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Storia dell'arte contemporanea: da Fragonard (XVIII secolo) fino a Basquiat (XX secolo), Sbobinature di Storia dell'arte contemporanea

Sbobine lezioni di storia dell'arte contemporanea, vengono affrontati molti artisti, si parte da un introduzione tardo barocca con Fragonard fino ad arrivare al graffitismo con Haring e Basquiat.

Tipologia: Sbobinature

2018/2019

In vendita dal 27/05/2023

martinabonsignore
martinabonsignore 🇮🇹

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Scarica Storia dell'arte contemporanea: da Fragonard (XVIII secolo) fino a Basquiat (XX secolo) e più Sbobinature in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! 1 STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA – PROF. D. LACAGNINA 2019/2020 La definizione di storia dell’arte contemporanea non è una definizione accettata da tutti, l’Italia si è adattata al lessico stabilito dal Ministero. In altre parti del mondo si intendono gli ultimi decenni di storia, coevo a noi, facendo riferimento ad artisti ancora viventi. Precedenti Tardo-Barocchi si intersecano con le opere che tratteremo. FRAGONARD Sintetizza il gusto di Maria Antonietta, monarca francese, trasmette leggiadria di modi, di contenuti artistici. L’altalena è una scena mondana, di intrattenimento sociale, in cui ogni singolo dettaglio fa status: si vede il servitore in penombra, ruolo subalterno. Mentre lei è protagonista del dipinto, ai suoi piedi il suo innamorato secondo le dinamiche del corteggiamento mondano dell’epoca, rispettano un codice di comunicazione ben preciso, la donna ha un ruolo egemonico civettuolo (gioco di gambe), sotto lo sguardo attento del suo innamorato, accompagnatore galante. Idilliaco paesaggio, in cui ogni singolo dettaglio è reso con una qualità materica straordinaria, in modo da suggerisci la qualità del materiale degli elementi, riverberi della luce sulle fronde degli alberi, preziosità di ogni elemento compositivo che fa parte dell’estetica dell’epoca. Prevale l’idea di una rappresentazione di grande presa, virtuosismo pittorico, movimento reso in questo attimo grafico e fermato nel tempo. Pittura del disimpegno e dell’intrattenimento, l’unico scopo è quello di far rappresentato il proprio benessere sociale. Celebrazione di un mondo di privilegi, protagonista è l’alta aristocrazia, la quale è la stessa committenza. È un’artista chiamato se si voleva essere qualcuno della Francia del tempo. L’Odalisca bruna di BOUCHER, opera provocante. Caso in cui si rende necessario il punto di vista subalterno. Rappresentazione fortemente sessista: il pittore è un uomo che ritrae una donna nuda di un’altra cultura (islamica) in una posizione definita pornografica. È un’opera che si trova al Louvre, è uno di quei quadri che esige di una protezione di un vetro. Il potere di seduzione di questa immagine è ancora oggi potente. Ritroviamo lo stesso virtuosismo e qualità di resa materica e pittorica dei tessuti e dei materiali rappresentati. Sembra di poter toccare con mano la vaporosità e la resa plastica dei drappeggi e dei materassi. C’è un problema di interpretazione. Appartiene a una visione maschilista in cui la condizione di una donna è considerata subalterna rispetto all’uomo, operando una manipolazione della realtà degli Harem. In questo caso si tratta di un ritratto contemporaneo, è un nudo parziale, la figura è seminuda, si identificava questa scena come ambientata in un bordello, con la donna pensata come un oggetto inanimato alla mercé del desiderio maschile. Nella cultura orientale l’Harem è il simbolo per eccellenza della potenza sensuale femminile, luogo dell’intelligenza, della conversazione e lettura brillante, della pittura e della musica, dobbiamo immaginare tutto il contrario rispetto alla costruzione dell’immaginario Occidentale. Ci sono molte contraddizioni e limiti. L’apoteosi della Monarchia Spagnola di TIEPOLO, volta nel Palazzo Reale di Madrid. Qui ritroviamo una cultura dai linguaggi aurici, tutto posizionato in primo piano e accentuato da un virtuosismo affollato e complesso da controllare in un dipinto. Qui si misura la grande maestria dell’artista. Effetti di sfondamento illusionistico impressionante, che emozionano lo spettatore in visioni molto teatrali e scenografiche. Supremazia degli anni ’60, in cui ritroviamo l’ultima grande stagione dell’arte italiana affermata a livello internazionale. (luogo comune di cui dobbiamo liberarci) Il Giuramento degli Orazi, Louvre, di DAVID. Focus centrale di attenzione puntato sulle spade, sulle quali convergono tutte le linee di tensione della scena. Spesso quest’opera viene associata a un manifesto del Neoclassicismo. Privilegia una sintassi paratattica, ogni elemento ha un suo spazio di autonomia, uno accanto all’altro, tutto corrisponde a una pulizia visiva che segna una pagina nuova della pittura di fine ‘700. Dipinto realizzato dopo un lungo soggiorno a Roma dell’artista, è un dipinto romano che riprende il classicismo italiano, ha come precedente di riferimento la pittura di Raffaello. Bellezza armonica costruita su un’idea di 2 equilibrio, misura, autorità, gravità, idea di una condizione pia (donne che piangono sulla dx, uomini combattono sulla sx). Rappresentano due facce della medaglia, due aspetti della guerra. Il dipinto è commissionato dall’alta aristocrazia francese per il Re di Francia. La Rivoluzione Francese guarda spesso a David, si farà testimone della rappresentazione del potere Napoleonico. In questi valori promossi, dedizione alla patria a costo della vita, patriottismo, verranno condivisi dalla Francia. David esponeva al Salon, in seguito le sue opere furono esposte al Louvre. I più meritevoli venivano acquistati dallo Stato. Morte di Socrate, DAVID. Metropolitan di New York. Pittura filosofica del ‘600, legata ai temi di resistenza, sacrificio in nome di un ideale più alto, celebra questi maestri superiori. Dentro gli ideali dell’Illuminismo. Opera dell’87, è improntata sul Neoclassicismo che guarda a una pittura di derivazione Raffaellesca, ha un’atmosfera tenebrista che concorre a rendere un’atmosfera di dramma e tragedia che si sta svolgendo nella scena. Gli atteggiamenti e le espressioni sono ripresi dalle opere di Raffaello negli Appartamenti Vaticani. Pittura che segue modelli alti da cui prendere riferimento. Morte di Marat, DAVID. Manifesto rivoluzionario perché Marat è un martire della Rivoluzione assassinato. La rappresentazione è ridotta all’osso. Parallelismo con i martiri cristiani, riferimento alla Deposizione di Caravaggio, citazione dovuta alla visita romana. Essenzialità e povertà della scena riflette il carattere del martire. Questa dedica ha il valore di una lapide funeraria, è un omaggio funebre affidato al materiale povero del legno, tale doveva essere la commissione dei martiri della Rivoluzione. Marat fu assassinato mentre faceva il bagno, aveva una malattia della pelle, costretto a lunghe sessioni di immersioni, nelle quali continuava a lavorare, continuava a scrivere dedicandosi alla causa della Rivoluzione. Ritratto di Napoleone Bonaparte, DAVID. Ritratto non finito. Vira verso una pittura romantica ed eroicizzante. La pittura diventa propaganda, alimenta il mito di Napoleone. Idea di un Napoleone invincibile e pacificatore, che guida la riconquista dell’Europa. Napoleone sul San Bernardo, DAVID. Attraversamento delle Alpi a cavallo, coraggioso e disinvolto, operazione affrontata da pochi in passato. Su una pietra in basso a sx troviamo il nome di Annibale. Eroismo glorioso e celebrativo di Napoleone a cavallo. Tema del ritratto equestre è ricorrente dove si vuole accreditare l’immagine di un uomo politico potente che ha bisogno di legittimarsi grazie a eventi storici passati. Ritratto di Napoleone nel suo studio, DAVID. Fissa un’iconografia di Napoleone. Comunicazione della sua potenza, di valori istituzionali tramite immagini. Si va a consolidare il suo potere a livello europeo. All’interno delle opere di David possono convivere linguaggi diversi che mutano in base alle necessità e al contesto in cui si ritrova. I confini non sono mai così netti. Il Romanticismo non è un’evoluzione del Neoclassicismo, i due linguaggi convivono, sono due facce della stessa medaglia. Combattimento tra Venere e Marte, DAVID. Svolta romantica e restaurativa. David genera una scuola all’interno della quale si formano più generazioni di artisti, tutti diligentemente avviati a questo lessico classicista, diventa un vero e proprio caposcuola. Troviamo un artista come Flandin, realizza ritratti di nudi maschili. Artista come Gerard nell’opera Ossian risvegli gli spiriti sulle rive. Artista come Girodet. Artisti più giovani che virano verso una pittura più accademica e romantica. Classicismo Italiano che nel nord Italia i suoi centri più vivaci. 1805, Ritratto di Napoleone di Andrea Appiani. Pittura di grande forza visiva, sottomessa alle ragioni della propaganda. Morte di Cesare di Camuccini Vediamo episodi della storia antica romana, la res pubblica romana è al centro perché respingeva alla guida dello stato il potere centrale, il potere concentrato in una sola persona. Dipinto con un impatto molto forte, si mantiene sul precedente raffaellesco. Pompeo Batoni famoso come ritrattista realizza il Ritratto di Sir Charles Crowle, gentiluomo in visita in Italia. Esperienza di formazione che ha un’importanza capitale per una generazione di intellettuali che scoprono l’Italia e l’Antico, è l’esperienza del Gran Tour. Si affina l’archeologia nel corso del ‘700. Si iniziano a costituire le prime collezioni museali di antichità. Raccolte come il Giardino del Belvedere. Cambia l’atteggiamento nei confronti della disciplina, è definibile scientifico. Alcuni intellettuali decidono di stabilirsi 5 Mulino di Flatford paesaggio legato a una memoria personale, ritrae i luoghi della sua fanciullezza, traspare un’Inghilterra laboriosa, onesta, dedita ai lavori nei campi. Interpretazione idilliaca della vita, attenzione al vero e alla realtà, vale per la resa atmosferica del cielo, il clima è molto chiaro e reale. Evidenzia le diverse condizioni di luce e i diversi momenti della giornata. Stonehenge, famoso monumentale complesso, rende la maestà del preistorico. Accompagnato da un sinistro paesaggio nuvoloso e tempestoso. WILLIAM TURNER maestro del paesaggio. Ha un avvio di pittura tradizionale, affascinato da temi come il naufragio nel mare in tempesta. Pescatore nel mare, opera del 1796, Tate Gallery Londra. Visione ancora tradizionale, rimane sempre fedele al modello del paesaggio classico, con i suoi assetti compositivi e valori. Visione distanziata, due quinte laterali e scena al centro che cattura l’attenzione. Scena di naufragio, in cui ritroviamo un punto di vista più ravvicinato, una linea di orizzonte più alta in modo da spingere la visione al primo piano, riesce a coinvolgere di più lo spettatore mettendolo al centro dell’opera. Opera quasi astratta, Tempesta in alto mare, opera del 1842. Astratta è difficile da identificare la scena. Artista molto amato dagli Impressionisti proprio per questo suo progressivo processo di dissoluzione della forma, è legata anche a un fattore materico, carica il colore sulla tela creando parti in rilievo, crea un carattere reale, scomposto della scena. La velocità del treno, è ancora poco più di un pretesto per rendere il contrasto tra gli elementi, non è forte interesse per la modernità. Pittura astratta in cui la ripresa atmosferica è dovuta all’uso del colore. È uno straordinario acquarellista, è la pittura più difficile da controllare essendo molto liquida. Sono noti i suoi acquerelli realizzati a Venezia, scopre la cultura del paesaggio italiano, passa attraverso lo sguardo dell’artista straniero. Città notturna, decadente. CASPAR DAVID FRIEDRICH possiamo introdurre la nozione di sublime che si diffonde già dall’epoca. Il sublime sono quelle esperienze della visione, della coscienza sensibile che si avvicina all’esperienza del divino, è quasi un’esperienza extra sensoriale, è legata a una natura maestosa che fa paura, è una natura minacciosa, sinistra anche di Turner. Naufragio, opera della prima maturità. Croce di Montagna, è come una pala d’altare, ritrovo di una cultura medievale. Scena di una Crocifissione al centro, assorbita dal paesaggio di alta montagna, in cui la spettacolarità della natura con i pini e la luce crepuscolare, addensamento delle nubi illuminate da una luce dal basso molto teatrale sembra suggerire un’idea di divino. Monaco sulla riva del mare. È una visione interiore