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Storia del teatro giapponese, Sintesi del corso di Lingua Giapponese

Riassunti del libro Storia del teatro giapponese, dalle origini all'Ottocento per l'esame di Letteratura Giapponese I (Professor Gianluca Coci).

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica Storia del teatro giapponese e più Sintesi del corso in PDF di Lingua Giapponese solo su Docsity! Storia del teatro giapponese: (dalle origini all’Ottocento) Introduzione (cap. 1) la storia del Giappone è passata attraverso numerose fasi di apertura e di chiusura nei confronti delle civiltà esterne, che fossero vicine, come la Cina, o più lontane, come l’Occidente e, proprio questi fattori hanno contribuito ad arricchire la dimensione creativa e le sue diverse rielaborazioni (Es. adozione scrittura ideografica, introduzione del buddhismo, ambascerie verso la Cina e continui travasi mediatici dalla penisola coreana). Nonostante la sua natura insulare, il Giappone ha potuto godere di numerosi arricchimenti, dati da elementi esterni, soprattutto per le arti e lo spettacolo. Il teatro, in particolare, ha radici molto antiche nel valore magico-augurale, di propiziazione e di costruzione dell’armonia tra il cosmo, gli dei e la comunità umana. Ciò è nato da antiche culture shintoiste locali che, in seguito, verranno riorganizzate in strutture gerarchizzate in clan con a capo sovrani e, quindi, organizzati attorno alla corte imperiale. Le arti performative offerte alle divinità, in questo panorama, hanno assunto il ruolo di intrattenimento per le platee di pubblico. La svolta principale avvenne con l’introduzione del buddhismo, dato che con questa religione si importò in Giappone anche la struttura della corte imperiale su modello della corte suprema cinese. Le principali tipologie di teatro tradizionale sono: il gagaku (bugaku), il nō, il kyōgen, il teatro dei burattini e il kabuki. A ciò, però, bisogna anche aggiungere le esperienze successive all’incontro/scontro con la tradizione occidentale, dato che nel 1868 in Giappone muta radicalmente il concetto di teatro, che viene riprogettato, grazie a nuovi codici e tecniche derivate proprio dall’estero, ma che non riescono del tutto a cancellare la tradizione pregressa. Infatti, la struttura che caratterizza la storia del teatro giapponese è composta da sovrapposizioni e coesistenze parallele e, questa compresenza di diversi teatri tradizionali, che si sono tramandati fino a oggi, è la caratteristica principale del teatro contemporaneo. Si può, inoltre, cogliere un elemento fondamentale da quest’ultima analisi che deriva direttamente dal piano diacronico e dalle estetiche e pratiche su tutte le scene della rappresentazione: la permanenza del legame originario e primario rito-teatro. Infatti, la tradizione teatrale giapponese mantiene il suo carattere cerimoniale di rito con valore augurale come rito ripetitivo ed è, proprio la ripetitività dei gesti, che garantisce e ricompone l’armonia di natura, uomo e cosmo. L’attore diventa quindi il medium, il cui corpo viene sacrificato alla divinità, affinché essa possa possederlo. Una seconda caratteristica che si evince nei generi della tradizione è la visione di un teatro collocato nell’universo dello spettacolo in cui la composizione debba essere per forza sinestetica, quindi con la presenza sulla scena di musica, danza e recitazione. Questo uso massiccio di diverse materie per comunicare è sapientemente costruito, cosicché vi sia una perfetta armonia: ogni componente non può, e non deve, prendere il sopravvento sulle altre, ma deve altresì combinarsi con gli altri in modo da formare un testo spettacolare, la cui complessità è prevista già nel testo drammatico. In un certo senso si potrebbe quindi parlare di teatro totale= sintetizza diverse arti, quindi comprende anche musica, poesia e danza, che si basa sempre però sul concetto di armonia, non cercando l’unità ma valorizzando la diversità di ciascun elemento messo in scena. In questo modo policronia e policromia si manifestano in una predilezione per la monodia delle singole materia dell’espressione, come