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Storia dell'arte moderna, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Manuale Arte nel Tempo per esame con Terzaghi Roma Tre

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

In vendita dal 12/06/2018

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Scarica Storia dell'arte moderna e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! STORIA DELL’ARTE MODERNA ARTE NEL TEMPO RIASSUNTI CAPITOLO PER CAPITOLO TOMO PRIMO NICOLA SARLI PARTE I IL QUATTROCENTO Quattrocento mostra delle figure ancora rigide a gotiche, smorzate dalle tinte dolci di Michelino. Altra pietra miliare è Gentile da Fabriano. Nato nelle Marche, egli fu attivo in molte zone d’Italia come Orvieto e la Lombardia. Anche egli riprende lo stile lombardo di Michelino, però lo reinterpreta in maniera più personale aggiungendovi delle sfumature luminose. La sua morbidezza luminosa stacca definitivamente l’arte veneziana da quella bizantina. Nella quattro tavole con le storie di San Benedetto, che ancora non sono state a lui riconosciute da tutto il mondo accademico, si trovano fisionomie nordiche. A Venezia, architettura e scultura convivono grazie ai cantieri del Palazzo Ducale e di San Marco. A Venezia vengono costruiti palazzi che ancora presentano uno stile trecentesco, è il caso della Ca’ d’Oro o della Ca’Foscari, dove i lapicidi e gli architetti creano queste stupende polifore. Viene ripreso il repertorio medievale, la Ca’ d’Oro è asimmetrica ma bilanciata grazie al buio dei loggiati e alla luce della parete. Anche la scultura conosce un arricchimento decorativo, a partire dal 1420, artisti toscani del tardogotico vengono chiamati per decorare il Palazzo Ducale. Si forma in questi anni Bartolomeo Buon. Egli collabora con il padre alla costruzione della Porta della Carta, 1438 Palazzo Ducale. Le sue sculture hanno un modellato complesso, delle masse importati ed una attenzione agli stati d’animo, a lui fu attribuito un gruppo angolare di Palazzo Ducale con il Giudizio di Salomone. Verona, sottomessa nel 1406, mantiene a lungo una sua autonomia artistica, vicina alle esperienze lombarde. Una delle personalità di spicco è Stefano da Verona (1379-1438). Egli era figlio di Jean d’Arbois, pittore di Filippo l’Ardito. Un’opera certa di Stefano da Verona è l’Adorazione dei Magi del 1435. Questa tempera su tavola esplica il linguaggio più maturo di Stefano da Verona, emerge il desiderio di voler restituire agli oggetti e ai volti le fisionomie. Antonio Pisano meglio noto come Pisanello nacque a Pisa nel 1390. Si trasferì a Verona e qui incontrò Stefano da Verona e Gentile da Fabriano. La sua opera ha connotati lombardi. I colori luminosi e morbidi delle carni, la plasticità delle figure riprende la pittura di Gentile, l’affresco della Annunciazione del 1426 a San Fermo lo dimostra bene. I contorni, le fisionomie invece riguardano Stefano. Dal 1422 inizia a lavorare per diverse corti come quella di Mantova, Pavia e Ferrara dove deve coniugare le eleganze ideali cavalleresche ai sensi antiquari umanistici. Questo interesse per l’antiquaria e questa sua attenzione all’antico gli valsero l’incarico di papa Eugenio IV di terminare gli affreschi iniziati da Gentile e incompiuti per via della morte del maestro. I disegni di Pisello dell’antico sono moltissimi, questi riprendono modelli dei sarcofagi e li accostano l’uno accanto all’altro per avere un repertorio di immagini. Vi sono appunti del sarcofago di Marte e Rea Silvia del II secolo d.C. a Palazzo Mattei e del sarcofago di Oreste coevo e conservato a Palazzo Giustiniani. Ciò che interessa non è la narrazione degli eventi dei sarcofagi o il loro significato, ma le immagini da aggiungere al proprio repertorio, così estrapola nudi in movimento. Quello che colpisce è la capacità di rendere figure del tutto diverse dalle sue. La sua arte però si estende fino alle medaglie. I primi esemplari furono quelli fatti coniare da Francesco II da Carrara nel 1390 a ricordo della conquista di Padova. Per citare un caso prendiamo quello della medaglia di Cecilia Gonzaga. Questa medaglia del 1447 mostra sul verso il gracile profilo femminile di Cecilia, che mostra influssi nordici, sul rovescio invece un nudo femminile è di ispirazione classica. Nelle opere di Pisello lo spazio corre in tutte le direzioni senza l’esistenza di un centro. Le Alpi erano una zona di contatto con le altre popolazioni, qui nacque una produzione caratteristica. In Piemonte il ducato di Amedeo VIII favorì una splendida fioritura artistica. Qui si formò Giacomo Jaquerio (1401-1453). Di questo artista riportiamo la Madonna in trono nel presbiterio della chiesa di Sant’Antonio a Ranverso, e Salita al calvario nello stesso luogo. Manca una composizione graziosa, le tinte sono forti e i contorni accentuati da una linea nera, la visione del reale è nordica e drammatica. La decorazione dell’Apocalisse. oggi all’Escorial, condotta da Jean Bapteur e Peronet Lamy è una fusione di temi franchi e borgognoni, già si respirano echi fiamminghi e l’impronta di Jaquerin è fortissima. Altro pittore importante è il Maestro Venceslao che dipinse con i Mesi una sala della torre dell’aquila nel castello di Trento. Siamo alla fine del XIV secolo. L’attenzione ai temi naturalistici e cortesi è forte. La zona umbra e marchigiana è vicina al tardo gotico e sforna opere all’avanguardia. Gli scambi con l’area veneta sono forti, un esempio è il trittico col Matrimonio mistico di Santa Caterina del 1400 opera di Lorenzo Salimbeni. San Severino sotto la famiglia Smeducci raggiunse un certo prestigio. Qui la tradizione franca, lombarda e boema viene assorbita in un’unica opera, i panneggi sono vorticosi e gotici, le figure allungate. La narrazione è vivace. Più vicine alle esperienze di Gentile fu Ottavio Nelli (1370-1444). A Firenze il Quattrocento porta un rinnovamento artistico che in qualche modo bilancia l’instabilità politica. Nel 1406 Firenze sottomette Pisa poi Cortona e infine Livorno. Qui si assiste ad un rifiuto dei modelli cortesi e ad un avvicinamento alla tradizione romana che riguarda anche le origini cesariane della città di Firenze. Troviamo queste correnti anche nell’arte e risalgono a questo periodo la Loggia della Signoria e le riprese giottesche. Andando avanti però le committenze spingono per uno stile più internazionale che o accoglie le novità esterne o riprende le tendenze classiche. Questa tendenza classica è ben visibile nei lavori alla Porta della Mandorla del 1391 che dureranno fino al 1427. Fondamentali sono due personaggi Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. I due si sfideranno nel concorso del 1401 dalla corporazione dei drappieri che deciderà chi avrà il lavoro della Porta Nord del Battistero. All’interno di un quadrilobo bisognava raffigurare il Sacrificio di Isacco. La formella di Ghiberti sintetizza il classico ellenistico con i motivi gotici. La scena è costruita su più piani e il distacco dal fondo non è netto ma graduale, da qui partirà Donatello per il suo “stiacciato”. Brunelleschi riprende invece uno stacco espressivo tipico di Giovanni Pisano, arricchendolo con un naturalismo nordico e con citazioni antiche come quelle dello spinaro, statua del II secolo a.C. La vittoria di Ghiberti significa un’apertura di Firenze al gotico internazionale. Sintomo di questa apertura è anche la pitura di Gherardo Starnina che, dopo un soggiorno in Spagna a Valenza, torna a Firenze nel 1401. I suoi affreschi ora perduti nella Cappella di San Gerolamo nella Chiesa del Carmine influenzarono la pittura fiorentina con i loro abiti sfarzosi e con i gesti decisi. La vicinanza del gotico internazionale è ben visibile nella statua di San Giovanni Battista di Ghiberti, eseguita per Orsasanmichele. Altro grande esponente di questo rinnovamento è Lorenzo Monaco (1370-1424). Le sue figure si allungano e sono rinchiuse in contorni taglienti ma ritmici. Le tinte sono cangianti. Le sue proprioni allungate, le linee sdruccioli, i gesti accennati e i colori innaturali, creano un distacco dalla realtà perfetto per le opere sacre. Dopo un alunnato da Starnina, matura Masolino da Pinacale (1383-1440). Il suo stile è indipendente, si guardi alla Madonna oggi a Palazzo Vecchio del 1423, dove le forme allungate sono coadiuvate da una certa plasticità, le armonie cromatiche sono ben visibili. Le influenze sono quelle di Gentile che lavorò alla Adorazione dei Magi per Palla Strozzi, opera che fu considerata il vertice della pittura moderna di quei tempi. Gentile fu attento alle novità di Brunelleschi, nel 1425 lavora al Polittico Quaratesi, popolato di figure monumentali e pacate. Il disegno è più sobrio, egli ha ricevuto la lezione di Ghiberti e Masolino. Il suo punto di arrivo sono la Madonna di Orvieto, dove le eleganze decorative sono ridotte al minimo e solidi corpi sono sotto le vesti. I volti sono umanissimi. SCHEDA I: IL DUOMO DI MILANO Prima del Duomo vi era Santa Maria Maggiore che con gli annessi edifici di Santa Tecla e di San Giovanni in Fonte costituiva il cuore religioso di Milano. Dopo il crollo del campanile di Santa Maria Maggiore l’arcivescovo Antonio da Saluzzo promosse la costruzione di una nuova cattedrale. Dai resti emersi dalla sacrestia pare che l’edificio iniziato nel 1386 fosse in mattoni. Successivamente Gian Galeazzo Visconti impose l’adozione di marmo di Candoglia e delle forme gotico internazionali. La cattedrale doveva essere il simbolo di una città a passo con i tempi. Furono chiamati così architetti d’oltralpe come Jean Mignon e Jacques Coene, i quali però durano poco in quanto entrano in contrasto con le maestranze lombarde. La pianta è a croce latina, con il piedicroce diviso in 5 navate e il transetto in 3. Il deambulatorio e l’abside sono poligonali. All’incrocio dei bracci troviamo il tiburio. Le finestre sono piccole e la luce è tenue e diffusa all’interno della costruzione. Il duomo non è slanciato verso l’altro, fatta eccezione per l’abside la struttura muraria conserva il ruolo di limite. L’elemento lombardo è visibile nella quantità di statue che adorna l’edificio. Le sculture dei capitelli furono opera di Giovannino de’Grassi. Le statue dei santi sono inquadrate da delle ghimberghe. La grande quantità di statue portò artisti da tutta Europa. Le vetrate antiche sono oggi in gran parte distrutte, resistono solo pochi anelli, altre vetrate della metà del Quattrocento di Vincenzo Foppa e Cristoforo de’Mottis sopravvivono. Malgrado la maggior parte dei lavori fu terminata nel Quattrocento, le guglie e altri elementi sono frutto della Controriforma. La piazza che vediamo oggi prima non esisteva e tra le vie medievali spiccava la maestosa cattedrale, inoltre la facciata è frutto di un lavoro del Novecento che ha trovato un compromesso non potendo finire il progetto gotico di Giuseppe Bretano del 1886. SCHEDA II: SAN PETRONIO E LA CULTURA EMILIANA Dopo i travagliati anni del Trecento, Bologna rimane per tutto il XIV e XV secolo estranea ai mutamenti artistici esterni e si concentra nella costruzione di San Petronio. Il Consiglio della città commissiona la costruzione di questa chiesa che doveva essere il simbolo della vittoria della borghesia sulla classe aristocratica. I lavori furono affidati ad Antonio di Vincenzo. I lavori furono lunghissimi e dalla fine del Trecento durarono fino al XVIII secolo. L’edifico che oggi si osserva non segue il piano originale, fuori il rivestimento esterno non risponde al progetto iniziale, inoltre era previsto un lungo transetto. All’interno vige una forte rigorosa organizzazione geometrica. La luce proviene dalle finestre del cleristorio, e creano una luce diffusa che si abbina con lo slancio verticale della costruzione, le campate inoltre sono sei. L’interno è molto razionalizzato e semplice, le tre navate sono separate da enormi pilastri. Le statue che si vedono su alcuni finestrini dimostrano influssi lombardi. All’interno della costruzione si trovano gli affreschi di Giovanni da Modena, unico pittore aggiornato che supera la forte tradizione locale. Il suo ciclo di affreschi con Scene della vita di San Petronio del 1412 nella Cappella Bolognini è la prova del suo umanesimo gotico. La narrazione è semplice, i colori squillanti e le emozioni forti. SCHEDA III: RESISTENZE E AGGIORNAMENTI IN SICILIA La vicenda artistica della Sicilia è legata alle novità napoletane. Prima dell’alleanza aragonese la famiglia siciliana dei Chiaromonte aveva ottimi rapporti con quella napoletana dei Durazzeschi. Nella Sicilia troviamo quindi influenze senesi, gotiche che, in mancanza di centri di committente di una certa rilevanza, assumono toni dialettali legati alla tradizione che accentuano la preziosità gotica e la ieraticità bizantina. Cambia tutto quando l’isola passa nelle mani di Ferdinando di Castiglia che fece della Sicilia la base per la conquista di Napoli. La committente reale porta alla creazione di opere nuove e aggiornate, si spiega così in Palazzo Sclafani l’affresco del Trionfo della morte del 1446. In un giardino lussureggiante entra a cavallo la morte, munita di arco e frecce che si fa strada tra i cadaveri e i morituri. La crudezza della rappresentazione, accentuata nella figura della morte che è un corpo scarno semi putrefatto, troviamo l’influenza nordica. Si è fatto il nome dell’artista Gaspare Pesaro, che si sarebbe formato a Napoli. La perdita di autonomia politica fa perdere alla Sicilia anche la sua autonomia artistica. Le influenze in architettura sono prevalentemente catalane e pseudorinascimentali, tuttavia non si hanno grosse novità e si assiste ad una ripetizione del proprio repertorio. Battistero e il Palazzo della Signoria. Il suo metodo fa partire tutte le rette della costruzione da un punto detto di fuga. Le sue scoperte nel campo della prospettiva erano piuttosto rudimentali e non richiedevano chissà quali stratagemmi geometrici, questo ne facilitò la diffusione. Il punto di vista centrale è comodo per la razionalizzazione degli spazi e per la composizione. LA SVOLTA INNOVATIVA Brunelleschi e Donatello riuscirono a trovare uno stile che sintetizzasse le forme espressive e gli ideali umanistici. Brunelleschi fu una guida per il giovane Donatello, i due si recarono insieme a Roma per studiare l’antico. Pur con le loro differenze, i due rappresentano bene il clima che si respirava a Firenze. Le loro differenze son ben visibili nel modo in cui hanno rappresentato il tema classico del Crocifisso. Vasari racconta che Brunelleschi criticò il Crocifisso di Donatello, in quanto ad egli sembrò di aver crocifisso un contadino e non un corpo perfetto come quello di Gesù Cristo. Il Crocefisso di Brunelleschi è infatti meno realistico e più idealizzato, egli ha cancellato il dolore dalla sua raffigurazione. La figura di Brunelleschi compie una piccola rotazione verso sinistra, questo crea un effetto semicircolare e da una concezione dello spazio. E’ una rielaborazione del crocefisso di Santa Maria Novella di Giotto. Donatello si allontana dall’ellenismo di Ghiberti, che aveva rappresentato un Crocefisso sulla Porta Nord del Battistero, e dal rigore matematico di Brunelleschi. L’espressione facciale che Donatello fornisce al suo Cristo è di intensa agonia. Il linguaggio umanistico fu avvertito in anticipo in quelli che erano i due maggiori cantieri del tempo Orsasanmichele e Santa Maria del Fiore (Porta dei Canonici e Porta della Mandorla). Qui la ritmica gotica si unisce al linguaggio moderno del Ghiberti. Qui Donatello e un altro grande artisti, coetaneo quasi di Donatello, Nanni di Banco, portarono le loro novità. Nanni di Banco nacque nel 1390 e morì nel 1421, lavorò quasi sempre a fianco di Donatello e fu anch’egli amico di Brunelleschi. Si possono mettere a confronto il San Giovanni di Donatello e il San Luca di Nanni Bianco. Le due opere sono del 1412 circa e furono fatte per la facciata di Santa Maria del Fiore. Coerentemente alla maniera tardogotica, le due sculture hanno una maggiore fisicità e una plastica e posa più libera. Nanni è più classico, la sua scultura segue l’andamento della nicchia. Il San Giovanni di Donatello è invece leggermente ruotato, il chiaro scuro del panneggio è spezzato e più forte, il volto è corrucciato e molto umano. Tali differenze le ritroviamo in un altro cantiere che è il già citato di Orsasanmichele. Il gruppo dei SS. Quattro Coronati di Nanni del 1411 ca, riprende la lezione dell’antico, in particolare quella dei ritratti imperiali. Le figure si dispongono lungo la nicchia circolare e ne accentuano la forma. I gesti sono solenni e statici. La vitalità è forte ma trattenuta in una delle più celebri sculture di Donatello, il San Giorgio oggi al Museo del Bargello. Vasari descrive l’opera in una maniera veramente sublime, e dice: “All’arte dei Corazzai fece una figura di San Giorgio armato, vivissima. Nella testa della quale si conosce la bellezza, nella gioventù l’animo ed il valore nelle armi, una vivacità fieramente terribile, ed un meraviglioso gesto di muoversi entro quel sasso”. Il movimento è dato dalla apertura a compasso delle gambe, l’asse di rotazione è lo scudo crociato. Il collo e la testa, in rotazione verso la parte opposta del corpo, collaborano all’effetto vitale. Anche il rilievo San Giorgio che libera la principessa ribadisce questa attenzione per il dramma. Qui egli riprende lo “stiacciato” cioè un rilievo bassissimo che attraverso la variazione di pochi millimetri di spessore rende lo spazio. Il punto di fuga unico mette in risalto il gruppo al centro. Gli anni successivi furono per Donatello molto proficui. Egli collaborò con Michelozzo ed adoperò diverse tecniche. Nel San Rossore egli riesce a raggiungere un ritratto idealizzato. La lezione antica diventa forte negli ultimi due santi scolpiti per il campanile di Giotto tra il 1425 e il 1436, Geremia e