emotiva, spirituale, in cui c’è un ancoraggio alla pittura che ha una sua rielaborazione interna e intellettuale. Figura di monaco schiacciato dal confronto con la natura e il paesaggio intorno. Costruito su una costruzione di gradazioni di colore. Abbazia di Oatwood, immagine e pensiero che rimanda a Foscolo. Vita e tempo che scorre. La rovina architettonica in questo caso è contemporanea, ciò che resta di un’abazia vicino a un cimitero. Natura morta e avvizzita costretta in quest’atmosfera gotica e ostile. È perfettamente in sintonia con lo sviluppo della letteratura gotica inglese della prima metà dell’800. Pittura che ha una forte componente religiosa e misticheggiante, in alcuni casi è più sottile e meno dichiarata come di fronte all’opera del Mare Ghiacciato. Viandante sul mare di nebbia, condensa l’idea di uno sguardo puntato sull’ignoto, il mondo sconosciuto e che ci fa paura al quale non ci possiamo sottrarre. Desiderio del viaggio, ora è solo mentale. In Francia, INGRES esordisce molto giovane, Autoritratto con un’atmosfera molto ambrata e luminosa. Sarà un modello di riferimento per Picasso per quanto riguarda la linea del disegno. La grande Odalisca, la giovane allungata in una posizione quasi innaturale con un bacino lunghissimo, il precedente sono le opere manieristiche di Raffaello. All’interno di un contesto di estremo virtuosismo pittorico. Resa materica straordinaria nei tessuti, ambiente dell’harem. Dell’opera esiste anche una versione in bianco e nero. 6 Edipo e la Sfinge, del 1808, dipinto che avrà molto fortuna nell’ambiente simbolista dell’epoca, diffusa in stampe. Di fronte ai valori della linea disegnativa, della coloritura delle carni, Ingres riusciva a restituire una dimensione plastica alle figure, una loro gravità fisica ai corpi. Riesce a restituire una spazialità. La sua pittura caratterizzata da una luce ambrata e romantica, in un tema come questo, misterioso e sinistro a causa della Sfinge, sceglie di ritrarla in ombra inaccessibile, ha conquistato i pittori a venire. Vediamo le ossa e i cadaveri di quelli che prima di lui avevano cercato di entrare nella città di Tebe, Edipo si pone come un vincitore, mettendo in ombra la cattiva Sfinge. Ritratto di Napoleone Bonaparte, si registra questa sorta di disincanto, non c’è più quella costruzione trionfante e celebrativa della pittura di David. Vediamo una dimensione più intima e sottotono, Napoleone raffigurato come burocrate sopraffatto dalle responsabilità. Rinaldo e Angelica si rifà all’arte medievale. Paolo e Francesca, riferimento a Dante e alla lirica medievale, le figure sono in costume. Pittura di atmosfera e di evocazione storica. Non si celebrano grandi eventi ma aneddoti e vicende di ordinaria amministrazione sentimentale. Morte di Leonardo da Vinci, pittura Pompadour. Scena secondo quella che doveva essere la visione a posteriore del genio. Il voto di Luigi XIII, riferimento chiaro a Raffaello. San Luigi devoto alla Madonna posta in trono di nubi con il Bambino. Angeli che reggono un cartiglio in basso. Giovanna d’Arco, Louvre. Pittura di storia, banco di prova dei grandi artisti. Atmosfera sospesa e misteriosa. Effetto straniante della sua pittura, forse non troppo consapevole. DELACROIX artista romantico francese, tradizione basata sul disegno. Tutti i romantici francese guarderanno al colore veneziano di Tiziano e Giorgione. Barca di Dante, si collocano le esigenze della pittura di storia di grande formato, già pensate per la disposizione pubblica museale. Opera del 1822. Capacità più sperimentale, azzardo coloristico che segna la svolta rispetto una tradizione classica ormai superata. Grecia sulle rovine di Missolonghi. Schieramento politico. La causa Greca attraversa la politica e la passione di molti giovani europei. Manifesto, idea di una sorta di Libertà (che guida il popolo) greca, immagina lo stesso destino. La morte di Sardanapalo. Evoca un’idea dell’Oriente manipolato dall’ideale Occidentale, reso barbaro, confuso, con ricchezze e lusso sfrenato, con testa di elefante intagliate nel legno. Scene molto suggestive per i romantici. Qui troviamo una forza centripeta, tutti le figure sono spinte ai margini dall’interno, la scena è confusa e movimentata. La diagonale trasversale che dilata e contrae lo spazio della rappresentazione. Libertà che guida il popolo, 1830. In cui ritroviamo una figura allegorica della Libertà con in mano la bandiera francese, un moschetto e con il seno scoperto come la Verità. La scena ha una composizione moderna. La scena si allunga a dettagli che rimangono fuori, visione compatta e chiusa, un punto di vista ravvicinato. Scena molto sentita e partecipata, la battaglia è stata svolta da tutte le classi sociali, facilmente riconoscibili. In basso ci sono i martiri della rivoluzione, uomo morto con le calze, sembra essere un omaggio alla Zattera della Medusa di Gericault. Nel 1832 realizza un viaggio in Nord Africa, a differenza dei suoi contemporanei realizza dipinti come le Donne di Algeri, dove ritroviamo un contesto diverso. Sono donne vestite che sono impegnate tra loro, non sollecitano il desiderio come da tradizione vista nell’harem. Ritratto di Chopin, emblema stesso della pittura romantica, compositore romantico. Ritratto intenso in cui traspare il genio creativo e sregolato. Opera realizzata su pochi toni di colore, posti sulla tela con brutalità, restituisce una visione emotiva del personaggio. Odalisca, non si sottrae alla moda del mercato ritraendo questo soggetto. In Italia, TOMMASO MILARDI autore della Madonna col Rosario, autore del Manifesto teorico del Movimento dei Puristi, ritorno alla pittura del ‘400/’500. Saturi e insoddisfatti della pittura moderna, decidono di guardare alla pittura antica, in maniera più radicale lo faranno i Preraffaelliti inglesi. Arte sacra 7 da immagine devozionale, sintomatica di una religiosità più sinceramente vissuta e semplice, non filtrata dalla cultura contemporanea. Opera di OVERBECK, Trionfo della religione nelle arti. Artista che faceva parte dei Nazareni, comunità di artisti che si riuniscono e si riconoscono in un programma culturale condiviso. Avevano fatto una scelta di vita diversa. Ritratto del pittore Franz Pffor. Ritratto affacciato sul davanzale. Resurrezione della sorella di Janu colori pastello e tenui. Pittura religiosa e orientata a ritrovare nella fede quei principi di onestà. Romanticismo francese, personalità centrale è THEODORE GERICAULT, con la sua partecipazione al Salone del 1812, in cui espose l’opera Ufficiale dei Cavalleggeri alla carica, questa dimensione più scomposta, agitata dai colori caldi e le cromie piene di gialle e rosso, colori predominanti su uno sfondo da una luminosità ambrata e calda avvolgente. L’opera destò molte polemiche, fu molto criticato dal pittore DAVID che non poteva riconoscersi nella forma di questo dipinto e in una pennellata così mossa, agitata e rapida che fa trasparire il momento ci concitazione e di grande slancio coraggioso dell’impresa militare che sta per compiersi. Gericault ebbe un importante soggiorno in Italia tra il 1816/17 in cui visitò Roma e Firenze. Soprattutto Roma lasciò un ricordo molto forte nella sua pittura, in riferimento all’opera La corsa dei Berberi, episodio tratto dalla cronaca, la corsa dei cavalli Berberi è un rito con cui si chiudeva il carnevale romano e che prevedeva la corsa liberi di questi cavalli, lasciati allo stato brado lungo la via del corso, in pieno centro. Anche in questa opera è evidente lo slancio romantico, selvaggio, le forze ferine di una condizione in azione primitiva, vera e autentica anche nella sua brutalità. Proprio la brutalità della condizione umana è al centro del suo capolavoro, La Zattera della Medusa, dipinto che ha avuto una lunga gestazione, esposto nel Salon del 1819, suscitando grandi consensi ma anche aspre critiche. È un quadro ispirato alla cronaca più recente, la fregata di Medusa era naufragata al largo delle coste africane diretta in Senegal e alcuni dei sopravvissuti avevano trovato riparo in questa zattera di fortuna, fatta andare alla deriva per giorni nell’Oceano Atlantico mettendo a dura prova i superstiti a bordo. Le cronache raccontano anche di episodi di cannibalismo sulla zattera, il sovvertimento delle gerarchie pubbliche e sociali della Francia dell’epoca in cui svolge le funzioni di capitano della ciurma di naufraghi è un uomo di colore che si allunga all’orizzonte per segnalare la loro presenza alla deriva a una nave che poi riuscì a portarli in salvo. È un dipinto che assunse delle connotazioni politiche forti, i più arguti e smaliziati osservatori dell’epoca videro in quest’opera una sorta di allegoria del naufragio della Francia dopo il crollo Napoleonico e gli della restaurazione post- congresso di Vienna da più parti si lamentava la situazione di stallo e l’involuzione dello stato francese. L’opera rappresentò un grande successo per Gericault, tanto che l’anno dopo nel 1820 fu esposta anche in Gran Bretagna, fece del suo autore una sorta di protagonista indiscusso delle più avanzate posizioni di ricerca in ambito pittorico europeo, al punto da identificarlo come pioniere del realismo che poi sarebbe maturato da lì a qualche anno grazie all’opera di Courbert. Su questa stessa riga si definiscono anche le opere della maturità di Gericault, in particolare la Serie degli Alienati, un’opera intensa di ritratti realizzati soprattutto tra il 1822/23, in cui posò la sua attenzione di osservatore cupo e impietoso della realtà, su una serie di pazienti ospedalizzati e affetti da gravi patologie psichiche. Lo vediamo nel Ritratto di un cleptomane o nel Ritratto di una donna folle e affetta da ludopatia. Al di là degli aspetti più impietosi di analisi che ci restituisce un mondo di alienati ripiegati su sé stessi alla deriva, a colpire è soprattutto la modernità della pittura di Gericault, una pittura dalla stesura sintetica, rapida, pastosa in alcuni passaggi, giocata su una luminosità calda e avvolgente, e in cui è più forte l’aspetto di simpatia e compassione, di sensibilità romantica che definisce la condizione umana di questi alienati. Uno sguardo alla scultura romantica francese, in cui ritroviamo due opere chiave di questa stagione, l’opera La Marseillaise di FRANCOIS RUDE, la partenza dei volontari per la guerra del 1792. Altorilievo che ancora oggi si trova su uno dei pieditti dell’Arco di Trionfo all’Étoile a Parigi, si tratta di un progetto avviato da 10 rapporto tra i due e probabilmente comprata dalla collezione della Duchessa dopo la sua morte dal Primo Ministro Manuel Godoy insieme al corrispettivo con la Maja Vestida. Un vero e proprio gioco erotico, secondo alcune testimonianze i due dipinti erano allestiti uno sull’altro, per cui attraverso un gioco di tiranti si vedevano entrambi i dipinti. In queste due opere ritroviamo quel linguaggio sintetico, rapido veloce di una pittura romantica che si rifaceva alla più alta tradizione della pittura calda, ambrata, dalla qualità atmosferica avvolgente, dai contorni rarefatti e che di fatto impressero un nuovo corso della pittura sperimentale moderna dell’800. Opera della maturità del 1798, sono gli Affreschi per il Cupolino della Chiesa di Sant’Antonio della Florida a Madrid. Abbiamo visto nelle pitture di esordio che Goya ha una formazione tiepolesca, una pittura espansa capace di affondi prospettici, illusionistici ma che a dispetto di quella tradizione che si affidava a un crescendo monumentale di figure che culminavano nel punto più alto di concentrazione dello sguardo, quasi una sorta di apice compositivo, di punto di tensione narrativa principale. Qui al contrario la composizione è tutta schiacciata sui margini dello spazio di pittura, quasi compressa, costretta da una forza centrifuga alle periferie di questa dolente e umanità su cui campeggia la figura miracolosa del Santo, quasi una sorta di bagliore, di luce di speranza rispetto a un destino già tragicamente segnato. Il destino da lì a poco avrebbe fatto la sua comparsa della Penisola Iberica con l’occupazione francese da parte delle truppe di Napoleone, una lunga occupazione dal 1808-1814, anni della seconda più importante serie opera grafica di Goya che si intitola I disastri della guerra, una serie di immagini istantanee di fatti cruenti dell’occupazione francese. Le opere hanno titoli abbastanza eloquenti e che sospendono per pudore lo scempio che le immagini raccontano in modo feroce, nell’opera Cos’altro si può fare? Si assiste a una scena raccapricciante in cui gli invasori dilaniano i corpi anche già morti dei cittadini