso moderno perché manca la periodicità, eppure circolavano fogli illustrativi con finalità pratiche. Ad esempio, a Roma e Milano, che erano centri politici importanti, videro la circolazione di fogli riguardanti politica e notizie delle corti; Venezia e Firenze; all’epoca fondamentali poli commerciali che guardavano rispettivamente a Occidente e Oriente, prevedevano la circolazione di fogli che offrivano notizie di guerre e la presenza di pirati, utili per i commercianti che dovevano viaggiare. A Venezia, ad esempio, iniziano ad essere divulgati fogli di stampa che davano informazioni sulla guerra contro i Turchi. A Genova venivano diffusi sui fogli informativi, invece, gli orari di arrivo e partenza delle navi commerciali, gli attacchi dei pirati saraceni o le variazioni di prezzo delle principali merci commerciali. A metà del Seicento i fogli di informazione iniziano poi a diffondersi in maniera significativa nell’Europa del Nord, per via della presenza dei Paesi più fiorenti, come Anversa, capoluogo delle Fiandre, regione attraversata da un progresso economico molto fecondo, e Augusta, capitale imperiale in passato e sede di una prestigiosa università, nonché base commerciale della dinastia dei banchieri dell’imperatore, i Fugger. La circolazione delle grandi notizie è quindi conseguenza del grande commercio internazionale, dove la presenza di traffici e commerci favorisce il bisogno di conoscenza. Queste informazioni iniziano via via ad acquisire una certa periodicità e le più diffuse informazioni periodiche iniziano ad essere definite gazzette di informazione, repertori di notizie politiche, diplomatiche e militari, senza però commento. Erano semplicemente informazioni che godevano dei privilegi, accordati lor dal potere, da re e regnanti, che erano una forma di diritto di diffondere le notizie in esclusiva. Le gazzette erano veri e propri repertori di informazioni. Si chiamavano gazzette perché costavano due soldi a Venezia e, in veneziano, la moneta da due soldi era chiamata gazzetta. Alla fine del Seicento, le gazzette avevano una periodicità fissa, stabile, veniva indicata la data di comunicazione, contenevano fatti realmente accaduti ed erano basate su fonti affidabili e citate. Di fianco alla gazzetta, si sviluppa un’informazione più colta e raffinata destinata agli intellettuali e al centro di un ricco dibattito culturale perché si svolge attorno a diversi campi della conoscenza, con interventi letterari, scientifici, tecnici. I letterati che gestiscono l’uscita di questi giornali colti, per distinguere i loro periodici dalle gazzette, iniziano a chiamarlo con il termine più colto di giornale, diffuso in Europa come journal. Il giornalista si distingue dal gazzettiere, il compilatore di mere notizie cittadine, in quanto redattore delle novelle (notizie) letterarie, ossia tutto ciò che è informazione, resoconto, recensione, critica letteraria, e non mera notizia pratica. Il giornalista è solitamente un letterato molto abile e informato. Questo fervore è rappresentato inizialmente dal Journal de Sçavans (giornale dei sapienti), il primo giornale intellettuale in assoluto. Il periodico francese ha origine nel gennaio del 1695 a Parigi e fu il primo giornale scientifico pubblicato in Europa. Il primo giornale ha la data del 5 gennaio 1695. Sarà il modello, insieme alla testata Philosophical Transaction, di tanti giornali pubblicati nelle diverse città italiane, tra cui il Giornale dei Letterati d’Italia. In questo giornale, come in quello inglese, il lettore poteva trovare recensioni di libri appena pubblicati, brevi o lunghe, insieme ad articoli di carattere umanistico, spesso accompagnati da notizie di teorie fisiche o scientifiche più recenti. Sul primo numero era pubblicata una dichiarazione di intenti, una sorta di programma editoriale, che affermava che i redattori del giornale volevano dare conto delle ultime scoperte in ambito scientifico, delle invenzioni nei vari campi, tra cui quello della meccanica, offrire notizie sulle osservazioni celesti e sulla meteorologia, sulle scoperte anatomiche; volevano dare conto delle decisioni che erano state prese nei tribunali, oppure pubblicavano necrologi di personaggi famosi, e in definitiva, volevano trattare di tutto ciò che potesse essere interessante, di ciò che fosse suscettibile per l’uomo di cultura in Europa. Pubblicarono, ad esempio, tra i primi dieci articoli del giornale, la relazione della nascita di un mostro ad Oxford, una nota sui nuovi telescopi, un commento sul trattato di Cartesio sull’uomo. Dopo soli tre mesi, nel marzo 1795, appare quella che è considerata la prima recensione accertata della storia. Appare un articolo in cui Madame de Sablé presentava in anteprima ai lettori il commento di un’opera appena pubblicata, ossia le Massime di La Rochefoucauld. Svolge un ruolo considerevole nella divulgazione delle nozioni scientifiche e nelle comunicazioni tra scienziati. Parte come settimanale per divenire poi mensile e va avanti per più di un secolo nelle sue pubblicazioni. Dopo la nascita di questo primo giornale letterario, nascono le Phiolosophical Transaction, pubblicate per la prima volta nel marzo 1795. Era una rivista scientifica (significato ampio di scienza) pubblicata dalla Royal Society che è la prima rivista al mondo più dedicata alla scienza ed è ancora attiva oggigiorno, considerata la rivista scientifica più longeva al mondo. L’aggettivo philosophical si riferisce alla filosofia naturale che allora equivaleva a quella che oggi noi definiamo scienza. Su questa testata, nel corso dei secoli, sono state pubblicate scoperte scientifiche fondamentali, tra cui i primi lavori di Newton e un articolo sulla sua prima teoria sulla luce e sui colori. Queste due testate sono il modello di molte testate italiane, tra cui del Giornale dei Letterati d’Italia, che nasce a Venezia, considerato la più importante e rilevante testata di carattere erudito bibliografico, ossia un giornale fatto per lo più di libri. Viene stampata a Venezia, uno dei centri editoriali più importanti. Vede la collaborazione tra tre dei più importanti letterati di allora, ossia Apostolo Zeno, Scipione Maffei e Antonio Vallisneri. epistola aveva la premura di spedire tomo dopo tomo questi abbonamenti. Attraverso le epistole raggiungeva e spronava anche i suoi collaboratori; doveva inoltre far amalgamare i contenuti del giornale, con un progetto ben chiaro. Il giornale arriva ad avere un ruolo chiave nel dibattito culturale e scientifico del panorama italiano del Settecento, tanto che il giornale rimane un punto di riferimento per chi, nel corso del secolo, si cimenterà in questo tipo di giornale erudito e bibliografico. Un esempio su tutti è la nascita, a Firenze nel 1940, le novelle letterarie. Nel corso del tempo si sviluppano nuove modalità di pubblicazione e trattazione delle informazioni, ad esempio, negli anni Venti del Settecento, compaiono i primi giornali antologici, che offrono al pubblico una selezione degli articoli più importanti provenienti da altre riviste italiane. Di fronte a questo torpore dovuto all’invenzione della stampa, ci sono ancora persone che nel Settecento dubitano dei benefici dati dalla stessa. La stampa periodica fatica a guadagnarsi prestigio e è ciclicamente bersagliata da accuse provenienti da pensatori reazionali, che contrappongono sempre la precarietà della stampa alla solidità dei grandi libri. Uno di questi pensatori è Giambattista Vico, filosofo e letterato napoletano, autore di un’opera importantissima intitolata Scienza Nuova. Pronuncia un’orazione latina nel 1708 in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’università di Napoli, in cui difende il valore dello studio di lettere e storia, polemizzando contro le scienze. Nel passo analizzato, parlando dei caratteri tipografici, dice che la stampa è di grande beneficio allo studio, riconoscendo che gli antichi abbiano avuto aspetti negativi dalla sua mancanza. Ritiene però che ora, con la grande abbondanza di pubblicazioni che costano anche meno, il lettore si possa dedicare a scritti inutili. Siccome una volta i libri costavano molto di più anche in termine di fatica, si andavano a pubblicare solo le opere che ne valevano effettivamente la pena. Si fa portavoce di una concezione che lo pone fuori dagli orizzonti di una scienza moderna. La nuova stagione dell’editoria è contraddistinta adesso dalla rapidità, e con questo chiarezza e concisione del messaggio. CAPITOLO INGLESE L’Inghilterra è sempre avanti, anche alle soglie del Settecento, perché governata da monarchie restaurate segnate da caratteristiche parlamentar. In Inghilterra si sviluppa la libertà d’opinione, la libertà di stampa, e grazie alla libertà di stampa, si sviluppa un nuovo tipo di informazione che si rifà ai temi di stampa e libertà, rivolto a un pubblico già maturo e consapevole. Su quest’onda si