Abacuc. Punto di svolta e d’arrivo è nella Cantoria del Duomo fiorentino, qui egli trova un nuovo modo di interpretare lo spazio e la figurazione. Commissionata a Donatello nel 1433 dagli Operai di Santa Maria del Fiore. Ne fu affidata un’altra a Luca della Robbia. Luca riporta punto per punto il salmo 150 e ne riporta il testo nelle cornici. La cantoria di Luca è divisa in due ordini, sopra quattro riquadri divisi da una coppia di lesene. Sotto quattro riquadri. La cantoria di Donatello è anch’essa divisa in due ordini, ma quello di sopra riprende il monumento funebre del cardinal de Braye di Arnolfo di Cambio, dove un colonnato ripara delle figure danzanti. La lezione antica è evidente. Nell’anno 1430 Donatello era tornato a Roma. Qui aveva studiato anche i mosaici e l’arte romanica. Le paste vitree sul fondo accentuano la profondità e in qualche modo le rette diagonali delle figure. Il salmo pare sia il 148 o 149 dove la danza diventa un’espressione di gioia spirituale. Nel 1443 sarà chiamato a Padova. BRUNELLESCHI Brunelleschi dopo un primo inizio da scultore si inizia ad interessare di architettura, e in questo suo interesse saranno fondamentali i soggiorni romani, dove ha modo di vedere l’antico, e i primi incarichi di ingegneria militare assolti per la Repubblica fiorentina, come Staggia e Vicopisano. La sua opera più grandiosa sarà la cupola di Santa Maria del Fiore. Le sue costruzioni sono caratterizzate da una forte semplicità e rigore geometrico, ogni elemento è bilanciato, la luce studiata, tutto e regola tutto è geometria. A metà del Trecento la costruzione del duomo era giunta al tamburo ottagonale della gigantesca cupola. Nel 1418 fu bandito il concorso per la costruzione della cupola. La cupola fu assegnata a Brunelleschi e i lavori iniziarono il primo Agosto del 1420. Il problema era la costruzione di una cupola simile con i mezzi tradizionali L’enorme diametro interno di 40 metri richiedeva immensi ponteggi e centine. Bisognava poi trovare una cupola che andasse d’accordo con la costruzione preesistente. La cupola doveva imporsi sullo spazio urbano, doveva essere come diceva Brunelleschi: “Più magnifica e gonfiante”. Con Brunelleschi cambia la figura dell’architetto che diventa un teorico della costruzione, che risolve i problemi progettuali e pratici, si stacca dall’arte meccanica. Egli elabora una doppia cupola, una interna più robusta e piccola che regge quella esterna più pesante. Otto costoloni mantengono intatta la struttura che si avvale anche di una muratura in mattoni fatta a spina di pesce. La lanterna, concepita fin dall’inizio fu costruita solo nel 1436 aiuta con il suo peso le spinte orizzontali dei costoloni. La cupola è semplice e focalizza l’attenzione distogliendo dalle cappelle del capocroce. Fuori i costoloni sono ricoperti con marmo e si ricollegano ai pilastrini della lanterna. Altro cantiere dove troviamo Brunelleschi è la Chiesa di Santo Spirito. Nonostante la costruzione sia diversa dal progetto brunelleschiano, essa rappresenta uno degli ultimi due suoi lavori. L’articolazione degli spazi è più complessa, più monumentale. Si riprende una caratteristica delle cattedrali di Pisa e Siena, ovvero il colonnato continuo che abbraccia anche il transetto, e del Duomo di Orvieto con le cappelle estradossate. All’interno troviamo diverse cromie dei materiali. Sue anche San Lorenzo e L’Ospedale degli Innocenti. MASACCIO Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai detto Masaccio è uno dei padri del Rinascimento italiano. La sua attività ci è nota dal 1422, anno in cui terminò la sua prima opera, al 1428 anno della sua morte a Roma. Nacque nel 1401 a San Giovanni Valdarno. Lo si è tradizionalmente ritenuto allievo di Masolino, suo conterraneo. Questa ipotesi oggi sembra dubbia, Masolino sembra aver ricevuto influssi da Ghiberti, Starnina e Gentile, si guardi alla sua Madonna con bambino del 1423 a Brema. Masaccio nel Politicco di San Giovenale del 1422, dimostra di aver recepito altri modelli. Egli arrivò a Firenze già nel 1417 dove conobbe Donatello e Brunelleschi che gli fornirono spunti sulla resa spaziale e sulla plasticità dei corpi. Il fatto che Masaccio guardi anche a Giotto è indiscutibile, egli ne assorbe la tempra morale dei personaggi e la volumetria dei corpi. Masolino da Pinacale e Masaccio lavoreranno fianco a fianco nella tavola di Sant’Anna Metterenza del 1424 conservata agli Uffizi. La Vergine, il Bambino e l’angelo in alto a destra vengono dipinti da Masaccio. I volti di Masaccio sono più umani e meno idealizzati di quelli di Masolino. L’arte di Masaccio è però meglio visibile in opere come il Polittico di Pisa del 1426 e gli affreschi della Cappella Brancacci. I restauri di fine anni Ottanta del secolo scorso ne facilitano la lettura. La cappella Brancacci fu fondata da Pietro Brancacci nella Chiesa di Santa Maria del Carmine. Felice Brancacci commissionò gli affreschi a Masolino e a Masaccio. Sulla volta si trovano gli Evangelisti mentre le pareti riportano le Storie di San Pietro. Nel 1427 Masolino ottenne una commissione in Ungheria e lasciò a Masaccio il completamento dell’opera. Nel 1428 Masaccio si recò a Roma e i Brancacci furono esiliati per via del regime Mediceo. La cappella sarà terminata solo da Filippo Lippi. La situazione era però cambiata, i Frati Carmelitiani vi fecero trasportare la Madonna del Popolo, e distrussero sulla parete di fondo il riquadro con il martirio di San Pietro. Nel 1746 fu poi alzata la volta, distruggendo le lunette e gli affreschi che furono sostituiti da nuovi. Un incendio collaborò poi a rovinare ancor di più gli affreschi. Grazie al ritrovamento delle sinopie degli affreschi collocati nelle semilunette ai lati della finestra, dovute a due mani diverse, è possibile dire che Masaccio vi fu dall’inizio dei lavori. Pare che i due pittori si alternassero al lavoro delle pareti cosicché non vi fossero squilibri dovuti alle diverse mani. I singoli episodi sono tutti separati, l’adozione dei colori è sempre la stessa, il punto di vista è quello di un ipotetico spettatore fermo nel centro della sala. Si confrontino il Peccato Originale di Masolino e la Cacciata dei Progenitori di Masaccio. Le figure di Masolino sono ottime per l’anatomia dei corpi inoltre hanno una consistenza morbida. Non occupano uno spazio preciso e la fonte di luce non è definita, ma gioca sul riscatto del chiaroscuro. Quello che manca è la psicologia dei personaggi, i gesti a vuoto non rendono lo stato d’animo. La coppia di Masaccio poggia sul terreno nudo, le ombre lunghe di una fonte di luce a destra sono bel visibili e accentuano il movimento. I gesti sono contenuti ma carichi di espressività. Il modello per Eva potrebbe essere stata una Venere pudica, si pensi alla Venere Medici, o alla temperanza del pulpito del Duomo di Pisa opera di Giovanni Pisano. La vergogna di Adamo con le mani sul volto, e l’addome contratto che accentua il pianto. Le differenze sono ancora meglio visibili nelle storie della Resurrezione di Tabita e la guarigione dell’infermo e il Tributo. Il linguaggio di Masolino è rinascimentale per gli inserti classicheggianti ma dispersivo in quanto gli espisodi sono divisi. Masaccio riunisce i tre momenti del tributo facendoli ruotare intorno a Cristo. Le rappresentazioni del sacro sono inserite in ambito moderno e in scenari urbani che ricordano Firenze. I poveri nell’affresco di San Pietro che risana gli infermi con la sua ombra, sono realistici e non privi di una certa tragicità. La figura di Pietro è quella della chiesa, Firenze si stava avvicinando al papa in quel periodo. L’opera forse più conosciuta di Masaccio è la Trinità di Santa Maria Novella del 1426. In quest’opera l’architettura è di influsso brunelleschiano tanto che potrebbe essere stato Brunelleschi stesso a disegnarla. La volta a botte impressionò moltissimo i contemporanei e anche Vasari un secolo dopo. Il punto di vista coincide con quello dello spettatore è de quindi molto basso. La chiave di volta della costruzione è il Crocefisso. Solo il Padre è immune alla prospettiva, fuori dalla realtà fenomenica umana. Le innovazioni che questi innovatori portarono furono molto incisive sugli artisti successivi, tuttavia le committenze contemporanee affidarono compiti a botteghe meno aggiornate, Michelozzo, allievo di Ghiberti e collaboratore di Donatello, sarà il portavoce di un linguaggio gotico fiorentino. In pittura le innovazioni di Masaccio saranno apprese da Fra Giovanni da Fiesole ovvero Beato Angelico (1395-1455). Le sue opere sono caratterizzate da una impostazione puramente geometrica, con colori luminosissimi e accesi. Questi elementi sono ben visibili nel Trittico di San Pietro Martire databile intorno al 1425. La Vergine è chiusa in un manto animato da pieghe, in uno spazio definito dal tappeto in prospettiva, intorno quattro santi. Un’altra opera che rappresenta bene il lavoro del pittore è L’Annunciazione, ora al Prado, posteriore all’esperienza Brancacci. Il chiaroscuro si trasforma in CAPITOLO III IL QUATTROCENTO FIAMMINGO La scoperta del reale attuata da Masaccio a Firenze ha un parallelo nelle Fiandre. I paesi fiamminghi che oltre alla propriamente detta Fiandra comprendono anche Artois, Brabante, Limbourg, Olanda e Zelanda insieme a Hainau, godono di una prosperità economica. Filippo II l’Ardito e Filippo il Buono riescono a tenere bilanciato il potere centrale e le tradizioni locali. Inoltre la posizione geografica consente a queste terre di immettersi nei mercati del Nord. Il nascere delle banche comporta alla nascita di una società agiata, interessata alle arti figurative, tanto che per la prima volta una commissione borghese eguaglierà quella nobile. Dal 1419 la corte è Bruxelles, decisione di Filippo il Buono. La fondazione dell’università di Lovanio nel 1426. In questo contesto si inserisce l’attività di Jan van Eyck. La società fiamminga e quella fiorentina sono simili e hanno al contempo differenze profonde come per esempio la sensibilità religiosa. Un rapporto più personale con il sacro porta alla diffusione di libri, preghiere, immagini devozioni. JAN VAN EYCK Il Masaccio delle Fiandre è Jan van Eyck (1390-1441). Anche qui il linguaggio tardogotico era il preferito dei committenti. Architettura e scultura si mantenne a lungo nel solco della tradizione internazionale, come dimostra la chiesa di Saint Pierre a Lovanio che risale al 1425-75. Come accadde con Masaccio, la pittura è all’avanguardia, il rinnovamento artistico passa proprio da qui, tuttavia non abbandonerà mai gli influssi tardogotici. Van Eyck lavora nella tradizione, tuttavia il mondo critico non è lo stesso di quello fiorentino e non ne intuisce la grandezza. Il legame con il mondo gotico si capisce dal fatto che le sue prime opere siano miniature, mi riferisco alle Ore di Torino, eseguite a l’Aja per Giovanni di Baviera nel 1422. In quest’opera troviamo già una spiccata attenzione alla natura, che già trovavamo nelle opere di Broederlan o dei Limbourg (Jan probabilmente si formò presso la loro bottega). Se però confrontiamo il Mese di Giugno dei Limbourg con la Nascita del Battista di Eyck, ci rendiamo conto che nella prima, nonostante l’attenzione ai particolari come gli alberi e le vesti, le figure restano staccate dal paesaggio, questo rimane un gradevole sfondo dove le figure ricordano una favola e sembrano danzare. Le figure di Eyck, sono meglio integrate nello spazio, nel paesaggio. La luce unifica lo spazio. La stanza di Santa Elisabetta è ricca di particolari, sotto il sottile riflesso della luce sulle fronde degli alberi. Sia Masaccio che Jan van Eyck si pongono il problema della realtà, trovano però soluzioni diverse. Van Eyck coglie l’insieme, la visione prospettica è razionale e unitaria. Eyck invece immette nella raffigurazione tutti i particolari, questo forse proviene dalla filosofia nominalistica, secondo la quale la realtà proviene a noi attraverso i singoli oggetti percepiti. Masaccio utilizza il chiaroscuro, servendosi di una stesura compendierai; Eyck usa la tecnica ad olio e opera attraverso successive velature di colore e di luce. La definizione dello spazio è forse la differenza principale tra la scuola italiana e quella fiamminga. Se osserviamo la celebre opera Ritratto dei Coniugi Arnolfini, del 1434, un olio su tavola conservato alla National Gallery di Londra e la paragoniamo con la predella della Pala di San Marco con la Guarigione del diacono Giustiniano, opera di Beato Angelico del 1438, una tempera su tavola conservata a Firenze nel Museo San Marco, vediamo come i problemi della luce siano affrontati in modo diverso. Nell’opera di Angelico vi è un solo punto di fuga, mentre in Eyck ne abbiamo ben quattro. L’opera di Angelico è ordinata, meno dispersiva se vogliamo, un piccolo mondo chiaramente leggibile. Lo spettatore rimane esterna al quadro. L’opera di Eyck fu commissionata da Giovanni Arnolfini, un facoltoso mercante di Bruges, ritratto con la moglie nell’atto di pronunciare il voto nuziale. Eyck, come sottolinea la scritta Johannes de Eyck fuit hic, fu uno dei testimoni. La candela, il cane, tutto ha un valore simbolico che riporta la matrimonio. Nell’opera l’orizzonte alto include l’osservatore nella scena. Lo spazio si allarga grazie allo specchio, la finestra sfonda l’effetto di ambiente chiuso, ogni materiale riflette i raggi a modo suo. Per i fiamminghi l’uomo non è che un punto in un mondo infinitamente vasto, ogni oggetto ha quindi un suo valore specifico. Le atmosfere sono dense di particolari, di sfondamenti spaziali, di statue quasi vive e di uomini immobili. Stupenda la Madonna del Canonico van der Paele, 1434 olio su tavola, Bruges, Museo di Belle Arti. IL MAESTRO DI FLAMELLE E ROGIER VAN DER WEYDEN Alla stessa generazione di Jan van Eyck appartiene anche il Maestro di Flamélle (1375-1444). Da identificarsi con Robert Campin. La sua Annunciazione del trittico di Mérode, mostra delle differenze da Eyck e lo rende un altro punto cardinale del Quattrocento fiammingo. L’avvenimento accade in un giorno normale in un normale interno borghese. Le espressioni di Campin sono più realistiche e meno ieratiche, lo spazio si apre su una veduta urbana. Il plasticammo delle figure e la loro monumentalità le avvicina alle sculture borgognone. La luce sulle figure è netta e tagliente. Le ombre forti e nette isolano gli oggetti e le figure. Più giovane e debitore dei due maestri è Rogier van der Weyden (1400-1464). Probabilmente fu allievo di Campin, e accentua l’umanità dei personaggi. Le sue figure sono legate da gesti e sguardi, le figure umane non sono sullo stesso piano degli oggetti. I paesaggi spariscono, i sentimenti dell’uomo sono in prima vista, tuttavia le figure sono sempre molto composte. Vediamo la sua Deposizione, un olio su tavola del 1435, conservato al Museo del Prado. Le figure sono inserite in uno spazio esiguo, tutto è incentrato sulla simmetria delle figure. La Madonna partecipa al dolore del Figlio e ne riprende la posa. Siamo in un periodo dove si diffondono testi come L’Imitazione di Cristo, che propone una religiosità più sentita. Da Eyck riprende la resa materica, basti vedere la veste di San Giuseppe d’Arimatea. ITALIANI E FIAMMINGHI In occasione del Giubileo del 1449 van der Weyden compì un viaggio in Italia e fu colpito dagli affreschi di Pisello e Gentile nella Basilica Laternanense. Anche la sua opera colpì favorevolmente a Napoli, Mantova e Milano. Già con gli Arnolfini abbiamo visto che l’arte fiamminga aveva in Italia degli estimatori, che facevano degli intermediari tra Fiandre e Italia. In Italia però esiste una teoria artistica, infatti Bartolomeo Facio, umanista al servizio di Alfonso d’Aragona, fa degli acuti giudizi di Eyck e Rogier, affiancandoli a Gentile e Pisello. A Eyck loda il modo di realizzare gli oggetti nella luce, a Rogier la carica emotiva. Giovanni Bellini, Piero della Francesca e Antonello da Messina resteranno colpiti da quest’arte. FIAMMINGHI E ITALIANI Per i fiamminghi è più complicato assimilare le opere Rinascimentali. Mentre la pittura italiana poteva benissimo assumere la prospettiva nordica senza scompaginare l’insieme delle opere. Rogier filtra nella sua Deposizione del 1450, olio su tavola oggi agli Uffizi e una volta destinata a Ferrara, la Deposizione di Beato Angelico del 1438 oggi a Monaco all Alte Pinakothek. La citazione è letterale, tuttavia la scena si intensifica di figure e di particolari, solo con il Rinascimento maturo i fiamminghi prenderanno elementi dell’arte italiana. SCHEDA VII: LA PITTURA A OLIO La pittura ad olio era conosciuta fin dall’antichità, essa è citata da Teofilo nel XII secolo e da Cennini nel XIV. Nel Quattrocento assume però una maggiore diffusione. La tavola era preparata con gesso e colla, su questa preparazione bianca si poteva stendere una tinta neutra. Si procedeva con la stesura dei colori che erano ricavati da terre, animali e vegetali. L’olio era da legante e si utilizzava quello di noce o di papavero. Questo permetteva una tinta trasparente e diverse velature. SCHEDA VIII: IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO Nel polittico chiamata L’Adorazione dell’Agnello, una scritta sul retro riporta che la polittico fu iniziata da Hubert van Eyck fratello di Jan. Jan poi la terminò su incarico di Josse Vijd. Il polittico è un olio su tavola del 1432 a Gand Saint Bavon. Quest’opera pone il problema della distinzione tra le opere di Jan e quelle di Hubert. Si tratta di un insieme di 12 tavole dove 8 fungono da sportelli. Nel registro superiore Dio in trono con Battista e la Vergine ai lati del trono, sotto l’adorazione dell’agnello. come un prisma ottagonale dagli angoli rafforzati da contrafforti, chiusa da una cupola estradossata con otto nervature. I caratteri sono pre-rinascimentali. All'esterno sobrio si contrappone una forte policromi