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Storia del Soul jazz e Jazz samba, Schemi e mappe concettuali di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

Appunti relativi alla Storia del Soul jazz e Jazz samba.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2019/2020

Caricato il 27/03/2023

alessio-trotta-3
alessio-trotta-3 🇮🇹

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Scarica Storia del Soul jazz e Jazz samba e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! Capitolo 21 Soul jazz e jazz samba Gli anni Sessanta videro un relativo declino del ritmo swing, che era stato uno degli elementi portanti del jazz a partire dagli anni Venti. La nascita di generi musicali estremamente popolari come il rock’n’roll e il rock, portarono nel mondo del jazz, sempre più organizzato da abili produttori, la spinta a emulare i successi di vendite che quelle nuove musiche realizzavano. A predominare furono gli interessi delle case discografiche, che ancor più di prima iniziarono a gestire il mercato della musica d’intrattenimento sacrificando spesso la profondità e l’artisticità dei progetti a favore di un sicuro guadagno. All’inizio del decennio precedente Ray Charles prima e James Brown poi avevano sollevato indignazione negli afroamericani mischiando il sacro e il profano: il gospel con il blues; da questa miscela era nato il genere denominato soul, la musica dell’anima, soprattutto un mezzo d’identità sociale tra i fratelli di etnia africana. Nello stesso periodo, a metà degli anni Cinquanta, la parola soul si diffuse anche nel mondo del jazz grazie al pianista Horace Silver, che la legava anche al concetto di funky, prima insieme ai Jazz Messengers di Art Blakey e poi nella musica realizzata con i propri gruppi. Di lì a poco si definì uno stile jazzistico ben preciso, ammiccante e gradevole, rimanendo tuttavia profondamente afroamericano: il soul jazz. Se l’hard bop era la semplificazione della musica creata da Charlie Parker e Gillespie, il soul jazz fu l’ulteriore passo verso l’immediatezza, l’orecchiabilità usato come “gancio” dal jazz per attrarre il pubblico e realizzare migliori risultati nelle vendite dei dischi. La genesi dello stile si fa risalire al brano “Preacher” del 1955, in cui riecheggiavano gli echi delle chiese afroamericane, il gospel e soprattutto dei nuovi ritmi binari provenienti dal rhythm’n’blues. Il genere Rhythm’n’blues era stato il naturale sviluppo dei race records, quelle prime incisioni realizzate negli anni Venti contenenti soprattutto blues cosiddetti classici, interpretati da donne e riservate nei piani delle etichette discografiche esclusivamente ad un pubblico di compratori afroamericani. Già alla fine del decennio entrarono a far parte altri stili di blues, come il boogie-woogie, cantato e suonato da cantanti detti “shouters”, cioè urlatori, di solito accompagnati da pianisti: Big Joe Turner e Pete Johnson da Chicago fecero valere la loro energia e contagiosa allegria, che riproduceva le festose atmosfere che si respiravano e la musica che si ascoltava nei famosi “rent parties”, feste organizzate in seno alla comunità afroamericana per racimolare i soldi dell’affitto. Durante la Swing Era furono senz’altro le band bianche a godere della maggiore popolarità, realizzando altissimi profitti, tuttavia parecchi artisti afroamericani proposero una personale miscela di swing e blues: fu il caso di Louis Jordan, sassofonista e cantante dell’orchestra di Chick Webb, che fuoriscì dalla compagine del batterista per una certa rivalità con Ella Fitzgerald, che era diventata la stella della formazione. La musica di Jordan veniva definita Jump, cioè uno stile baldanzoso e saltellante, praticamente un boogie-woogie adatto al nuovo tipo di ballo detto Jive; l’accentuazione prevalente era ancora swingante, basata sullo shuffle, ma sostanzialmente si trattava già di rhythm’n’blues. 