sviluppa un nuovo tipo di giornalismo condotto dalle menti più brillanti dell’epoca, tra cui Defoe, Swift, Milton e Addison che volgono rivolgersi alle menti dell’opinione pubblica. La vera è proprio figura del giornalista-scrittore moderno nasce nel primo Settecento con Daniel Defoe e Jonathan Swift, conosciuti come i primi veri romanzieri della modernità. Prima di scrivere Robinson Crusoe, Dafoe fonda il Weekly Review, giornale che dura una decina d’anni, dal 1704 al 1713, con articoli inizialmente redatti quasi interamente da lui. Porta avanti una vera e propria impresa pionieristica, in quanto nasce con lui il giornale tabloid, un formato compresso che deve il suo nome ai farmaci compressi (compresse) che prendono piede tra il Settecento e l’Ottocento. La rivista può essere considerata la rivista che precorre il giornalismo moderno. Si occupa, ad esempio, di riportare anche vicende di altri Regni. Non solo è un prezioso e dettagliato resoconto della politica interna e internazionale, ma fornisce un commento ampio sulla cultura e sulla società inglese del tempo, fatto attraverso una rubrica del tutto innovativa, chiamata The Scandal Club, che riportava all’interno del giornale discussioni di morale e costume, che sarà modello per i giornali successivi, che costituisce per l’appunto un ampio commento sulla società londinese del tempo. Ha inizio come periodico settimanale, diventando poi bisettimanale e infine trisettimanale e, al termine della sua esistenza, appariva come un formato di quattro pagine suddiviso in due colonne. Altro giornalista importante è Jonathan Swift, autore dei viaggi di Gulliver, che scrive nel 1726. Prima della pubblicazione del libro, fonda e dirige la rivista The Examiner, pubblicata dal 1710 al 1714, dove manifesta tutto il suo interesse nei confronti della società e compie una vera e propria satira della società, che poi sarà portata all’estremo nel suo romanzo. Con questa satira si fa sostenitore delle ragioni dell’aristocrazia terriera e denuncia la nuova degenerazione morale introdotta in Inghilterra dalla nuova borghesia mercantile attraverso pagine corrosive di giornalismo satirico. Inaugura inoltre il genere del pamphlet, un opuscolo, libretto, breve saggio, di carattere satiro su un determinato argomento. Nel 1729 scrive, ad esempio, un pamphlet per impedire che i bambini irlandesi siano a carico dei loro genitori e del suo paese, molto divertente. È una composizione di tre pagine di satira corrosiva in cui sostiene che per rendere i bambini irlandesi utili alla comunità, dovrebbero essere all’80% uccisi e mangiati. Porta all’estremo attraverso modalità mostruose e paradossali le conseguenze di uno sviluppo economico e demografico incontrollato. Lo Spectator è tra i periodici che segnano l’inizio di una vera e propria stagione giornalistica, modello di giornali, tra cui l’Osservatore veneto, della Frusta Letteraria e del Caffè, che si svilupperanno nella seconda metà del Settecento in Italia. Fu fondato nel 1711 da Addison e Steele ed è considerato un vero e proprio quotidiano. Esce ogni giorno tranne la domenica e in breve tempo diventa un giornale di opinione su questione di pensiero, letteratura, politica e storia. È un quadro sociologico, economico e culturale di una Londra agli albori della rivoluzione industriale. LEZIONE 12 – 16/11/22 Lo Spectator sta alla base del moderno cosiddetto opinionismo. Tra i primi anni del Settecento, si passa da un approccio erudito ad un approccio sociale del giornale e lo Spectator entra tra i primi esempi di giornalismo moderno, sicuramente il più noto; questo tipo di giornalismo ha reso popolare la cultura considerata prima patrimonio di pochi e rinnova inoltre l’abitudine alla lettura. Il giornale moderno è incentrato sull’analisi di questioni sociali, non più su questioni di carattere politico, e proprio grazie a questo lo Spectator riuscì a conquistare moltissimi lettori raggiungendo una tiratura di 10000 copie, per l’epoca un record. Calcolando inoltre, da Addison stesso, che ogni copia veniva poi scambiata di mano in mano, egli calcolò che il giornale potesse venire in mano a circa 60000 persone, allora un decimo della popolazione della Londa di inizio Settecento, di cui si deve tenere il livello di analfabetismo. Lo Spectator inserisce inoltre nell’ambito giornalistico la fiction, la finzione, con l’invenzione della figura di un osservatore, un giornalista distaccato dagli avvenimenti che riporta ciò che osserva e ascolta all’interno dell’articolo di giornale. Questa diviene una caratteristica chiave della stampa britannica, con un’informazione che distingue fatti da opinione che cerca di essere sempre più obiettiva. La fiction viene inserita nello Spectator in quanto ogni numero ruota attorno alla finzione del dialogo delle vicende che riguardano quotidiane, che riguardano questioni sociali; ogni numero è ambientato in un club, in un circolo, con uno scenario e personaggi fissi. L’escamotage serve al giornalista per porre a confronto diverse categorie sociali che solitamente si incontrano all’interno del club; viene ad esempio messo in scena il dialogo tra un membro dell’aristocrazia terriera, un uomo di legge, un commerciante, un militare in pensione, a cui si aggiunge il giornalista muto che osserva, nel suo ruolo di osservatore imparziale, che mette tutti in soggezioni obbligandoli a una riflessione pacata giocata sui toni di una conversazione salutare. È un modo attraverso il quale la satira di costume si esprime in una maniera appetibile, e questo attraverso un discorso diretto. Il dialogo permette anche di allargare l’orizzonte sociale, in quanto intervengono nella conversazione anche le donne; il ruolo della donna diventa. Lo Spectator sin dalla sua nascita va a incontrare i gusti del pubblico. L’ideale alla base di questo giornale è che il dialogo sociale sia garanzia di benessere e miglioramento della società, e che in questo dialogo il giornalista abbia il ruolo di mediatore che contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica, mostrando e se necessario criticando i diversi punti di vista. L’importanza dello Spectator non si limita al valore storico, ma la scrittura di Addison è un capolavoro senza tempo per la qualità della sua forma e anche per certe idee molto moderne che trasmette, per non parlare dei numerosi aforismi che fanno osservare la vita nella sua entità. Si colloca inoltre in una fascia intermedia tra gli intellettuali di professione come Addison e i borghesi colti. In seguito alla chiusura nel 1712, circolarono comunque molte copie in Europa attraverso ristampe o numeri che raccoglievano i migliori numeri dello Spectator. Vi furono anche tentativi di emulazione del giornale stesso. In Italia vi furono almeno tre esperienze che si rifecero al modello dello Spectator: due esperienze veneziane, di Gasparro Gozzi e Giuseppe Baretti, e un’esperienza milanese, il Caffè, testata di punta dell’illuminismo lombardo fondata dai fratelli Verri. Gasparo Gozzi fu un conte veneto di una nobiltà ormai decaduta che era interessato al miglioramento della società, in particolare al miglioramento della condizione della donna e della scuola. Ottiene finanziamento da una società commerciale di Venezia e, ispirato dall’enorme successo dello Spectator, di cui circolava a Venezia una versione in francese, inizia a redigere la Gazzetta Veneta, che viene pubblicata dal febbraio 1760 fino a gennaio del 1761. La periodicità della gazzetta è bisettimanale ed è una testata priva di contenuti strettamente eruditi, ma contiene tutto quello che c’è da vendere, ossia tutto quello che c’è da comperare, dare in affitto, cronaca locale, e tutto ciò che è utile al pubblico, e tutto ciò è espresso da brevi racconti in scenette pittoresche affinché persone colte e non colte, lavoratori e non lavoratori, maschi e femmine, giovani e vecchi, possano informarsi. Gozzi, prosatore molto abile, si fa attento osservatore della realtà. Raccoglie particolari attraverso un umorismo molto fine con attenzione alla realtà con immagini icastiche sul modello di Addison, degli esemplari inglesi di un giornalismo che pone attenzione sulle circostanze quotidiane che vuole instaurare una conversazione con il lettore. Le informazioni pratiche servono ad incrementare le vendite del giornale. Gli articoli, che narrano anche cronaca e costume, sono descritti in modo pittoresco, in una lingua agile, in una prosa scorrevole; la sua trovata più curiosa è quella di presentare annunci economici sotto la forma di brevi novellette. Oltre che bravo scrittore, si rivela un critico letterario e teatrale molto acuto, di cui un esempio è la recensione alle prime opere di Goldoni. La recensione esce agli albori del giornale, in cui Gozzi esalta la capacità di illuminare mille minute circostanze, la capacità nell’attenzione agli aspetti della vita quotidiana attraverso