per la purezza delle linee delle discipline e la ricchezza del suono o del gesto in sé. Inoltre, i generi della tradizione, hanno sviluppato palcoscenici speciali che fossero collegati alle scene: i luoghi preservano così la propria sacralità nell’evocazione degli dei o nella dimensione del rito vero e proprio. Nel teatro dei burattini, come nel kabuki, infatti, il palcoscenico ha numerosi apparati e scenografie imponenti e, conseguentemente, si avvale anche del massimo sviluppo scenotecnico (grazie ai macchinari, palcoscenici girevoli, montacarichi, botole, trucchi e alle passerelle, che attraversano la platea per mostrare entrate e uscite spettacolari). Nonostante ciò, nel teatro della tradizione non vi è alcun intento di nascondere la finzione, dato che il teatro è considerato in primo luogo fittizio secondo le convenzioni e gli statuti tipiche. Infatti, nel teatro nō è possibile distinguere le maschere sul viso degli attori, mentre nel ningyō jōruri (teatro dei burattini) l’origine della voce è diversa da quella del gesto e dunque questi due elementi non sono uniti e, con il fine di rendere ancora più evidente l’artificio, burattino e 1 burattinaio sono entrambi presenti sulla scena. Anche nel kabuki il meccanismo è il medesimo: l’attore è sempre sé stesso e la sua accentuata presenza scenica fa in modo egli sia riconoscibile dal pubblico. Inoltre, viene spesso utilizzata la figura del kōken (assistente) che aiuta l’attore a cambiarsi d’abito o a trasportare oggetti sulla scena. A partire dal teatro nō, con gli insegnamenti di Zeami, la scrittura del dramma è sempre stata connessa con la prassi del palcoscenico: è infatti l’attore stesso che compone i suoi testi drammatici, così che egli possa valorizzarsi al massimo per quanto riguarda il canto e la danza. Al contrario, invece, nel ningyō jōruri e nel kabuki si è ben presto giunti a una determinata specializzazione dei ruoli, consentendo la nascita della figura del sakusha (autore), che inventa quindi storie e intrecci all’interno del testo drammatico. Nonostante ciò, però, non esiste ancora l’idea ‘romantica’ di artista, colui che si cimenta nell’esprimere sé stesso. In realtà, la parte direttamente verbale del testo ha avuto origine con la narrazione dei poemi epici, i katarimono, infatti è per lo più formato da descrizioni o narrazioni in terza persona, invece che da dialoghi. Es. nel teatro nō l’attore parla di sé in terza persona, intonando la voce di un narratore o cantore; soprattutto nel ningyō jōruri il narratore mantiene il ruolo di interprete di emozioni e passioni. L’attore è un artista completo che riceve un addestramento specifico e che, spesso, tramanda questa arte di generazione in generazione; esistono anche scuole dedicate agli attori, come anche tecniche specifiche in base alla famiglia di provenienza che, in molti casi, erano considerate segrete. Soprattutto l’ultimo elemento è ancora in voga tutt’oggi: la gestualità, l’intonazione della voce, la declamazione e il movimento, così come la musica, la coreografie delle danze, i costumi, le maschere e il testo drammatico, dipendono anche dalla fedeltà ai criteri sopracitati. Oltre al testo drammatico, il teatro giapponese ha anche conservato il testo spettacolare= messa in scena con tutte le varie componenti. Infatti, soprattutto nel teatro nō, gli spettacoli difficilmente vengono replicati. Grazie ai modelli esecutivi, i kata, è possibile trovare alcune ‘regole’ che riguardano il testo verbale, la gestualità, la musica e tutti i minimi dettagli che possano rendere il teso drammatico spettacolare. I testi, inoltre, vengono articolati in sequenze di numero di unità minimali che si susseguono, ognuna con le proprie qualità, in base a criteri particolari. Il brano, invece, è costituito da cellule unità minimali verbali, melodiche e ritmiche sovrapposte e giustapposte per poter comporre un mosaico che si srotola nel tempo. Cap. 2  Dal rito allo spettacolo. Secondo la tradizione, la matrice originaria dello spettacolo risalirebbe al mito della caverna (Ama no iwayato) descritto nel Kojiki= dea solare Amaterasu, offesa dal