1 Negli anni Quaranta il blues suonato a tempo di swing da alcune big band come quella del vibrafonista Lionel Hampton rappresentò l’alternativa a cui si rivolsero i ballerini e il pubblico del jazz meno sofisticato, messo a dura prova dall’avvento del bebop. Infine nel 1949 il giornalista di Billboard Jerry Wrexler utilizzò questo termine per indicare il genere musicale suonato dagli afroamericani, a base di boogie-woogie, swing regolare e pesante, detto shuffle; la forma del blues forniva la struttura a gran parte dei brani. A questo punto appare chiaro che rhythm’n’blues era un’espressione aggiornata, politicamente corretta da utilizzare al posto di race records! I campioni di quella musica furono soprattutto Fats Domino, pianista e cantante di New Orleans, Ike Turner, autore del brano “Rocket 88”, il già citato Big Joe Turner e alcune band provenienti dal jazz come quella di Cab Calloway e Lionel Hampton. Lo shuffle contaminato con le sonorità del country divenne ben presto la base del rock’n’roll, genere lanciato da cantanti come Bill Haley e soprattutto Elvis Presley. E’ corretto pertanto pensare che quest’ultima etichetta, coniata dal disc jockey Alan Freed, non fosse altro che la denominazione bianca data al genere del rhytm’n’blues, convenzionalmente utilizzato per indicare la musica degli interpreti neri. Non solo lo shuffle fu adottato dai musicisti del rhythm’n’blues e del rock’n’roll: in questi due generi paralleli comparivano delle scansioni ritmiche binarie che risalivano agli antichi spiritual interpretati a tempo doppio, i jubilees, a loro volta derivati dalla polka, danza europea molto popolare in tutto l’Ottocento e il “terzinato”, una scansione in genere lenta, in 12/8, utilizzata per accompagnare brani romantici e d’atmosfera. Quest’ultimo ritmo fu alla base di un altro fenomeno musicale di rilevante importanza nella musica popolare americana degli anni Cinquanta: il doo wop; anch’esso derivava dalla concezione domanda- risposta degli antichi spiritual, anzi rappresentava il retaggio africano del canto corale che si era espresso come prima forma musicale degli schiavi, attraverso i worksong e i canti religiosi. Esponenti di punta di questo genere, caratterizzato da coretti che realizzavano un accompagnamento dolce e carezzevole adoperando prevalentemente le sillabe “doo” e “wop”, da cui il nome di questa corrente musicale, furono The Platters, con la celebre “Only You”. Il jazz è sempre stato un genere che ha fagocitato qualunque musica gli capitasse a tiro; il grande successo del genere doo wop non lasciò indifferente nemmeno il grande Duke Ellington, che nell’album Blues in Orbit del 1959 presentò il ritmo terzinato come base ritmica per un bellissimo ed enigmatico blues che aveva la caratteristica di essere armonizzato con accordi di settima maggiore! Così gli anni Sessanta si aprirono nel segno della sintesi tra generi musicali diversi; il mondo del jazz non sfuggì a questa tendenza, nonostante si fossero appena affermate nuovi stili come l’hard bop e il modale e come vedremo il sincretismo musicale fu il tratto dominante del decennio. Come detto colui che per primo pensò di fondere armonie jazzistiche, l’eredità della musica da chiesa, i ritmi binari di provenienza latina e l’immancabile senso del blues fu il pianista e compositore Horace Silver. La sua famiglia era originaria dell’isola di Capoverde, ideale ponte geografico tra l’Africa e le Americhe, e Silver sembrò portare dentro la solarità delle atmosfere caraibiche che seppe fondere con le sue influenze jazzistiche più autentiche, Monk e Bud Powell. Grande accompagnatore, fu scoperto dal sassofonista Stan Getz, ma soprattutto splendido compositore di temi diventati standard, Silver definì benissimo la ricetta ideale per creare brani in stile soul jazz. 2 Anche del funky era stato progenitore Horace Silver; la sua concezione musicale volutamente rozza e piena di feeling fu da lui definita con questo termine, per esprimere qualcosa di terreno, facendo esplicito riferimento agli umori emanati durante uno sforzo fisico. In “The Sidewinder” il ritmo di base è proprio un funky, espresso attraverso ghost notes contenute in quartine di semicrome che riempiono i tempi della misura; la conversione da soul a funky fu un processo determinato da alcuni artisti, soprattutto James Brown, quando si rese conto che la musica realizzata da etichette come la Motown o la Atlantic erano dei meri prodotti commerciali, edulcorazioni del significato originario, legato alla passione e alla sofferenza del popolo afroamericano e soprattutto sapientemente orchestrato per raggiungere indistintamente un pubblico di compratori senza confini di razza. Nel funky qualsiasi concessione al gusto popolare, quello dei compratori di dischi con contenuti afroamericani nascosti e banalizzati sotto una spessa patina di commercialità (da riconoscere nell’uso di arrangiamenti che strizzavano l’occhio ai prodotti commerciali “di classe”, quindi con archi e pulsanti ma ben calibrate sezioni ritmiche) venne spazzata via, per dare spazio al groove, ottenuto con un nuovo ritmo più secco e incisivo, crudo ma ottimo da ballare. Negli