l’abilità d’utilizzare un linguaggio dialettale non in maniera rozza e plebea. La forma che Gozzi predilige sono brani in prosa breve, definiti come ragionamento, dialogo, sogno, solitamente un contenuto didascalico che fornisce un insegnamento, una morale, espresso però non in modo normativo, in una narrazione sistematica, ma espresso in una prosa giornalistica attraverso brevi narrazioni. Un esempio di questo aspetto è un articolo che appare sulla Gazzetta Veneta del marzo 1760, scritto sotto la forma di sogno. Il titolo già di per sé introduce in un’atmosfera incantata, fiabesca, e già ci fa capire fin dalle prime righe l’attenzione che Gozzi rivolge alle modalità della narrazione. Siamo in una grande piazza che Gozzi definisce un buon uomo che, animato da intenti civili ed educativi, travestito da saltimbanco. Per riuscire ad attrarre l’attenzione del pubblico, si esibisce davanti a un pubblico esigente. Fa riferimento all’abitudine di mascherarsi durante il carnevale veneziano. Descrive minuziosamente l’atteggiamento delle persone. La descrizione è realistica. Dice che si apriva un varco talvolta con il permesso e chiedendo scusa e talvolta con forza ricevendo qualche gomitata; l’uomo aveva assunto le sembianze del veditore girovago, ossia colui che cantava nelle piazze soprattutto nel periodo medievale, e che ora si trova di fronte a un pubblico insofferente e molto esigente, pronto a contestare ogni esibizione. Porta sul palco una scimmietta ammaestrata, che non accontenta il pubblico, che anzi ritiene le esibizioni sciocchezze e cose noiose. L’uomo, sentendo le critiche, chiude la scimmietta nella gabbietta e trae fuori un pappagallo, che non solo diceva parole poco significative, ma aveva imparato novelle morali e storielle. Questo è il tentativo di Gozzi di inserire nella narrazione i suoi articoli, con una morale presente. cosiddetti mediatori di cultura. Diventa anche direttore del teatro italiano di Londra, affermandosi subito. Si lega agli uomini maggiori della Londra del tempo, tra cui il pittore Joshua Reynolds che gli realizza un ritratto, e Henry Fielding, drammaturgo e scrittore, noto per il suo libro Tom Jone, considerato il romanzo fondatore del romanzo realista inglese. Conosce anche Samuel Johnson, che fu il critico letterario più illustre della storia inglese. Dopo nove anni, che trascorre in Inghilterra, torna in Italia cogliendo un’occasione irripetibile. Lui era all’epoca l’istitutore di un giovane aristocratico che parte per il Grand Tour, il viaggio d’istruzione per l’Europa che ha come obiettivo anche l’Italia, e lui lo accompagna in questo viaggio. Il viaggio si snoda anche in Portogallo, in Spagna, per poi raggiungere Torino, la sua città d’origine. Descrive il viaggio in quelle che sono Le lettere familiari ai suoi tre fratelli, una tra le più importanti opere odeporiche, di viaggio, della nostra letteratura. Le lettere familiari vengono pubblicate a Milano nel 1762. Aveva previsto quattro volumi, tomi di lettere (lettere fittizie, che Baretti immagina di scrivere ai suoi fratelli raccontando del suo viaggio, rielaborate sulla base di appunti, diari, giornali di viaggio che lui scrive durante il suo percorso) ma si ferma al primo tomo, in quanto Baretti inizia a farsi conoscere già per il suo carattere polemista. Il primo tomo infatti conteneva delle osservazioni un po’ dure di Baretti nei confronti della realtà portoghese. Nel 1855 c’era infatti stato il famosissimo e terribile terremoto di Lisbona, che colpì l’immaginario dei più grandi letterati d’Europa, in quanto, oltre a colpire e distruggere la città, è sentito addirittura fino alle Americhe per via dell’ampia portata; colpisce una capitale all’epoca molto fiorente, che aveva quasi 300.000 abitanti, colonie in America e Africa; nel terremoto muore più del 30% della popolazione, quindi almeno 90.000 persone. Baretti, che era giunto a Lisbona nel 1760 dopo l’evento catastrofico, visita la città ancora in rovina e si rende conto dei limiti del governo portoghese ed elabora quindi dei giudizi non molto positivi sul Portogallo, sui portoghesi e sui suoi regnanti, tant’è che il ministro del Portogallo si lamenta con il governo austriaco e, a questo punto, a Baretti viene impedito di pubblicare i volumi successivi della sua opera. Una volta tornato in Italia, si fermerà nel paese natio lasciando proseguire il suo pupillo che tornerà in Inghilterra, e qui, dal 1763 al 1765, pubblica e redige da solo a Venezia la Frusta Letteraria. La pubblica a Venezia con una falsa indicazione, in falsa data, indicando come città di pubblicazione Rovereto, e questo per evitare di intercorrere nuovamente nelle mani della censura. Comincia la pubblicazione della Frusta Letteraria nell’ottobre del 1763 con il nome di Aristarco Scannabue, che vuole muovere guerra a quello che fin dall’introduzione posta come prima pagina del giornale, vuole muovere guerra al flagello dei continui libri che si vanno pubblicando in Italia ad un ritmo molto veloce. Affronta la pubblicazione letteraria contemporanea, che permette di capire i suoi gusti letterari spesso estremi, e questa aggressività polemica provoca per l’ennesima volta l’intervento della censura, in questo caso della censura veneta, nonostante la falsa data, ossia l’indicazione di pubblicazione di Rovereto, e costringe alla chiusura il periodico. L’evento scatenante che lo costringe alla chiusura è un articolo che esce sul venticinquesimo numero, nel gennaio 1765, con quella che era essenzialmente una stroncatura delle rime di Pietro Bembo, autore delle prose della Volgar Lingua, colui che aveva deciso che la lingua adatta allo scritto per esprimersi fosse la lingua del Trecento. Nel 1765 era stata dalla alla luce una pubblicazione delle rime di Bembo, che Beretti stronca. A quel punto l’inquisitore veneto coglie l’occasione e usa il pretesto per chiudere il periodico. Baretti però non si arrende e, chiudendo il periodico, riprende la pubblicazione della Frusta Letteraria ad Ancona, ponendo questa volta la falsa data di Trento per poter prendere tempo, dall’aprile al luglio del 1765, per poi chiudere definitivamente i battenti. Baretti è un critico militante che scatta contro tutto quello che gli pare convenzionale, artificioso, pedante. Pedantesco ed eccessivo gli pare anche l’atteggiamento illuministico, il fervore programmatico dell’Illuminismo. Baretti ha inoltre una mentalità molto aperta, è disposto a conoscere i valori positivi di ogni cultura, come quella inglese che lui apprezza molto, benché questa sia ben radicata nella concretezza; odia qualsiasi letteratura che non si riveli utile. I giudizi di Baretti sono passati alla storia: innanzitutto la sua avversione per Goldoni, nonché la sua avversione per gli illuministi e i caffettisti, ossia i redattori del Caffè, che nascerà quasi contemporaneamente alla Frusta Letteraria (1764-1766). Apprezza invece Metastasio, Gozzi, ed è uno dei primi a manifestare stima nei confronti di Parini. Amava gli scrittori spontanei, di spontanea freschezza, tant’è che uno degli autori che apprezza grandemente è Benvenuto Cellini, di cui viene stampata in quegli anni l’autobiografia e che Baretti definisce uomo ignorantissimo, ma comunque dalla scrittura vivace, spontanea. Una volta chiuso il periodico, Baretti tornerà a Londra, dove rimarrà fino alla morte avvenuta nell’anno della Rivoluzione Francese, il 1789. A Londra lavora molto, offre contributi linguistici e addirittura si fa redattore di un dizionario inglese-spagnolo; conosceva molte lingue. Di questi ultimi anni londinesi, una delle sue opere più importanti è il Discorso su Shakespeare e Voltaire. Essenzialmente, Voltaire, in una lettera piuttosto altezzosa e censoria, aveva mosso pesanti critiche a Shakespeare, definendolo un ubriacone barbaro. A questo punto Baretti, da bravo polemista qual era, approfitta subito di questa polemica e, in maniera disinvolta, mordace e veloce, decide di schierarsi nella Frusta Letteraria, e si schiera a favore di Shakespeare. In realtà la sua opinione è volta più ad attaccare Voltaire piuttosto che a difendere Shakespeare, ma le opinioni che Baretti esprime sono la dimostrazione della sua sensibilità di critico letterario. È un discorso giustamente celebre della nostra cultura e letteratura italiana. La celebrità e popolarità di Baretti anche al di fuori dal mondo della cultura è legato a un avvenimento che riempì le cronache di allora, non solo inglesi ma anche italiane. Capitò che Baretti, tonato a Londra nel 1769, una notte fu avvicinato per strada da una prostituta, che lui allontana bruscamente. La donna a quel punto inizia ad urlare e chiedere aiuto e tre suoi protettori corrono in suo aiuto e iniziano a malmenare Baretti, che a questo punto, temendo il peggio, prende un coltello che ha in tasca (all’epoca era normale girare armati) e uccide uno dei tre uomini; dopodiché