spagnoli. Lo stesso vale per l’opera Questo è il peggio, troviamo un uomo nudo, già mortificato nella sua condizione umana da questa ostentata nudità, mutilato nei suoi arti e oscenamente impalato su un tronco d’albero. Opere che svolgono un atto di denuncia molto forte nei confronti dell’occupazione militare della Spagna. È morta la verità, opera in cui eloquentemente fotografa questa crisi, questo fallimento definitivo di ogni ideale illuminista coltivato nel corso del 700 di fronte alla violenza della guerra. Anche per la sua capacità di denuncia, di elaborazione poetica di un travaglio doloroso per la storia spagnola che Goya divenne un vero e proprio eroe delle rivoluzioni di ogni tempo. Un autore come Guttuso seguirà molto Goya, che negli anni fra i ‘30/’40 definirà la sua vocazione antifascista al punto da diventare dopo la liberazione del paese una figura di intellettuale organico all’interno del Partito comunista. Opera manifesto di Goya della resistenza antitotalitaria, Il 3 Maggio realizzata subito dopo la liberazione della Spagna dalle truppe Napoleoniche nel 1814 e che ritrae l’esecuzione dei difensori della città di Madrid. È una scena che ha fatto scuola, che impressionò molto gli osservatori dell’epoca, per il carattere di fedeltà al vero di questa scena che ritrae un’esecuzione militari, segnata dal sangue versato dai martiri già uccisi, in cui l’eroismo di questo singolo uomo in camicia bianca campeggia nella notte, rischiarata appena dalla lanterna poggiata a terra contro la forza anonima, brutale e irrazionale dei fucilieri del plotone di esecuzione. L’ultima produzione di Goya è quella delle Pitture Nere del Sordo, in cui Goya ormai sordo e incupito totalmente vediamo l’opera di Saturno che divora i propri figli, in cui la figura mostruosa del titano è ritratta intenta a mangiare in un crescendo orrorifico il cadavere del figlio. Anche in questo caso un atto di accusa contro il potere che teme il progresso, l’avanzamento di nuove giovani risorse o a timore per l’usurpazione di un consenso radicato, siamo ormai nei primi anni ’20 del ‘900. Uno dei protagonisti del Romanticismo italiano è FRANCESCO HAYEZ, un pittore veneto interprete delle aspirazioni risorgimentali del costituendo nuovo stato nazionale italiano. Prolifico pittore anche di ritratti. Definizione di Emilio Cecchi del 1927, storico dell’aristocrazia intellettuale del suo tempo, definì Hayez con riferimento agli intensi ritratti che ha lasciato di personaggi di spicco della società intellettuale milanese, a partire dal Ritratto di Alessandro Manzoni. Hayez si stabilisce a Milano già con l’esposizione del suo Pietro Rossi in carcere a Brera nel 1820, suscitò molto clamore da imporsi come uno dei più avanzati pittori dell’800 in Lombardia. Non solo per la scelta del soggetto, un tema medievale e antico, ma soprattutto per la 11 sensibilità cromatica e luminosa che accentuava quegli aspetti patetici, di coinvolgimento emotivo che caratterizzavano questa sua pittura politicamente impegnata. Ultimo bacio di Giulietta e Romeo del 1823, conservato a Tremezzo nella Villa Carlotta, scelta di un tema Shakespeariano in maniera più originale nel contesto italiano, interessante perché il tema è di ambientazione italiana. Nella vicenda amorosa si riflette in realtà un più ampio contesto politico contro cui i due giovani innamorati lanciano una sfida legandosi in un rapporto sentimentale che cozza con gli assetti politici- istituzionali vigenti a Verona all’epoca. L’opera è una sorta di più ampia allegoria, un’allusione alle istanze più rivoluzionarie che attraversavano le coscienze politiche risorgimentali dell’epoca. Vediamo ricostruzioni in stile, in costume, queste ambientazioni accurate dal punto di vista della ricostruzione degli interni, delle atmosfere in cui le scene sono calate. Ha prevalere è quel senso di impegno militante di sfida, di necessità di rivalsa su condizioni ambientali restrittive e illiberali. I profughi di Parga, è un’opera del 1831 anche questa esposta all’Esposizione Biennale di Brera. L’opera ha un’ispirazione letteraria, qui il riferimento va a un testo omonimo di Giovanni Berchet del 1823, in cui la vicenda dei profughi abitanti di questa isola greca nel Mar Ionio ceduta dalla Gran Bretagna all’Impero Turco Ottomano e dunque costretti a lasciare la propria patria per sfuggire alle persecuzioni. È un episodio del più largo conflitto Greco-Turco che attraversa tutta la coscienza europea rispetto alla tragicità di questi fatti e dei comportamenti politici a livello internazionale che proibivano la libertà e su cui stava montando un impegno sensibile forte. Anche in questo caso la calda cromia dorata, l’atmosfera avvolgente della resa del paesaggio e dell’ambientazione che rimonta a una tradizione di pittura veneta ben presente negli anni di formazione id Hayez, qui si traduce in una più militante pittura di storia che ha accorciato le distanze dal passato per occuparsi adesso di episodi relativi all’attualità politica internazionale. Anche qui prevalgono quei sentimenti di patetica immedesimazione, si prova solidarietà nei confronti di questo popolo costretti all’esodo, si lasciano alle spalle la città in fiamme, procedono concordi e mesti verso un destino incerto, le madri e i padri scortano i propri figli portandoli in braccio. Oggi come allora queste immagini scatenano clamore nello sguardo dell’osservatore medio, tanto più se proposte di questo tipo erano associate a sottili o evidenti rivendicazioni autonomiste e indipendentiste, la condizione dell’esule, lungo il corso della pittura italiana del risorgimento, è un topos culturale-iconografico che è privilegiato da molti artisti schierati a favore della causa. Vespri Siciliani, opera con un tema iconografico fortunato nel corso della pittura dell’800, esistono più versioni di questo stesso tema da parte di Hayez, questa versione più matura e tardi è realizzata nel biennio 1845/46 e conservata a Roma nella Galleria Nazionale di Arte Moderna. La scena prende spunto da un celebre episodio di storia medievale, la rivolta dei vespri in Sicilia nel 1282 per trasferire su un episodio antico significati e rivendicazioni proprie della più stretta attualità. Così come i siciliani offesi dalla tracotanza e violenza nei confronti di una donna in cui un soldato francese strappò le vesti a una signora scoprendole il seno, questo atto violento nei confronti della dignità di una persona scatenò la rivolta del popolo siciliano contro l’invasore straniero. Erano episodi di storia antica che dovevano avere un valore edificante e legato alla più stretta contemporaneità, dovevano suscitare sentimenti di amore e orgoglio verso la patria, di forza militare sul piano della indipendenza e della ricostituzione di un regno riunito italiano. Sono temi che trovano larga fortuna nel genere del Melodramma a cui spesso la pittura di Hayez è stata associata proprio per quel carattere edificante, vivido di retorica autonomista e indipendentista sul piano di una pittura di storia evocativa, dai contenuti fortemente impegnati. Ritratto di Alessandro Manzoni degli anni ‘40/’41. Realizzato nel pieno della gestazione del romanzo dei Promessi Sposi, che è diventato un testo chiave della coscienza risorgimentale italiana per i temi di cui si fa testimone e parte attiva rispetto alla costruzione di una coscienza nazionale, di consolidamento di un orgoglio, di un’identità nazionale italiana. Manzoni viene ritratto secondo quei criteri che abbiamo visto di avvolgente, ambrata atmosfera che insiste sui valori morali, etici, personali e psicologici del soggetto ritratto. Un ritratto anche dai toni colloquiali, dimesso rispetto al ritratto ufficiale, Hayez è più attento a quei valori di umanità, di qualità della persona, del suo impegno come intellettuale che vengono sempre privilegiati. 12 La lunga stagione del Risorgimento, i suoi molti passi falsi, le sconfitte di questo lungo travaglio politico- istituzionale che attraversò l’Italia per tutto l’800, fino alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Negli anni della maturità dell’artista generò sentimenti di disillusione, di sconforto, ripiegamento pessimistico, tanto è che nel Ciclo detto delle Malinconie, di cui vediamo l’opera Meditazione degli anni 1850/51 conservata a Verona. Opera in cui queste figure allegoriche di donne solitarie, ripiegate su sé stesse, vittima delle contingenze del tempo diventano emblemi di una condizione più generale di remissione e sottomissione, disillusione dal forte impatto emotivo patetico e sentimentale, volto a suscitare quei sentimenti di pietismo e commiserazione che caratterizzano la cultura italiana di questo tempo. Proprio per questo carattere così patetico, rappresentano storie in cui l’osservatore medio poteva facilmente immedesimarsi e identificarsi. Il Bacio, opera di cui esistono più varianti, questa è una versione tarda del 1859, conservata a Brera. Qui dalle ispirazioni vagamente letterarie a più ampi contesti di riferimento politiche internazionali, traducevano in un’immagine familiare, prossima alla sensibilità di tutti, l’idea di un distacco irrimediabile, di un destino condannato alla tragedia, quello a cui era legato anche l’Italia. A questa pittura di storia intrisa di retorica nazionalistica, una pittura molto corretta sul piano della consuetudine accademica, di quella gerarchia di valori che avevano posto la pittura di storia al vertice delle specializzazioni della pittura dell’800. Pittura di paesaggio che quanto fosse rilegata a un ruolo secondario al più prestigioso e virtuoso genere della pittura di storia e di figura, inizia a ritagliarsi una sua autonomia e specificità di pratica e di impegno intellettuale che avrà una rilevanza sempre più centrale per gli svolgimenti della pittura moderna nel corso dell’800 e col la Rivoluzione impressionista e realista nella seconda metà del secolo. L’Italia diede un contributo che spesso viene sottovalutato e non adeguatamente considerato anche in ambito internazionale ma che è bene non perdere di vista, a partire dalla personalità di GIACINTO GIGANTE, un vedutista e paesaggista napoletano, cresciuto alla Scuola di Pitloo, pittore olandese che aveva ottenuto nel 1816 la cattedra di paesaggio nell’accademia di belle arti di Napoli. Riviera di Chiaia a Napoli, dipinto del 1837. Una pittura improntata ad una chiarezza lenticolare, di impaginato, di precisione topografica del rilievo quasi in presa diretta che viene fatto di questo brano di realtà. In quest’opere vediamo la più classica veduta di Napoli con il Vesuvio sullo sfondo e in primo piano la passeggiata della riviera di Chiaia con al centro riconoscibile il profilo della città con la veduta del Castel dell’ovo. Veduta che tradisce un bisogno di verità, di onestà intellettuale con questo rapporto con il vero e che dichiarano una svolta per la pittura di paesaggio non di poco conto, perché se prima il genere era considerato secondario, decorativo e marginale, buono per quegli spazi di decorazioni interni; in realtà ora rivendica una disposizione intellettuale votata a quei principi di onestà, di verità, di aderenza alla realtà, e quindi di capacità di analisi e di controllo e di intervento sulla realtà stessa. Gigante e Pitloo danno vita alla Scuola di Posillipo verso cui poi hanno fatto conversione molti altri pittori e che inaugurano una felice stagione di pittura di paesaggio nel sud Italia intrisa di umori di cultura internazionale. La città di Napoli accoglieva le prime importanti colonie di turisti in trasferta, che sceglievano il sud Italia con condizioni climatiche miti e accoglienti tutto l’anno, che rivivono la luminosità terza, calda, solare degli acquarelli dell’opera di Gigante e che costituivano la clientela di riferimento per opere di questo tipo, facili da trasportare e di piccole dimensioni. Tempesta nella Baia di Amalfi, opera agli antipodi del testo che abbiamo appena visto. Opera del 1837 che presenta un notturno non molto distante da quelle atmosfere del Romanticismo nordico, cui ci ha abituato la pittura romantica europea continentale inglese e tedesca. Si tratta di una tempesta con un’atmosfera cupa, notturna, uggiosa, plumbea che si riflette nell’addensarsi minaccioso delle nubi sullo sfondo, nel mare agitato che si infrange sulla baia in primo piano, ma anche sull’esattezza topografica dei rilievi di ogni singolo elemento delle realtà che confermano la vocazione di una nuova pittura di paesaggio attenta agli aspetti di realtà da rappresentare. 