comportamento del fratello Susanowo no mikoto, il signore dei venti, si rinchiuse in una caverna, condannando il mondo al buio e alla notte; grazie al piano ideato dal dio Omoikane, la dea Amenouzume eseguì una danza particolare, percuotendo i piedi su di una botte rovesciata, suscitando sia le risa degli altri dei che l’attenzione di Amaterasu, la quale si sporse all’esterno della caverna per poter comprendere cosa stesse succedendo, per poi essere afferrata dal dio Amenotajikarawo, ponendo così fine all’eclissi. A ciò risalgono i riti del kagura e la nascita della figura del wazaogi= attore, ovvero, intermediario tra dei e uomini, chiamata tramite possessione, trance o altri metodi, a evocare la divinità e a favorirne i benefici. Il termine kagura significa “sede della divinità”, mentre i sinogrammi alludono al significato di “divertimento delle divinità” = oggetto nel quale si invita a risiedere il dio con procedimenti che lo attirino, lo accolgano e lo intrattengano; il canto, la danza, i movimenti circolari, il battito del piede, lo specchio, una lancia o un ventaglio sono gli strumenti per questo fenomeno di possessione. L’attore, wazaogi, è quindi il tramite con le divinità e gli spiriti, i quali vengono attirati dai movimenti rotatori e richiamati a posarsi sul vertice di oggetti lunghi e appuntiti, come lance, spade o rami di sakaki, oppure di bambù. La parola waza, che compare nel composto wazaogi (attore), ha il significato di sortilegio o magia per far manifestare le divinità, mentre ogi significa richiamare o invitare e, ciò, allude proprio al compito primario dell’attore. La prima apparizione del termine risale al Nihon shoki dove viene riportato il mito della caverna, in cui Amenouzume compie atti di evocazione. L’attore è quindi anche 2 aveva il compito di scandire le festività stagionali, le celebrazioni, i banchetti e altri eventi di spettacolo, inoltre, raggiunse il suo culmine in epoca Heian, come viene anche attestato nel Genji monogatari, per poi iniziare un lento declino strettamente collegato con quello della corte imperiale. Si tratta, comunque, di uno dei generi musica più antichi al mondo, dato che la tradizione musicale shintoista nasca con gli albori della cultura giapponese. Con il consolidarsi del sistema Ritsuryō, a partire quindi dal 701, i brani danzati introdotti nel continente, le musiche e le danze autoctone legate allo shintō, vengono fatte rientrare sonno la soprintendenza del Gagakuryō (Dipartimento delle musiche di corte). Inizia quindi una fase di trasformazione del repertorio, si ha infatti una grossa distinzione tra due stili: quello di sahō (sinistra)= comprende gli accompagnamenti di musica Tang, quindi di origine cinese, e quello uhō (destra)= di ascendenza coreana. Vengono così riordinati anche i canti e le danze destinati a riti e cerimonie ai quali si aggiungono anche i saibara e i rōei. Le dinastie famigliari specializzate nei rispettivi strumenti musicali si consolidano, infatti l’aristocrazia si dedica alla tradizione dei saibara, rōei, biwa e sō, mentre alle famiglie dei ranghi più bassi vengono affidati i tre kagurauta, ovvero di strumenti dell’orchestra e delle danze. Oltre ai musici in servizio presso la corte nascono anche i gakuso, luoghi di musica, anche nei templi buddhisti e santuari shintō, dove i rappresentanti dei due più grandi complessi orchestrali dell’epoca (Kōfukuji di Nara & Shitennōji di Ōsaka) si uniscono a quello della corte imperiale. Il repertorio= in base al riordino effettuato in epoca Heian si sono distinti due generi diversi in base agli strumenti musicali utilizzati, le tonalità, le scale musicali e le tipologie di ritmo. Nel caso dei brani danzati la composizione si avvale di tre strumenti a fiato e tre a percussione; nel caso, invece, dei brani strumentali si utilizzano due strumenti a corda e alcuni strumenti a percussione. Bugaku= danze che possono essere svolte in solitaria, mascherati in gruppo, da soli fanciulli e il cui accompagnamento musicale varia in base al genere, ma per la danza in sé valgono le regole della simmetria e del parallelismo. Kangen= brani di musica pura