si costituisce alla polizia ed ottiene la libertà provvisoria e viene scagionato dietro il versamento di una cauzione. Il processo fu veramente un successo, perché, data l’importanza di Baretti, venne allestito un processo, durante il quale testimoniarono a favore di Baretti le personalità più importanti del mondo dell’intellettualità e della cultura di allora, tra cui Simon Johnson, Edmund Burke (storico e letterato, uomo politico di primo piano) e il pittore Joshua Reynolds, che si presentarono a celebrare la personalità dell’amico italiano come uomo e come scrittore. Gli ultimi anni che trascorse a Londra furono molto tristi perché Londra andava impoverendosi perché nel frattempo l’Inghilterra aveva una guerra in corso contro le colonie d’America che si erano ribellate, e quindi i nobili signori che prima avevano largamente elogiato Baretti ora cessano di alimentare il suo benessere. A questo punto vive praticamente da povero e addirittura, deciso a rimpatriare in Italia, chiede allora ai tre fratelli dei soldi per poter tornare in patria, che loro gli rifiutano, provocando un dolore anche a livello affettivo nell’autore, che morirà a Londra nel 1789. LA FRUSTA LETTERARIA Fu in ogni sua parte opera esclusiva di Baretti, anche quando finge di ospitare sulle sue pagine corrispondenze di amici e nemici, e anche quando finge di riprodurre versi altrui e quando vuole far credere di concedere spazio occasionalmente ai lettori (lettere al direttore, al giornale). Non è il primo caso di una rivista compilata da un solo autore, ma fa caso a sé, poiché sembra una sorta di libro compiuto, un diario ininterrotto dove Baretti dà libero sfogo alle proprie idee, alle proprie passioni, e interviene nel dialogo letterario con l’esuberanza di un personaggio autobiografico. Tra l’altro, il personaggio che Baretti crea dal nulla e che descrive perfettamente nell’introduzione è Aristarco Scannabue, una personalità avventurosa, a cui Baretti riesce a dare un colore romanzesco. Nell’introduzione al primo numero della Frusta Letteraria, Baretti rivela fin da subito, fin dalle prime righe, il suo intento, un intento fortemente polemico che anima la rivista. Presenta Aristarco Scannabue, uno pseudonimo, che mosso dallo sdegno nei confronti della società letteraria italiana, che è capace di produrre solo opere a sua detta insignificanti, inutili, ripetitive e pedanti, non fa altro che muovere la sua frusta, il suo flagello, contro i cattivi libri. Ci viene presentato il ritratto di Aristarco, un uomo, un ex militare che ha viaggiato in lungo e in largo per l’Europa e anche in Asia, un uomo sanguigno, animato da una forza fisica potente e poderosa, con un’intelligenza sottile e uno spirito arguto, che si presenta come l’esatto contrario del tipico erudito italiano contro cui Baretti si vuole scagliare. Aristarco è un uomo che ha viaggiato e combattuto contro diversi popoli violenti, che conosce le lingue ma ama anche raccogliere libri che provengono dalle molteplici esperienze che ha vissuto, che ha raccolto nel corso dei suoi viaggi. Baretti, esagerando la portata del personaggio e arricchendolo con toni romanzeschi, non fa altro che fare un ritratto di se stesso. Aristarco è il rappresentante di una cultura non libresca, non pedante, ma di una cultura costruita sulla conoscenza diretta della vita. Giudica con onestà i letterati del suo tempo ed è una polemica così estesa e intensa che interessa tutto l’ampio spettro della nostra letteratura. Baretti, ad esempio, si andrà a scagliare contro l’accademia dell’arcadia, contro Goldoni e in genere contro la maggior parte degli autori italiani a lui contemporanei. Del testo si possono apprezzare, oltre alle immagini (es. immagine fiabesca di Aristarco che si circonda di scimmiotti che altro non sono che i letterati contemporanei), la prosa, ricca di forme alterate, superlativi assoluti e parole auliche che si alternano a forme non propriamente letterarie (es. deretano); la prosa crea inoltre immagini particolarmente pregnanti e presenta inoltre un ritmo vivace. INTRODUZIONE Nel primo grande periodo già viene preannunciata la figura di Aristarco. L’introduzione inizia con “Quel flagello di cattivi libri, andando subito a sottolineare l’intento poetico dell’autore, scagliandosi contro l’abbondanza in Italia di pubblicazioni banali, ripetitive, di circostanza, e i costumi non propriamente morali che vengono propagati da questo tipo di letteratura. La prosa anche qui è molto studiata, vivace, giornalistica, fluida e piana, che si gioca su questi tre elementi, il tricolon. Aristarco è un uomo che, nella vecchiaia, ha deciso di dedicarsi a fustigare queste pubblicazioni; Baretti finge che Aristarco abbia settantacinque anni, età considerevole all’epoca, mentre Baretti all’epoca della pubblicazione aveva quarantaquattro anni; ha deciso di dotarsi di una metaforica frusta, che con la maiuscola sembra quasi personificata, simbolica, che deve bastonare simbolicamente i destinatari di queste critiche. Sugo è una parola fondamentale, anche per gli scrittori del caffè, che indicano qualcosa privo di contenuti profondi, sostanza, che non hanno le qualità che le possano rendere o piacevoli o proficue. La poetica di Baretti, e anche quella illuministica, si rifaceva a questo principio di utile e piacevole (piacevole oraziano). Sarà proprio in questo bello, piacevole, che lo andrà poi ad opporre agli scrittori del Caffè. Aristarco è descritto come un vecchio vegeto e robusto che, nonostante l’età, ha ancora forze e valore nelle proprie forze mentali. Abbiamo qui un’altra immagine che colpisce il lettore: si riferisce qui ai letterati ignoranti, mediocri, che vengono paragonati ai barbai perché, come sotto la spinta dei barbari a suo tempo si è disgregato l’impero romani d’occidente, adesso ci sono questi scrittori mediocri e ignoranti che vengono da nord a imbarbarire l’Italia, definita gloriosissimo stivale. Vi è un utilizzo di termini accrescitivi (es. bravaccio). Qui Baretti inserisce tutta la sua conoscenza, tutta la sua erudizione. Cita innanzitutto Morgante, protagonista di un poema del Cinquecento, un gigante che combatteva i nemici armato di un enorme battacchio della campana; cita poi la Dama Rovenza, donna gigante anche lei protagonista di un poema anonimo della fine del quindicesimo secolo. alleviare quel fastidio che gli provoca la lettura del cattivo libro, e anche per impiegare in questa attività gli ultimi anni della propria vita con profitto, con utile. Un giornale e le sue recensioni si scrivono affinché siano utili per il pubblico in quanto il giornale deve essere letto dal maggior numero di persone possibile. Il profitto è quello che muove questi redattori. Sappiate lettori che Aristarco si mette a malmenare tutti i moderni cattivi autori che Don Petronio gli farà capitare sul tavolino. Qui annuncia non solo l’intento, ma anche la modalità, ossia non guarderà in faccia a nessuno. Avverte poi i lettori: anche la bellezza della letteratura è importante. Per Baretti importano l’utilità e la bellezza della scrittura, e cose di sostanza (sugo, concretezza). C’è un’altra dichiarazione d’intenti, annunciando che il giornale verrà fatto uscire ogni quindici giorni. Il tutto è un servizio al lettore, un’utilità, che deve approfittare dei giudizi che Baretti darà su queste opere. Abbiamo una chiusa ancora nel tono ironico, che ci presenta un Aristarco che ha ancora poco tempo da vivere e durante questo tempo si dedicherà alle recensioni, con questa immagine di lui che starà su questa terra e picchierà il suolo terreno con la sua gamba di legno. Quella della frusta è un’avventura decisamente breve. Ha vita regolare per la durata di circa di un anno, mentre alla venticinquesima uscita ha una brusca interruzione, per poi venire ripresa ancora per qualche uscendo ad Ancona con la falsa data di Trento. Il primo episodio per cui la testata rischia di chiudere lo si trova nel secondo numero, in cui vengono recensite due opere. Una è quella dell’abbate Pallarsi, che aveva interpretato come sacre e antiche scritture quelli che in realtà erano dei falsi, una sorta di scritte. Baretti recensisce l’opera in cui l’abbate dice di aver fatto una scoperta straordinaria, e a seguire recensisce una seconda opera che a sua volta metteva in ridicolo l’opera precedente, metteva in ridicolo la scoperta fatta dall’abbate. Baretti, a quel punto, recensendo questa seconda opera si complimenta con l’autore scherzosamente, dicendo di volergli mandare un diploma con l’incarico di stroncare tutte le stupidaggini che verranno fuori. Con la sua solita vena sarcastica va anche oltre e commette qui commette un errore perché, parlando degli scavi di antiche pentole e antichi chiodi, cita la città di Ercolano, che viveva in quegli anni un insolito fervore perché vi erano iniziati gli scavi archeologici. Questo accenno alla città pare