anni Sessanta furono gli organisti a esplorare a fondo il soul jazz, facilitati dal suono che automaticamente richiamava alla mente il gospel, la musica da chiesa. Questo strumento fu praticamente reinventato nel 1935, quando Laurens Hammond brevettò un nuovo tipo di modello elettrico che doveva rappresentare un’alternativa a i ben più costosi organi a canne; l’Hammond trovò invece un ampio utilizzo prima nel jazz, poi nel blues, nel gospel ed infine fu adottato dai complessi rock e pop. Negli anni Cinquanta il capostipite Jimmy Smith portò in auge l’organo, strabiliando il mondo soprattutto per l’utilizzo degli arti inferiori che, suonando contemporaneamente alle mani, realizzavano efficacissime linee di walking bass; le formazioni in cui compariva l’organo erano pertanto prive di contrabbasso, proprio perché la funzione di questo strumento (fondamentale nella musica jazz) era assolta dallo stesso organista. Sulla sua scia si affermarono il veterano Bill Doggett, anche lui afroamericano, che aveva militato nei Timpany Five del sassofonista e cantante Louis Jordan, una star del rhyhm and blues degli anni Quaranta, introducendo l’organo Hammond nel suono di quel gruppo. Un altro esponente fu Leslie Coleman “Les” McCann, che negli anni Sessanta collaborò con il sassofonista “sperimentatore” Eddie Harris e nel decennio successivo affiancò spesso come solista o arrangiatore le cantanti Roberta Flack e Tina Turner nonché il chitarrista Carlos Santana. Infine i due organisti più jazzistici: A. Jack McDuff, che aveva iniziato la carriera come bassista, cambiando definitivamente strumento negli anni Sessanta. Oltre ad avere praticamente scoperto il chitarrista George Benson, collaborò spesso con il chitarrista Grant Green e il sassofonista Gene Ammons. B. Jimmy McGriff, curiosamente anche lui bassista di formazione, che si dedicò allo studio dell’organo Hammond dopo che il suo amico d’infanzia Jimmy Smith si era imposto con quello strumento. Lo stesso Smith e Milt Buckner, il talentuoso pianista di Lionel Hampton, furono i suoi insegnanti, ma su tutta la sua musica aleggiò sempre l’influenza dello stile di Count Basie, che fu sostanzialmente la sua influenza più consistente. 5 L’altro strumento che assurse un po’ ad epitome del soul jazz fu il sax tenore; l’estensione di questo strumento è comparabile a quella di un cantante uomo, riassumendo però le possibilità insite nei registri di un tenore nella seconda ottava ma garantendo la profondità della voce batironale e occasionalmente addirittura del basso (il sax tenore ha la sua nota più bassa lab ben una decima maggiore sotto il do centrale, e può per i virtuosi allungarsi fino al sib posto una quindicesima minore sopra). Questa estrema similitudine con il timbro di una voce maschile, unita alla flessibilità e duttilità del suo suono ha reso il sax tenore uno degli strumenti guida del jazz moderno e sicuro protagonista nello stile venato di soul. Si ebbero dei grandi interpreti in alcuni solisti che avevano collaborato direttamente con il grande ispiratore e creatore ufficiale del genere soul, Ray Charles: A. David “Fathead” Newman B. Curtis Amy Insieme al contraltista Hank Crawford dapprima suonarono nei gruppi del cantante, fino ad assumerne a turno la direzione musicale; infine si affermarono come solisti di soul jazz dotati di fantasia, passione e tecnica esecutiva, caratteristiche affinate grazie ad esperienze dirette fatte sul campo. Il più popolare fu senza dubbio King Curtis, sebbene non si possa considerare a nessun titolo un musicista di jazz; la sua capacità espressiva e di trasmettere con il sax un reale grado di eccitazione al pubblico lo fece diventare una star del soul strumentale, tanto che l’artista partecipava regolarmente a show televisivi anche fuori dagli Stati Uniti, specialmente in Giappone. Soprattutto il suono di King Curtis rappresentò un modello nuovo, grazie a un uso estensivo del vibrato generalmente eseguito in maniera più veloce e alla sua bellezza oggettiva influenzò le generazioni successive indicando una strada a sassofonisti come David Sanborn e Michael Brecker. Molto più aderenti all’estetica jazz che a quella soul furono invece: A. Eddie Harris, già citato, che contribuì anche alla nascita del jazz rock; sperimentò ampiamente sul suono, specialmente con il varitone, una sorta di octavier, che gli consentiva di ottenere suoni ripetuti in varie ottave, e alla pari di Miles Davis il wah-wah. B. Stanley Turrentine, che si esibì spesso insieme alla moglie, l’organista Shirley