15 pensava che fosse stato fatto a partire da un calco su una figura umana viva, tale era l’esattezza del più minuto dei dettagli dell’anatomia. In qualche modo queste opere raccontano di un’evoluzione della scultura italiana in cui istanze di realtà, di impegno anche militante sul piano di una sensibilità realista, emergono in modo convinto e sistematico fino a quella che è l’opera capolavoro di questa stagione, prodotta da VINCENZO VELA intitolata Spartaco del 1847 in gesso, poi realizzata in marmo nel 1850 e conservata al Palazzo Pubblico di Ligornetto. In qualche modo nella scelta dell’evento storico biblico/storia romana che divenne una vera e propria icona delle istanze rivoluzionarie, indipendentiste e risorgimentali italiane che si identificavano nella figura dello schiavo ribelle che spezza le catene. Pittura di Paesaggio e le origini del Realismo Francese Occorre fare riferimento al Salon del 1824, passato alla storia per lo scontro fra le due scuole: quella classicista di Hegel e quella colorista di Delacroix. In realtà va ricordato anche per la presenza di un nutrito gruppo di paesaggisti inglesi che suscitarono un grande interesse soprattutto di una più giovane generazione di artisti. Il più ammirato fu sicuramente John Constable. Questa qualità sottolineata nelle opere di Constable: di una natura amata, ricreata, vagheggiata e sorretta da uno spirito sentimentale tutto nell’etica del lavoro nei campi della campagna inglese; affascinò molto una generazione di pittori francesi che seguendo il suo esempio, decisero di dedicarsi esclusivamente alla pittura di paesaggio. La scelta di questi pittori, che si organizzarono in colonie, scegliendo la foresta di Fontainebleau per i primi esperimenti di pittura en plain air, a partire dalla metà degli anni ’20. Si dedicavano in particolare alla ripresa del paesaggio dal vero, nelle comunità di Saint Claude e poi in quella di Barbizon, fra tutte la più nota e che diede il nome a una vera e propria scuola, cui facevano capo anche artisti di un certo rilievo come THEODORE ROUSSEAU che si vide nel 1835 rifiutati alcuni dei sui dipinti dal Salon parigino, lui continuò questa sua ricerca sui temi della rappresentazione della natura nel variare delle condizioni atmosferiche o degli effetti di luce sulle diverse superfici mobili e cangianti come quelle delle foglie al vento o degli specchi d’acqua che spesso fanno parte dei suoi dipinti, come vediamo nell’opera Lo stagno del 1835 al Louvre. CHARLES-FRANCOIS DAUBIGNY fra i più amati tra i pittori di paesaggio e anche punto di riferimento per la successiva generazione di pittori realisti e impressionisti che guardarono moltissimo alla stesura agile, tersa, chiara, la visione ravvicinata dei suoi paesaggi risolti con arditezza di tagli e trattamenti luministici come riconosciamo nell’opera La Mietitura, del 1851, oggi nel Museo d’Orsay. JEAN-FRANCOIS MILLET artista che pur mantenendosi fedele a un interesse per la resa del paesaggio naturale, quest’ultimo era sempre nei suoi dipinti accompagnato a una centralità della figura umana, come vediamo nella sua opera Le Spigolatrici del 1857 oggi al Museo d’Orsay a Parigi. Donne ritratte in primo piano, ripiegate su sé stesse, schiacciate dalla fatica del lavoro dei campi che instillano sentimenti di solidarietà. Una generazione uscita dalla scuola di Barbizon, pittori legati a questa comunità che si caratterizzò anche per le istanze velatamente politiche che affioravano nei dipinti di questi artisti: per la scelta anti-istituzionale, anti-accademica dal valore contestatario e ribellista che privilegiava il paesaggio ai più tradizionali generi di storia, e poi l’attenzione alle classi subalterne che hanno molto poco di quella visione idilliaca che fino a quel momento aveva tenuto banco nella pittura di paesaggio classica (si affidava a una composizione studiata e corretta con una visione centrale, con un affondo prospettico dal primo all’ultimo piano, scortato da due quinte laterali che fungevano da introduzione e accompagnamento visivo alla scena centrale del dipinti). JEAN-BAPTISTE CAMILLE COROT artista che aveva avuto un esordio in ambito neoclassico, a partire dal 1830 aveva iniziato a dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura di paesaggio. Aveva fatto un primo 16 importante viaggio in Italia nel 1825, cui ne seguirono altri nel ’34 e nel ‘43 che furono importanti per la sua formazione, lo schiarimento della sua tavolozza e la pratica di una pittura rapida e sintetica, a presa diretta sulla realtà. Il ponte di Narni del 1827 al Louvre, composizione costruita per giustapposizione per macchie di colori, per accostamenti tonali che non definiscono ma suggeriscono un’idea di materia e di realtà resa labile e ineffabile rispetto all’esperienza reale. Queste tecniche ovviamente generarono scandalo e repulsione da parte del sistema ufficiale dell’arte, ma che presto convinse i più classificati esperti spettatori e critici dell’epoca. Fu tale lo scandalo che lo stesso pittore mantenne durante tutta la sua carriera un doppio registro linguistico più corretto come vediamo ad esempio in La Cattedrale di Chartres, dove la precisione è un aspetto di maggiore fedeltà al vero, temperano e mitigano quelle aperture più sperimentale della pittura degli esordi. La composizione è più armonica e la correttezza accademica della visione centrale è rispettata. GUSTAV COURBET artista che era stato rifiutato dalla giuria di selezione dei dipinti che dovevano essere esposti in occasione dell’Esposizione Internazionale di Parigi nel 1855, che segnò una data da ricordare proprio come in occasione di uno strappo clamoroso consumatosi per la prima volta a danno dell’istituzione e a beneficio della libertà dell’artista. Courbet decise in quella circostanza, dopo il rifiuto, di allestire a proprie spese, a ridosso dei padiglioni ufficiali, un padiglione privato che intitolò Realismo, il cosiddetto “Pavillon du Réalisme”, fece pagare un biglietto, pubblicando un catalogo e accompagnando le opere in mostra con le sue dichiarazioni. Azioni tutte molto spregiudicate e autonome, affidava liberamente al giudizio del pubblico ogni valutazione possibile sulla propria valutazione artistica. Fra i quadri in mostra vi era Gli Spaccapietre, una dura immagine di operai a lavoro, resi ancora più scandalosi da un punto di vista molto ravvicinato e che suggerisce una partecipazione anche emotiva, un’empatia nei confronti del lavoro operaio e una maniera apparentemente sciatta nella stesura del colore dipinto e della resa materica di una pittura che si dà per sovrapposizioni e stesure molto violente. Un funerale a Ornans, oggi conservato al Museo d’Orsay a Parigi, opera in cui ritroviamo la stessa composizione orizzontale, a fregio, in cui un corteo funebre si ritrova per l’occasione in campagna. Tutti episodi marginali alla grande cultura della pittura di storia, tratti dalla banale vita quotidiana che mantiene comunque formati aurico grande e monumentale che rivendicava lo stesso prestigio e valore che era stato accordato, fino a quel momento, alla più alta pittura di storia. Lo studio dell’artista, opera di grande formato Manifesto della pittura Realista. Scena in cui l’autore è rappresentato al centro in una sorta di auto-ritratto impegnato a dipingere un quadro di paesaggio, scelta polemica e poetica, voltando le spalle a una modella nuda quindi viene smesso il genere della pratica della pittura in atelier dello studio del nudo della figura umana, sta alle spalle a vigilare sul lavoro dell’artista con una sorta allegoria laica, in cui la modella è la nuda Verità, l’incarnazione della musa del Realismo. Artista scortato dall’altro lato dalla figura di un bambino che lo guarda ammirato al lavoro, che rappresenta una condizione di privilegio quella dell’infanzia, della genuinità, della verità e dell’onestà, tutti valori politicamente rivendicati dall’artista. In questa grande scena di genere, che suscitò grande scandalo per l’incongruenza di ritrarre una donna nuda fuori dalla sua funzione di modella, in un contesto borghese in cui sono ritratti dal vero molti personaggi illustri della Parigi dell’epoca. Esistono molti interessanti studi sulla decodificazione e il riconoscimento di queste personalità da Baudelaire vicino al realismo e difensore di Courbet, troviamo tutti intellettuali, autori e letterati che avevano avuto un ruolo centrale nello svecchiamento della cultura francese verso quelle conquiste di modernità che rappresenteranno la cifra più tipica di una Parigi capitale delle arti a fine ‘800, è esattamente in questo momento che tutto ha origine. Esperienza parallela e di segno opposto, consumatasi intorno all’Esposizione Internazionale di Londra nel 1851, una congiuntura storica epocale quella della Rivoluzione Industriale Inglese e il Trionfo del riscorso capitalistico, di una corsa delle più avanzate potenze accidentali a primeggiare sul fronte del potere economico e affermazione a livello globale della potenza politica-militare-coloniale. In Gran Bretagna un gruppo di artisti scelse una strada diversa ma improntata a valori non molto dissimili, la cosiddetta confraternita dei PRERAFFAELLITI (PRB), con questo acronimo spesso siglavano i loro quadri in 17 collaborazione fra più artisti, con un’idea di scomparsa dell’autore o del riconoscimento di una responsabilità collettiva nella realizzazione delle opere che si rifaceva ai modelli delle confraternite medievali. Confraternita che dichiarava manifestamente questo riferimento a una realtà produttiva, artigianale di bottega in cui l’autore scompariva o lavorava a fianco di fidati collaboratori in rapporti di mutuo reciproco soccorso. Tra i protagonisti di questo gruppo di artisti che rifacevano alla pittura prima di Raffaello, cioè alla pittura italiana centrale del ‘300/’400, abbiamo DANTE GABRIEL ROSSETTI un inglese di origine italiana, il padre era un famoso dantista esule in quanto militante della causa indipendentista risorgimentale italiana; JOHN EVERETT MILLAIS e FORD MADOX BROWN. ROSSETTI ha una familiarità con la commedia dantesca, rappresenta un riferimento importante per la sua pittura che spesso pesca da temi medievali o religiosi o letterari. Opera emblematica come Ecce-ancilla- domini del 1850 dei momenti di affermazione importante. Quest’opera rivendica un’idea di pittura antica, pre-moderna e pre-accademica dal sapore neogotico e medievale, come del resto era nella tradizione della cultura romantica inglese, questo costante riferimento a un passato medievale come un momento fondante, una cultura nazionale; più in generale come un’età dello spirito ancora incontaminata, non corrotta dalla modernità e dal progresso tecnologico, un’idea di purezza, di evocazione nostalgica di un paradiso perduto, onestà, felicità, sincerità e bellezza che traspare nella forte tensione anestetizzante delle opere di Rossetti. In questa scena di Annunciazione compaiono le ombre di una coscienza moderna e consapevole della distonia cronologica, culturale che si sta consumando fuori dallo spazio della pittura. Siamo di fronte a una Vergine restia, spaventata, riluttante ad assumere su di sé questo destino così capitale, importante cui va la direzione dell’annuncio dell’Angelo. Il tipo femminile di una bellezza tipicamente Preraffaellita, queste figure diafane, esangui di fanciulle emaciate, dai capelli rossi che diventeranno, soprattutto in ambito Simbolista a fine secolo, l’archetipo della femme-fatale, insieme angelicata tramite privilegiato accesso al metafisico e al divino, alla bellezza ma anche il suo doppio opposto idolo malefico, perverso che con la sua capacità di seduzione ammalia e avvinghia e uccide. La fanciullezza di Maria, un quadro ad alto contenuto simbolico, in cui l’ordinaria vita quotidiana della Vergine scorre nella dedizione al lavoro di ricamo, lo stesso che fa capolino nel dipinto dell’Annunciazione. Dipinto del 1848/49 in cui la Vergine è accanto alla madre, Sant’Anna, e sta lavorando al suo telaio, idea di qualità del lavoro artigianale che è in qualche modo garanzia di onestà intellettuale e tensione etica. Quadro in cui è già condensato e prefigurato il destino della sua vita, perché all’altro capo della stanza vediamo un Angelo Annunciante che reca in un vaso il giglio che allude alla verginità di Maria e alla nascita di Cristo concepito senza peccato; così come la presenza dello Spirito Santo aleggia sulla scena in forma di colomba appollaiata sul pergolato che il padre di Maria sta avvinghiando all’edera, edera che è simbolo prefigurativo della Passione di Cristo, la cui foglia è molto simile a quella della vite, dell’uva