interna e una grande decorazione, sulle pareti troviamo gli affreschi di Leonardo da Besozzo (Storie della Vergine) e di Perinetto da Benevento (Storia di vita eremitica). Il monumento appare come una forte macchia marmorea SCHEDA IX: LA PORTA DEL PARADISO Ghiberti nella celebre sfida con Brunelleschi si aggiudicò la committenza per la Porta Nord del Battistero di Firenze, opera che ebbe molta risonanza. Ancora più risonanza la ebbe la Porta Est, che Michelangelo battezzò Porta del Paradiso. Il programma iconografico fu probabilmente affidato ad un intellettuale laico e l'immane lavoro fu diviso tra i collaboratori della bottega, come un cantiere medievale. L'Arte di Calimala prevedeva 28 formelle con programma deciso da Leonardo Bruni, con episodi dell'Antico Testamento. Quando la porta fu messa in loco, presentava solo cinque formelle per battente, con una cormice doppia. Le formelle mostrano scene della storia della salvezza con influssi della tradizione patristica greca e latina. Il mutamento del programma avvenne intorno al 1435 ovvero dopo il ritorno dall'esilio di Cosimo e programma di Ambrogio Traversari, generale dell'Ordine dei Calamesi, esperto di greco e amico di Cosimo. Nelle Storie di Giuseppe e L'Incontro tra Salomone e la Regina di Saba sono visibili dei riferimenti alla storia fiorentina. Giuseppe tradito dai fratelli e poi loro salvatore sono un riferimento a Cosimo che tradito dall'oligarchia torna per volere di Dio. Il secondo episodio auspica all'Unione della chiesa orientale e occidentale. I rappresentati delle due chiese si erano incontrati a Ferrara e suggellarono un trattato di unione nel 1439. Nelle Storie di Isacco vediamo un rilievo schiacciato con una forte impostazione prospettiva che passa su più piani, le figure sono delineate quasi a tutto tondo con una elegante linea gotica. SCHEDA X: LA COMMITTENZA DEL CARDINALE BRANDA A CASTIGLIONE OLONA Nato intorno al 1360 Branda Castiglione fu uno dei prelati più in vista e potenti, fu favorevole alla riunificazione delle due chiese. Fu un committente assai attivo, a Pavia promosse la costruzione di un collegio per studenti poveri, a Roma fu mecenate di Masolino e Masaccio ai quali commissionò gli affreschi per la Cappella di Santa Caterina in San Clemente. Nel 1422 si dedicò alla risistemazione del suo paese natale Castiglione Olona. Iniziarono i lavori di costruzione di edifici quali una chiesa dedicata al Corpus Domini, un palazzo di famiglia, la Collegiata con Battistero e una scuola. Vediamo la svolta rinascimentale nel loggiato ad archi, nella Chiesa Villa a forma cubica con due enormi santoni in facciata e delle lesene con trabeazione a gradini. Gli affreschi furono eseguiti da Masolino per quanto rigurda Le Storie di Maria, mentre le Storie dei Santi Lorenzo e Stefano sono opera del Vecchietta. CAPITOLO V ALLA META’ DEL SECOLO Intorno agli anni Quaranta la situazione italiana si placa con la Pace di Lodi 1454. L'Italia è spartita in cinque stati tra i quali si trovano principati minori. La situazione sociale è molto complicata, i ceti intellettuali sono incapaci di sostenere reali cambiamenti, questo distacco dalla politica fa sì che il potere passi nelle mani della signoria. La borghesia diventa più orgogliosa, meno sobria. L'arte figurativa risente di questa situazione politica così si rifà all'antico e a nostalgie letterarie. Gli scambi commerciali si intensificano e in più questo modo le varie scuole entrano in contatto fra loro. Nel 1443 Donatello viene chiamato a Padova, dando così inizio alla diffusione degli stilemi fiorentini. Negli stessi anni Niccolò V inizia a commissionare diverse opere che svegliano la città e la preparano ad essere il centro del XVI e XVII secolo. LA "CONGIUNTURA NORD/SUD" L'opera di Donato de' Bardi è qualitativamente altissima, un caso isolato in anticipo sui tempi. Nel Trittico con la Madonna dell'Umiltà, risalente al 1425 oggi conservata al Metropolitan, mostra si una dipendenza da Michelino, per esempio nella figura rattrappita di San Filippo, tuttavia il colorito e l'attenzione al dato naturale la avvicinano all'arte fiamminga. Si è pensato ad un suo viaggio in Francia, tuttavia bisogna anche considerare che la sua attività si svolse a Genova, città che fungeva da emporio per l'arte fiamminga, città che riceveva le opere fiamminghe inviate dai genovesi nelle Fiandre. Una delle ultime opere di Donato fu la Crocifissione del 1448, opera grande e su tela. Qui arte lombarda e luce fiamminga si incontrano. L'opera è simmetrica, la composizione chiara e leggibile, cosa che la distingue dall'arte fiamminga, tuttavia l'uso della luce e il paesaggio arioso sono nordici. Artista simile è Zanetto Bugatto, ritrattista alla corte degli Sforza e mandato nella bottega di Rogier van see Weyden per perfezionarsi. Altro anello di questa catena è Carlo Braccesco (notizie 1478-1501), di nascita milanese ma attivo in Liguria e conoscitore dell'arte fiamminga. Il suo stile è molto complesso, egli è vicino anche alla cultura mediterranea, il suo Trittico dell'Annunciazione, conservato al Louvre ne è una prova. Napoli subisce un'influenza franco-fiamminga in due momenti diversi, sotto Renato d'Angiò e dal 1444 Alfonso d'Aragona. Dal 1438 al 1442 risiedette a Napoli Renato d'Angiò, colto amante delle arti e pittore. Durante le sue prigionie nel Nord Europa aveva conosciuto Jan van Eyck, Souter e Campin. A Napoli introduce la cultura fiamminga attraverso la plasticità borgognona di Barthélemy d'Eyck ovvero il Maestro dell'Annunciazione di Aix. In quest'opera, oggi smembrata, vediamo caratteristiche fiamminghe come i libri e le loro ombre sopra i due profeti, come Geremia, e nell'Annunciazione una luce forte che unifica uno spazio complesso è ricco. Il più grande pittore napoletano del tempo fu Colantonio. Nei due pannelli principali della grande ancona per San Lorenzo Maggiore (La consegna della regola francescana e San Girolamo nello studio) vediamo il passaggio delle due culture. Nel Santo Girolamo una vicinanza maggiore all'arte fiamminga che si palesa nell'oggettistica dettagliata e nella resa del volume. Nella tavola con San Francesco l'attenzione all'arte fiamminga è ampliata, sebbene la mediazione sia spagnola. Nel 1444 Alfonso d'Aragona so era insediato sul trono di Napoli, obbligando la città ad avere legami con i possedimenti spagnoli. Questo accadde già al pittore spagnolo Luis Dalmau che fu mandato nelle Fiandre a Studiare e che al ritorno nel 1443 aveva realizzato la Madonna dei Consiglieri. Con l'inizio dei lavori di Castelnuovo giunsero a Napoli artisti come Guillen Sagrera. Egli lavorò alla volta della Sala dei Baroni dove annulla le possibilità di scultura a favore di nervature visibili. Colantonio recepisce la lezione e nel San Francesco di prima introduce ornati nelle aureole, pavimento a maioliche e un panneggio iberico dove ogni piega diventa quasi un solido. Altro artista è Jean Fouquet, nato a Tours intorno al 1420. Negli anni Quaranta Bouquet è a Roma, dove dipinge il ritratto di Eugenio IV. Il suo viaggio in Italia è fondamentale in quanto egli conosce Masaccio, Beato Angelico, Domenico Veneziano e Piero della Francesca. Questa conoscenza dell’arte italiana, lo porta a trattare gli effetti luminosi in una determinata maniera. Tuttavia egli non seppellisce sotto la lezione italiana l’arte francese, che invece emerge dalla composizione degli spazi e dalle figure ancora gotiche. Questo connubio di scuole lo vediamo nel dittico di Melun, del 1450 che si trova oggi a Chantilly. Le due parti sembrano sconnesse per via di una composizione prospettica diversa che però in realtà è legata da una rispondenza geometrica. Le linee di fuga delle architetture convergono sotto il mento della Vergine, stratagemma che focalizza l’attenzione sul soggetto principale. L’eleganza delle linee, il colorito che sembra quasi avorio, il trono così prezioso e luminoso sono componenti nordiche. La stilizzazione dei volumi grazie all’uso di una luce tersa è il lavoro di Enguerrand Quarton, pittore provenzale. Egli, nato nel 1410, conobbe le grandi personalità dell’arte fiamminga, e alla resa naturalistica luminosa di quest’arte legò l’eleganza internazionale. Essendosi trasferito ad Avignone egli ebbe modo di conoscere l’arte italiana, in opere come Incoronazione della Vergine, eseguita intorno al 1453, la composizione a fasce orizzontali è mediata dalla retta centrale Colomba, Vergine, Cristo. Nel cielo vi sono molte figure che però sono unificate dall’effetto della luce. Nella tavola raffigurante La Pietà d’Avignone, del 1455, troviamo una sintesi più scultore. Nell’aerea svizzera troviamo Konrad Witz (1400-1466). Una delle sue opere certe è L’Altare di Pietro. In quest’opera troviamo una sopravvivenza del modo nordico di rendere i dettagli e delle volumetrie borgognone. Pittore della zona tirolese è Michael Pacher (1430-1498) che riprende il modo nordico di Witz nell’Altare di Sankt Wolfgang. FIRENZE A Firenze il clima artistico inizia ad elaborare le innovazioni della generazione precedente. Cosimo de’Medici aveva gettato le basi per il potere assoluto. Il suo carattere lo poneva ad una sorta di vicinanza allo stoicismo storico, ad un rifiuto per l’ostentazione a ad una ricerca per il bene comune. Le committente pubbliche assumono un tono per così dire sobrio e pacato, come Palazzo Medici e il Convento di San Marco, le opere private invece hanno un gusto diverso. lo vediamo in David- Mercurio di Donatello, per il cortile del suo palazzo. Donatello in quest’opera si dimostra in tutto il suo genio. Una posa del corpo alla Prassitele, con un volto che è in ombra grazie al petaso dei pastori, il volto rielabora Antinoo. Sia che rappresenti il dio protettore dei commerci che l’eroe biblico. La posa asimmetrica, l’espressione compiaciuta quasi da monello e la decorazione dell’elmo con puttini, decorazione che forse proviene da un cammeo della raccolta medicea, rendono l’opera vivissima. Cosimo fondò l’Accademia Platonica che segna la nascita di un ambiente intellettuale di corte, il figlio Piero poi, inizia a collezionare oggetti antichi e preziosi, insieme ad arazzi. La borghesia dirigente, assume così un tono aristocratico. L’Adorazione dei Magi dipinta da Benozzo Gozzoli (1420-1497), mostra un corteo sfarzoso dove figurano i Medici e sostenitori. L’opera era destinata alla cappella di Palazzo Medici. Anche gli scultori si fanno portavoce di questa tendenza. Il principio teorizzato da Alberti di “copia et varietas” culmina con la Capella del cardinale di Portogallo, di Antonio Rossellino. Prima di parlare di quest’opera si può vedere il crescere e l’evolversi di alcuni stilemi. La tomba di Leonardo Bruni di Bernando Borsellino (1409-1464) la si può confrontare con quella di Carlo Marsuppini di Desiderio da Settignano (1430-1464). che ad essa si ispira. Nella prima che manifesta il ricordo dell’autore delle Historie fiorentine, si trovano diversi riferimenti all’arte classica come le aquile che sostengono la salma marmorea e le vittorie alate in basso rilievo che tengono l’iscrizione, quella di Desiderio dove essa si trova e non stona. Spesso le committente meno colte o luoghi più periferici, fuori dalle innovazioni, chiedono un aspetto che si rifaccia a modelli anche molto più antichi. Il Polittico della Misericordia ne è un chiaro esempio. Opera di Piero della Francesca, conservato a Sansepolcro, nella Pinacoteca comunale, è molto moderna, ma vediamo come ancora sussiste il fondo oro e la divisione in parti. Al Nord, dove persistono gli influssi gotici, la divisione in scomparti e l’arzigogolata architettura lignea persistono. Anche in Trentino dove l’arte dell’intaglio era un carattere tipico della cultura locale. Nel Cinquecento le architetture in questi luoghi assumono toni Rinascimentali, come quella complicata a immensa di Vincenzo Foppa e Ludovico Brea, Ancona di Nostra Signora di Castello 1490 Oratorio di Nostra Signora di Castello. SCHEDA XII: LA CAPPELLA DEL CARDINALE DI PORTOGALLO Una delle opere più significative del Quattrocento fu la Cappella del Cardinale di Portogallo Jacopo di Lusitania che si spense improvvisamente a Firenze nel 1458. I lavori per la cappella funebre iniziarono nel 1461 e finirono nel 1466. La cappella fu progettata da Antonio Manetti, è a croce greca con bracci poco profondi. L’intero spazio è decorato, dal pavimento alla cupola decorata da piastrelle policrome, sulle quali Luca della Robbia ha composto, con suo fratello Andrea, cinque tondi in terracotta con lo Spirito Santo e le quattro virtù cardinali. All’interno vi è l’Annunciazione di Alessio Baldovinetti. il punto centrale però è la tomba del cardinale. Qui sfruttando la scarsa profondità della volta a cassettoni, lo scultore Antonio Rossellino, ha creato una sorta di sipario, due angeli alati scostano un tendaggio. Sotto il corpo esanime del cardinale. Figure mitiche e cristiane campeggiano in un insieme molto elegante che però è uscito dal rigore quattrocentesco.La chiesa è quella di San Miniato al Monte. SCHEDA XIII: ALBERTI ARCHITETTO: LE OPERE PER RUCELLAI Leon Battista Alberti ai formulò una sua concezione dell’architettura che si basava sui suoi vari interessi e restauri. Tra le prime opere che egli eseguì vi sono quelle per Giovanni Rucellai Dal 1447 egli si dedicò della costruzione di Palazzo Rucellai e della Loggia. In seguito si dedicò al completamento della facciata di Santa Maria Novella e infine della Cappella del Santo Sepolcro nella Chiesa di San Pancrazio. Egli non fu proprio l’artefice, ma come un deus ex machina che regolava il progetto e faceva piccoli lavori. Nella facciata per il Palazzo di Rucellai egli risolve il problema creando una seria disposizione a due ordini con finestre a intervalli regolari. Nella facciata di Santa Maria Novella egli lavorò al primo ordine di arcatelle e, senza ricorrere ad un falso stile, inserisce in un contesto medievale un portale classicheggiante. Classicheggiante è anche il tempesto a San Pancrazio a Firenze. SCHEDA XIV: LA VILLA Nella Firenze medicea verso la metà del Quattrocento nasce un tipo edilizio destinato ad immensa fortuna: la villa. Per villa non si intende solo una residenza extraurbana, ma bensì una costruzione che metta in relazione uomo e natura. L’avvio di questa nuova “moda” è la ripresa dell’uomo che domina la natura, imprenditore agricolo, che viene dall’antico. Inoltre lo stabilizzarsi della situazione politica fa si che il contado sia più sicuro, cosa che rende inutili i castelli. Il protagonista della fase iniziale è Michelozzo che progetta per i Medici una serie di edifici. Trebbio 1427, Cafaggiolo 1451, Fiesole 1458 e Carreggi 1457. Si tratta di organismi quadrangolari compatti con poche aperture. La storia cambia con Lorenzo il Magnifico che affida la costruzione a Poggio a Caiano a Giuliano da San Gallo. Qui un ampio basamento ad arcat regge una terrazza continua. Il recupero delle architetture antiche come il frontone, il dialogo tra interno ed esterno, fanno di questa villa un ponte per il Cinquecento. CAPITOLO VI ARTISTI/ARTIGIANI Inizialmente la figura dell’artista coincide con quella dell’artigiano, solo nel Cinquecento alcune rivalse intellettuali renderanno l’artista un teorico delle forme, un ideatore, un intellettuale, diventando così un artefice intellettuale. Già nelle opere di Dante, Petrarca, Cennini e Boccaccio, si ha l’idea di un artista che sia anche un fine pensatore di forme, questa rivalutazione dell’artista interessa inizialmente più il pittore piuttosto che lo scultore o l’architetto, che invece per via della fatica fisica è visto di più come un artigiano. Cennini nel suo Libro dell’arte, afferma che bisogna mettere la pittura sullo stesso piano della poesia, qui si prefigura un’arte che sia fedele al reale e preziosa, un’arta fatta per “compiacere gli occhi dei savi e per dilettare gli occhi degli ignoranti”, come diceva Boccaccio. Il pittore possiede però in sé una capacità di mimesis e di creazione dell’immagine, questo fa si che a Firenze, specialmente con Alberti, il pittore sia visto come un fine letterato e uomo di cultura che sa creare da solo la la sua immagine e il suo racconto, un attività prima intellettuale e poi manuale. Questa dicotomia tra il pittore artista e l’artigiano porterà all’idiota divisione in arti maggiori e arti minori. Nel Quattrocento la base dell’attività di un pittore è la bottega. LA CIVILTÀ DELLE BOTTEGHE Nel Quattrocento gli artigiani che producono oggetti di ottima qualità iniziano a lavorare per le oligarchie cittadine, gioielli, mobili, ceramiche, iniziano ad essere simbolo del proprio status sociale. Accadeva che un bambino all’età di dieci anni venisse messo in bottega da un maestro. Questa esperienza del bottega faceva capo al maestro, che viveva, sostentava e istruiva i suoi allievi. In ogni città esistevano botteghe grandi e piccole. Le chompagnie erano collaborazioni tra più maestri. L’apprendista iniziava un tirocinio che lo portava a padroneggiare diverse tecniche che andavano dal lavorare il legno al lavoro dei marmi o delle cornici. Questo ci fa capire quanto sia sciocco parlare di arti maggiori e arti minori, il bagaglio culturale è lo stesso e il denominatore comune di queste pratiche è il disegno in cui l’apprendista si applicava durante tutto l’apprendistato. La preparazione teorica richiesta dall’Alberti aveva scarso spazio, la formazione dipendenza molto dall’abilità del singolo. Vi erano oggetti ricorrenti come deschi da parto, cassoni nuziali e oggetti che invece venivano esplicitamente richiesti. Il contratto fatto tra committente e maestro prevedeva la descrizione dell’oggetto, i tempi d’esecuzione e le modalità di pagamento. Per questo in un’opera bisogna sempre tenere a mente che essa è il prodotto anche di una committente. Il pagamento era fatto in base alla quantità