offensivo a Bernardo Talucci, ministro del Regno di Napoli e presidente dell’accademia istituita per gli scavi di quell’antica città. Offeso, fa chiedere al governo di Venezia che la Frusta venga soppressa ma il provvedimento non viene messo in atto perché Baretti si umilia chiedendo pubblicamente scusa. Scrive lettere e pubblica un grande elogio alle antiche pitture di Ercolano, sulle scoperte fatte dopo gli scavi. Nel secondo episodio, nel numero venticinque della Frusta, Baretti riprende un argomento già trattato nei numeri precedenti, ossia la mediocrità dei poeti petrarcheschi. Questa volta, per rendere più persuasiva questa convinzione, prende ad esempio le Rime di Pietro Bembo, in quell’anno riedite. Si scaglia contro gruppi di versi, con sarcasmi, punzecchiature e ironici giochi di parole. Brembo era un grande teorico considerato una gloria locale, e quindi pare un’offesa ai cittadini, che quindi fanno in modo che la frusta venga soppressa. Le autorità prendono questa accusa come un vero e proprio pretesto per far tacere Baretti in quanto si rivela fin da subito una voce troppo libera e spregiudicata nel panorama italiano. L’orientamento della critica di Baretti è che cerca la concretezza della letteratura, la verità, cerca dei legami della poesia con quello che è il mondo reale, e quando queste verità sono assenti non c’è cultura, è tutto un inutile passatempo. Da qui la ricerca di una letteratura che sia utile, intendendo l’utilità nel senso più vasto possibile: anche un’opera ben scritta che è capace di dilettare, di essere letta dal pubblico, anche un’opera semplicemente bella che educhi il pubblico a giusti principi o gli fornisca notizie che amplino la conoscenza della realtà. La frusta vuole raggiungere un pubblico più vasto possibile, e non solo a una cerchia di dotto accademici, e per questo viene scritta da Baretti in una prosa vivace, scorrevole, che sia piacevole e venga letta anche dai non letterato. Perché sia piacevole, la Frusta, che già è composta per la maggior parte da recensioni, alterna a quest’ultime anche note d’altro genere, come le poesie, tutte sempre scritte da Baretti, e questo per poter esercitare un’influenza il più ampia possibile. Punta sempre all’attualità; il suo discorso prende sempre l’avvio da edizioni recenti anche di autori lontani nel tempo perché la regola è, per Baretti, verificare che cosa quelle opere possono dire in quel momento, che cosa significano per i suoi contemporanei, in che misura quelle opere possono ancora dilettare i lettori e fornire utili insegnamenti. Per questo lui spesso rifiuterà la tradizione, ma non tutta; rifiuterà una tradizione che non può più comunicare nulla ai suoi contemporanei perché lui guarda al passato secondo quelle che sono le esigenze del presente, cercando l’originalità. Parlando di Boccaccio, ad esempio, non rifiuta l’autore di per sé pur essendo lui in autore del passato, poiché dice che lui ha scritto secondo la sua lingua, la sua sensibilità, senza imitare nessuno, e quindi bisogna fare come lui e scrivere secondo la nostra lingua, la nostra sensibilità. Tra i meriti della Frusta Letteraria, innanzitutto, c’è quello di riconoscere immediatamente l’importanza di un’opera come quella di Parini, ossia il Mattino. Altro merito è riconoscere l’importanza della vita di Benvenuto Cellini, autore dei Cinquecento che fu dimenticato, finché nel Settecento non viene riscoperto e ne viene ripubblicata l’autobiografia; ne definisce l’autobiografia come il libro più dilettevole della nostra letteratura perché scritto nel linguaggio semplice della plebe fiorentina, nonostante affermi che Cellini fosse un uomo ignorantissimo e inletteratissimo. Baretti persegue un ideale sicuramente lodevole, positivo, che però non gli impedisce di cadere in due grosse incomprensioni nei giudizi della letteratura. Il primo lo fa recensendo i volumi delle commedie Goldoniane, nella cui occasione non fa altro che dare addosso a Goldoni per dimostrare quanto sia immeritata la sua fama. Adduce all’insensibilità morale, dice che Goldoni diffonde il malcostume e afferma che è incapace di creare personaggi convincenti, un giudizio totalmente opposto a quello di Gasparo Gozzi. Afferma che Goldoni porta in scena caratteri stravaganti, falsi, che sono di cattivo esempio dal punto di vista morale. Altra incomprensione apparentemente inspiegabile è la sua avversione nei confronti degli illuministi e del caffè, il cui motivo è da cercare nell’ideale stilistico. Si dice che la letteratura deve rispondere alle esigenze del reale, deve calarsi nella realtà, ma Baretti ha comunque in mente la bella letteratura, un ideale linguistico di un certo tipo, mentre i caffettisti sono impegnati fortemente a svecchiare la letteratura italiana, anche dal punto di vista dello stile, con una prosa diversa, in quanto voltano dichiaratamente le spalle ai precetti della purezza della lingua, della purezza linguistica. Agli occhi di Baretti questo è una sciatteria, un imbarbarimento espressivo, un abbandonarsi alla moda del francesizzare. Un altro aspetto dei caffettisti che non sopporta è che abbiano interessi talmente vasti che giudica questa ampia gamma tematica come segno di superficialità e presunzione; impossibile trattare con precisione, con scientificità, tutti gli argomenti di cui si occupano. A Baretti sfugge un po’ quella che è la sostanza del Caffè e in generale dell’illuminismo lombardo: gli illuministi voglio intervenire in ogni gli aspetti della società in nome di una cultura impegnata a riformare le leggi, i costumi di uno stato, del vivere contemporaneo. Baretti nella Frusta vuole operare uno svecchiamento della cultura, vuole demolire tutto ciò che è moda inutile; in tema di utilità sociale della letteratura, diventerà memorabile la sua stroncatura che fa sul primo numero contro l’accademia dell’Arcadia, nata con l’intento di agire contro barocco e complicature della letteratura marinista, che a sua volta aveva sostituito una moda ad un’altra e non aveva dato origine ad un rinnovamento della cultura. A dimostrare l’inconsistenza dell’Arcadia stava tutta la complicata struttura del movimento, dei rituali, cui Baretti non poteva che essere contrario in nome di una cultura più vera. Baretti si sfoga e la sua prosa cade nel sarcasmo e nell’indignazione, con una polemica che allude alla sua voglia di una letteratura che possa rispecchiare una realtà, una civiltà dignitosa. Recensione a “Memorie istoriche dell’Adunanza degli Arcadi di M.G.M. (Roma, 1761) Volume celebrativo dell’accademia dell’Arcadia, fu scritto da Michele Giuseppe Morei, terzo custode generale dell’accademia, settant’anni dopo la fondazione dell’Arcadia. La recensione riposta tutti i dati esterni dell’opera a cui si riferisce, ossia città. Editore, anno e formato. Dopo la presentazione con la figura di Aristarco Scannabue, abbiamo il primo articolo della Frusta, un manifesto in cui Baretti si scaglia contro l’Arcadia, un’operazione non da poco, in quanto a suo tempo era una delle istituzioni culturali più celebrate del Settecento. Tutti coloro che bramano di essere informati, che desiderano ardentemente di essere informati di quella bambinata (letterata fanciullaggine), si mettano a leggere questo libro che io sto ora recensendo, che da un ragguaglio, una relazione molto informata dell’Accademia dell’Arcadia. Coloro che vogliono perdere tempo, leggeranno questo libro che io ora recensisco. Morei è definito celibe perché innanzitutto era un prete, non sposato. Inoltre, Baretti vuole essere dispregiativo, in quanto anticipa con questo termine l’accusa rivolta all’Arcadia di essere snervata, la scarsa virilità della poesia dell’arcadia che pronuncia appena dopo. Dopo i dati esterni, abbiamo poi la descrizione della sua struttura (suddivisione), ossia la sua suddivisione in disci capitoli, considerati finti, definiti pessima bigiotteria. A questo punto Baretti inizia a fare la recensione ordinata di questi dieci capitoli, per ciascuno dei quali cui scrive un paragrafo dedicato. Capitolo Primo Il primo capitolo parla di come l’arcadia è stata fondata, istituito, e narra tra le altre stupidaggini il caso memorandissimo di un certo poeta (che non viene nemmeno nominato per far capire il carattere ironico dell’uso dell’aggettivo). Qui Baretti fa allusione proprio all’atto fondativo dell’Arcadia, un gruppo di poeti si ritrovò a recitare poesia di ambientazione pastorale e allora uno di questi disse che gli sembrava che quel dì avessero rinnovato l’Arcadia, l’antica poesia pastorale, e da lì ebbero l’idea di fondare un’accademia. Quando dice “egli mi sembra”, quell’egli è un impersonale, fa parte di una scrittura aulica che sta per “mi sembra che”. Baretti nota ironicamente tra parentesi quanto sia enfatico quell’egli, quell’espressione utilizzata da quel poeta. Come da un piccolissimo seme nasce una zucca smisurata