destinati alle danze, alla composizione del gruppo strumentale o per la forma musicale stessa; dotato di imponenza scenografica rilevante. Al contrario, i nuovi brani di nuova composizione per le danze e i canti, composti in epoca Heian, sono costituiti da musica vocale con brani dalla lettura giapponese che si distinguono in saibara= parole poetica tratte dalle canzoni popolari, scandite con ritmo regolare secondo i ritsuryō (scala esafonica pari= yō e scala esafonica dispari= yin) a ritmi di tre o cinque battute. Rōei= canti con ritmo regolare eseguiti in coda alle esecuzioni puramente strumentali: il canto si apre con un assolo a ritmo libero del primo ku (verso) e in seguito si associano in maniera corale tutte le altre melodie e voci. Il sangaku= arte popolare designa un insieme composito di arti dello spettacolo introdotte dalla Cina Tang in epoca Nara che fiorisce lungo tutto il periodo Heian fino al Kamakura. In origine significava letteralmente “l’arte del volgo” e riguardavano, appunto, il canto, la danza, destrezze e acrobazie, ma anche giochi di prestigio e molto altro. Quest’arte viene spesso eseguita alle festività di templi e santuari dove vi sono anche artisti specializzati di sarugaku, come attestano numerose fonti, tra le quali spicca anche il “Shin sarugaku ki” (nuova cronaca del sarugaku) di Fujiwara no Akihira. Il sarugaku prosegue sulla traiettoria del sangaku fino al periodo Kamakura secondo le sue linee creative: circo multicolore (finireeeee) Cap. 4  Il nō Nel 1375 Kan’ami Kiyotsugu, attore di una compagni di sarugaku, esegue per la prima volta insieme al figlio, Zeami Motokiyo, uno spettacolo di nō al tempio di Kyōto, in presenza dello shōgun Ashikaga Yoshimitsu. Lo shōgun resta ammaliato sia dalle tecniche dell’uomo che dalla grazia scenica del figlio di questi e decide di prenderli entrambi sotto la sua protezione. Precisamente, è nel periodo delle dinastie del Nord e del Sud (1336-1392) che si sviluppa questa nuova tipologia di teatro, mentre i due rami della famiglia imperiale si contendono la successione al trono, nasce il sarugaku no nō che, successivamente, in epoca Meiji, verrà denominato nōgaku e che comprende anche il kyōgen. Nonostante sia la nuova tipologia di teatro che il kyōgen derivino entrambi dal sarugaku hanno sviluppato percorsi da un lato paralleli ma, soprattutto, estremamente differenti. 5 Il sarugaku, derivato a sua volta da sangaku, vede la modificazione in epoca Heian della lettura dei sinogrammi, aumentando quindi il valore di teatro di rappresentazione e di mimesi comica e, proprio nel concetto di mimesi comica risiede l’idea principale del kyōgen. Al contempo, anche la danza Okina, tipica dello shintō, durante la quale la divinità assume l’aspetto di un vecchio che giunge in visita portando con sé prosperità e felicità, inizia a essere inscenata dia maestri professionisti del sarugaku. Inoltre, gli artisti di sarugaku si organizzano in compagnie, za, che operano su ampie aree esibendosi in riti, danze, o altro presso i maggiori luoghi di culti, ma anche presso sagre stagionali o festività, secondo i ritmi che scandiscono l’anno in stagioni di coltura e raccolto nel ciclo agricolo del riso. All’epoca di Zeami erano molto numerose le compagnie di questo tipo e, di notevole popolarità, era il dengaku= con attori del calibro di Itchū (ruoli di demoni), Kiami (compositore) e Zōami (rivale di Zeami), si dà vita a spettacoli di una certa complessità, assumendo una forma di teatro di rappresentazione. Nonostante ciò, però, il passo superiore venne svolto proprio da Zeami, che riuscì a combinare elementi eterogenei e innovativi provenienti dalle varie esperienze teatrali. I meriti di Kan’ami sono di aver introdotto e aggiunto nel teatro di Yamato le peculiarità di canto e danza del sarugaku e del dengaku, alla potenza espressiva e alle modulazioni ritmiche nell’arrangiamento musicale. Zeami, invece, è stato in grado di affinare la scenicità unendo al teatro la poesia, la danza e la musica creando un perfetto equilibrio, apprezzato sia a corte che dal pubblico popolare. Ebbe una formazione colta grazie al