di lavoro e ai materiali usati. Successivamente con la fine del secolo le indicazioni della committenza diventano meno vincolante, si ha più fiducia nell’artefice, il committente può tuttavia pretendere che le parti fondamentali siano fatte direttamente dal maestro oppure che vi compaiano degli animali, oggetti eccetera. SCHEDA XV: LA TARSIA LIGNEA Nella tarsia si manifesta concretamente la reciproca dipendenza tra elementi concettuali ed esperienza materiale. L’uso di decorazioni ad intarsio con materiali diversi dal legno come l’osso, l’avorio e la madreperla, esisteva già nel Trecento. Nella metà del Quattrocento la tecnica subisce un vero revival. Questi legni venivano disposti in base ad un cartone, in un periodo successivi andarono di moda i motivi geometrici e quelli prospettici, si chiamavano così i maestri di prospettiva che la Madonna del Parto, anch’esso un affresco a Monterchi, Cappella del Cimitero. La Madonna è priva di attributi divini o reali, esclusa la aureola. La sua posa con la mano che si tocca il ventre è umanissima, a sinistra e a destra due angeli speculari ottenuti con lo stesso cartone. La stessa sintesi tra naturalezza e rigore appare nella Flagellazione. La scena si divide tra uno spazio aperto uno spazio chiuso, che tra di loro condividono un rapporto aureo. Una luce forte e diffusa che rischiara le tinte che tra di loro sono accostate per contrasti o per similitudini, per esempio la chioma bionda del giovane scalzo contro il verde degli alberi. Diverse fonti di luce entrano nella stanza illuminando da diverse fonti. Si tratta di una tempera su tavola risalente al 1450-60 conservata alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. Nell’opera sono stati visti richiami a questioni teologiche contemporanee di Piero, purtroppo le giuste chiavi di lettura sono andate perdute e molti elementi ancora oggi ci sfuggono. Il documento più completo che ci resta della sua pittura è il ciclo con le Storie di Cristo eseguito nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo, tra il 1452 e il 1459, portando a compimento un lavoro che Bicci di Lorenzo aveva iniziato nelle volte. Il ciclo si divide in tre registri, qui non vi è un vero ordine cronologico, il ciclo è costruito in base ad un pensiero di simmetria, così ogni parete presenta una battaglia, una scena di corte e un episodio all’aperto. La fonte principale è la Leggenda Aurea. La scena con l’Incontro tra la regina di Saba e re Salomone conferisce nobiltà ad ogni gesto, tutto è composto con una forte simmetria che portò Piero ad usare lo stesso cartone degli uomini per fare le donne, capovolgendolo e ottenendo così un forte impatto simmetrico. La cappella fu commissionata dalla famiglia Bacci a Bicci di Lorenzo che però morì nel 1452. Vi lavorò poi Piero. Con la cappella davanti e partendo dalla parete di destra dall’alto vediamo: Morte di Adamo, la regina di Saba si inginocchia davanti alla croce e incontra Salomone, Vittoria di Costantino su Massenzio. Parete centrale da sinistra verso destra: Figure di profeti, Tortura dell’ebreo Giuda, Sollevamento del legno della croce, Annunciazione, Sogno di Costantino. Parete di sinistra: Ritrorno a Gerusalemme, Ritrovamento della vera Croce, Disfatta e decapitazione di Cosroe. L’importanza dei fiamminghi nella pittura più matura di Piero è magistrale, egli la conobbe certamente a Firenze e a Ferrara, inoltre nel viaggio a Roma del 1459 pare che egli abbia incontrato Antonello da Messina. La prima opera dove vediamo gli influssi dell’arte fiamminga è il dittico con i ritratti dei coniugi Battista Sforza e Federico da Montefeltro, opera del 1465 conservata agli Uffizi. Qui il paesaggio che si apre alle spalle dei due profili presenta una tipica pittura fiamminga, data dal fiume tortuoso popolato da imbarcazioni, una resa del dettaglio e i riflessi delle imbarcazioni. A questo forte elemento fiammingo si mescola una luce unificatrice che dalle spalle di Faederico illumina Battista. Il verso di tale dittico è decorato con scene allegoriche che sembrano trovarsi alla fine del fiume del lato con i coniugi. La simmetria di Piero e la sua attenzione ai volumi non cessa però di esistere e anzi, l’attenzione alle volumetrie esalta i profili. Nella più tarda Madonna di Senigallia, l’incontro tra poetica della luce e chiarezza compositiva risulta ancora più felice. La Madonna è in primo piano rappresentata da metà coscia in su, lo sguardo evita lo spettatore e il volto è illuminato da una finestra che noi non vediamo ma che si deve trovare a sinistra. Dietro compaiono due angeli, in braccio il Bambino con una collana di corallo e un garofano. Il panneggio delle figure e le tinte rispondono alla maniera di Beato e di Masaccio. La scena si svolge in un interno ispirato alla corte di Urbino, con delle cornici marmoree decorate. Tutto è fortemente geometrico. A sinistra una porta aperta lascia intravedere una stanza che è illuminata dalla luce radente di due finestre, soluzione tipicamente fiamminga. La tavola risale al 1470 conservata sempre ad Urbino. Una delle sue opere più celebri è la Sacra Conversazione, una pala dipinta nel 1472, nota anche come Pala di Brera, conservata a Milano e originariamente destinata alla chiesa urbinate di San Bernardino. L’opera fu commissionata per celebrare la nascita di Guidubaldo, figlio di Battista e Federico. L’impostazione prospettica è magistrale, le figure sono studiate nelle loro realzioni, ogni fiugra ha dietro uno specchio marmoreo. Tutta la scena è inquadrata in una architettura solenne con una conchiglia che ci riporta a Domenico Veneziano, un uovo di struzzo pende da essa, ha significati che portano alla generazione e alla redenzione. La pala fu decurtata, si tratta di una tempera su tavola, essa doveva avere un’architettura più ampia che cambiava tutti i rapporti che vediamo noi oggi con un forte influsso fiammingo, si calcola che l’uovo dovesse essere il centro di tale pala. Piero della Francesca morì nel 1492, il 10 Ottobre, data della scoperta della America, gli ultimi due anni li passò a scrivere due trattati di teoria. De Perspectiva Pingendi e De quinque corporibus regularibus. Le sue trattazioni teoriche e la sua arte lo resero un riferimento fisso anche nelle opere successive. Giovanni Santi (1435-1494) fu pittore, teorico e padre di Raffaello. Egli fu influenzato dalla pittura di Piero della Francesca, la Pala della Madonna col Bambino, santi e donatore, che egli dipinse per la cappella Oliva nel convento di Montefiorino prende a modello la Sacra conversazione. si ispira solo per quanto riguarda il modello competitivo visto che le relazioni tra spazi e personaggi non sono ascoltate. l’opera è una tavola conservata nel luogo di origine e risale al 1489. Un vero e proprio seguace di Piero lo troviamo in Bartolomeo della Gatta (1448-1502). egli ritrova lo spazio di Piero e il rigore geometrico, iniziando una pittura però più ricca e meno statica con tinte più sgargianti. Tale discorso lo vediamo in Assunzione della Vergine del 1470, conservata a Cortona nel Museo Diocesano, una tela del 1470. Una vera meraviglia. Egli non ebbe a sua volta veri continuatori delle sue ricerche. Se vogliamo trovare una schema sei riconoscimento della pittura di Urbino e dell’Italia centrale dobbiamo pensare al legame tra figure e paesaggio, ai ritmi competitivi, all’alternanza di pieni e di vuoti, alle scansioni geometriche e alla luce unificatrice. IL PALAZZO E LA CITTÀ Federico da Montefeltro fece costruire un immenso palazzo che cambiò l’aspetto della città. Ai primi del Cinquecento Baldassarre Castiglione disse che la città sembrava essere un immenso palazzo. Federico rese Urbino non solo una città da “principe” ma ne cambiò l’assettò urbano. Ancora verso la metà del Quattrocento la città era arroccata sulla saldatura di due colli. Una cita muraria irregolare ne seguiva il perimetro allungato, e la cittadina era costruita lungo un asse viario principale che puntava verso Rimini e il mare. Il palazzo che prima esisteva si trovava sull’orlo del dirupo verso Valbona. Nel 1445 Federico fece unire due palazzi più antichi con la costruzione di un Palazzetto della Jole. All’interno vi era un ciclo di affreschi di Giovanni Boccati, affreschi sul tema di Ercole e delle virtù belliche. Urbino doveva essere un porto tra Roma e L’Europa. Iniziarono poi i lavori che furono affidati a Luciano Laurana (1420-1479) e Francesco di Giorgio, alias di Francesco Martini (1439-1502). Il progetto diventò sempre più grande tanto da crescere su se stesso. Il palazzo inizia poi ad allungarsi verso la città, tanto da avvicinarsi al duomo e diventando così il fulcro della cittadina, tanto da sottomettere anche l’autorità religiosa. Il cuore è un porticato con colonne corinzie che sostengono un loggiato sopra le quali vi è un piano con finestre a intervalli regolari architravate. Francesco di Giorgio curò sopratutto gli interni, le stanze e il giardino pensile che si trova dietro la fronte del Torrocini, a strapiombo su Valbona. Vi è poi sotto i torrioni un mercato che lega la vita commerciale al palazzo ducale, da qui parte una rampa che agevola la vita ai carri e ai cavalli che arrivano comodamente alle stalle. Il palazzo ha sì una forma irregolare dovuta agli accidenti del terreno e alle costruzioni preesistenti, ma al contempo ha un equilibrio quasi irreale con la cittadina. Se l’arredo curatissimo è arrivato in minima parte lo Studiolo è ancora quasi integro. Il piccolo vano è un equilibrio tra spazi illusori e architettura reale. La parte inferiore delle pareti è ricoperta di tarsie lignee, sopra 28 ritratti di uomini illustri opera di Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Le tarsie lignee sono una autentica meraviglia opera di Baccio Pontelli (1450-1492), che grazie ad un sapiente uso della prospettiva riesce a dilatare con effetti illusionisti il piccolo spazio. Le decorazioni lignee riportavano riferimenti alle arti del Trivo e del Quadrivio, il ritratto del Duca poi lo vedeva come il protagonista delle virtù, anche esse inserite nelle tarsie. L’esperienza urbinate di Francesco di Giorgio (1439-1502) si manifesta di più in ambito architettonico. Come pittore egli rimane ancorato alla tradizione favolosa senese, lo vediamo nel Ratto di Europa del 1464 oggi al Louvre, come scultore lo vediamo vicino all’espressionismo donatelliano, si veda la Deposizione del 1474 a Venezia nella Chiesa di Santa Maria del Carmine. La Chiesa di San Bernardino mostra quanto l’esperienza ad Urbino gli sia rimasta dentro. La pianta a croce latina presenta un interno molto sobrio, con una volta a botte e una cupola. Due absidi nel coro. Dentro un’iscrizione in capitale romana corre su tutto il perimetro. La chiesa doveva accogliere la salma del Duca, i lavori sono del 1483. All’interno vi era la Sacra Conversazione di Piero della Francesca. FUORI DA URBINO Uno dei primi centri ad accogliere gli influssi di Urbino fu Perugia. Nella città era attivo dal 1438 anche Domenico Veneziano oltre a Beato Angelico. Sulla scia di queste grandi personalità, i pittori locali si erano avvicinati ad una pittura luminosa ed ornata, agevolata da approssimazioni prospettiche. L’Oratorio di San Bernardino eretto tra il 1457 e il 1461 da Agostino di Duccio (1418-1481) segna l’apice di questo gusto. La cultura perugina subisce una svolta fondamentale nella seconda metà del Quattrocento. Nella Cappella di Palazzo dei Priori Benedetto Bonfigli (1420-1496) crea una tempera su tavola, oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria, Assedio di Perugia. Qui vi era anche il Polittico di Sant’Agostino di Piero della Francesca. L’interazione di questi vari influssi si palesa nel complesso di otto tavolette, con i Miracoli di San Bernardino, terminate 1473 per l’Oratorio. Esse sono dovute a mani diverse unite sotto la guida del giovane Piero Vannucci detto il Perugino (1445-1523) pittore che si formò prima sotto Piero poi con Verrocchio. Il denominatore comune è la presenza importante di architetture che sono popolate da figurette. Le ombre attenuate, le tinte chiare e luminose derivano da Piero mentre le esuberanti decorazioni policrome che rivestono le architetture albertiane sono tipiche della cultura locale. In alcune tavolette è stata riconosciuta la mano di Perugino. Nella Guarigione della fanciulla del 1473 le figure sono solide e composte, disposte in maniera geometrica.Altra tavola è quella con Il Miracolo del bambino nato morto, 1473 dove l’impostazione richiama quella della Flagellazione di Piero. La svolta del Perugino la vediamo nella Adorazione dei Magi dove lo stile diventa più accattivante. Il clima di Urbino vero e proprio rimarrà chiuso nel Palazzo Ducale, le innovazioni di Piero della Francesca sono però un punto di svolta notevole. Il rapporto tra architettura dipinta e spazio reale avrà feconde interpretazioni. Questo è il caso di Melozzo da Forlì (1438-1494), nella sua prima formazione sarà fondamentale Andrea Mantegna del quale riprenderà la linea tagliente e incisiva, un’attenzione agli scorci e all’espressionismo. Quando egli soggiornò ad Urbino rimase colpito dalla monumentalità pierfrancescana e dalle atmosfere fiamminghe. Alcune delle sue maggiori realizzazioni fu l’Abside dei Santi Apostoli, le volte della cappella del Tesoro a Loreto e quella Feo in San Biagio a Forlì. Il suo stile sarà apprezzato dalla corte pontificia dove lavorerà dopo aver lasciato Urbino. I suoi angeli musicanti del 1478, oggi alla Pinacoteca Vaticana provengono dagli affreschi della chiesa dei Santi Apostoli a Roma. Sempre sotto il segno di Piero si colloca l’attività di Luca Signorelli (1445-1523). La sua pittura vede però come protagonista la figura umana che è reduce più della tradizione di Pollaiolo e della sua visione dinamica. L’incontro tra la monumentalità di Piero e dinamismo di Pollaiolo lo vediamo nella Flagellazione, opera del 1470, tavola oggi alla Pinacoteca di Brera. Qui vediamo come figure si alternano un maniera ritmica conservando la loro monumentalità in una alternanza di gesti. I corpi nudi degli aguzzini proiettano ombre che si diramano sullo spoglio pavimento bianco incrociandosi tra loro. Direttamente da Urbino lo sfondo con rilievi alla antica. CAPITOLO VIII L’ITALIA SETTENTRIONALE PADOVA Il 1443 è una data molto importante in quanto in quell’anno Donatello giuste a Padova. La ragione di questo soggiorno, che durò dieci anni, si deve al fatto che ad egli fu commissionato il monumento equestre al Gattamelata. Il clima fiorentino era mutato diventando sempre più ostile, qui Donatello ha l’occasione di promulgare le sue novità, la città infatti era il centro dell’antiquaria e della filologia, qui già nel Duecento era nato un pre-umanesimo di Lovati e Mussato. Nella città era presente uno Studio o Università, ricca di fermenti aristotelici e averroisti. La città aveva un gusto classico dei Carraresi in opposizione alla maniera greca della rivale Venezia. In esilio si recarono Cosimo il Vecchio e Palla Strozzi. Nella città vi era un manipolo di intellettuali ed eruditi: Ciriaco d’Ancona, che viaggiò lungo il Mediterraneo copiando monumenti, Felice Felciano, antiquario e amico di Mantegna, Giovanni Marcanova collezionista di epigrafi. l’opera di questi intellettuali condiziona l’arte di Bernardo Parentino (1437-1531). La presenza di Donatello a Padova è fondamentale per la vita artistica della città, egli infatti vi apre addirittura una bottega, più del Gattamelata, la vera opera che riscuote successo è l’altare di Sant’Antonio, frutto di una arbitraria ricomposizione di Camillo Boito nel 1895. L’altare doveva apparire come una Sacra Conversazione tridimensionale, oggi lo possiamo ricomporre solo in via ipotetica. Durante la risistemazione del presbiterio fu spostato di posizione e smembrato. Le predelle mostravano diverse scene in basso rilievo dove in scene come Il Miracolo del cuore dell’avaro, Donatello sceglie una ariosa architettura in prospettiva, popolata da una massa di figure, l’occhio dello spettatore tuttavia cade sempre sul fulcro dell’immagine. In un’altra predella con la Deposizione la linea dinamica e policroma si intrecciano. Qui la scultura sempre razionalissima di Donatello esce fuori dalla regola. Donatello è attento anche alla tradizione locale, aggiunge infatti dei dettagli colorati che provengono dalla cultura locale, l’espressionismo è stimolato dalla presenza germanica, è sensibile alla statuaria veneta e l’idea di una pala tridimensionale proviene forse proprio da quella scultura lignea del Trentino, l’ancona dei Dalle Mesegni oggi a San Francesco a Bologna. Tra i suoi aiutanti locali spicca Bartolomeo Bellano (1435-1497), egli unisce ad alcuni spunti del maestro un certo retaggio gotico. Vediamo per esempio Giona gettato in mare del 1484, che fa parte della recinzione presbiterale si Sant’Antonio, come la linea punti ad esaltare l’effetto emotivo, di come la composizione pieghi a suo volere la prospettiva. Nella stessa Basilica troviamo l’armadio porta reliquie che è sempre di Bellano e che invece mostra un gusto molto più classico con una decorazione portata all’eccesso. Il tratto così netto, l’enfasi prospettica, sono tratti distintivi della scuola locale, che a volte esaspera i panneggi e che adopra colori intensi. La scuola locale si dividerà in due filoni: il classicismo esasperato di Mantegna da una parte e il gruppo degli squarcioneschi, al quale fanno capo Marco Zoppo (1433-1478), Carlo Crivelli (1430-1500 ca), Giorgio Culonovic detto Schiavone (1433-1504), essi sono uniti da colori intensi e irreali, tratto intenso e contorto nei contorni, una prospettiva più intuita che scientifica e l’uso dell’antico come un ornamento erudito. Altro grande è Francesco Squarcione del quale il manuale riporta Madonna con Bambino del 1455, una tavola conservata a Berlino, di