è un’altra immagine ironica. Baretti continua ad utilizzare un linguaggio parodico. Parimenti, vengono elencati i quattordici nomi dei quattordici fondatori dell’Arcadia. Undici di questi nomi erano sprofondati nel dimenticatoio (il Lete era il fiume dell’oblio nella mitologia classica), mentre tre sono quelli di Gravina, Crescimbeni e Zappi. Gravina fu tra i fondatori dell’Arcadia e di quest’accademia ne scrisse le regole; Crescimben, che fu il primo custode, il primo ad essere a capo dell’accademia; e Zappi, che fu uno dei più famosi poeti della prima generazione arcadica. Ora procede a smontare tutte e tre le importanti figure dell’Arcadia, partendo da Gravina, di cui però riconosce intelligenza e cultura, in quanto dice che aveva una testa assai grande piena di buon latino e giurisprudenza. Ma parliamo ora dei suoi difetti. Gravina, nonostante fosse un grande studioso di legge, ha avuto il difetto di voler insegnare agli altri in prosa, tramite un trattato, a fare versi di ogni tipo, e questo a dispetto della sua natura che volle farlo avvocato e non poeta. Dopo aver riconosciuto almeno in parte il valore di Gravina, Baretti passa alla demolizione prima di Crescimbeni, e poi di Zappi. quindi, si parlerà anche di temi molto pratici per l’esistenza, come ad esempio l’avvio di una discussione sulle stufe oppure riguardo la vaccinazione contro il vaiolo, il tutto sulla base di riscontri scientifici e dati dell’esistenza. Molto particolare è anche il tipo di scrittura giornalistica utilizzato dai caffettisti, una prosa che vuole essere grafica, sciolta, in termini moderni definibile giornalistica. Vi è inoltre l’utilizzo di una terminologia particolare, con l’uso di termini come pubblica utilità, patria, lume, pubblici cittadini, in un’epoca in cui ovviamente non esiste ancora unità, in cui non esistono il concetto di patria e Italia intesa a livello politico, ma patria e cittadini sono intesi come coloro che hanno una comune radice culturale. Dello Spectator si vogliono imitare anche l’attenzione alla divulgazione, quell’anima popolare, con uno stile anche dialogato tra gli avventori del Caffè, oppure con il caffettiere greco Demetrio, proponendo una lingua semplice. Il Caffè viene chiamato così poiché fingevano che queste conversazioni, che il caffettiere e Pietro Verri, che si nasconde dietro a un io mai specificato, avvenissero nella bottega, nella caffetteria, di Demetrio, che vedremo nella sua descrizione avere molti tratti in comune con Aristarco Scannabue. Demetrio è un esule greco che si è trasferito a Milano e che, dopo aver fatto per anni il commerciante di caffè, decide di mantenere i contatti con i propri fornitori e di aprire una caffetteria. Il caffè riporta i cosiddetti discorsi da bar, che non devono però far pensare a qualcosa di leggero, in quanto la rivista trattava di argomenti molto seri, anche se scritti volutamente con una lingua leggera, antiaccademica, che si andava ad opporre a tutte quelle regole classicistiche contro cui i caffettisti si schierano apertamente. I caffettisti si pongono una prospettiva progressista; i redattori dicono che l’ostacolo più forte che incontra il progresso, il perfezionamento di arti, scienza e letteratura, è la prevenzione, ossia il preconcetto che la maggior parte degli in quella società ha nel sostenere le cose vecchie. Fanno qui riferimento ai giovani aristocratici che spesso si oppongono alle idee delle proprie stesse famiglie dell’antico regime attaccate agli antichi valori. L’obiettivo è, quindi, riesaminare la tradizione, cercare di portare in Italia non solo dal punto di vista culturale e letterario, ma proprio dal punto di vista pratico, tutte le novità del pensiero europeo in tutti i campi. Il motto della rivista era “Cose, non parole”. Qualcosa di mosto simile fu detto da Baretti, che affermò che bisognava parlare di cose, di sostanze, andando al succo della questione. Tutto questo lo volevano fare usando uno stile chiaro, preciso, aperto anche agli apporti delle altre lingue, tra cui francese e inglese, cosa che li oppone a Baretti, che aveva sempre sostenuto la necessità di un bello stile. Il Caffè nasce in un periodo in cui si conoscono in Europa e anche in Italia un rapido sviluppo delle botteghe del caffè, che si diffonde prima come bevanda e successivamente si vede la nascita delle botteghe del caffè. Bisogna tenere presente che il caffè era una bevanda alla quale vengono attribuite grandi virtù salutari, soprattutto per gli intellettuali, che definivano la bevanda stessa come risvegliativa per l’intelletto, che produceva ragionamenti nell’intelletto. I critici hanno sottolineato come il Caffè simbolicamente segni la fine dell’era della civiltà del vino, associato a vizi ed ebrezze, e segni l’inizio della civiltà del caffè, fatta di riflessione, meditazione, chiarezza di idee. PRIMO NUMERO DEL CAFFÈ – introduzione Viene fatta una dichiarazione degli intenti del giornale. Nel primo numero abbiamo un breve articolo firmato da Pietro Verri, che lo firma semplicemente con la sigla P., in cui spiega ai lettori perché il giornale si chiama così e cosa ci si potrà trovare e immagina di riportare le conversazioni che avvengono in un caffè gestito dal caffettista greco Demetrio. Si inizia con una serie di domande, caratterizzate dal corsivo, che Pietro Verri immagina che possano essere poste da un possibile lettore spinto dalla curiosità. Riproduce senza le modalità tipiche del tempo una sorta di conversazione. Nelle prime righe già abbiamo il senso del Caffè. Con la ripetizione della parola cose da enfasi. Cose non si intende con la connotazione del termine attuale, ma significa concretezza. Tutti questi elementi sono coordinati per asindeto, collegati tra loro solo da virgole. Dietro al caffè vi è una vera e propria redazione che lavora e discute. La pubblica utilità è un elemento importantissimo. La lingua è molto diversa da quella usata dai caffettisti, e ricercano uno stile che non annoino. Concettualmente, da un lato nasce sì come rivista periodica, ma dall’altro i caffettisti hanno già in testa un progetto unitario, con fogli pubblicati ogni dieci giorni, che poi verranno rilegati in un unico tomo alla fine dell’anno. Devono quindi essere messe in atto delle strategie narrative che permettano questo collegamento. Spiega anche la pubblica utilità, affermando che scrivono per il Pubblico, finché verranno letti, in quanto l’obiettivo è quello di essere utile al pubblico. Il fine, al di là del piacere della scrittura, è fare del bene alla Patria, quando il concetto di patria ancora non era sviluppato. Ritorna poi il concetto di utilità, in quanto volevano scrivere, anche divertendo. Cita, inoltre, i modelli di ispirazione del Caffè, tra cui vengono citati Swift (The Examiner), Steele e Addison (Spectator) e Pope, autore del Ricciolo Rapito, poema satirico che ebbe tanto successo in quanto metteva in satira la società del tempo attraverso forme auliche e tipiche del tempo. Fu pubblicato per la prima volta in forma anonima sullo Spectator, dove ebbe subito successo. Pietro Verri afferma quindi che il Caffè si rifà a periodici inglesi precedenti allo stesso di cinquant’anni (l’Inghilterra sempre un passo avanti a livello giornalistico). In Italia tutto ciò era conosciuto grazie alle traduzioni in lingua francese. In più scritti, Pietro Verri definisce il Caffè lo spettatore d’Italia. Con l’andare a capo, viene creata qui l’attesa, come Baretti aveva fatto nella Frusta Letteraria. Non lascia molto all’attesa e presenta subito Demetrio, un greco originario di Citera, nota per aver dato vita a Venere, posta tra il Peloponneso e Creta. Era il periodo della dominazione turca in Grecia, tanto che i greci speravano che Austria e Grecia arrivassero in loro soccorso. Era un esile che decide quindi di trasferirsi in Italia; prima del trasferimento, come Aristarco, Demetrio aveva accumulato una certa esperienza, in quanto girava tra le diverse città commerciali commerciando caffè. Nella bottega si beve caffè, e nel dire questo usa espressioni che possono colpire il lettore, usando spesso accrescitivi, aggettivi di grado assoluto (es. vero verissimo). Profumato con legno d’aloe fa riferimento non all’essenza che viene utilizzata oggi, ma fa riferimento a una specie di ulivo, una pianta utilizzata nell’India molto simile all’ulivo con legno profumato. Secondo quanto viene affermato poi il caffè serve per risvegliare e a rendere l’uomo ragionevole. È stata da molti cercata una traccia di questo caffè, un caffè storico, ma non è stato trovato. È stato poi scoperto che a Pavia, la sede universitaria del Ducato di Milano, frequentata da quasi tutti i collaboratori del caffè, aveva aperto una bottega di caffè all’angolo vicino all’università chiamata caffè demetrio, da cui è probabile abbiano preso ispirazione. Inoltre, Addison, nel primo numero dello Spectator, nomina