maestro di poesia Nijō Yoshimoto, che donò il nome di Fujiwaka, e, anche grazie al fatto di potersi confrontare con altri artisti in voga all’epoca, riuscì a comporre un grande numero di drammi dalla splendida fattura, oltre che numerosi trattati sulla pratica dell’attore che sono ancora oggi considerati insuperati. Dopo la morte del suo mecenate, Zeami attraversò periodi di dolorosi rapporti con i successivi shōgun, ma la sua vita conobbe anche altri momenti di tristezza, come la morte prematura del suo primogenito e il probabile esilio, fino alla morte. Nonostante ciò, l’autore-attore rimane sensibilissimo ai mutamenti e alle esigenze del tempo, riuscendo a lasciare un’impronta indelebile sul sarugaku no nō, sia per quanto riguarda la concezione, il sistema di composizione dei testi, la struttura e l’estetica, insieme al genero Konparu Zenchiku. I trattati= struttura ed estetica del nō è stata formulata attraverso i numerosi trattati scritti da Zeami, definiti ancora oggi come i più stimolanti esempi di teoria del teatro, soprattutto perché frutto dell’intelletto di un uomo di teatro completo, sia come attore che come compositore e scrittore. Inoltre, la grande cultura della corte Yoshimitsu, dotata di numerose conoscenze letterarie, fa sì Zeami possieda una grande destrezza nel linguaggio poetico. I suoi trattati più famosi sono: Fūshikaden (Della trasmissione del fiore della interpretazione) e Shikadō (Della via che conduce al fiore). Dai titoli di queste opere è facilmente intuibile come il cuore delle ricerche e dei trattati stessi dell’autore sia il concetto di fiore: il fiore è una metafora che porta con sé connotazioni ambivalenti, l’uno di prosperoso fulgore e l’altro di fascino precario. Zeami riesce a innalzare il fiore facendolo coincidere con la metafora dell’emozione che l’attore del nō offre al pubblico. Questa metafora, però, significa anche che dove vi è il fiore, quindi l’artificio del nō, l’attore è in grado di vivere e prosperare e, proprio l’attore deve essere in grado di mutare per poter sopravvivere, come i fiori. Quindi, al fine di poter suscitare sempre nuove emozioni nello spettatore, Zeami ha progettato un percorso di addestramento con accorgimenti, scelte di repertorio, sceniche e di artificio, che è necessario seguire. Proprio a questo proposito nasce la distinzione tra jibuun no hana= il fiore del momento, corrisponde alla bellezza del corpo e alla giovinezza, quindi un tratto momentaneo e passeggero, e makoto no hana= il fiore autentico che non è soggetto allo scorrere del tempo; il compito dell’attore è quindi quello di fare in modo che il fiore non appassisca ma, anzi, che torni sempre a rifiorire, nonostante esso sia dotato di fragilità e debolezze. Collegato al concetto di emozione del pubblico vi è anche quello di mezurashiki= insolito che deve di fatto superare il livello dell’interesse, infatti la sorpresa del fiore si colloca nel suo continuare a schiudersi, destando stupore. Oltre al concetto di hana e di mezurashiki, nelle opere di Zeami appare anche quello di yūgen= profondo, infatti, Fujiwara no Shunzei definisce le liriche che palesano un senso di distanza nel tempo e nello spazio come remote e che, però, permettono l’uso dell’immaginazione. Questo concetto è la base del teatro di Zeami, insieme ai due precedentemente analizzati. Nei trattati in cui viene espresso il concetto di yūgen egli 6 definisce uno stile di finezza ed eleganza riferito in particolare alla figura dell’attore= grazia di interpretazione con armonia degli aspetti visivi e uditivi sulla scena. Inoltre, Zeami classifica con precisione i tipi di ricettività dello spettatore che il nō può determinare, infatti, nel trattato del Fūshikaden afferma che esistano diverse tipologie di opere, ognuna della quali si appella a un aspetto diverso: (Concezione sviluppata maggiormente nel trattato Kakyō) esistono tipologie del teatro nō che fanno leva si aspetti visivi (Ken), su quelli uditivi (Mon) e su quelli della mente (Shin). L’idea di Zeami, però, è quella di formare un teatro in cui poter raccogliere tutti questi elementi. Inoltre, dal trattato Shikadō