e quindi in riferimento alla Crocifissione di Cristo; notiamo in questo caso anche l’allusione agli intrecci delle canne su cui l’edera sta crescendo. In primo piano a terra la palma del martirio simbolo del sacrificio di Cristo. È una pittura colta, una pittura che attinge a un repertorio di cultura anche iconografica medievale e che segnerà la vocazione più autentica della poetica rossettiana. Cristo nella casa dei genitori di MILLAIS, opera del 1850. Nota con il titolo che le diede Dickens “The carpenter ’shop” in una critica molto dura all’opera proprio perché giudicata volgare nella sua verità, nel suo crudo realismo di una scena di bottega di falegname, in cui l’eticità del lavoro artigianale riscatta la scena in una dimensione lirica e metafisica. Vediamo nel Bambino ritratto in primo piano con una ferita su una mano a causa di una scheggia di legno, ritroviamo una prefigurazione del martirio della sua Crocifissione. A questo suo destino alludono tutti quegli elementi iconografici che si spiegano in quanto un laboratorio di falegname che troviamo appesi alla parete sul fondo: la scala, i chiodi, la sega; ma che sono tutti attributi iconografici della Crocifissione. Su uno dei pioli della scala vediamo la colomba dello Spirito Santo e tutto intorno quello che è l’ordinario lavoro di una bottega artigiana che rappresenta la dimensione sociale, istituzionale e 20 Una pittura dei Salon che celebrava la storia, essendo il genere più alto, importante e prestigioso della tradizione accademica, quindi venivano realizzati grandi quadri di soggetto storico, come ad esempio I Romani della Decadenza di THOMAS COUTURE del 1847 o ancora Il Tepidarium di THEODORE CHASSERIAU del 1855. Nomi che oggi possono dire poco o nulla, che in realtà all’epoca suscitarono grandi consensi e entusiasmi. Un altro esempio è quello della Nascita di Venere di ALEXANDER CABANEL del 1863, un quadro improntato alla più corretta tradizione classicista e accademicista di un nudo femminile sensuale di una Venere abbandonata su una spuma del mare dal cui nasce, quasi una sorta di risveglio. Questo nudo, pure così provocante e ostentato nella sua oscenità era tollerato in quanto legato al mito antico. Nello stesso anno il 1863, quando l’opera fu esposta al Salon e ammirata da Napoleone III che la acquistò (decise di nominare Cabanel cavaliere e anche membro dell’Istituto Nazionale di Scienze e Arti come più alto riconoscimento al valore culturale dell’artista), MANET esponeva la sua Colazione sull’erba al Salon de Refuses, istituzione che era stata creata in opposizione al Salon Ufficiale, proprio come una sorta di contro esposizione tali erano state le proteste contro la decisione di non ammettere alcune opere perché giudicate scandalose, segno di una sensibilità crescente nei confronti di proposte più sperimentali, che su iniziativa dello stesso Imperatore si allestì questa contro-esposizione che avrebbe dovuto additare come esempi da non seguire, ma che in realtà fu un’iniziativa che suscitò entusiasmo e clamore, tale che paradossalmente ebbe più successo e un maggior numero di visitatori del Salon Ufficiale. Dipinti come quello di Manet si imposero al di là dello scandalo suscitato, il motivo di una donna nuda scandalosamente ritratta al centro di una colazione in campagna accanto a degli uomini vestiti in abiti borghesi contemporanei. Di fronte a una scena di questo tipo, queste figure ritratte insieme all’epoca facevano pensare alla presenza di una prostituta, in ragione dello sguardo fiero con cui fissa lo spettatore al di là dello spazio dipinto, che si accompagnava ai due signori. Un quadro che incoraggiava comportamenti largamente praticati come da morale Vittoriana che predicava i vizi privati e le pubbliche virtù, ma che chiaramente non poteva essere così rappresentata o esposta nel contesto ufficiale di una esposizione. La pittura francese in questi anni vede nascere, accanto al progressivo smantellamento del Salon, nei secondi anni ’60, le prime Gallerie Private, su tutte quella di Paul Durand-Ruel che presto divenne il gallerista di riferimento della pittura impressionista e tale rimase fino a tutti gli anni ’30 e oltre del ‘900, quando negli USA la fortuna collezionistica degli Impressionisti continuò spedita, non sorprende che dopo la Francia il grosso della pittura impressionista sia conservata nei musei americani, grazia anche a una attenta strategia commerciale operata dal gallerista di riferimento Durand-Ruel. Gallerista che nasceva come un corniciaio, non è un caso che anche il grosso della prima bibliografia sull’Impressionismo sia tutta di produzione americana, fino a quella che ancora oggi rimane il più importante e noto saggio di riferimento che è “La storia dell’Impressionismo di John Rewald”, tradotto in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale sintomo di un ritardo, di un’incomprensione da parte della critica italiana o quanto meno di quelli più reazionari e conservatori della sua cultura fino alla metà del secolo XX. Per citare un riferimento più recente, il saggio pubblicato postumo nel 1997, “L’Impressionismo riflessi e percezioni” di Meyer Shapiro, che raccoglieva tutta una serie di studi dedicati ad aspetti e momenti di artisti diversi della lunga stagione dell’Impressionismo e tradotto in Italia nel 2007. Galleria Bernheim-Jeune che avrà un ruolo importante nei primi del ‘900 con autori come Van Gogh, Cezanne, accoglierà la mostra dei Futuristi Italiani a Parigi. Nacque come Galleria privata con una specializzazione sui Barbizonier e la pittura di Courbet. Sono degli esempi di Gallerie significativi che prolifereranno in tutta Europa negli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900, quando si consoliderà un mercato privato per gli artisti e soprattutto per l’arte moderna che sarà libero dal condizionamento delle istituzioni, tanto è che il formato privilegiato non sarà più il grande formato della pittura di storia che nasceva per essere esposta nei musei, ma il formato usato adesso è quello del cavalletto ed è tale perché orientato a privilegiare una destinazione di tipo borghese, cioè l’appartamento del ricco collezionista, appassionato e cultore, mecenate in molti casi che sempre più spesso arricchirà le proprie case con dipinti di questo tipo. 21 Quanto alla Pittura Accademica Salon Pompier non bisogna sottovalutare la suggestione che essa ebbe anche in molti importanti autori dell’800 e che all’interno di queste dinamiche, temi, forme, ricerche maturarono posizioni originali. Pittura Realista dal vero dopo la clamorosa scelta da parte di Courbet di allestire nel 1855 il Pavillon du Réalisme. Fra le personalità più inclini ad accogliere novità che venivano dalla proposta di Courbet vi era EDUARD MANET. Artista che mantenne sempre un rapporto molto ambiguo con le istituzioni e con il Salon, aveva già esposto con successo a quello del 1861, un dipinto Spagnolo che suona la chitarra, che è anche indicativo di un filone di interessi rivolti alla pittura spagnola e alla personalità di Velazquez, sarà un riferimento sempre costante. Proprio sulla scorta della lezione spagnola di una pennellata rapida, sintetica, lunga che spinse fino ai limiti della scorrettezza alcune sue prove, finì per irritare la critica più ortodossa e anche gli spettatori più avvezzi a una pittura più tradizionale. Quando partecipò al Salon del 1863 che la sua Colazione sull’erba venne rifiutata, non solo per il tema giudicato sconveniente ma quello che più colpì fu la volgarità con cui Manet condusse l’esecuzione dell’opera, cioè una pennellata rapida, sintetica, lunga, si vede bene nei dettagli del pantalone dell’uomo in primo piano ma anche nell’incarnato della donna che non ha nulla di quella levigatezza dei corpi perfetti femminili. Una linea di contorno molto netta in qualche modo faceva stagliare figure come una silhouette bidimensionale senza una sua qualità plastica, rispetto anche al suo inserimento atmosferico nella profondità della scena ritratta. Fu tale il clamore suscitato da questi rifiuti che segnò questo strappo tra gli orientamenti ufficiali dell’istituzione e le proposte dei più giovani artisti. Proprio sulla scorta di un consenso che si era reso sensibile nei confronti di proposte così più di avanguardia, venne istituita questa sorta di contro esposizione nel 1863, il Salon de Refuses che attirò più spettatori di quanto fosse stato capace di fare il Salon ufficiale. Già Manet da tempo aveva urtato la sensibilità della critica ufficiale, per esempio La Musica alle Tuileries, un dipinto del 1862, era stato esposto nel ’63 in una mostra da Martinè, uno dei galleristi privati che iniziavano a fiorire intorno a questi artisti un po’ più sperimentali, aveva colpito per il carattere sintetico, abbreviato, rapido, approssimativo nel giudizio dei più, con cui Manet aveva risolto questa scena di concerto nel parco delle Tuileries. Non fu il solo ad essere rifiutato, un altro dipinto molto celebre, esposto in quella circostanza, è quello di un pittore di origine americana, JAMES ABBOTT MCNEILL WHISTLER, la sua Ragazza in bianco del 1862 di impronta Courbettiana che aveva ugualmente sparigliato le carte, le aspettative della critica ufficiale proprio per questo uso del colore in maniera così irregolare, questi accostamenti di bianco, toni di bianco su bianco che costruivano il volume della figura ritratta senza ricorrere a quel sistema di velature, di qualità plastiche che dovevano restituire il tuttotondo della pittura su tela. Fra i rifiutati c’è anche Courbet che si era visto accettare negli stessi anni anche altri dipinti, ma anche giovanissimi Cezanne e Pissarro, erano tutti artisti approdati a Parigi dalla provincia. CEZANNE da Aix-en- Provence, aveva iniziato a frequentare una delle prime accademie private di Parigi, l’Accademia Suisse dove si impartiva un insegnamento un po’ più libero, meno rigido rispetto quello dell’Accademia. RENOIR insieme a MONET frequentavano l’Atelier del pittore Gler che ugualmente si allontanava dai dettami accademici per favorire la pratica della pittura en plain air o sulla scia dei Pittori Barbizonier o spesso spingendosi al nord, fino alla costa atlantica, per studiare gli effetti di rifrazione luminosa sul mare e sull’acqua, esercitandosi a restituire in pittura questi elementi di realismo estremo e più difficile da catturare. Erano tutti artisti che rispondevano a una istanza di realismo, questo accadeva perché era maturata nel corso della pittura francese una fiducia sempre più ferma nei confronti del progresso, della scienza, della possibilità di dominare il reale, di conoscere e interpretare la realtà esterna. Anche gli orientamenti della filosofia dell’epoca, cioè la capacità di ordinare i saperi, le conoscenze in un sistema coerente di riferimento, l’800 privilegiava la catalogazione, la tassonomia, cioè l’ordinata collocazione di ogni cosa nel suo posto, con il suo nome, era un modo per controllare e dominare la realtà. Lo si vede molto bene anche nella letteratura dell’epoca, la cosiddetta letteratura naturalista, pensiamo a scrittori come Zola che mettono appunto dei 22 metodi di scrittura scientifici tali da piegare lo strumento della scrittura all’indagine del reale, fare della scrittura dei veri e propri esperimenti scientifici per lo studio, la classificazione di determinati comportamenti umani. Allo stesso modo la pittura cerca di dotarsi di un linguaggio, di una tecnica che potesse ugualmente restituire fedelmente la realtà, da qui l’abbandono dell’atelier a beneficio della pittura en plain air; al ricorso da parte di molti artisti alla fotografia, come strumento di lettura del reale per fermare e immortalare quegli attimi di vita rubati al divenire delle cose, quella che è la letteratura naturalista definiva dei pezzi di vita che la fotografia, anche se ancora a queste date con dei tempi di esposizione lunghi, riusciva a catturare molto più velocemente. L’uso insistito della fotografia ebbe molti effetti sulla pratica pittorica, per esempio nell’adozione di un punto di vista molto ravvicinato o da una visione dall’alto, o nel taglio fotografico che stringeva la visione laterale rispetto a quello naturale dello sguardo, generando una serie di effetti a catena sulla rappresentazione pittorica che andremo via via valutando. Per esempio nel 1865, MANET fu accettato al Salon anche per risarcirlo dello scandalo che la sua Colazione sull’erba che aveva provocato due anni prima, anche la tela esposta in questa circostanza scatenò critiche e scandalo, parliamo della Olympia datata 