Zoppo vediamo la Madonna del latte 1453 al Louvre, di Schiavone Madonna con Bambini e Angeli, una tavola oggi a Baltimora, Walters Art Gallery. Le diverse correnti figurative trovano un punto di contatto nella chiesa degli Eremitani. Qui a partire dal 1447 si riunì tutto l’eterogeneo gruppo di artisti per decorare la cappella Ovetari. Tra i giovanissimi lavoratori troviamo Niccolò Pizzolo (1420-1453) e Andrea Mantegna (1431-1506). Mantegna fu allievo di Squarcione, unisce ad una certa cultura antiquaria una saggia applicazione della prospettiva. Nelle Storie di san Giacomo, affresco a Padova nella Cappella Ovetari, questo affresco fu distrutto dai bombardamenti della guerra, in esso il pezzo antico non era una sterile citazione ma i vestiti, l’architettura e le armature riportano al tempo della narrazione degli eventi. L’espressionismo delle figure allontana dalla immobilità sentimentale delle statue classiche e porta l’arte di Mantegna ad una maggiore espressività. lo vediamo nell’affresco del Martirio di San Cristoforo del 1455. Qui una forte impostazione prospettica rende la parete il loggiato arioso dove viene ucciso il santo, la citazione classica persiste ma è attenuata dalla contemporaneità della scena. Bisogna ricordare che Mantegna aveva sposato la sorella di Giovanni Bellini nel 1454. Opera terminale della sua fase iniziale è la Pala di San Zeno, opera che gli fu commissionata nel 1456 per la chiesa più importante di Verona. L’opera si presenta come una sacra conversazione , il polittico è delimitato da colonne, si ispira a quello di Donatello. La cornice mediava l’opera all’interno del coro. Le predelle sono copie ottocentesche. Altra sua opera è il Polittico di San Luca del 1453. A differenza degli affreschi degli Eremitani, la pala accentua l’effetto illusionistico, il chiaro scuro media ogni sua parte. Il pittore teneva così tanto a questi due elementi: prospettiva e illuminazione, che chiese di aprire una finestra alla destra dell’opera cosicché l’illuminazione reale coincidesse con quella dipinta. nel 1457 fu chiamato a Mantova come pittore di corte. A Verona la Pala ebbe successo ma non creò un vero esempio per i pittori locali, Liberale da Verona fu l’unico a seguire l’aggiornamento di Mantegna, lo vediamo nella Adorazione dei Magi del 1490 al Duomo di Verona. MANTOVA Mantova nella seconda metà del Quattrocento fu uno dei centri maggiori dell’Italia grazie al prestigio politico che gli aveva conferito la dinastia dei Gonzaga. La pace di Lodi aveva sancito l’importanza della città nello scacchiere italiano, Pio II aveva scelto la città come base da cui partire per la guerra ai turchi. Ai tempi di Gianfrancesco Gonzaga (1407-1447) la corte era sì ricca da richiedere opere a Pisanello e Brunelleschi. Vittorino da Feltre fondò la Ca’ Zoiosa, una scuola cara all’umanesimo, sempre Vittorino fu scelto come precettore per i figli di Gianfrancesco. Ludovico III, i suoi successori Federico e Francesco II trassero da lui l’idea di riallacciare i legami con la tradizione classica. Ludovico chiamò artisti dalla toscana, come Donatello, Antonio Manetti, Luca Fancelli che lavorò al Cortile dell’Ospedale Grande nel 1450. Successivamente Alberti nel 1459 e Mantegna nel 1460. La città aveva già una sua forma molto cristallina, la cinta muraria era inoltre condizionata dai laghi del Mincio. Alberti costruì la Chiesa di Sant’Andrea e quella di San Sebastiano. La chiesa è austera e solenne, al contempo incompleta, ha una pianta centrale. Il piano inferiore è seminterrato e si articola in tre corti bracci absidati. Il corpo centrale è raccordato da una volta a crociera. La facciata mostra una certa disinvoltura nell’uso dell’architettura antica, che vediamo anche nella facciata di Sant’Andrea, 1470, dieci anni successiva a San Sebastiano. Una pianta a croce latina con navata unica, dove le cappelle laterali sono rettangolari. Tutto ricoperto con una volta a botte a lacunari. La facciata viene orientata da Alberti lungo l’asse viario principale, che collegava Palazzo ducale alla zona del Tè. Già sperimentato nel Tempio Malatestiano, vediamo qui la ripresa dell’arco trionfale, la facciata infatti è bucata da una volta a botte a lacunari. L’atrio diventa un passaggio meditato tra interno ed esterno. Altri interventi saranno quelli di Castello San Giorgio. Alla corte dl 1460 si trova anche Andrea Mantegna, in qualità di artista di corte, egli tuttavia svolgeva un compito culturale più ampio e curava per esempio le raccolte artistiche. Decorò la Cappella del Castello, alla quale apparteneva la tavola con la Morte della Vergine, oggi a Museo del Prado di Madrid. La scena è ambientata all’interno di una casa che si affaccia sulla laguna mantovana. Quello che colpisce è la naturalezza raggiunta da Mantegna, il paesaggio fortemente verosimile, tali perfezioni torneranno nella Camera degli Sposi, terminata nel 1474. si tratta di un locale piuttosto piccolo usato per funzioni di rappresentanza, la decorazione ad affresco si estende sia sulla volta che sulle pareti. Intorno alle scene finti tendaggi di broccato. Tale invenzione la vediamo in Incontro tra Ludovico Gonzaga e il figlio cardinal Francesco e La famiglia Gonzaga e cortigiani, 1465. Il gioco tra architettura vera e architettura illusoria trova l’apice nell’oculo in scorcio della volta. Nelle decorazioni sono frequenti i richiami all’antico, che creano un collegamento tra nobiltà del passato e grandezza della casata mantovana. Furono però i Trionfi di Cesare a fare epoca, si tratta di un un ciclo pittorico di 9 tele dipinte con tempera. Qui queste tele grosse più di due metri trovano un equilibrio perfetto tra riferimenti ad anticaglie e attenzione alla figura umana. Un elogio visivo alla vittoria e alla casata dei Gonzaga, che trova uno dei momenti più alti nei Portatori di Vasi, dove il corteo porta vasi, preziosità, animali per i sacrifici in trionfo, dietro la Basilica di Massenzio e il Colosseo. Verso la fine della sua carriera, Mantegna ha un successo enorme, vediamo opere come Madonna con il Bambino, al Museo Poldi Pezzoli, tempera su tela del 1480. Il suo linguaggio però inizia a farsi sentire vecchio, ce ne accorgiamo in opere come I Vizi cacciati da Minerva per lo studiolo di Isabella d’Este, la committente cercherà infatti di accaparrarsi dipinti del ben più moderno Giovanni Bellini. FERRARA: TRA MONDO CORTESE E UMANESIMO La corte estense di Ferrara fu una delle più vitali dell’Italia settentrionale. Avevano molto favore il mondo favoloso dell’arte gotica. Gusto dell’epoca che si evince anche dai numerosi romanzi cavallereschi conservati alla Biblioteca Estense, insieme a tale cultura si apprezzava lo studio della astrologia e l’esoterismo. Stimato era Pisanello e il gusto internazionale di Taddeo Crivelli, che miniò la Bibbia di Borso d’Este nel 1455, della quale il manuale riporta Scena di ballo. Fondamentali per la città saranno le figure dei regnanti Lionello d’Este e del padre Niccolò III, che con i loro fermenti culturali faranno arrivare in città, oltre a Pisanello, anche Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Jacopo Bellini e il giovane Mantegna. La felice produzione di Arazzi porterà in città anche Rogier van Der Weyden. Gli elementi che abbiamo per riconoscere la scuola ferrarese sono quindi: fascino cortese, razionalità e prospettiva di Piero, lucidità ottica fiamminga, donatellismo filtrato dagli squarcioneschi. Durante il dominio di Borso questa gamma si amplierà con toni sempre più cortesi e celebrativi che vediamo nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Con Borso la linea ferrarese si complica diventando sempre più tesa, con panneggi volumetrici e quasi solidi, con un naturalismo allusivo. Importante ai fini del discorso è la decorazione dello Studiolo di Belfiore voluta da Lionello dopo il 1460. Essa comprendeva oltre alle tarsie e agli intagli dei Lendinara, una serie di tavole raffiguranti le muse, oggi in parte sono andate distrutte, ben conservato è Thalia, opera di Michele Pannonio, legata alla tradizione cortese per la sottigliezza della figura e per la sua eleganza, con un gusto anticheggiante tutto padovano. La lezione di Piero è invece ben visibile in La Musa Polymnia, del 1460, sempre per lo studiolo, della quale non si conosce l’autore. Quella di prima è al Museo delle Belle Arti di Budapest, la seconda a Berlino al Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz. Il capostipite della scuola ferrarese è però Cosmè Tura, egli raffigura Erato, dove a diversi stimoli si lega uno stile persona. Qui un felice impianto prospettico si lega a una fantasia di Squarcione. Da notare il panneggio tipicamente ferrarese. L’officina ferrarese ha come “capi”: Cosmè Tura, Francesco del Cossa e Ercole de’Roberti. I loro linguaggio sono autonomi ma, per citare Longhi, imparentati dalla preferenza per profili aguzzi e per una natura “stalagmitica”. Partendo dal primo, possiamo dire che Tura ebbe una prima formazione presso i miniatori di corte e poi si trasferì tra Padova e Venezia. La sua originalità la vediamo nelle ante per l’organo della cattedrale eseguite nel 1469, una raffigura L’Annunciazione, una San Giorgio libera la principessa. I fondali allusivi derivano da Mantegna, anche i panneggi da Fossano noto come il Bergognone (1481-1522). Sia sugli affreschi che sulle tavole dei monaci, come la Madonna del Certosino, il Bergognone mostra un avvicinamento alla pittura di Foppa, che ritroviamo nelle tinte spente e nei paesaggi lombardi. Nella tavola con lo Sposalizio di Santa Caterina oggi alla National Gallery, vediamo come le figure siano costruite dal basso verso l’alto, dando così monumentalità alle singole figure che sono costruite con una certa simmetria che ritroviamo anche nell’affresco del transetto della Certosa in cui Gian Galeazzo dona la Certosa alla Vergine, 1490-95. Questa simmetria deriva dalle speculazioni di Bramante che tornano anche negli scultori che lavorano alla Certosa come Cristoforo Mantegazza (notizie dal 1464-1482). Vediamo nella Cacciata dei Progenitori del 1465, delle immagini irte e pungenti, ancora vicine alla scuola ferrarese e al gotico internazionale, tutto è sbilanciato e acuto. Nella Resurrezione del Lazzaro, l’architettura bramantesca sfonda la scena e tutto assume un rigore più classico anche se egli continua a marcare bene tutti i contorni. In campo pittorico il linguaggio di Foppa, degli Squarcioneschi e dei ferraresi viene recepito da Bernardino Butinone (1450-1507) e Bernardo Zenale (1450-1526). Nella piccola Madonna in trono del 1480 Isola Bella, collezione Borromeo, Butinone ambienta la scena in un interno di lusso, qui il linguaggio di Mantegna si unisce al gotico e alla architettura di Bramante. Ci si allontana dallo stile rinascimentale in un altarolo portatile conservato al Castello Sforzesco di Milano con le Storie della Passione. Zenale lavora con Butinone alla grande ancona di San Martino per la chiesa dedicata al Santo di Treviglio. Si tratta di una delle sue prime opere, le rappresentazioni studiano lo spazio e i volumi, in una prospettiva ancora empirica. La monumentalità che emerge con una certa naturalezza è la sua cifra personale, lo vediamo nella tavola del 1490 con Madonna e Santi oggi alla Kanas University. SCHEDA XX: L’AREA ADRIATICA È interessante notare che la zona italiana che comprende tutta la costa adriatica dalle Marche in sù, fino all’odierna Croazia, ha un suo stile pittorico, che raggiunge picchi di qualità tra il 1460 e il 1470. Una scuola pittorica che vede come maestri Carlo Crivelli, lo Schiavone, e allievi di Donatello come Niccolò di Giovanni. Il loro stile, ancora ricco di ori e ormai superato dalla novità dello stile morbido di Giovanni Bellini, riscuote successo nelle corti provinciali che amano quella compattezza di modellato e richiami ai pezzi di antiquariato. Lo stile di Crivelli è particolarmente elegante, lo vediamo in Santi Caterina, Pietro e Maddalena (Polittico di Montefiore), una tempera su tavola del 1470 oggi a Montefiore dell’Aso alla Collegiata di Santa Lucia. Lo stile di Crivelli presenta una tensione mimica al limite del grottesco, lo vediamo nella Pietà del 1485 oggi a Boston. Questi artisti, fatta eccezione per Crivelli, non ebbero molto seguito, vediamo la Madonna con Bambino e santi di Nicola d’Antonio che mostra un espressionismo tipico della cultura marchigiana. SCHEDA XXI: LA DIFFUSIONE DELLE ARTI GRAFICHE Nel Quattrocento il disegno e l’incisione iniziano ad avere una maggiore autonomia e un rango maggiore. Vasari nelle Vite mise il disegno alla base delle tre arti, questo però lo rese una specie di passaggio preparatorio. Il disegno è un mezzo espressivo per l’artista, Andrea Mantegna definisce Giuditta, un suo disegno a pennello, oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe a Firenze, come un’opera completa. Il disegno acquisisce una sua autonomia nella illustrazione dei libri, lo testimoniano le invenzioni di Sandro Botticelli per la Divina Commedia. Quello che distingue l’incisione su legno (xilografia) e su metallo, è la sua riproducibilità. Il prezzo minore della stampa portò alla presenza sempre maggiore di xilografie sui libri, che furono utilizzate in testi sacri come la Biblia pauperum o l’Ars Moriendi. L’incisione su metallo, nacque forse in Germania, dove fin da prestissimo si hanno esemplari tecnicamente avanzati. Questa tecnica permette una resa migliore in quanto il metallo è più duttile e lavorabile e si piega meglio alle incisioni di Martin Schongauer. In Italia tale tecnica è legata al nome dell’orafo Maso Finiguerra. Mantegna e Pollaiolo utilizzarono questa tecnica in quanto gli permetteva di servirsi bene della linea, vediamo l’incisione a bulino di Mantegna: il Baccanale di tino, 1490. SCHEDA XXII: ARTE E ASTROLOGIA NEL SALONE DEI MESI Nel Quattrocento la astrologia godeva di una considerazione molto alta, in quanto essa permetteva di conoscere il destino dei singoli e di determinare la Fortuna degli uomini. I tratti caratteriali che il singolo segno zodiacale recava, dovevano essere sfruttati dal singolo per ottenere il massimo. Lionello d’Este era molto attento all’astrologia, egli sceglieva il colore degli abiti in base alla divinità che regolava il giorno, questo spiega la presenza del Salone dei Mesi. in palazzo Schifanoia. Sotto la guida di Cosmè Tura, dal 1460 vi lavorarono artisti come Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti. In origine si trattava di dodici settori, uno per ogni mese, dei quali sono sopravvissuti solo sette. Ognuno di essi è diviso in tre fasce, in alto il dio protettore del mese con i suoi figli, al centro il segno zodiacale e le personifcazioni delle tre decani, sotto scene di corte che ruotano intorno alla figura di Borso d’Este. Il complesso programma fu dettato da Pellegrino Prisciani, che si ispirò agli Astronomica di Manilio, erudito del I secolo d.C. SCHEDA XXIII: ARCHITETTURA DEL COTTO IN LOMBARDIA Milano si arricchì di una serie di chiese fin dai primi anni del dominio Sforzesco. Queste chiese che si trovavano sulle principali vie della città, presentano uno stile tardo gotico e un uso importante del cotto. Vediamo per esempio la Chiesa di Santa Maria delle Grazie del 1465, la Chiesa di San Pietro a Gessate, la Chiesa di Santa Maria Incoronata di Milano, o casa Fontana Silvestri. Le uniche incidenze rinascimentali sono alcune decorazioni. CAPITOLO IX VERSO IL CINQUECENTO: NAPOLI, VENEZIA, FIRENZE IL REGNO DI ARAGONESE DI NAPOLI Alfonso d’aratone prese la città di Napoli nel 1443. Egli era molto attento ad un recupero dell’antichità che in qualche modo diventava anche una legittimazione del suo potere, cosa che era cara ai sovrani medievali. A Napoli egli costituì una importante biblioteca e chiamò a raccolta diversi eruditi come Lorenzo Valla, Bartolomeo Faccio, Filelfo e Panormita. Il linguaggio umanistico in questo caso rimane abbastanza chiuso, infatti non diventa un vero e proprio punto di svolta come nel resto di Italia. Alfonso chiama a corte un medaglista gotico come Pisanello, crea egli una Medaglia di Alfonso I oggi al museo Civico Archeologico di Bologna, inoltre commissiona opere ad artisti spagnoli lontani dal linguaggio rinnovato. Verso la fine del secolo il linguaggio Rinascimentale inizierà ad attecchire in maniera efficace, ma si pensi che il Monumento Brancacci di Michelozzo e Donatello del 1430, non ebbe seguito, si trovava alla chiesa di Sant’Angelo a Nilo. Come dicevo poc'anzi Alfonso si servì di maestranze catalane, e più generalmente iberiche, lo vediamo nella ricostruzione di Castelnuovo, una fortezza che doveva servire sia come residenza che come linea difensiva. Per tale lavoro egli si affidò a spagnoli, capitananti da Guillén Sagrera. Quando poi il potere reale acquisì una certa sicurezza e stabilità, il re decise di creare un ingresso maestoso che ricordasse gli archi di trionfo romani. Inizialmente il lavoro fu iniziato dai catalani, successivamente intervennero maestranze italiane, questa discontinuità della mano d’opera, rende il linguaggio rinascimentale dell’ingresso molto affievolito.L’arco si presenta come diviso in due ordini. Due archi si accavallano e sono sono affiancati da una coppia di colonne binate che sorreggono una trabeazione, al centro tra due trabeazioni vi è un fregio che rappresenta l’ingresso trionfale di Alfonso a Napoli, cosa che ci fa riflettere circa la libertà che questi artisti si prendevano nei confronti dell’arte classica. Alle scultore lavoreranno artisti come Francesco Laurana, che riprende il linguaggio di Piero della Francesca nel modo geometrico di fare i volti (vediamo per esempio il busto di Eleonora d’Aragona del 1468 oggi a Palermo), Isaia da Pisa, Andrea dell’Aquila, Domenico Gaggini (1420-1492), un donatelliano, Antonio di Chelino. L’ingresso di Napoli