in poi la filosofia dell’autore è profondamente influenzata dallo zen e, quindi, vi sono numerosi termini che risultano di difficile comprensione ma, nonostante ciò, la sua idea di jūsu (sostare) resta invariata nonostante sia in parte ripresa anche dalla credenza zen. Da un’attenta analisi degli scritto di Zeami emergono anche numerose affermazioni per quanto riguarda la prospettiva di un attore, in tutte le sue sfaccettature, a partire dalla consapevolezza della presenza scenica allo sguardo distaccato di sé e, infine, al consolidamento di un palco scenico che sia stabile. Questo ultimo elemento si verrà consolidando solo in epoca Muromachi, insieme anche alla consapevolezza di tutte le possibili figure dell’attore che si ergono sul palco scenico; si va così cogliendo il teatro come fenomeno che si regge sulle relazioni di tensione tra colui che agisce e colui che guarda. Bisogna, inoltre, saper distinguere tra condizioni interne, che dipendono dall’attore in sé, e quelle esterne, ad esempio l’ambiente spaziale, quello umano, sociale= spettatori e quello temporale. Per questo motivo si dice che gli elementi dell’attore sono limitati a una certa arte che viene sviluppata con pratica ed esercizio basati su danza e canto (base sarugaku). L’erede di Zeami fu il genero Konparu Zenchiku, grazie al quale il teatro nō comincerà a riflettere su sé stesso in modo sofisticato, tendendo allo stesso tempo a cristallizzarsi nella forma giudicata come “aristocratizzata” da numerosi critici sia giapponesi che occidentali. Grazie al trattato Kabu zuinō ki di Konparu è possibile decifrare una classificazione degli stili del nō in base ai personaggi di vecchio, donna, guerriero e miscellanea, grazie ai quali i diversi gradi di questa arte (5 o 9) si fanno via via sempre più complessi nella classificazione dei 5 suoni, dei 3 moduli estetici di pelle, carne e ossa, dei 10 stili e, infine, nei 6 cerchi che si espandono fino ad abbracciare la filosofia buddhista, shintoista e confuciana che sfociano in quella zen. In epoca Tokugawa è Toyotomi Hideyoshi il primo a costringere gli attori e le compagnie sparse per tutto il regno di Yamato a convergere in una delle quattro scuole: Kanze, Hōshō, Konparu, Kongō e Kita. In questo modo, mentre le piccole formazioni di artisti erano di fatto obbligate a ritrovarsi sotto l’egida delle cinque scuole canoniche, il nō diventa un’arte teatrale classica. I brani del repertorio rimangono di fatto limitati alle scuole canoniche, mentre la rappresentazione di nuovi drammi diventa sempre più rara; nonostante ciò, però, i testi drammatici hanno una straordinaria diffusione a diversi livelli sociali sotto forma di recitazione pura. Riprendendo i trattati di Zeami, è possibile trovarsi davanti al Hachijō Kadensho, pubblicato in era Keichō, sotto il nome dei capiscuola delle quattro compagnie (no Kita, arrivata successivamente), comprende ben otto volumi di trattati del fondatore del nō. Si tratta di un testo apocrifo che non trasmette di fatto in maniera fedele le idee dell’attore, ma è stato utilizzato per tutto il periodo Edo e, conseguentemente, è stato riconosciuto dagli attori e dal pubblico di questa arte. Il nō, quindi, secondo questo testo è strutturato secondo una visione fondata su principi estetici come lo yin e lo yang e i cinque elementi, nonché i tre stili di calligrafia, ma anche sull’introduzione, lo sviluppo e un finale rapido. Il nō, inoltre, è una sintesi drammatica rappresentata su di un palco scenico con caratteristiche precise: struttura di legno con una fondale dipinto (quindi scena fissa), pino maestoso sullo sfondo e steli di bambù ai lati, inoltre, il palcoscenico stesso è formato da un retro palco proteso verso la platea e sovrastato da un tetto spiovente sostenuto da quattro colonne. La scena è eseguita da due attori principali (shite e waki) che spesso possono essere accompagnati da personaggi secondari. Il testo drammatico (Yōkyoku) prevede l’intrecciarsi dei linguaggi verbale e melodico; la partitura è composta da testo verbale che viene accompagnato da neumi, 7
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