1863, anche in questo caso, interpretando un tema iconografico classico come quello della Venere, confronto con riferimenti da Tiziano e Velazquez. La grande differenza e l’irriverente provocazione che scandalizzava il buon borghese - diventato quasi un imperativo categorico per gli artisti di questa generazione, il consenso intorno alla propria pittura cresceva pari passo allo scandalo e alla discussione che si andava a causare – qui lo sdegno era legato al fatto che l’Olympia avesse dei connotati e posta in un contesto del tutto contemporanei, non si trattava più di una Venere mitologica, ma del corpo nudo di una prostituta che indossando una serie di accessori (attributi del mestiere) viene maggior mente messo in risalto. Il nome Olympia faceva riferimento a un orizzonte mitico e classico, alla città di Olympia e al mondo degli dèi greci, in realtà era un nome d’arte abbastanza diffuso tra le prostitute parigine dell’epoca. In Manet è sempre molto forte questa aderenza alla realtà più cruda, spietata e scomoda, quei vizi privati che la morale borghese ottocentesca viveva con molta disinvoltura ma che nel discorso pubblico censurava senza appello. Al contrario per i realisti e la pittura di Manet era questa la contraddizione da mettere di fronte all’ipocrisia della cultura borghese in maniera così schiacciante e sfacciata. Accanto al tema, quello che scandalizzava di più da un punto di vista di analisi storico-artistica era l’uso importante del bianco in questi suoi effetti abbacinanti, un colore non colore usato in genere per preparare le basi su cui dipingere, qui inserito in diverse gradazioni di colore, 3/4 di questo dipinto è realizzato in bianco steso in maniera apparentemente svogliata, rapide, accidentale con queste pennellate lunghe, molto veloci e liquide. Il corpo della figura femminile al centro è segnato da una linea di contorno nera e netta, tale da ritagliare quasi una silhouette più che restituire una sua corposa plasticità, appiattita su una stesura omogenea, linea strumentale alla restituzione di un effetto di luce in un interno, in cui una luce artificiale tende a neutralizzare, appiattire e sovraesporre quegli effetti di chiarezza che il corpo, il lenzuolo e la veste della cameriera impattano a forte contrasto con il fondo scuro. Il cane di solito è una figura allegorica della fedeltà della donna alla vita coniugale, animale che accompagna spesso figure femminili nella ritrattistica ufficiale; adesso il gatto nero, di per sé attributo demoniaco, qui animale di compagnia associato alla sessualità femminile, viene considerato come un attributo della prostituta. Ritratto di Emil Zola, opera più tarda, omaggio a un letterato con cui l’artista condivide visioni, metodi di lavoro e interessi culturali, Zola in più occasioni difende la pittura dell’amico e più in generale la moderna pittura francese contro i critici più conservatori e tradizionalisti. L’opera è un compendio di propositi modernisti, a partire dal taglio fotografico all’americana, il ritratto è a metà (né in piedi né di busto) lascia fuori solo i piedi, ritrae la figura da un punto di vista particolarmente vicino e chiuso che stringe sui lati la visione sul primo piano della figura che risulta schiacciata sul primo piano, e sullo sfondo tutta una serie di indizi che ci illuminano sugli interessi condivisi dai due intellettuali. Vediamo elementi del proprio mestiere, Zola è ritratto allo scrittoio con libri, quaderni, il calamaio e blocchi d’appunti in mano, riconosciamo sullo sfondo una stampa giapponese, la riproduzione in bianco e nero dell’Olympia e dietro il riferimento al dipinto di Velazquez “Il trionfo di Bacco”, sulla sx notiamo il paravento giapponese che a partire dall’Esposizione di Parigi del 1867 si impose come oggetto di arredo alla moda, si scatenò la moda collezionistica chiamata 25 Ritratto del Visconte Lepika con le figlie a Parigi, opera moderna per la scelta di un ritratto non ritratto, le figure non sono in pose e sembrano non volere essere ritratte, sono riprese quasi inconsapevolmente e incidentalmente dall’occhio dell’artista. Le figure hanno le gambe mozzate con una ripresa poco ortodossa dal punto di vista della storia della ritrattistica ufficiale, con un gioco di sguardi divergenti per cui ognuna delle tre figure è un mondo a sé, stanno passeggiando insieme ma ciascuna secondo direttive diverse; abbiamo un punto di vista ravvicinato, un taglio stretto fotografico che chiude e lascia fuori una porzione importante di visione. La linea dell’orizzonte è altissima, si alza alle spalle delle figure in primo piano, come una parete di giallo ocra che è il selciato della piazza, diventa con una prospettiva molto scorciata il fondale di questa ripresa. È un’immagine in movimento che corregge il più antico Ritratto di Degas della Famiglia Bellelli del 1860/62, erano parenti del ramo napoletano di Degas, Bellelli era un nobile esule a Firenze per le posizioni anti- borboniche e Risorgimentali, vediamo anche una continuità di intendimenti politici che esiste fra le esperienze italiane e la cultura moderna rivoluzionaria di questi artisti e i pittori di macchia italiani. L’assenzio, del 1876, opera che gioca sulla doppia risonanza del titolo, con riferimento tanto all’essenza di questa figura femminile alienata seduta al bar e dall’altro per il nome della bevanda che sta sul tavolo come vediamo dal colore del liquido che le sta davanti, a Parigi era la bevanda allucinogena che andava di moda. PIERRE-AUGUSTE RENOIR la sua è una pittura diversa, raccoglie l’eredità più pittorica di Monet questo uso trionfante del colore per la resa atmosferica delle sue scene all’aperto, come nell’opera L’altalena del 1876 o come nel più celebre Ballo al Moulin de la Galette del 1876 ed esposto alla Mostra del ’77. La sua pittura è intesa a celebrare la scintillante vita notturna della Belle Époque nell’ultimo decennio del XIX sec. È una pittura vivace, rapida, accidentata, avvolgente e rigogliosa nei suoi effetti di resa cromatica, atmosferica e luminosa, un po’ sulla scorta della palette di Monet. È importante capire non solo come dipingono ma anche il che cosa, il confronto con una nuova dimensione sociale e culturale che per un verso è quello della città/metropoli ricorrente e protagonista nelle opere di Degas e Renoir, presente ugualmente anche nella pittura di Monet, attenta all’universo metropolitano delle città nuove e ai contesti industriali e a rendere gli stessi effetti/causa di ricerca anche nelle scene all’aria aperta in natura. Le mostre si susseguirono negli anni fino all’86, con inclusioni/esclusioni a seconda degli umori e dei temperamenti dei singoli artisti. La Mostra dell’82 segna il ritorno della presenza storica di Monet, di Pissarro, di Renoir e di Gauguin. Durand Ruel aveva avviato una importante azione di promozione commerciale del gruppo che inevitabilmente porterà alla sua precoce storicizzazione che si concluderà nell’86 e avrà seguito in ambito francese. L’ultima Mostra nell’86 che vide l’inclusione per la prima volta di GEORGE SEURAT, il quale con la sua pittura puntinista segnerà il passaggio di consegna sancito dalla definizione di un nuovo indirizzo di ricerca. In Italia troviamo il MOVIMENTO SCAPIGLIATO, in questi anni a Milano, città più sperimentale e centro di ricerca artistica in stretto contatto con la cultura europea continentale. Movimento che interpretava atteggiamenti pose, istanze e sensibilità proprie della boema francese. Il termine Scapigliato faceva riferimento al costume apparentemente sciatto, scomposto, trasandato di questi giovani artisti ai margini dei circuiti ufficiali dell’istituzione milanese di Brera, presto reintegrati anche per la qualità sofisticata, ricercata delle loro produzioni nei circuiti più ortodossi. Troviamo in pittura TRANQUILLO CREMONA e DANIELE RANZONI e per la scultura la personalità di MEDARDO ROSSO che viene considerato quasi una sorta di scultore impressionista. Quelle di Ranzoni e Cremona sono posizioni molto vicine. Rosso è documentato a più riprese a Parigi, con una febbrile attività espositiva e azione autonoma di promozione del suo lavoro straordinariamente moderna, anche per la specifica qualità seriale di soggetti riproposti a più riprese e con materiali diversi, come le più rare fusioni in bronzo di questi suoi primo modellati, era una scultura quasi sempre di piccolo formato più facilmente smerciabile e trasportabile. Si 26 tratta di un modellato nervoso, accidentato, non finito che sceglie consapevolmente di non finire la struttura dei corpi, spesso lasciati allo stadio avanzato di un bozzetto, dove le figure si indovinano a pena. Lo vediamo nella sua opera il Bookmaker del ’94, conservato nella Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma o nella Portinaia dell’83, anche in questo caso una scultura di reietti e per questi più autenticamente rappresentative del passaggio dei tempi, di una cultura metropolitana che vive anche di queste figure di invisibili. Più integrati nel gusto sofisticato e nelle frange più colte del collezionismo lombardo sono i due pittori Cremona e Ranzoni per il carattere più mondano, elegante della loro pittura di interni, della loro ritrattistica, di una pittura così vaporosa, rarefatta, mobile ed evanescente, una pittura di atmosfera legata alla celebrazione del benessere sociale raggiunto dall’alta borghesia. Si vede nell’opera High Life di Cremona dell’77 o ancora nella Serie di Ritratti della Contessa Arrivabene di Ranzoni dell’89. Contesto italiano in questi anni ‘70/’80 dell’800 è caratterizzato da un rapporto di scambio con Parigi. Tra Firenze e Napoli si muoveva lo scultore fiorentino ADRIANO CECIONI, attivo a Napoli dal ’63 al ’67, figura di riferimento per una più giovane generazione di artisti napoletani. Il suicida del 1866, conservata a Firenze, è un’opera caratterizzata da un realismo più crudo, attento al mondo degli ultimi ed emarginati, lontano da rivendicazioni politiche e prese di coscienza militante, ma si tratta di un interesse nei confronti del patetico, al paternalismo, alla solidarietà da osservare a debita distanza. Si esprimono sentimenti di compassione ma senza che questi possano trasformarsi in un impegno politico sociale ben preciso. Il bambino con il gallo del 1868, qui in un esemplare fuso in bronzo, in cui è più evidente l’aspetto bozzettistico da scena di genere, in cui la cultura borghese guarda a distanza il mondo degli ultimi con una sorta di distacco incline al sentimentale/patetico ma mai solidale. Un po’ la retorica in cui dinamiche sociali, istanze di orgoglio patriottico definiscono una morale strappalacrime, in cui la tragedia è sempre vicina e rende quelle storie esemplari ma anche inverosimili. Classi subalterne su cui è più facile esercitare uno sguardo di distacco scientifico, di filtro con cui i letterati guardano quel mondo, spesso mistificandone l’essenza più reale a beneficio di una coscienza autoindulgente nei confronti delle responsabilità politiche che hanno definito le condizioni in cui quelle classi si trovano ad operare, è un modo per renderle accettabili, per rendere tollerabile questa divaricazione nel paese, sempre più netta e irrecuperabile. A questo registro appartiene anche l’artista napoletano VINCENZO GEMITO, la sua opera più celebre Il pescatorello del 1877, sintetizza tutte quelle prerogative di temi privilegiati dagli artisti che si muovono all’interno di una sensibilità naturalista/verista, da cui l’interesse per il mondo del popolo minuto, declinato con un’attenzione ai bambini che potevano sollecitare quei sentimenti di compassione, tenerezza, stupore nei confronti della realtà che rimaneva ai margini del discorso ufficiale che però viene reintegrata nel discorso attraverso questa sua mistificazione artistica e resa accettabile. Come si vede in quest’opera, a differenza della scultura di Cecioni (10 anni dopo), è caratterizzata da un linguaggio più mosso, accidentato, scomposto e sporco rispetto alla levigatezza, pulizia formale, alla qualità plastica delle opere di Cecioni, debitrice della scultura accademica neoclassica e purista. Gemito potrebbe essere considerato l’analogo plastico-scultoreo di pittori come gli aderenti alla Scuola di Resina o dei Pittori Scapigliati segnati da questo carattere mosso, ruvido di una pittura tutt’altro che graziosa. ANTONIO MANCINI, pittore romano spesso naturalizzato napoletano. La sua opera più celebre O Prevetariello del 1870, i titoli fanno riferimento a un orizzonte di senso e di cultura partenopea, è un piccolo bambino vestito da prete che colpisce per la capacità di commozione, di partecipazione emotiva di questo suo sguardo pungente in primo piano, la resa frontale che inchioda alla verità di una visione risolta con pennellate agili, sporche, sbavate che sembrano svogliate, ma che per la loro capacità di restituire così esatti umori e impressioni dichiarano un saper controllare bene la realtà. 