nel linguaggio rinascimentale si ha con l’alleanza tra Napoli e Firenze, avvenuta sotto il dominio del Magnifico. Artisti fiorentini arrivano in Campania, è il caso delle tre cappelle Piccolini, Toledo, Mastroianni-Terranova, nella Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, eseguite da Antonino Rossellino (1427-1481) e da Benedetto da Maiano (1442-1497). La prima ha il corpo di Maria d’Aragona e riprende la Cappella del Cardinale di Portogallo a Firenze. La Villa a Poggioreale fu affidata a Giuliano da Maiano (1432-1490) e da Francesco di Giorgio (1439-1502). Malgrado la costruzione sia andata oggi distrutta, possiamo farcene una ragione grazie ai trattati che la resero celebre. La villa rispondeva ad un canone sia medievale, in quanto aveva l’aspetto di un castello, ma ricordava anche le ville dell’antichità. Il corpo della villa era quadrangolare, al centro vi era una sorta di anfiteatro all’aperto, dalla forma però quadrata, e senza copertura, cosa che la rendeva perfetta per le feste. L’aspetto di Napoli non fu mai del tutto rinascimentale, la maggiorate delle costruzioni volute da Alfonso furono di carattere militare, come per esempio la cinta muraria che vediamo bene nella Tavola Strozzi del 1486 oggi conservata al Museo di San Martino e attribuita a Francesco Pagano. La tavola mostra la veduta del porto di Napoli, veduta che da l’idea di una città collaborò anche il fratello. Il più aggiornato dei Bellini è sicuramente Giovanni Bellini (1430-1516). Egli uscirà dal tardo gotico grazie alla lezione di Mantegna, del quale addolcirà le linee, di Antonello e dei fiamminghi. Le novità di Giovanni non tradiranno mai la sua provenienza veneziana che sarà sempre visibile nei colori orientali e dalla spiritualità bizantina. Del suo esordio, strettamente legato a Mantegna, è una prova la Trasfigurazione, oggi al Museo Correr di Venezia. Qui la linea è secca e decisa, il gruppo è visto dal basso, si parla di tempera su tavola, il colore che intenerisce i colori vespertini. Conclusiva del periodo giovanile è la Pietà che mostra un forte legame con la cultura fiamminga. Qui la lezione di Mantegna si fa sentire nei capelli di San Giovanni che sono segnati uno ad uno e nelle vene del braccio di Cristo. Il parapetto avvicina il gruppo allo spettatore, questo è un’espediente del tutto nordico, la conoscenza dei fiamminghi era infatti sempre più comune, il patetismo del gruppo è un eco di Rogier van Der Weyden. È una tempera su tavola oggi a Brera del 1460. Da notare, come insegna la professoressa Ginzburg, le nuvole in Bellini, che sono delle autentiche meraviglie isolate. L’incontro con Piero della Francesca avviene nei primi anni Settanta, in occasione di un viaggio in Italia centrale. Da questo incontro scaturiscono opere come l’Incoronazione della Vergine, rivoluzionaria in quanto al fondo d’oro troviamo un paesaggio aperto. Questa Incoronazione è una parte della Pala di Pesaro, oggi alla Pinacoteca Vaticana. Quest’opera è un olio su tavola, qui vediamo con lo schienale traforato è perfetto per esaltare i volti e per creare una continuità con lo spazio, che si ottiene anche grazie all’olio. Sullo sfondo è stata riconosciuta Rocca di Gradara. La luce sulla fortificazione viene da Piero. Nella cimasa la Pietà, dove Cristo si trova sulla pietra del sudario. Nel 1474 a Venezia vi era pure Antonello, egli sembra aver guidato il veneziano alla resa degli effetti luminosi. Nella Pala di San Cassiano di Antonello , oggi a Vienna, lo schema competitivo è quello della Sacra Conversazione di Bellini alla Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, oggi perduta. Dall’incontro con Antonello, Giovanni crea opere come Le Stimmate di San Francesco, 1480, olio su tavola, alla Frick Collection di New York. La luce qui investe ogni cosa e definisce e unisce ogni cosa, dal ciottolo all’albero. La scena delle stigmate non è rappresentata con il solito crocifisso volante, ma da una luce che da sinistra illumina la natura e il santo. È proprio l’espressione del Santo a farci capire che la luce ha qualcosa di soprannaturale. Un pezzo di bravura è l’alloro a sinistra. L’uomo è al centro della natura, è una parte del tutto e deve vivere in armonia con essa. Negli anni Settanta si assiste ad una svolta fondamentale anche in architettura. Architetti provenienti dalla Lombardia comprendono personalità come Mauro Codussi (1440-1504), architetto che conobbe sicuramente Brunelleschi, Alberti e Michelozzo. La sua prima opera veneziana è la Chiesa di San Michele in Isola, del 1468. Un impianto a tre navate con tre absidi. Sempre sue Chiesa di Santa Maria Formosa del 1492 e Palazzo Vendramin. FIRENZE LAURENZIANA La situazione di Firenze al termine del secolo è in apparenza meno fertile e innovativa di quella napoletana. Donatello era cambiato dal soggiorno a Padova, se confrontiamo la sua scultura lignea di Maddalena e la confrontiamo con quella più composta di Desiderio da Settignano (1430-1464), vediamo la differenza tra lo stile che piaceva a Firenze e quello innovativo di Donatello. Donatello per eseguire la sua ultima opera dovrà ricorrere alla vecchia amicizia con Cosimo de’ Medici, saranno i due amboni per San Lorenzo. La committenza del tempo preferiva le opere idealizzate e naturalistiche di Benedetto da Maiano (1442-1497). Nei suoi ritratti vediamo come torna la lezione di Alberti di far trasparire i movimenti soavi dell’anima senza eccessi, Busto di Pietro Mellini al Museo del Bargello. Un recupero dell’antico e dei miti antichi visti in chiave cristiana, una attenzione alla filosofia neoplatonica, in cui l’uomo è un essere naturale dotato di ragione che può scegliere se avvicinarsi a Dio o alle bestie trova terreno fertile quando il potere passa nelle mani di Lorenzo de’ Medici il Magnifico (1442-1492), la sua committenza voleva elogiare la grnadezza di Firenze, essa voleva diffondere la sua cultura, la Raccolta Aragonese regalata a Alfonso d’Aragona che era una cronaca dei grandi letterati fiorentini dal Trecento ne è un valido esempio, egli inoltre inviava gli artisti nelle diverse corti. Questa politica culturale rese Firenze una nuova Atene, la rese il centro culturale dell’Italia e l’età del Magnifico divenne l’età dell’oro della città. Al contempo la vivacità culturale di Firenze ne risentì. Lo stile laurenzio prevede un uso dell’antico colto e raffinato, opere che contengono riferimenti che possono essere colti solo da persone che hanno ricevuto una certa cultura, un opera di questo periodo è l’olio su tavola di Perugino raffigurante Apollo e Marsia o secondo recenti intercettazioni Apollo e Dafni, oggi conservata al Louvre. Lorenzo infatti amava circondarsi di eruditi, filosofi e pittori. Il nome Dafni in greco equivale a Lorenzo, un richiamo alla bellezza e all’arte di Apollo. Altro pittore che incarna la filosofia neoplatonica è Luca Signorelli (1445-1523), vediamo la perduta Educazione di Pan del 1490 che ha avuto la sfortuna di trovarsi a Berlino, e nel tondo con Vergine e Bambino che si trova agli Uffizi. Secondo una leggenda Pan era la divinità etrusca dalla quale discende la dinastia dei Medici, i vecchi nella prima opera sono segno di saggezza e di riflessione, la ragazza è simbolo di bellezza e gli strumenti traducono la natura in suoni composti grazie all’uso della mente. Questo felice clima culturale investe due degli artisti più in vista a Firenze: Pollaiolo e Verrocchio. Antonio Benci detto il Pollaiolo (1431-1498) privilegia nelle opere scultoree come Ercole e Anteo oggi al Bargello, sia nelle opere pittoriche, la linea fluida e vibrante. Vediamo come gli affreschi ad Arcetri Villa della gallina riprendono le pitture vascolari. Andrea di Francesco di Cione detto Verrocchio (1435-1488), aveva mostrato il suo naturalismo e la sua ricchezza decorativa nelle tombe di Giovanni e Piero, giunge in questi anni ad una morbidezza e ad una monumentalità elegantissima. Lo vediamo in opere come il David, al Bargello, dove l’eroe è visto come un giovane paggio elegantissimo, con una posa snella ed elegante. Questa carica psicologica sarà presa in maniera diversa dal giovane Leonardo che si trovava nella sua bottega. Il pittore però più legato alla cerchia medicea è Sandro Filipepi a noi noto come Sandro Botticelli (1445-1510). Egli inizia un linguaggio che fa sentire inadeguato il percorso figurativo del Quattrocento. I suoi inizi pittorici li vediamo nella tavola con la Fortezza, una tempera su tavola del 1470 eseguita per incarico di Tommaso soderini. Sandro si era formato nella bottega di Lippi dove rimase fino al 1467. Importante sarà per lui la monumentalità del Verrocchio e la linea mossa di Pollaiolo. Lo stile di Botticelli è ben riconoscibile, alcune sue opere degli anni Ottanta sono la Madonna Magnificat e l’Adorazione dei Magi. La prima opera che è una tempera su tavola conservata agli Uffizi, è un vero e proprio esperimento ottico, infatti la composizione è creata in uno specchio convesso. L’Adorazione dei Magi del 1475 oggi alla National Gallery, è un precocissimo esempio di anamorfosi, infatti l’immagine sul desco da parto è visibile solo per orizzontale. Le opere di Botticelli sacre e non sono rappresentate come dei miti, la verità si esprime nel silenzio. Quest’aderenza agli ideali dello stile laurenzio è totale nella Primavera. L’opera del 1478 oggi agli Uffizi è una sintesi tra verità morali e linguaggio moderno. La composizione che si svolge in un boschetto di aranci a semicerchio è bilanciata in ogni sua figura, in alto Amore è come il vertice del triangolo della composizione. Al ritorno da Roma Botticelli nel 1485 dipinge la Nascita di Venere. A Roma aveva affrescato le pareti della Sistina. La tempera magra su tavola rende l’effetto cromatico simile ad un affresco, i contorni sono tutti molto fluidi, semplificati e chiari. Gl schemi compositivi di Botticelli ma più in generale dei pittori che lavorano alla morte di Lorenzo, entrano in piena crisi. Iniziano a ripetersi e a perdere quella carica chiara e innovativa che gli aveva contraddistinti, si veda per esempio Apparizione della Vergine a San Bernardo, di Filippo Lippi, tavola del 1486 oggi a Badia Fiorentina, che mostra delle figure allungate in uno spazio sfacciatamente fantasioso. Gli anni dopo la morte di Lorenzo furono critici per la città. Savonarola scosse la città con le sue ideologia, la sua morte cruda riportarono Firenze sotto il dominio dei Medici nel 1512, dominio che diventerà un autentica monarchia. SCHEDA XXIV: VARIE LETTURE PER LA PRIMAVERA DI BOTTICELLI La Primavera fu commissionata a Botticelli da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino del Magnifico, per la sua villa di Castello, ove la vide Vasari insieme alla Nascita di Venere. Vasari fornisce l’interpretazione più attendibile. Si parte da destra verso sinistra. Partendo da Zefiro che insegue la ninfa Clori, da lui fecondata, che si trasforma in Primavera o Flora. Al centro Venere e Eros che scaglia una freccia sul gruppo delle tre muse danzanti, a sinistra Mercurio scaccia le nuvole con il caduceo. Nell’opera sono stati visti riferimenti a personaggi della vita fiorentina come Giuliano de’ Medici e la sua amata Simonetta Vespucci. Aby Warburg suggerì per primo di vedere i nessi con la cultura laurenziana. Egli ipotizzò che la Nascita di Venere e la Primavera siano parte di un dittico che vedono due momenti della dea, tale spunto, secondo Warburg, fu offerto da Poliziano. Il committente ebbe cara la filosofia neoplatonica, fu educato dallo stesso Ficino. Oggi l’opera sembra essere una spiegazione dell’amore giusto che tende alle sfere celesti con Mercurio e alla perfezione delle Grazie. SCHEDA XXV: IL RESTAURO: METODOLOGIE E TECNICHE Il restauro è una tecnica di conservazione, essa non deve andare a creare un falso storico, né tanto meno deve creare un falso estetico. Per restauro non si intende dunque un ritorno alle condizioni originali dell’opera, ma si intende la conservazione dello stato attuale. Si veda il caso della cappella Brancacci che era stata offuscata da un incendio. Altro caso famoso è il Duomo di Modena, con le sculture di Wiligelmo e opera di Lanfranco. Il Duomo era rivestito di una patina di sporco, tuttavia la rimozione di tale patina avrebbe fornito l’immagine di un mosaico. Così oggi il duomo è stato pulito ma non in modo omogeneo. Utilissimo il mezzo scientifico delle radiografie e delle foto ad ultravioletti che consentono di vedere le fasi preparatorie dell’opera, i pentimenti, i primi strati, il modo di agire dell’artista, i materiali che usa. proietta nello spazio, con un movimento che riporta a degli studi leonardeschi. la Dama col mazzolino invece è un’opera marmorea del 1475, qui si vede il dialogo che si era instaurato tra Leonardo e Verrocchio, infatti il busto ha un legame con Ritratto di Ginevra Benci del 1475, opera che ora si trova a Washington e alla quale sono state decurtate le mani delle quali rimane solo uno studio alle collezioni reali di Windsor. Nel 1481 Leonardo inizia a dipingere una Adorazione dei Magi, oggi agli Uffizi, per i monaci di San Donato. L’opera rimase incompiuta a causa della partenza dell’artista per Milano nel 1482, tuttavia rimangono diversi disegni preparatori che ne svelano la contorta composizione. Il tema dell’adorazione è uno dei più rappresentati a Firenze nel corso del XV secolo in quanto i Medici si identificavano nei tre saggi guidati dalla stella, infatti all’Epifania era tradizione fare uno spettacolo semiliturgico che rappresentasse la cavalcata dei Magi. La prima rappresentazione fu quella di Gentile da Fabriano per la Cappella Strozzi di Santa Trinita, si ricollegava ad una raffigurazione cortese del tema. Si distacca da questa raffigurazione cortese del tema Sandro Botticelli, in una tavola del 1475 oggi agli Uffizi dove però i Magi hanno i volti di Cosimo il Vecchio, Piero e Giovanni. L’opera di Sandro è però importante per Leonardo vista la composizione centrale del tema, dove la Vergine, il Bambino e San Giuseppe sono al centro della tavola su un alzamento del terreno protetti da un rudere capanna. L’opera di Leonardo presente invece una Vergine isolata in primo piano con il Bambino in mano, dietro, disposti in modo caotico, i Magi e la folla che mostra un certo sconquasso interno dovuto alla rivelazione del Dio fatto uomo, tema profondo e vero dell’Epifania. I presenti così mostrano una certa agitazione grazie alle loro mimiche facciali e ai gesti sentiti. In lontananza un rudere, simbolo del Tempio di Gerusalemme distrutto, e la folla di cavalieri impazziti che ancora non hanno colto il messaggio del Cristo e tra di loro domina il caos. Tra i pittori fiorentini chiamati da Sisto IV a dipingere la Cappella Sistina vi è Domenico Ghirlandaio (1449-1494). Egli aveva una vasta cultura figurativa che spazia dal naturalismo dei Fiamminghi ai modelli classici del primo Quattrocento fiorentino. Il suo talento di narratore lo fanno apprezzare agli occhi dell’élite fiorentina. Egli affresca le Storie di San Francesco nella Cappella Sassetti in Santa Trinita nel 1485, le Storie della Vergine e del Battista nel coro di Santa Maria Novella per la famiglia Tornabuoni tra il 1486 e il 1490. Nella già citata Cappella Sassetti Ghirlandaio dipinge la Conferma della regola e l’ambienta nel centro della città, con Palazzo Vecchio e la Loggia dei Lanzi. Figurano Lorenzo il Magnifico, i committenti, Poliziano, Matteo Franco e Luigi Pulci poeta. I personaggi della cerchia medicea tornano negli affreschi nel coro di Santa Maria Novella, con un tono più solenne a anticheggianti. L’arte di Ghirlandaio rimane estranea alle inquietudini che invece subiscono i suoi contemporanei come Filippino Lippi e Botticelli. Filippino Lippi, figlio di Filippo Lippi fu attivo nella bottega di Sandro Botticelli nacque nel 1457 e morì nel 1504. Completò gli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci e nel 1493 è incaricato da Lorenzo il Magnifico di decorare la Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva. Il soggiorno romano pesa sulla cultura visiva di Filippino, tanto che egli inizia a mettere citazioni classiche nelle opere, ornamentazioni vistose quasi vive, e il moto delle sue figure aumenta. Nella Cappella Strozzi vediamo quanto detto nell’affresco con il Miracolo di san Filippo davanti l’altare di Marte, siamo a Santa Maria Novella. La fine del secolo fu drammatica per la città di Firenze. Infatti la discesa nella penisola di Carlo VIII turbò i precari equilibri politici, Piero de’ Medici detto Lo Sfortunato, figlio di Lorenzo e fratello di Leone X, dimostrò la sua inettitudine al governo e si arrese al francese. Questa arrendevolezza creò una fortissima tensione popolare antimedicea, che cacciò dalla città la famiglia e instaurò una repubblica capeggiata dal frate domenicano Savonarola, fervido religioso noto per la sua tempra morale, che denunciava la corruzione della curia e che voleva rendere Firenze un centro di sperimentazione politica del mondo. Questa rivolta del 1494 non interromperà il lavoro delle botteghe ma ne muterò il linguaggio e i soggetti cha saranno di tema sacro. Nel 1496 la situazione precipita, Savonarola completamente fuori controllo incita alla distruzione delle “vanità”, ovvero libri, vestiti, opere d’arte dal soggetto profano. Nel maggio del 1498 Savonarola viene scomunicato e arso vivo dalla folla inferocita che non lo seguiva più. Vasari disse che Botticelli fu tra i seguaci di Savonarola, questa notizia è smentita dalla critica moderna, tuttavia non si può non constatare che le ultime opere del maestro contengono un senso di religiosità maggiore, più intenso e drammatico. In un dipinto allegorico La calunnia di Apelle. Questa tempera su tavola del 1495, il soggetto tramandato da Luciano risale alla descrizione di un’opera di Apelle che alludeva ad una falsa