una coffee house chiamata the grecian, il greco. Il tutto potrebbe non essere una coincidenza. Continua poi con la descrizione della bottega. L’area tiepida e profumata non è proprio un dettaglio da nulla; all’epoca, infatti, Milano era una città che puzzava ed era fredda, circondata dall’inquinamento. La notte è illuminata è un altro dettaglio importante e fa riferimento ai lumi della ragione, all’illuminismo, e fa riferimento a un aspetto delle città di allora, ossia l’illuminazione. Ci sono tanti specchi che riflettono la luce bianca, con un’allusione a tutti gli studi sull’ottica e sulla luce, che si scomponeva in molti colori. Vengono poi citate delle città della Svizzera, dicendo che la bottega non serviva solo per bere caffè, ma serviva anche a leggere giornali, di consultare le gazzette e i giornali di tutta Europa, dando la possibilità di essere al passo con i tempi. Novelle in questo caso sta per notizie. Viene affermato che non sono solo italiani, ma si può dire che sono tutti pressappoco europei perché si possono informare. Inoltre, il fatto che ci fosse un atlante, significa che si discuteva anche di politica, essendo quelli gli anni di guerre e conquiste. La bottega è anche centro di discussione tra più persone, non solo persone colte. Non viene mai dato un nome a questo io all’interno della narrazione del caffè, ma sappiamo che è Pietro Verri, che assume anche il ruolo di regista, un giornalista, che, come facevano i modelli inglesi, rimane super partes, rimane appartato senza intervenire e riporta i discorsi degli altri. Qui vi è poi la giustificazione del titolo, in quanto i discorsi nascono in una bottega di caffè. Adesso viene poi descritto, come fatto per Aristarco, Demetrio. Viene descritto un uomo ragionevole anche all’apparenza e, conoscendolo, si scopre che è effettivamente un uomo ragionevole e non lo è solo in apparenza. Non è un uomo eccessivamente serio, ma non ha nemmeno il sorriso scemo, quell’espressione tipica dei falsi. Si può capire quindi che è un uomo serio, schietto, che non si da arie e che è intelligente e dotato di ironia, ma senza avere quel sorrisetto ipocrita. È un uomo intelligente e dotato di ironia, ma soprattutto onesto, sicuro di aver ubbidito alla legge. Vi è poi un’annotazione sull’abbigliamento dell’uomo, di cui si discuteva molto all’epoca. Veste all’orientale, per lui l’abito più comodo, che gli da un’aria, un tono che non lo fa passare per commerciante ma gli da quell’aspetto nobile. Vi è qui l’opposizione tra la ragionevolezza di un vestito comodo e la moda stupida del tempo; il vestire esotico corrisponde a una scelta di vita naturale e non artificiosa come quella del seguire le mode. Se in oriente i giovani prendono in giro chi è vestito all’occidentale, lo stesso non accade al contrario in quanto non fa specie. Dimostra che il vestire all’esotica sia una maniera di vivere naturale. Verri sta ora riscrivendo in una prosa giornalistica tutto ciò che Parini invece scriveva in versi sciolti facendo i versi al giovin signore; Verri è un giovin signore che parla e scrive di utilità e non è come il giovin signore che non faceva nulla dalla mattina alla sera. Parini nel poemetto aveva anche inserito la cosiddetta favola del piacere, con la cipria come prodotto per rendere tutti uguali e trovare amore. Dopo questa polemica sull’abbigliamento aristocratico, si ritorna a Demetrio, uomo di buon senso, ironico e ragionevole. Adesso viene riportata la prima conversazione, che più che conversazione è un monologo di Demetrio che parla delle caratteristiche del caffè. Da la sensazione di conversazioni libere, di conversazioni non forzate che avvenivano nel Caffè. La voce del negoziante viene riportata in corsivo e parla della bevanda, dicendo le località di provenienza e le qualità del caffè, con un breve scambio di battute. Viene introdotto quindi a questo punto il primo articolo, ossia “Storia naturale del caffè”. È un vero e proprio testo di taglio scientifico, informativo e divulgativo riportato da Pietro Verri come un se fosse enunciato proprio da Demetrio che risponde al curiale. Prende l’occasione dalla breve discussione con il curiale e spiega la storia naturale del caffè partendo dalle proprie esperienze e conoscenze. Descrive quindi il caffè, con descrizioni dettagliate e quasi scientifiche. Passa poi alla produzione della bevanda, dopo aver detto come sono prodotti i chicchi. Scrive anche una notizia storica riguardo all’apertura della prima bottega di caffè in Europa, aperta a Marsiglia. Parla poi dei diversi tipi del caffè e cosa fa lui nel prepararla, da cui dipende la bontà della bevanda. Elenca poi altre caratteristiche del caffè. Dicendo che rallegra l’animo, risveglia le persone ed è particolarmente utile agli intellettuali, come modo per mantenere la salute non facendo molto movimento. Demetrio fa sfoggio, inoltre, di una certa cultura citando Omero, in un episodio di Elena, che lo usa come una sorta di droga. Tutte le informazioni che da sono tutte vere, scientifiche, riscontrabili in trattati medici di scoperte fatte all’epoca, a dimostrazione del fatto che i redattori sono sempre informati. Sono stati fatti anche dei confronti tra gli articoli del caffè e la letteratura medica e scientifica che circolava sulle riviste in materia dell’epoca. che non pensavano di diventare in futuro tiranni ai quali debbono ubbidire gli uomini dell’Ottocento. Verri sta facendo un paragone: se le scienze avessero dovuto adeguarsi ai dettami di una qualche accademia, adesso non ci sarebbe il progresso. Ribadisce alla fine il paragone tra il progresso delle scienze e la lingua. Verri sta dimostrando che la stretta osservanza delle norme grammaticali è inutile e anzi ostacola il progresso della civiltà dell’uomo. COMMA 5: del tutto ragionevole è che le parole debbano servire alle idee e non il contrario, ossia prima ci stanno le idee e poi le parole, in quanto noi vogliamo prendere anche il buono che ci viene dalle altre lingue e se anche una parola venisse dalla lingua indiana o americana, le lingue più distanti dall’italiano, noi, se quel termine dovesse esprimere meglio un concetto, ce ne approprieremmo e lo useremo, ma sempre con ragione, logica e buon senso, che fa in modo che una lingua non venga cambiata per capriccio ma per il suo arricchimento. Fa una nuova citazione dall’opera di Orazio, che nella sua etica fornisce consigli di lingua e stile. Ciò che afferma Orazio vale ancora nel Settecento, dove ci si doveva misurare con nuove realtà e nuove scoperte, che dovevano essere espressi necessariamente con nuovi termini. COMMA 6: qui usa un linguaggio figurato per dire che i caffettisti divulgheranno questi concetti, anche dove le persone sono sorde, e subordineremo le leggi grammaticali alla ragione, dove a noi parrà inutile raddoppiare le consonanti o accentare le vocali e ci parranno inutili quelle regole che noi non vogliamo rispettare. Questa è un po' una dichiarazione provocatoria in quanto la prosa dei caffettisti fa scuola, diventa modello di giornalismo ed è vivace e usa la grammatica; vogliono qui creare una polemica. Le cose utile sono molte e la vita è breve, e ribadisce perciò la necessità di spendere il proprio tempo a farsi delle idee piuttosto che a esprimerle con termini antichi, mentre solo di secondaria importanza è la lingua pura. Utilizza un francesismo all’interno della lingua, in maniera provocatoria. Afferma che, se noi, nelle nostre discussioni andassimo ad inserire le espressioni del fiorentino trecentesco qua e la sarebbe una cosa grottesca e ridicola. COMMA 7: vera e propria dichiarazione di stile. Afferma che vuole usare una lingua comprensibile a tutti, non solo ai fiorentini, ma useremo comunque la lingua con buon senso, i cui confini non verranno fissati in quanto vogliamo la possibilità di prendere termini da altre lingue. Noi abbiamo preso questa decisione perché vogliamo mantenere uno spazio di libertà, che l’uomo di società non ha. Viene usato il tricolon per dare enfasi ed esprimere maggiormente determinati concetti. Alla fine, finalmente spiega perché ha inserito le citazioni di Orazio. Non è per pedanteria, dice, ma ci siamo serviti di Orazio per fare in modo che i nostri pensieri siano supportati dalla sua autorità, che si fa portatore di quell’antichità rispettata. Siamo persuasi che le stesse cose dette da noi o dette da Orazio abbiano un peso e un valore diverso su coloro che non amano le verità se non sono del secolo d’oro. Siccome noi siamo liberi, vogliamo che anche gli altri siano liberi di censurarci e pensino di noi e dei nostri scritti quello che vogliano. L’articolo viene chiuso con questo pensiero, che a loro interessa che li supportino i filosofi, le persone ragionevoli e di buon senso, ma saremmo contentissimi se le critiche verrebbero dalle bocche degli anti-filosofi e ce ne faremmo un vanto. Il Caffè termina