27 Dopo il duello del 1872, opera conservata nella Galleria di Arte Moderna di Torino. Opera in cui le atmosfere, in questo caso un interno alto-borghese come si può intuire dall’abito in velluto nero elegante di questo bambino, il duello era una consuetudine sociale abbastanza diffusa negli ambienti dell’aristocrazia come pratica di onore per la regolazione di conti/per amore. Questa atmosfera sontuosa e cupa allo stesso tempo, vagamente sinistra, si ritrovano in questo dipinto in cui il duello si dà per svolto dalla camicia insanguinata abbandonata sulla sedia capovolta; sullo sfondo lo sgomento, la paura del bambino schiacciato contro la parete alla vista delle macchie di sangue. Carattere letterario e aneddotico, intriso di riferimenti atmosfere letterarie in cui autori come D’Annunzio è punto di riferimento per una generazione di artisti tra 800 e 900. TEOFILO PATINI artista campano, sin dagli esordi con dipinti come Il Buon Samaritano del 1859. È erede della lezione di Morelli, lo vediamo nella sua trasformazione nel genere della pittura di storia, in un’opera centrale Vanga e Latte del 1883, di una fase già più avanzata della sua produzione troviamo comunque quel registro di duro/robusto realismo applicato al mondo degli ultimi. Opera caratterizzata da un’ambientazione cruda, vediamo da un lato la figura dell’agricoltore che di spalle lavora la terra e dall’altro in primo piano la figura della mamma che allatta in mezzo ai campi il proprio bambino. Due forme diverse di un rigore, correttezza morale che trova un suo fondamento dell’etica del lavoro e della responsabilità, è incline al patetismo. Vedremo che sono autori che segneranno ai loro esordi su questi aspetti anche la più giovane generazione di pittori divisionisti che muoveranno i primi passi all’interno di questa tradizione naturalista e verista a carattere morale e paradossalmente destinata a un pubblico alto-borghese, una contraddizione di questo tipo di pittura che non denuncia ma si limita a registrare e documentare. Una sorta di estetizzazione della miseria che sembra contraddire quel principio di realismo cui questi esiti sono improntati. FRANCESCO PAOLO MICHETTI, artista di Pescara molto attento a restituire per immagini la cultura folcloristica dell’Abbruzzo, regione considerata nella letteratura dei tempi selvaggia. Realizza Il voto un’opera in orizzontale di dimensioni monumentali, dipinto che documenta una scena di devozione popolare. Vediamo l’ingresso dei fedeli sdraiati a terra nel corso di una cerimonia religiosa, in cui questi aspetti di devozioni vengono mitizzati/eroicizzati, tanto più in una resa pittorica sontuosa, magniloquente anche rispetto a una stesura del colore e della materia pittorica fatta di preziose incrostazioni e grumi di pittura che fecero dire a D’Annunzio che l’opera suscitava nell’anima il vapore del sogno. Rispetto alla pittura francese qui prevale un carattere di mistificazione estetizzante, quella è una pittura molto poco incline a stabilire sentimenti di empatia, solidarietà nei confronti dei soggetti rappresentati, sospesi in una sorta di astensione da ogni giudizio (Millet) o al contrario ostentati nell’evidenza della loro condizione (Courbet). GIUSEPPE DE NITTIS artista pugliese formatosi a Napoli, ha un importante rapporto con Cecioni. Decide di trasferirsi a Parigi nel 1874, fa in tempo a partecipare alla prima Mostra degli Impressionisti del ’74 da Nadar. La sua pittura si caratterizza per questo compromesso fra scene metropolitane, in presa diretta sulla città di Parigi e quel gusto più aneddotico, di cronaca giornalistica che fa capolino in opere come Che freddo! del 1874 o ancora in Colazione in giardino del 1884, anno anche della sua morte. La sua è una pittura preziosa, elegante, raffinata, fatta di dettagli lussuosi accuratamente resi. FEDERICO ZANDOMENEGHI (ZANDO) che condivide con gli artisti di quella generazione anche egli quest’interesse per la restituzione della più scintillante mondanità parigina, come vediamo nel dipinto del 1878, Le Moulin de la Galette o ancora nell’opera Place d’Anvers del 1880. Quest’ultimo dipinto è caratterizzato da una cromia più rarefatta, frammentata, filamentosa su cui alcuni artisti impressionisti stavano già lavorando (Monet/Renoir). 30 York, quelle che spalanca al pubblico le porte delle avanguardie storiche europee di inizio ‘900 che fino a quel momento erano sconosciute. Dipinto che documenta in modo plastico/evidente il perdurare di questa tradizione verista/naturalista/realista ben oltre i primi decenni del ‘900. Tradizione che troverà una sua linea di continuità se pensiamo agli esiti di un pittore come Hopper. Il dipinto di Sloan, l’interno del bar racconta uno specifico contesto della cultura americana che è quello del bar, con gli interni di un’umanità operosa/industriale, non sono quei luoghi di perdizione/alienazione che abbiamo visto in Degas. I bar qui sono luoghi di socialità, di meritato riposo, della gratifica a fine giornata della birra per l’operaio/piccolo borghese. Una pittura di estrema qualità formale che dichiara a queste date la piena assimilazione delle più avanzate frange della pittura tardo-naturalista europea. Sloan aveva maturato questo lato di cronista, questa sua capacità di documentare anche negli aspetti più banali e insignificanti, di sintesi del reporter che aveva coltivato nei suoi anni come illustratore del Philadelphia Inquirer. THOMAS EAKINS artista di cui vediamo il dipinto Ritratto del Dr. Samuel D. Gross. Artista che aveva rappresentato la figura di riferimento, era professore di pittura nella Pennsylvania Academy a cui avevano guardato Homer, Sloan o anche i più giovani aderenti della Ash-Can School. In questa scena di interni che è poi un ritratto del medico chirurgo Samuel Gross, titolare dell’omonima clinica, aveva suscitato molto scalpore per il carattere scabro, crudo di questa lezione di anatomia, in cui gli allievi stanno vivisezionando il cadavere di un uomo adagiato sulla lettiga, in cui lo stesso dottore mentre si rivolge agli studenti che affollano gli spalti alle sue spalle, ha le mani grondanti di sangue. Questo gusto aneddotico, più didascalico legato a una tradizione di pittura europea che affonda le sue origini nella tradizione della pittura tedesca/fiamminga. Dipinto d’ambientazione tenebrista, scura di un interno appena rischiarato dai bianchi del lenzuolo e del cadavere esangue. Stagione POST-IMPRESSIONISTA definizione creata da Roger Fry che nel 1910 aveva così intitolato una Mostra di opere di artisti posteriori, successivi alla generazione degli Impressionisti, allestita a Londra e che teneva insieme posizioni molto diverse, definizione di comodo onnicomprensiva che spaziava dalle ricerche neo-impressioniste alla pittura di diverso segno di un autore come Cezanne. NEO-IMPRESSIONISTI: SIGNAC E SEURAT. GEORGES SEURAT in occasione della sua partecipazione alla Mostra dell’86 in cui aveva esposto la sua opera più celebre Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte del 1886. Nell’opera ritroviamo quell’idea di una sospensione silente, quasi metafisica, sospesa di rigoroso impianto geometrico matematico che prelude a umori e sensibilità quasi di marca simbolista. La scena è un resoconto di una gita domenicale lungo la Senna, ma non c’è nulla della festosa vivacità di quel carattere mondano, godereccio della pittura Impressionista, che celebravano uno stile/modello di vita; ora sempre orientato a una cifra più intimista. Artista che già da anni stava elaborando una pittura di sintesi ottica, sollecitata dalle ricerche di fisica ottica che andavano pubblicandosi in quegli anni che assecondavano quell’interesse scientifico per la pittura realista che aveva caratterizzato tutta la compagine Impressionista. Anche Seurat tenta di elaborare un linguaggio pittorico che si dà per scomposizioni del segno pittorico, dei tocchi di pittura che diventano dei piccoli punti, qui diventano come tessere di un mosaico, corpi pulviscolari che rarefanno la stesura del colore in piccoli punti di materia pittorica, tanto che si parla di Puntinismo. Punti molto spesso stessi in contrasto tra loro, o secondo la complementarietà di toni prossimi o a contrasto tra loro, per tentare di restituire un’immagine quanto più reale possibile rispetto a un’esperienza fisica della visione naturale dell’occhio che guarda. Solo in secondo tempo la visione frammentata del colore puro viene sintetizzata dal cervello, dalla nostra capacità di ricomporre gli elementi che in natura si danno singolarmente. Gli effetti più immediati nell’opera Bagnanti ad Asnières del 1884, rifiutata dal Salon del 1884. In quest’anno dopo un decennio dalla prima mostra degli Impressionisti e dopo 21 anni dal Salon de Refuses, nasce il Salon des Independants, un salone alternativo a quello ufficiale che raccoglieva artisti di varia 31 formazione, cultura e qualità che si erano associati per poter esporre liberamente e indipendentemente dal rigido controllo delle istituzioni. Il Salon degli Indipendenti avrà, fino ai primi decenni del ‘900, un ruolo fondamentale nel promuovere, dare spazio/voce a più originali e sperimentali ricerche di avanguardia. Anche la pittura di Seurat come vediamo nell’opera Le Bec du Hoc à Grandcamp del 1885, in cui è ancora più evidente/radicale questa stesura per tocchi, frammenti, punti di pittura giustapposta. Si nota ancora meglio nel dettaglio quella compresenza di accostamenti tonali che vediamo nella zona in ombra in cui l’assenza di luce appiattisce lo spettro cromatico, mentre dove la luce vibra, si complica/amplifica nei riverberi specchianti della superficie del mare genera quell’infinità di varianti dello spettro cromatico nella sua estensione e che si frammenta di gradazioni molto diverse. Una delle ultime opere di Seurat, morirà giovanissimo nel 1891, che è Il Circo del 1891. L’opera è un omaggio a quel mondo dei circensi, dell’intrattenimento in cui la cromia si fa sempre più spenta, abbassata su un tono monocorde, quasi una scala di arancio, terra, marroni e azzurri su cui è giocata questa scena di interni. Scena in cui prevale una sorta di decorazione da manifesto, come negli stessi anni andava sperimentano Toulouse- Lautrec. Nel colpo di frusta del domatore di questo cavallo che corre lungo il circo e su cui volteggia con destrezza l’equilibrista al centro della scena, in molti hanno voluto vedere la nascita dell’Art Nouveau, dell’estetica del nastro teso/colpo di frusta che vedremo in ambito decorativo e grafico PAUL SIGNAC fu il pittore che raccolse l’eredità di Seurat. Vediamo l’opera La colazione del 1886/87 con la quale parteciperà alla Mostra degli Indipendenti dell’86. Affronta un tema già molto affrontato nella pittura di questi anni, del tutto risolta in questa scomposizione a puntini della resa pittorica, atmosferica, corpuscolare della luce e delle cromie, con figure che sono sospese in una restituzione asciutta, silente quasi di orientamento proto-metafisico. Omaggio al più vicino critico/difensore delle posizioni questi artisti, Ritratto di Félix Fénéon del 1890/91, uomo anarchico socialista che sposò la causa dell’avanguardia. Dipinto in cui valgono quelle considerazioni su un registro più decorativo da manifesto. Il critico viene ritratto come una sorta di prestigiatore che dal cilindro anima tutto un universo di senso e di significati in forza dell’eloquenza della pagina scritta di critica artistica. HENRI TOULOUSE LAUTREC artista maestro del manifesto, una delle figure più note e controverse della scena parigina, protagonista della stagione d’oro della Belle Époque parigina. Centrale alla comunicazione per immagini di quelli che erano i luoghi culto di Parigi. Manifesto La Goulue al Moulin Rouge del 1891 (litografia), era una celebre ballerina di Can-Can, una delle prime soubrettes della storia dello spettacolo moderno che era riuscita a fare il salto di qualità; nota per questa sua curiosa acconciatura con una crocca in testa. Opera in cui il segno totalmente appiattito, una linea di contorno nera marcata, l’impianto grafico e la stesura del colore piatta ora arriva alla sua più radicale espressione. È una pittura debitrice della suggestione della Grafica Giapponese. Manifesto del Cafè Les Ambassadeurs del 1892 (litografia), locale storico della Parigi di fine secolo, noto per le esibizioni di Aristide Bruant. Ritroviamo la linea di contorno netta quasi a tagliare i profili all’interno dei quali si stagliano queste campiture di colore piatto, una bidimensionalità astratta sempre più radicale. Protagonista di questo suo dipinto sempre La Goulue al Moulin Rouge del 1891/92 conservato al Moma di New York. Opera con il punto di vista frontale e sfacciatamente tagliato, secondo la visione giapponese che andava di moda nella cultura francese. La Toilette dipinto del 1896. Opera con un punto di vista di spalle e molto ravvicinato. Due dipinti caratterizzati da un punto di vista sperimentale, due pezzi di spaccato quasi rubati di vita quotidiana. A differenza delle litografie, qui notiamo un andamento dipinto piuttosto rapido, corsivo, grafico e memore della pittura puntinista. Voleva a dematerializzare, a rendere la pittura rarefatta, le figure meno pesanti, plastiche più eteree e inclini a raccontare la velocità, l’inconsistenza a raccontare il carattere più effimero di questo mondo notturno, clandestino, in cui ogni alterità/diversità poteva trovare legittimazione. 