accusa di aver cospirato contro Tolomeo Filopatore, fatta da un rivale. Nella scena che avviene all’interno di una architettura classica dalla quale si scorge il mare, un innocente è trascinato per i capelli da Calunnia che è guidata da Invidia e aiutata da Tradimento e Inganno, il gruppo arriva al cospetto di un giudice consigliato da Ignoranza e Sospetto. All’estremità opposta il Rimorso indica il povero uomo alla Verità, che nuda indica il cielo. Ancora più patetico per colori, espressività e gesti diventa è Il Compianto sul Cristo morto. Opera tarda è La Natività Mistica alla National Gallery, mentre il Compianto è a Monaco. Le vicissitudini cittadine spaventano anche il giovane Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Nato a Caprese figlio di Ludovico Buonarroti che vi esercitava la funzione di podestà, fu avviato agli studi presso l’umanista Francesco da Urbino. Il suo talento per l’arte fu visibile fin da piccolo e così, vincendo la resistenza del padre, fu mandato nella bottega di Ghirlandaio quando aveva tredici anni. Tale notizia la conferma Vasari, i documenti dell’epoca e la nega Ascanio Condivi che scrisse la sua biografia nel 1553, amico del Buonarroti. Egli dice che fu accolto in casa dal Magnifico. I primi disegni che abbiamo dell’artista sono tratti dalla Cappella Brancacci di Masaccio e dalla Cappella Peruzzi a Santa Croce. La bottega di Ghirlandaio era infatti vicina alle opere della città di Firenze e al loro studio. Michelangelo coglie i tratti fondamentali delle figure di Masaccio e mostra una certa attenzione per la loro monumentalità. Successivamente l’accesso alle collezioni medicee sotto la guida di Bertoldo di Giovanni, fa si che egli guardi all’antico con occhi nuovi, traendone modelli e ispirazione. Tra le prime opere di scultura vi è la Madonna della Scala e la Battaglia dei centauri che rivelano una attenzione tra soggetto e stile che cambia dalle opere profane e tra quelle sacre. Nella Madonna della Scala egli usa lo stiacciato di Donatello, ma la composizione e l’equilibrio fanno pensare ad una stele funeraria classica. L’opera si trova a Firenze nella Casa Buonarroti. Poco prima della morte di Lorenzo il Magnifico risulta compiuta anche la Battaglia dei centauri, 1492 oggi sempre alla Casa Buonarroti, che rappresenta un soggetto suggerito all’artista da Poliziano. Per fare quest’opera egli si ispira ai sarcofagi romani e alle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano, gli è sicuramente noto anche il bronzo di Bertoldo con la Battaglia dei Cavalieri del 1485 oggi al Bargello. Il bronzo del secondo è ispirato ad un sarcofago del camposanto di Pisa, quello di Michelangelo è più libero. Noto è l’aneddoto in cui Michelangelo scolpisce un cupido dormiente che viene venduto al cardinale Riario come “pezzo di scavo”. Scoperto l’inganno, del quale Michelangelo era inconsapevole, il cardinale invita l’artista a Roma. La conoscenza dell’antico di Michelangelo è ben visibile in Bacco, una scultura del 1497 oggi al Bargello che all’epoca fu comprata dal banchiere Jacopo Galli. L’opera scultore giovanile più nota è però la Pietà, scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhéres. I particolari anatomici del gruppo sono condotti nel dettaglio, la morbidezza del gruppo, un’opera che a detta di Vasari, e anche a detta nostra, è un autentico miracolo, così perfetta che la natura stessa non riesce a creare corpi migliori. SCHEDA I: LA CAPPELLA PALATINA DI SISTO IV IN VATICANO Il 29 Settembre del 1420 torna a Roma il papa Martino V, ponendo fine alla cattività avignonese. La città poneva un crudo contrasto tra l’antica gloria e il lo stato di abbandono, cosa immutata fino ad oggi. Niccolò V non solo diede l’impulso di ripristino dei più antichi monumenti cristiano, a cominciare dalla Basilica Vaticana, ma concepì grandi progetti urbani. Questi progetti furono iniziati ad essere avviati con Sisto IV, ovvero Francesco della Rovere, egli infatti come primo gesto simbolico fece porre in Campidoglio alcuni bronzi antichi come la Lupa. Tra questi lavori vi è la ricostruzione e la decorazione della cappella palatina in Vaticano che poi prese il suo nome. nel 1477 si demolisce parzialmente una prima fatiscente costruzione che era stata affrescata da Giottino e da Giovanni da Milano. Quella nuova sorse sulle rovine di quella vecchia, per questo l’edificio presenta delle irregolarità altrimenti inspiegabili, come le pareti che convergono leggermente e la parete di fondo non del tutto orizzontale. Inizialmente tutte le pareti avevano delle finestre, successivamente furono chiuse quelle sulle pareti minori, il pavimento con una splendida decorazione musiva riporta alla tradizione medievale. La prima decorazione avvenne in tre fasi. Nel 1478 Perugino, che già aveva dipinto per Sisto IV nel coro della Basilica Vaticana, affrescò la parete con l’altare. Fatta la pace con Firenze nel 1481 arrivarono Cosimo Rosselli, Sandro Botticelli e Domenico Ghirlandaio. Ognuno di questi iniziò ad affrescare i primi quattro scomparti della parete di destra. Successivamente al Perugino subentrò Signorelli che terminò il Testamento di Mosè e la Contesa intorno al corpo di Mosè. Vi sono sei riquadri sulle pareti maggiori e due sulle minori. La zona inferiore è decorata con finti arazzi e sopra una cornice aggettante con le figure dei primi pontefici in delle nicchie ad ogni campata. La volta fu per la prima volta decorata con il motivo del cielo stellato da Piermatteo d’Amelia. Nel ciclo intermedio abbiamo da una parte le storie di Mosè e Arrone e dall’altra quelle di Crsito, poi sopra l’altare vi era una tavola di Perugino con L’Assunta e Sisto IV, dipinta da Perugino. Una delle scene più importanti è la Consegna delle chiavi di Perugino, insieme alla Punizione di Qorah e dei suoi figli, dipinta da Sandro Botticelli, che invece è un simbolo dell’autorità papale che discende direttamente da Dio e la punizione per chi vi si oppone è quella subita da Qorah. Gli affreschi sulla volta avvengono sotto Giulio II, arazzi tessuti a Bruxelles vengono donati a Leone X ed erano tratti dai cartoni di Raffaello, il Giudizio Universale viene dipinto sotto Paolo III ma commissionato da Clemente VII. L’UMBRIA Pietro Vannucci detto il Perugino (1445-1523), egli fu l’iniziatore di uno stile dolce e soave che precede la maniera moderna. Egli è forse il pittore più richiesto del tempo, lavora a Roma per volere di Giulio II ma tiene bottega sia a Perugia che a Firenze. Le opere sacre di Perugino danno forma ad un immaginario collettivo relativo alle immagini religiose. Infatti le sue immagini sono tutte molto pacate e controllate, hanno un carattere contemplativo al loro interno, come Madonna che appare a San Bernardo alla Pinacoteca di Monaco del 1493 o la Pietà degli Uffizi del 1495. Le opere di Perugino evitano una caratterizzazione troppo forte dei personaggi, sia a livello iconografico che espressivo, le sue opere trattengono sempre delle emozioni, per esempio si pensi al Compianto su Cristo morto del 1495 a Palazzo Pitti. Vasari in quest’opera il paesaggio circostante che vede come meraviglioso, considerato il tempo in cui è stato realizzato. Nel 1496 Perugino riceve la commissione per decorare la Sala dell’Udienza del Collegio del Cambio di Perugia. Il tema presenta un accordo tra conoscenza cristiana e pagana, vi sono anche le personificazioni dei pianeti. Sulle pareti troviamo la Natività, la Trasfigurazione, L’Eterno sopra i profeti e Sibille, personificazioni delle virtù teologali come Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Sei Savi e Sei eroi antichi allineati con scarsa naturalezza, impostati su uno spazio paesaggistico molto semplificato. Temi simili erano quelli nell’appartamento Borgia dipinto da Pinturicchio e aiuti. Bernardino di Betto detto il Pinturicchio (1454-1513) iniziarono la decorazione dell’Appartamento di Alessandro VI. Pinturicchio, che lavorava nella bottega di Perugino ebbe diverse commissioni a Roma, che intraprese mostrando il suo senso narrativo e il suo gusto per l’ornato. Decorò Palazzo dei Penitenzieri, la Cappella Bufalini all’Ara Coeli e diverse cappelle in Santa Maria del Popolo. Uno dei suoi cicli più famosi è la decorazione della Biblioteca Piccolomini Giorgio degli Schiavoni, 1502. Carpaccio semplifica la struttura narrativa concentrandosi su un solo episodio per volta. Le leggende riguardano i i santi dalmati Giorgio, Trifone e Gerolamo. Spettacolare è il Combattimento tra san Giorgio e il Drago, dove la scena mostra il dinamismo dirompente del cavallo che ammazza il drago in un luogo macabro cosparso dei resti dei caduti. Dietro una fiabesca città orientale, le palme, la principessa e un veliero nel mare che si intravede sotto un arco di roccia. Toni più divertiti ed ironici sono quelli della fuga dei frati in San Gerolamo e il leone nel convento. Pacati i toni del Funerale di San Gerolamo e di Sant’Agostino nello Studiolo, dove il santo è raffigurato mentre scrive una missiva e una luce calda entra nella stanza illuminando tutti gli oggetti, il Santo alza la penna in quanto riceve la premonizione della morte di San Gerolamo. Carpaccio rimane abbastanza isolato e non riceve l’appoggio delle cerchie più colte, così lavora per le scuole “minori”. Opere tarde che mostrano una sua cultura ancora legata alla cultura del Quattrocento sono Meditazione sulla Passione e Compianto su Cristo Morto. Sono tele del 1510 conservate la prima a New York al Metropolitan e la seconda alla Pinacoteca di Berlino. La cultura è vicina a Mantegna, con oggetti dai contorni netti e duri, aspre tinte che si allontanano dalla maniera dolce e bella del Cinquecento, animali e oggetti inoltre celano significati allegorici. SCHEDA II: MONUMENTI FUNEBRI DI DOGI VENEZIANI NEL RINASCIMENTO Nel nono decennio del Quattrocento Felice Fabri di Ulma annota lo sfarzo e la grandiosità dei monumenti funebri veneziani che sono delle vere e proprie macchine architettoniche e scultoree, che mostrano decorazioni all’antica con diversi riferimenti alla mitologia. I monumenti funebri hanno in primis un ruolo politico, questo spiega il fatto che le immagini sacre sono tuttavia ridotte. Essi devono esprimere i valori sui quali si fonda la Serenissima, come la Giustizia, l’Armonia tra le classi. Venezia è una Costantinopoli Cristiana. le sepolture monumentali servivano da exmplum per il popolo e per la città. Importante il monumento funebre di Tommaso Mocenigo, opera di Nicolò di Pietro Lamberti e di Giovanni di Martino, dove il defunto è sul letto di onore e viene presentato alla Vergine, intorno due guardie di onore vestite all’antica e le raffigurazioni delle sue virtù civiche. Altro monumento funebre è quello di Francesco Foscari opera dell’allievo di Donatello Nicolò di Giovanni Fiorentino che richiama all’Arco Foscari. Degno di nota anche il monumento di Pietro Mocenigo e quello di Andrea Vendramin opere di Tullio e Antonio Lombardo nel 1490. MILANO Sappiamo dai documenti i soggetti dei cicli di affreschi che furono commissionati da Galeazzo Maria Sforza negli ambienti del Castello di Pavia e Porta Giovia. I soggetti erano scene cortesi dove l’artista doveva raffigurare scene di vita di corte secondo un programma stabilito da Galeazzo stesso. Con Ludovico il Moro queste tendenze si accentuano, infatti per le sue nozze con Beatrice d’Este, egli fece affrescare la Sala della Balla con Le storie di Francesco Sforza. La qualità non era la sua preoccupazione principale, egli infatti voleva solo una cornice per le sue nozze. Vi lavorarono tra i diversi maestri anche Bernardino Butinone e Bernardo Zenale. Tuttavia Ludovico Moro inizia una serie di cantieri che dimostra la grandezza della sua corte. Importanti i soggiorni di Bramante e Leonardo che lavorano a corte come cortigiani. Donato di Pascuccio di Antonio detto il Bramante nacque a Monte Asdruvaldo vicino Pesaro nel 1444. Importante nel suo lavoro lo studio della pianta centrale dominata da una cupola. Nel 1479 è chiamato per ricostruire Santa Maria presso San Satiro. Il suo progetto presentava una corpo longitudinale a tre navate con un transetto di grandezza analoga coperta da volte a botte, modello che si rifà a Sant’Andrea a Mantova. Di Bramante la tavola con Cristo alla Colonna, che si rifà alla cultura urbinate, la tavola è del 1480 e si trova a Brera oggi. L’impaginazione della pagina che spinge il Cristo dolente in primo piano è tipico della cultura urbinate, la minuzia per i particolari riportano all’arte fiamminga e il corpo di Cristo è classico nella composizione del corpo e dei muscoli. In architettura Bramante si sofferma sulle piante centrali, la Sagrestia di San Satiro a pianta ottagonale è alla base dei progetti per la costruzione della tribuna di Santa Maria delle Grazie. Ludovico il Moro scelse di modificare la chiesa dei domenicani a soli dieci anni dalla fine dei lavori, opera di Guiniforte Solari, egli voleva rendere la struttura il mausoleo della famiglia. Bramante trasformò l’edificio con la costruzione di una immensa tribuna, coperta da una cupola emisferica. Anche Leonardo (1452-1519) si reca a Milano in cerca di commissioni prestigiose. Egli manda una lettera di presentazione a Ludovico il Mori, una lettera che anticipa le richieste del signore e che mostra i mille campi di interesse del giovane Leonardo. Egli afferma di poter progettare ponti leggeri e forti, ordigni e macchine belliche, al decimo punto, ovvero all’ultimo, egli specifica le sue capacità artistiche. Egli spiega inoltre che in tempo di pace sa costruire palazzi e residenze, portando l’acqua da un luogo ad un altro. Per lui la città è un luogo di stimolanti riflessioni tecniche, quello che propone al duca è essenzialmente un insieme di modifiche urbanistiche. Egli suggerisce al duca di eliminare i vecchi quartieri fatiscenti e ammassati, che sono anche malsani, e suggerisce di costruire palazzi più spaziosi, cosa che avrebbe favorito la speculazione aristocratica e il favore del duca. La prima grande commissione proviene dai confratelli dell’Immacolata Concezione, che nel 1483 incaricano Leonardo e i fratelli De Predis di dipingere tavole per l’ancona destinata alla cappella della confraternita di San Francesco Grande. È Leonardo che deve eseguire la tavola centrale, la c.d. Vergine delle rocce che raffigura l’incontro tra Gesù bambino e Giovannino, alla presenza della Vergine e di un angelo nel deserto roccioso del Sinai. Le figure sono leggermente arretrate rispetto al primo piano e si trovano all’interno di una grotta che è illuminata da una luce tenue. Un sottile graduarsi di passaggi chiaroscurali elimina l’effetto di isolamento plastico. I gesti delle varie figure, la loro composizione triangolare reca una monumentalità alla composizione e un effetto verosimile al paesaggio. Le figure sono in un ambiente fuori dal mondo e dallo spazio, un riferimento alla teoria immacolista della Madonna, un evento miracoloso che è fuori dal tempo e dallo spazio, un evento avvenuto nelle sorgenti stesse della vita. L’opera, originariamente su tavola oggi è su tela ed è conservato al Louvre, mentre una copia sempre di Leonardo è alla National Gallery e originariamente sostituì quella del 1483 che era stata inviata in Francia. Leonardo vuole cogliere il significato profondo dei suoi personaggi, per questo egli rinnova sempre l’iconografia. Nell’Ultima Cena, opera monumentale e celeberrima, egli non raffigura la scena nel momento della consacrazione del pane e del vino, come fece Ghirlandaio nel Convento di Ognissanti, 1480. L’Ultima Cena fu dipinta per volere di Ludovico il Moro tra il 1495 e 1497, si trova nel convento domenicano di Santa Maria delle Grazie. Il momento scelto da Leonardo è il momento in cui Cristo dice “In verità, vi dico, uno di voi mi tradirà”. Il movimento dei corpi si sposta dal centro verso l’esterno, isolando così la figura di Cristo che risalta dalla trifora. La figura di Cristo è isolata dal resto della composizione, è il tumulto a spadroneggiare, Cristo è solo psicologicamente e fisicamente. Leonardo fece una grande quantità di disegni per studiare i corpi e i gesti che dovevano esprimere i moti dell’anima. L’opera divenne subito celebre ai contemporanei che la copiarono e la elogiarono. Il problema è che Leonardo scelse di usare olio su supporto di gesso, una tecnica non resistente che portò al deterioramento già nel 1517. La scelta di dipingere l’Ultima Cena nel refettorio è anche per legare spiritualmente i pasti dei domenicani alla mensa di Cristo. Sempre legata alle commissioni del Moro è La Dama dall’Ermellino che oggi si trova a Cracovia. La tavola dipinta ad olio raffigura Cecilia Gallerani, la favorita di Ludovico il Moro. Il suo copro emerge dall’ombra con una rotazione del busto che conferisce volumetria alla figura. Sempre di Leonardo la decorazione della Sala dell’Asse nel castello di Porta Giovia. La presenza di Bramante e di Leonardo non passa inosservata agli artisti locali che modificano la loro cultura umettando la volumetria, l’effetto illusionistico e addolcendo lo spazio con la luce. Altri artisti rimangono invece insensibili a queste novità. Gli influssi leonardeschi si vedono nella Pala Sforzesca, 1494 oggi a Brera. La lezione di Leonardo e Bramante sarà recepita dal Bramantino e da Vincenzo Foppa, tuttavia il linguaggio più originale è quello di Ambrogio da Fossano detto Bergognone (1481-1522). Egli passa da giovanili raffigurazioni patetiche come Cristo sofferente oggi a Gazzada, a opere originali e naturalistiche come l’Annunciazione o la Presentazione al Tempio. SCHEDA III: ARTE E “SCIENZA” NEI MANOSCRITTI DI LEONARDO Delle attività scientifiche di Leonardo ci rimangono circa quattromila fogli di appunti. Oggi questa raccolta che costituiva il cosiddetto Codice Atlantico, si trova sparso tra le biblioteche di Europa, come