Scott. Dotato di un sontuoso fraseggio hard bop e un forte spirito soul rappresentò forse il più convincente interprete del soul jazz. C. Roland Kirk, prodigioso polistrumentista che riusciva a suonare fino a tre sax contemporaneamente; suonò con Charlie Mingus e con gruppi a proprio nome. D. Gene Ammons, che poteva vantare una lunga militanza nelle orchestre degli anni Cinquanta di C ount Basie. IL JAZZ SAMBA Se il soul jazz era stata la forma di fusione generatasi dall’hard bop con il soul, la nuova musica popolare presso gli afroamericani, il jazz samba fu un naturale sviluppo del cool jazz, che si fuse con i ritmi brasiliani. In particolare la bossa nova, che era una forma di samba a tempo più lento e con prevalenza di sonorità leggere e carezzevoli, rappresentò il presupposto e l’essenza di questo particolare stile jazzistico, il jazz samba, sviluppatosi all’inizio degli anni Sessanta. 6 Il nome di questa corrente stilistica derivò dal titolo di un disco inciso dal sassofonista Stan Getz e il chitarrista Charlie Byrd nel 1962; in esso furono interpretati diversi brani del compositore Antonio Carlos Brasileiro de Almeida Jobim, detto “Tom”, come “Desafinado”, che sarebbe diventato un classico. La bossa nova, termine che può essere tradotto come “roba nuova” o “tendenza nuova”, era nata a Rio De Janeiro nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie a un gruppo di musicisti e interpreti come Joao Gilberto, cantante e chitarrista, Baden Powell, compositore e chitarrista e soprattutto il già citato pianista-cantante-compositore Jobim; questo novero di artisti fu ampiamente influenzato dal poeta e diplomatico Vinicius De Moraes, che scrisse i testi delle maggior parte delle loro canzoni. Erano quasi tutti giovani bianchi benestanti appartenenti alla borghesia brasiliana, seguaci entusiasti del presidente democratico Juscelino Kubitschek, uomo dal saldo credo modernista promotore di un risveglio economico della nazione. In effetti la “bossa” rappresentava un’ideale di bellezza musicale, espresso con dolcezza e atmosfere sognanti che sembravano fatte apposta per esprimere il momento d’oro del Brasile. Comunque pare certo che i giovani compositori brasiliani citati fossero stati letteralmente folgorati dal cool jazz, dallo stile “californiano” della west coast, con la sua sapienza armonica e la sofisticatezza degli arrangiamenti; in Brasile due cantanti in particolare furono considerati promotori del jazz negli anni Quaranta: A. il cantante e pianista Dick Farney (al secolo Farnésio Dutra da Silva), una sorta di Sinatra brasiliano B. il compositore e cantante Johnny Alf , pseudonimo di José Alfredo da Silva I più giovani Jobim, Baden Powell e Joao Gilberto fusero le armonie jazzistiche con il ritmo del samba, creando nuovi temi originali; la bossa nova fu così lanciata e si impose a livello mondiale grazie a “Orfeu Negro”, uno storico film del 1957 diretto dal regista Marcel Camus, che vinse la Palma d’Oro al festival di Cannes e un Oscar a Hollywood. Il lungometraggio era tratto da “Orfeu de Coicecao”, una piéce teatrale scritta da Vinicius de Moraes, che riprendeva il mito della Grecia classica di Orfeo ed Euridice adattato ai giorni nostri e ambientato a Rio de Janeiro durante la settimana del Carnevale. Le canzoni “A Felicidade”, “Samba de Orfeu” e soprattutto “Orfeu Negro” (diventata uno standard del jazz con il titolo inglese “Black Orpheus”) fecero conoscere al mondo la nuova musica brasiliana, rinnovata nei contenuti e influenzata dal jazz proveniente degli Stati Uniti. Fino a quel momento la musica tradizionale brasiliana aveva avuto tre anime: A. la prima era rappresentata dai ritmi degli schiavi africani B. la seconda era la musica portoghese, soprattutto il “fado” C. la terza derivava dai suoni e dalle percussioni degli indigeni Quando a questi si aggiunse il jazz nacque la bossa nova. Paradossalmente però quel genere musicale esercitò un’influenza di ritorno sul jazz degli anni Sessanta, espandendo il concetto di musica latina che fino a quel momento era stato associato esclusivamente ai ritmi cubani o caraibici provenienti delle Grandi Antille, geograficamente più vicine agli U.S.A. La bossa nova si aggiunse al jazz sia come “colore” che come repertorio: brani come “Wave”, “How Insensitive”, “Triste”, “Chega de Saudade” e molti altri sono diventati in breve tempo degli standard, interpretati da tantissimi jazzisti anche dopo e al di fuori del movimento del jazz samba. 7
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