le sue pubblicazioni nel 1766 a causa di motivi di causa personale, ossia la frazione tra i Verri e Beccaria. LA BIBLIOTECA ITALIANA È una testata che, con il Conciliatore, da origine alla questione che oppone classicisti e romanzi nei primi decenni dell’Ottocento in Italia. Nasce a inizio Ottocento, più precisamente nel 1816, a Milano, centro culturale dello Stato, in cui trascorrono periodi più o meno lunghi i letterati. A livello storico c’era stata la Rivoluzione francese, mentre in Italia c’era stata la parentesi giacobina nel milanese, dove era nata la repubblica cisalpina, sostituita dal Regno d’Italia creato da Napoleone. Con la sua caduta viene poi restaurato il regime degli austriaci nel 1814. A questo punto, il governatore della Lombardia, Bellegarde, propone a diversi intellettuali Lombardi di dirigere una nuova rivista che vuole avere il controllo della cultura e dell’intellettualità per aumentare il consenso dei cittadini e degli ambienti intellettuali nei confronti del governo austriaco. Decide di affidare questo compito a Foscolo facendo leva sull’ostilità verso la politica napoleonica che rifiuta e preferisce andare in esilio; pensano allora a Vincenzo Monti che declina a sua volta, e si rivolgono a Giuseppe Acerbi, all’epoca uno studioso lombardo, diplomatico, viaggiatore e geografo che diviene uomo di fiducia del governo austriaco. La censura austriaca, allora, controlla la redazione della biblioteca italiana in maniera molto stretta, tanto da diventare, la biblioteca italiana, un organo di stampa del governo austro-ungarico. Ha una vita abbastanza lunga, dal 1816 al 1840, con questo titolo. Il frontespizio da già un’idea del suo contenuto con la raffigurazione del busto di Petrarca, con un indirizzo di tipo classicistico. In opposizione nascerà il Conciliatore, che si farà portavoce dei letterati cosiddetti romantici, anche se le posizioni non sono poi così nette e drastiche. Il primo numero della Biblioteca Italiana viene pubblicato nel gennaio 1816 e avrà periodicità mensile sotto vari direttori. A questa rivista collaborano i più illustri letterati del tempo, tra cui Vincenzo Monti e Pietro Giordani (letterato piacentino classicista, amico di Leopardi che ne ha scoperto il talento). La rivista ha una tiratura notevolissima e raggiunge fino a settecento abbonati. Ha una caratteristica particolare, ossia gli articoli vengono retribuiti con una cifra prestabilita a pagina, facendo diventare quello dell’intellettuale giornalista un vero e proprio lavoro. La Biblioteca Italiana - Proemio Il proemio dimostra che, fin dall’inizio, nella rivista parlano non solo di letteratura, ma anche di scienze, arti meccaniche, arti belliche. Vi è la tendenza dei giornali tra Settecento e Ottocento, di rivolgersi a diverse tematiche e materie e, dal proemio, l’intento è quello di essere per tutti, non solo per coloro che studiano per professione ma anche per coloro che leggono per piacere. Dietro alle dichiarazioni ufficiali, c’è l’obiettivo non meno importante di mostrare i vantaggi che derivano alla Lombardia da fatto di appartenere all’Impero asburgico. La stessa redazione stila un elenco degli argomenti trattabili; non si parla infatti di politica, religione, commedie e spettacoli teatrali che prendono in giro i potenti (es. Goldini e Alfieri). La cosa fondamentale è che sul primo numero appare un articolo celeberrimo di Madame de Stael sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni. Viene pubblicato nella traduzione che ne fa Pietro Giordani in quanto l’autrice scrive in francese, che manda l’articolo alla rivista per farlo tradurre. L’articolo di fatto sostiene le ragioni dei romantici, in quanto sostiene che gli intellettuali italiani debbano svecchiarsi, non debbano più guardare alla propria tradizione ma debbano innovarsi guardando alla lingua degli altri Paesi e soprattutto alla loro letteratura, che può dare nuovi stimoli. Pietro Giordani non rifiuta l’articolo, ma lo traduce e lo pubblica, per poterlo utilizzare per avviare discussioni. All’articolo della Stael viene pubblicato un suo articolo in risposta tre mesi dopo, che darà l’avvio a un botta e risposta, con un terzo articolo della baronessa che risponde a sua volta. Si crea quindi un dialogo utile tra intellettuali, un dibattito acceso. Molti letterati interpretano quella di Madame de Stael come un’accusa; l’autrice, infatti, non va per il sottile. Sono questi articoli che danno il via alla polemica classico-romantica. La Biblioteca Italiana e il Conciliatore si oppongono principalmente a livello politico: da una parte vi è il giornale del regime austriaco e dall’altra viene portato avanti il regime patriottico, e verrà infatti costretto presto alla chiusura con l’incarceramento e l’esilio dei suoi autori. La Stael parte dal presupposto che una letteratura cresce e si migliora quando più i suoi scrittori entrano in contatto con qualcosa di diverso perché la ripetizione delle stesse immagini, degli stessi concetti e degli stessi espedienti formali, mostra che la tradizione italiana ha bisogno di nuovi elementi, che non può venire da Greci e Latini. Ma piuttosto che scrivere ispirandosi alla tradizione classica, giusto sarebbe tradurre quelle che sono le migliori opere straniere per ricevere nuova ispirazione, bardando ad esempio i loro temi. L’obiettivo non deve però essere l’imitazione, ma deve essere quello di conoscere i temi e la poesia moderna per dimostrare e capire come gli altri ingegni europei hanno abbandonato la mitologia classica e su sono dedicati a nuovi temi. Quindi gli italiani, tengono tanto ad ottenere gloria letteraria, devono tornare a primeggiare nelle lettere e nelle arti, altrimenti decadranno come nazioni, e per fare ciò devono guardare a nuovi modelli. Tra le risposte vi è quella di Pietro Giordani, che non risponde piccato, ma le risponde dandole ragione su alcune cose ma le dimostra con intelligenza che non tutti i letterati classicisti sono fanatici conservatori del passato, ma sostiene che gli italiani debbano innovare guardando comunque alla loro tradizioni in quanto altrimenti si snaturerebbero e creerebbero di fatto un mostro. Giordani lascia aperta la possibilità che si possa fare un buon uso della mitologia, avendo forse ad esempio alcune opere di Leopardi, che prende personaggi della classicità ma li rende qualcosa di completamente nuovo, con una sensibilità moderna. LEZIONE 17 – 5/11/22 Siamo al centro del periodo delle grandi rivoluzioni: - la Rivoluzione francese del 1789, che scuote l’Europa e arriva fino in Italia - i grandi stravolgimenti che Napoleone fa all’interno della sua grande politica e che arrivano fino alla sua caduta nel 1815 - nel 1814 ha inizio il congresso di Vienna e la restaurazione, che riporta gli Stati europei a una condizione prenapoleonica portando poi alla nascita, tra il 1820 e il 1821, ai primi moti rivoluzionari che, soprattutto nel contesto italiano, porteranno alla fondazione della Repubblica italiana - Per quanto riguarda l’Italia, nella parte settentrionale viene costituito il regno lombardo veneto, con capitale Milano, che viene governato dall’Impero austriaco, e si sviluppa una nuova corrente culturale, il romanticismo Il romanticismo viene definito come un grande movimento culturale europeo, che nasce a partire dagli ultimi anni del Settecento. Inizialmente nasce in Inghilterra, dove appare per la prima volta il termine romantic dal termine romance con un diverso significato. Dall’Inghilterra si sposta in Germania, dove si costituisce una scuola romantica, prima nella scuola di Jena e poi a Berlino, che si costituisce intorno a una rivista che durerà solo due anni. Dopo il romanticismo passa in Francia e successivamente nella zona del regno lombardo-veneto in Italia, soprattutto nella città di Milano, dove risiedono le menti più importanti e intellettuali del governo austriaco. È a Milano, inoltre, che scatta quella che viene definita la polemica classico-romantica. Siamo nel gennaio del 1816 quando, sul primo articolo della Biblioteca italiana, viene pubblicato l’articolo “sulla maniera e le modalità delle traduzioni” di Madame de Stael. In questo intervento si riporta una critica negativa della cultura e della letteratura italiana contemporanea che, secondo lei, troppo attaccata alla tradizione classica. La Biblioteca italiana, formata da classicisti, allora risponde a questa provocazione difendendo la sua posizione mentre nuove personalità illuminate vedono nella stessa l’occasione per riformare la cultura e la letteratura italiana proponendo qualcosa di completamente nuovo. IL CONCILIATORE Alla sua esortazione rispondono anche altri tre intellettuali, figure fondamentali che saranno i fondatori del Conciliatore, ossia Ludovico di Breme, Silvio Pellico e Pietro Corsieri. Ludovico di Breme risiedeva a Torino,
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