l’Ambrosiana, Royal Collection eccetera. Leonardo morì nel 1519 nel Castello di Cloux, qui vi era un numero infinito dei suoi appunti che passarono nelle mani del discepolo Francesco Melzi il quale li custodì fino alla morte. Il figlio Orazio li cedette in parte allo scultore Pompeo Leoni. La dispersione fuori controllo ha fatto si che oggi noi possediamo solo un terzo del gruppo originario. I fascicoli di Leonardo si distinguono in due parti: gli appunti preso per caso e note e studi ordinati. Nei suoi scritti il rapporto testo e immagine è capovolto e il secondo prevale nettamente. opere che mostrano una cultura che ha superato l’arte del Quattrocento e che con una delicata stesura cromatica risalta le figure e l’atmosfera. Prime opere sono la Sacra Famiglia del 1500, olio su tavola oggi a Washington e Adorazione dei pastori. Una delle sue opere più note è la pala di Castelfranco, oggi al duomo della città. Qui la composizione è molto semplificata e annulla il fondale architettonico tipico di queste composizioni. Lo spazio è scandito in maniera ritmica da piani orizzontali. La Vergine in trono con il Bambino è su un basamento altissimo che la tiene sia nello spazio prossimo allo spettatore e che al contempo la avvicina al cielo. In basso i santi Liberale e Francesco sono colpiti dalla luce che illumina tutto il paesaggio che verso il fondo si alleggerisce fino a diventare aria. Altre opere celebri citate da Michiel sono Tre filosofi, oggi a Vienna, olio su tela del 1508, e La Tempesta, Gallerie dell’Accademia 1506 olio su tela. In tutte e tre le opere vi è una coesione dell’ambiente spaziale e della luce. l prima opera nel 1525 si trova presso Taddeo Contarini, la seconda nel 1530 è presso Gabriele Vendramin. Sono opere criptiche, destinate ad ambienti particolari e privati, non di facile lettura. La prima opera I Tre filosofi è stata interpretata in diversi modi, alcuni vi hanno visto le tre età del sapere umano: ovvero filosofia classica, medievale e rinascimentale, altri le fasi dell’aristotelismo, altri ancora riferimenti a eventi mitologici. Quello che sicuramente sappiamo è che la prima versione era una raffigurazione dei Magi, scoperta fatta radiografando l’opera. Il giovane guarda una grotta quasi stupito, accanto alla grotta vi sono tralci d’edera e foglie di fico che sono allusioni al legno della croce. Secondo una leggenda i Magi scrutavano gli astri per trovare un indizio della nascita di Cristo, la grotta sul Mons Victorianus è la stessa dove Adamo ed Eva cacciati dal paradiso deposero i loro tesori, Cristo nuovo Adamo. Il soggetto dei Magi come astrologi era stato raffigurato poche volte, cosa che testimonia un certo volere celare il soggetto. Come ha notato Settis, l’uomo studiando la scienza e l’astronomia raggiunge la coscienza del divino. Il soggetto non è stato rappresentato in maniera passiva, ma bensì in un modo che supera il soggetto stesso raffigurando un concetto. Le opere di Giorgione mostrano significati complessi che sono scelti in accordo con il committente con il quale l’artista ha un rapporto sempre molto stretto, con esso infatti egli condivide la cultura. Un’altra opera di Giorgione è la Venere che oggi si trova a Dresda, legata al nome di Girolamo Marcello. Michiel racconta di altri dipinti di questa collezione che constano di un ritratto di Marcello e un San Girolamo che legge. Girolamo, che ha lo stesso nome del committente è inoltre l’esempio della conciliazione di vita attiva e contemplativa. La Venere è abbandonata al sonno, ricordo che è un dipinto del 1508 su tela. Venere come è risaputo è la dea dalla quale discende la gens Julia. Marcello, nipote di Augusto, riprende il nome del committente, segno di un’appartenenza alla gens Julia, questi sono i prototipi di messaggi celati che il committente richiedeva a Giorgione. I messaggi delle opere di Giorgione sono così nascosti che bisogna essere il committente per capirli pienamente. Per esempio negli affreschi del Fondaco dei Tedeschi del 1508, affreschi dei quali oggi ci rimane un frammento di donna ignuda e delle incisioni tratte dallo Zanetti, risultavano di difficile comprensione anche per i contemporanei di Vasari che elogia per il colorito e per le belle figure ma che confessa anche di non aver mai inteso la storia o il soggetto e che anche chiedendo non ebbe risposte soddisfacenti. Oggi la distruzione del ciclo ci rende impossibile una chiara lettura dell’opera che sappiamo colpì i contemporanei per l’intenso naturalismo. Basti vedere il ritratto di vecchia all’Accademia, un olio su tela del 1508, per capire a che livelli era arrivato Giorgione nel naturalismo. si pensa che addirittura influenzò Michelangelo nella Sistina. Oltre a Giorgione, ad aggiungere naturalismo e un paesaggio con una luce unificante e aria, fu il vecchio Giovanni Bellini (1432-1516) dal Battesimo di Cristo in Santa Corona a Vicenza e al vasto paesaggio, dove l’aria sembra quasi passare tra le fronde, della Madonna del Prato, oggi alla National Gallery. Nella Pala di San Zaccaria, la luce ancora unifica, notare il colorito e l’abside. Il tutto è oggi alla Chiesa di San Zaccaria. Un passo ulteriore è fatto da Bellini nel 1513 nella pala raffigurante San Girolamo tra i santi Cristoforo e Agostino del 1513 nella chiesa di San Giovanni Crisostomo, olio su tavola. Qui si fanno vive delle influenze di artisti più giovani come Sebastiano del Piombo e Giorgione. Isabella d’Este chiese al vecchio Bellini, un’opera per il suo studiolo, egli come riporta Pietro Bembo, voleva accordare il soggetto insieme al committente, uso tipicamente veneziano. Dalla sua fantasia nascono opere come il Festino degli dei del 1514, olio su tela alla National Gallery di Washington. L’opera doveva fare parte del camerino di alabastro di Alfonso d’Este, in seguito modificato da Tiziano nel paesaggio. Altra opera celebre a Besancon è L’ebbrezza di Noè. Al 1514 risale una ignuda che si pettina. Riprende il modello fiammingo del riflesso nello specchio, il corpo della donna è modellato dalla luce. La tavola si trova a Vienna mentre un’analoga donna allo specchio al Louvre opera di Tiziano. È ora il caso di introdurre uno degli artisti più importanti del XVI secolo: Tiziano Vecellio (1488-1576). Probabilmente egli fu allievo di Bellini e sicuramente egli fu anche collaboratore di Giorgione ne Fondaco dei Tedeschi. Il linguaggio dei due è si simile che le opere del 1510 ca sono ancora in dubbio se di Giorgione o di Tiziano. Una di queste opere è Concerto campestre che oggi la critica attribuisce a Tiziano. Tuttavia il soggetto indica una cultura privata vicina ai circoli di Giorgione, in questo caso una musica colta destinata a pochi iniziati. L’opera si torva oggi al Louvre. La scena è una vera e propria allegoria della musica, infatti la figura del ricco giovane con lo liuto e la donna con il flauto hanno una astrazione tale da sembrare figure quasi divine. La musica è interrotta dal pastore sulla destra, ecco perchè la seconda ignuda purifica l’acqua. Un’opera giovanile di Tiziano è l’affresco nella Scuola di Sant’Antonio a Padova. Questi affreschi si staccano dalla maniera giorgionesca e ricercano una maggiore immediatezza del soggetto e della composizione spaziale. Giorgione diventa un vero e proprio modello per gli artisti successivi, egli infatti è un riferimento anche per Sebastiano Luciani detto Sebastiano del Piombo (1485- 1547). Egli anche un eccellente musicista di liuto. Di Sebastiano sono opere giovanili il grandioso Giudizio di Salomone e la Pala di San Giovanni Crisostomo. La prima è una tela del 1509 che si trova a Kingston mentre la seconda nella chiesa del santo a Venezia. In essa vi è un’audace composizione asimmetrica che inserisce i personaggi della sacra conversazione a sinistra, addossati all’elemento architettonico mentre sulla destra si scorge un paesaggio. Stilema che avrà ampio sviluppo in seguito, si pensi alla Madonna dei Pesaro di Tiziano. Originale rispetto a questi due artisti è Lorenzo Lotto (1480-1557). Coetaneo di Giorgione egli risulta attivo a Treviso già dal 1503 al servizio del vescovo Bernardo de’ Rossi al quale fa un ritratto che oggi si trova al Museo di Capodimonte. Un ritratto di forte impatto plastico e che porta una acuta definizione fisionomica che lo accosta ad Antonello. Interessante è anche il coperchio o custodia di tale ritratto che presenta una allegoria che riporta il contrasto tra virtus e voluptas. Il ritratto è del 1505m la custodia oggi si trova a Washington. Un’altra custodia riporta una donna che riflette in un bosco, popolato di fauni. La difficoltà iconografica in questo caso non è dovuta alla volontà di celare il soggetto ma all’intrusione di diverse allegorie in un soggetto. Per farci ancora un’idea delle difficili chiavi di lettura delle opere veneziane propongo il ritratto di Giovane con lucerna, sempre di Lotto, che raffigura in realtà Broccardo Malchiostro fedelissimo di Bernardo de’ Rossi. In questo ritratto la luce colpisce il tessuto di broccato, che è un richiamo al nome del soggetto, che con il suo candore scaglia la figura in primo piano. Le diverse decorazioni di fiori di cardo che vi sono nel tessuto sono un richiamo allo stemma di Malchiostro. La fiammella che effimera si trova ella stanza che si intravede a destra è un riferimento alla fragilità della vita, infatti lui e il vescovo erano stati vittime di una congiura. La Pala di Santa Cristina al Tiverone richiama la Pala di San Zaccaria. In Lorenzo Lotto la cultura nordica è fortemente presente. Le sue opere mostrano un sentimento della natura meno classico e più misterioso. Ne sono splendidi esempi le Nozze mistiche di Santa Caterina, che oggi si trova la Monaco E che risalgono al 1508, olio su tavola. Un'opera importante è il San Gerolamo penitente, che oggi si trova al Louvre e che in origine era per il vescovo de’ Rossi, qui troviamo rami secchi che riportano alle incisioni di Durer e una natura nordica. Sono importanti due Pietà, una del 1505 una dei 1508 che che fungevano da cimasa. La prima è la cimasa del Polittico di Santa Cristina la seconda del Polittico di Recanati. Il tema del San Gerolamo torna alla corte di Giulio II, dove l’artista giunge da Treviso. Qui a Roma egli prende parte alla decorazione del nuovo appartamento del papa in Vaticano. L’opera che si trova oggi a Castel Sant’Angelo. dopo Roma egli inizia a vagabondare lontano dalla città natale, lontano dai centri maggiori in una sorta di isolamento auto-inflitto e in parte subito. SCHEDA V: LA TEMPESTA DI GIORGIONE Intorno al 1530 Marcantonio Michiel annotava nelle sue Notizie d’opere di disegno di aver visto in casa di Gabriele Vendramin la Tempesta. L’opera è del 1506-08 e fin da subito suscitò l’ammirazione dei contemporanei per via della resa del dato naturale. Ultimamente sono state fatte diverse ipotesi circa il soggetto di questa opera. Alcuni hanno supposto che Giorgione facesse delle opere senza un soggetto ne un suggerimento esterno, puro dipingere per un amico. Questa proposta tuttavia non è molto fondata storicamente. Con una radiografia del 1939 si è visto che al posto del soldato era prevista una bagnante. È stata proposta poi l’idea che la bagnante fosse in realtà la donna che si vede oggi allattare il bambino, che era stata inizialmente posta a sinistra. Questo è interessante per capire la fase lavorativa di Giorgione. Chi ha pensato all’unione tra cielo e terra, altri hanno proposto un soggetto mitologico o religioso come il ritrovamento di Mosè, la leggenda di San Teodoro, Mercurio e Iside, la nascita di Bacco eccetera. Settis ha segnalato un rilievo di Giovanni Antonio Amedeo sulla facciata della Cappella Colleoni a Bergamo 1472. Essa è una parte delle storie di Adamo ed Eva raffigurante la Condanna divina, nella scena Eva allatta il piccolo Caino. Nel rilievo tra i due l’Eterno annuncia la loro morte il lavoro che li attende. Il fulmine potrebbe essere visto con l’associazione fulmine = divino. La città potrebbe essere la Gerusalemme celeste ormai chiusa all’uomo, le colonne rotte una allusione alla morte. FIRENZE Dopo aver abbandonato Milano in seguito alla caduta di Ludovico il Moro, Leonardo sosta a Mantova presso Isabella d’Este. In seguito si sposta brevemente a Venezia e poi ritorna a Firenze. Egli espone nel 1500 un cartone raffigurante la Vergine con il Bambino e Sant’Anna alla Santissima Annunziata, cartone che oggi si trova alla National Gallery. A vedere il cartone si recò tutta Firenze.Vasari però parla di un cartone che non è la vera opera che fu esposta lì che invece fu Sant’Anna, la Madonna e il Bambino che oggi si trova al Louvre e che come riporta un testimone diretto Pietro da Novellara, sembra essere l’ipotesi più certa in quanto descrive il Bambino che gioca con l’agnellino. L'opera di Leonardo era senza dubbio una novità, in quanto per la prima volta spazio, movimenti fisici e movimenti dell'animo erano stati rappresentati in questo modo. Nel giro di un ventennio in cui l'artista era stato a Milano Firenze era cambiata notevolmente dopo la morte di Lorenzo la cacciata dei Medici, il breve periodo della Repubblica guidato da Savonarola aveva provocato una vera frattura nel campo delle attività artistiche. Dopo il rogo di Savonarola fu instaurato un governo oligarchico guidato da Pietro Soderini. La pittura a Firenze inizia una fase di instabilità in quanto i maestri più anziani, come Botticelli e Lippi rimangono ancorati ad un linguaggio obsoleto. Piero di Cosimo e i leonardeschi rimangono delle novità isolate. Morte di Proci 1501 di Piero di Cosimo Londra National Gallery. Il rinnovamento dell’arte della città è nelle mani di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Ai due vengono commissionate le rappresentazioni della Battaglia di Anghiari a Leonardo e la Battaglia di Cascina a Michelangelo, battaglie combattute contro Milano e contro Pisa. La location era la Sala grande del Consiglio in Palazzo Vecchio. La sala doveva comprendere un altare con una pala commissionata prima a Lippi poi dopo la sua morte a Bartolomeo. Andrea Sansovino fece una statua del Salvatore visto come re di selvaggio, egli stesso era una persona riservata ed animalesca. Questo suo lato psicologico ritorna nelle opere, una personalità stravagante che lo allontana dal percorso evolutivo dell’arte. SCHEDA VII: DAL COMPONIMENTO INCULTO DI LEONARDO AI FOGLI MAGISTRALI DI MICHELANGELO Leonardo nel suo Trattato sulla pittura si raccomanda di non membrificare troppo le carni nei disegni, ovvero di non renderle in uno stato compiuto. La ricerca di una compiutezza rende il processo creativo, egli lavora come uno scultore, la creta non è mai il modello definitivo. I suoi disegni, e non mi riferisco ai suoi appunti, ma proprio ai disegni, sono dei veri incroci di linee che non definiscono la figura ma la evocano per assonanza. Per Cennino Cennini il disegno è un punto di partenza dal quale l’apprendista deve passare per imparare a buttar giù una figura con fermezza e rapidità, in secondo momento egli deve passare al modello naturale, prima deve disegnare e assimilare le opere dei migliori artefici. Nelle botteghe vi erano taccuini con i modelli iconografici delle opere e taccuini con spunti di anatomia, di parti, per istituire gli allievi. Nel corso del Quattrocento il tratto del disegno si fa sempre più fluido , la sanguigna e il carboncino interpretano meglio questa tendenza anche se non scompare l’uso della punta d’argento. Per Leonardo l’indefinito stimola la creazione dell’artista e gli permette di superare il modello. Michelangelo inviava agli amici i c.d. fogli magistrali, dove la resa dei dettagli è precisa, i fogli servivano per imparare a disegnare. CAPITOLO III ROMA AL TEMPO DI GIULIO II E DI LEONE X L’ETÀ DI GIULIO II Le grandi iniziative artistiche romane iniziano per impulso di due grandi pontefici: Giulio II (1503-1513) e Leone X (1513-1521). Molto diversi per carattere gusto, i due papi condividono il sogno della restauratio imperii. Giulio II riprende la politica urbanistica di Sisto IV, del quale egli era nipote. I suoi grandiosi progetti lo portano ad avvalersi di uomini come Michelangelo, Bramante e Raffaello. Bramante raggiunge Roma subito dopo la caduta di Ludovico il Moro. I suoi studi delle architetture antiche lo portano a progettare San Pietro in Montorio, costruito nel luogo del martirio dell’apostolo Pietro. L’edificio ha una pianta circolare, cosa tipica dei martyrium, la pianta è cilindrica, circondata da un colonnato dorico toscano. La salita al soglio pontificio di Giulio II giova particolarmente al Bramante che viene fatto Sovrintendente generale delle fabbriche papali. Egli progetta il collegamento tra i palazzi vaticani e la residenza estiva sul Belvedere che si fece costruire Innocenzo VIII. Nel 1506 Giulio II riesce, nonostante le versioni di alcune delle più alte cariche ecclesiastiche, ad avere il permesso di abbattere e ricostruire la vecchia basilica costantiniana di San Pietro. Il cantiere viene aperto nel 1506 e affidato sempre a Bramante. Già sotto Niccolò V (1447-1455) era stato elaborato un progetto di ripristino della vecchia basilica, progetto al quale lavorano anche Leon Battista Alberti e Bernardo Rossellino. Era previsto anche l’abbandono della pianta a croce latina a favore di una pianta a croce greca con una cupola nel centro e quattro cupole più piccole ai singoli vertici del quadrato. I lavori iniziati nel 1506 proseguono lentamente fino al 1514, dopodiché viene cambiata idea circa la pianta che torna ad essere quella basilicale. Quello che non cambia sono le dimensioni della cupola e della crociera. Era previsto nel piano anche una piazza quadrangole con degli edifici porticati. A queste innovazioni urbanistiche va aggiunta Via Giulia, Via della Lungara,
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