32 La storia di Toulouse-Lautrec è di emarginazione, pur nato all’interno di una ricca famiglia dell’aristocrazia francese, Henri è condannato dagli anni giovanili a una forma degenerativa di rachitismo, ha avuto un’esistenza difficile, ai margini a causa della statura minuta della sua figura, proprio nella pittura e in questo mondo eccentrico aveva trovato l’unica occasione di riscatto. HENRI ROUSSEAU artista soprannominato Il Doganiere, pittore/non-pittore che non aveva avuto una formazione come artista, era un autodidatta che aveva lasciato il suo impiego da doganiere per dedicarsi a una pittura definita fino a poco tempo fa naif e che oggi definiremmo da Outsider Art, un’arte non coltivata/addomesticata da una formazione specialistica e che risponde a un impulso necessario di creazione, a un’urgenza esistenziale che trova la sua cifra più autentica di realizzazione nella pratica artistica. Autoritratto del 1890. Guerra del 1894. Opera in cui vediamo una personificazione della Guerra nelle vesti di una dama bianca che cavalca un destriero nero, sinistro e minaccioso, brandendo una spada/falce, sembrerebbe disseminare morte e distruzione al suo passaggio, non solo nei cadaveri ai suoi piedi ma anche nei confronti della natura che vediamo avvizzita, come se si stesse spegnendo nel taglio nel ramo spezzato in primo piano. La pittura di Rousseau è animata dal sogno di mondi lontani, anche in maniera ingenua, assecondando l’immaginario infantile della giungla, della foresta, di un’altrove esotico popolato da animali feroci/figure mostruose e minacciose. Personalità difficili da rubricare all’interno di un movimento: VAN GOGH e CEZANNE. Sono generalmente collocati all’interno della compagine Post-Impressionista, definizione maturata a posteriori, un’etichetta di comodo per contemplare più opzioni di ricerca artistica tra di loro molto diversa, restituisce solo in parte la complessità dei singoli protagonisti. Personalità capitali per seguire lo svolgimento della pittura moderna oltre il nuovo secolo, fino alle Avanguardie storiche fino a tutto il ‘900. VAN GOGH viene considerato il massimo esponente dell’Espressionismo. CEZANNE è stato indicato come una sorta di pioniere delle ricerche di scomposizione Cubista. In entrambi i casi a beneficio di una autonomia della pittura, di una ricerca, di un linguaggio proprio, di una dimensione parallela alla realtà e al quel principio di imitazione della natura che fino ad allora aveva dominato la pittura. Entrambi hanno storie biografiche singolari, sono due storie di marginalità vissute lontane dai centri di produzione dell’arte europea come Parigi. PAUL CEZANNE si era trasferito a Parigi dalla En-Provence negli anni ’60, era entrato in contatto con gli artisti che andranno a formare il gruppo degli Impressionisti, scambiando con loro pareri, ricerche e sperimentazioni, partecipa alla prima mostra nel ’74 e in quella del ’77, ricavandone esiti di insuccesso dal punto di vista commerciale/critico. Gli esiti di questa prima sua attività sono acerbi, si intuisce il desiderio di definire una linea di ricerca personale che ancora non riesce a maturare una sua cifra consapevole e autonoma. Il distacco dagli Impressionisti e il ritiro nel sud della Francia, anche per ragioni legate alle vicende familiari - la sua vocazione era stata osteggiata dalla sua famiglia di provenienza che lo aveva costretto a un’esistenza di stenti – l’artista aveva maturato un certo distacco dal gruppo intellettuale/critico che aveva sostenuto la pittura sperimentale degli Impressionisti, affronta un veloce declino. Concentra la sua ricerca su alcuni elementi ricorrenti, come: nature morte, la Montagna di St. Victoire che poteva vedere/studiare dal suo studio in campagna e soprattutto nell’ultimo decennio il tema delle bagnanti, insieme a poche altre variazioni sul tema del ritratto occasionalmente dedicato a figure chiave della sua esistenza o del paesaggio. Viene meno ogni interesse per la componente narrativa dell’opera e ancora di più per ogni riferimento letterario, a beneficio di una concentrazione sul linguaggio, sulla possibilità di maturare un’armonia parallela in cui la rappresentazione della realtà potesse darsi secondo le regole del suo linguaggio pittorico. Da qui abbiamo un principio ferreo di studio di composizioni che potessero essere coerenti e restituire un’immagine risolta e condotta inizialmente sulle figure della geometria solida (cilindro, sfera e cono). 35 carnagione chiara, ma anche l’impiego di colori acidi come il blu, verde acqua, azzurri quasi fluo, rivelano questa condizione di violenta ribellione contro sé stesso e l’ambiente esterno naturale. PAUL GAUGUIN artista dalla biografia piuttosto originale, a partire dalla nascita, era in realtà figlio da parte di madre di una famiglia di origine ispano-peruviana, Gauguin trascorse i suoi primi anni di vita a Lima, dove la famiglia si era trasferita per sfuggire alla repressione seguita ai moti della terza rivoluzione francese. La memoria della civiltà peruviana rappresentò un riferimento importante per la messa a punto del suo linguaggio pittorico e della sua poetica. Solo nella metà degli anni ’50 fece rientro in Francia, prima ad Orleans e poi definitivamente a Parigi per poi riprendere la via del mare, viaggiando inizialmente con la marina mercantile e poi dal 1868 al 1871 con quella militare. Dopo questa data Gauguin trovò impiego come agente di cambio nella Borsa di Parigi, come una sorta di figura ai margini dei circuiti artistici legati all’Accademia o più sperimentali. È grazie alla frequentazione con Emile Schuffenecker, collega e pittore dilettante con un’importante produzione/ruolo di collante di varie esperienze di ricerche, che lo introdusse negli ambienti dell’Avanguardia parigina, in particolare lo presentò a Pissarro che diventò suo maestro. In seguito al crollo della Borsa nel 1882, Gauguin decise di dedicarsi a tempo pieno alla pittura, anche a costo della separazione dalla moglie/figli nel 1884. Dal 1886 aveva iniziato una sua attività letteraria da teorico, iniziò a maturare un’inquietudine, un’insoddisfazione rispetto all’ambiente parigino, dovuto anche allo scarso successo raggiunto dall’artista (costante della sua vita), che lo spinsero ad esplorare le provincie più primitive in Bretagna, per poi intraprendere il viaggio verso Panama. La visione dopo il sermone del 1888, opera in cui trionfano quegli aspetti della cromia piene e pulsanti come il rosso/giallo, la linea di contorno netta marcata in nero, le campiture piatte di colore che dominano questo dipinto. Primitivo anche nell’idea di rinunciare a ogni principio di copiare la natura e anzi di contemplare in un’unica visione un principio di realtà, quello delle donne bretoni riconoscibili dal tipico copricapo bianco, di spalle, da un punto di vista ravvicinato con un taglio giapponese; dall’altro lato c’è la visione mistica di questo angelo che sorregge Abramo senza soluzione di continuità, fatta eccezione per il tronco d’albero che obliquamente taglia la visione in due, delimita i due registri linguistici: realtà e visione mistica. In questa metà, notiamo un effetto scorciato da una vertiginosa prospettiva in sottinsù che affondano drammaticamente la visione dal primo all’ultimo piano. Il 1888 è anche l’anno del trasferimento ad Arles con Van Gogh, convivenza sulle prime felice per il proficuo scambio di idee e che poi si rivelò impossibile e interrotta bruscamente. Tornato a Parigi nel 1889, espose con altri aderenti alla Scuola di Pont-Aven in Bretagna, in cui si era creata una colonia di artisti con cui Gauguin stava sperimentando soluzioni, pratiche nuove; con loro espose alla Mostra del Cafè des Arts con 17 dipinti e la celebre Suite Volpini, così ribattezzata dal nome del gestore del locale che ospitava l’esposizione. Grazie al sostegno economico del governo francese e i proventi della vendita all’asta dei suoi dipinti, l’artista partì per un lungo viaggio fino a Tahiti dove rimase fino al 1893. Da questa data registriamo le Pitture Tahitiane, spesso con titoli in lingua indigena, insieme ad altri lavori in legno intagliato. Coltiva anche la scrittura con saggi dedicati agli antichi culti maori. Parentesi sul Primitivismo, sulla fascinazione della cultura occidentale per le culture extra-occidentale (Africa, America precolombiana, Oceania), di cui già l’interesse per la cultura giapponese era stato un primo importante segnale. Sono interessi che maturano in contrapposizione alla gretta deriva materialista del modello capitalista occidentale che viene percepito come disumanizzante, annichilente e dunque suggerisce la ricerca di un altrove di rifugio per la mente/spirito che potessero restaurare quel principio di umanità corrotto e spezzato dal progresso industriale. Una tradizione locale problematicamente interpretata in maniera controversa e ambigua. Se da un lato artisti come Gauguin ne subiscono la fascinazione incondizionata tanto da fare propri quei linguaggi/suggestioni/atmosfere, per altro verso mantengono sempre un punto di vista occidentale di chi 36 può permettersi questo sguardo sull’altro ma a riparo in questa condizione di privilegio in cui l’altro rappresenta una diversità da sottomettere/controllare a debita distanza. Spesso nei suoi dipinti Tahitiani le donne come vediamo nell’opera Le ragazze di Tahiti, assumono le sembianze, le pose, i costumi e le consuetudini tipicamente occidentali, diventano anch’esse oggetto del desiderio maschile come era accaduto per le odalische. In maniera molto ambigua da parte di Gauguin perché spesso le difende sulla carta, l’autodeterminazione di queste culture rispetto gli invasori coloni occidentali. Il nocciolo di queste esperienze più importante rimane quella sorta di opera doppia dedicata alla sua produzione tahitiana che riuscì a pubblicare a puntate dal 1897 sulla Review Blanche. Sostenuto dalla critica più avanzata, continuerà ad essere osteggiato dalle istituzioni, il Museo di Lussemburgo nel 1893 rifiutò la donazione del dipinto Ia orana Maria, “Ave Maria” del 1891. Nel 1895 ripartì per la Polinesia senza più fare rientro in Francia. I suoi ultimi anni tra tentativi di suicidio, problemi di salute, polemiche anti-clericali, attacchi anti-colonialisti, figli illegittimi furono segnati da una discontinuità della sua produzione. Nella Galleria di Vuillard nel 1898 fu esposto il monumentale dipinto Chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo? del 1897/98, una pittura concepita come omaggio alla pittura tahitiana che l’artista aveva avuto occasione di frequentare, allo stesso tempo una sorta un manifesto poetiche che mina le basi delle certezze della cultura occidentale. Gauguin morì solo e abbandonato da tutti nel 1901, chiudendo un’esperienza solitaria, marginale ma che ebbe ripercussioni importanti nella pittura d’Avanguardia francese di primo Novecento, sia con riferimento al gusto, all’interesse per il primitivo, sia la pittura di sintesi, a campiture piatte, dalla linea di contorno marcata, bidimensionale, dalle silhouette quasi astratte che imprimono un registro radicalmente moderno. PITTORI NABIS, così detti dal termine che avevano scelto dall’ebraico biblico per definire sé stessi, cioè Profeti di un nuovo verbo, quello dell’arte moderna che doveva svolgere una funzione di ponte tra le derive della cultura occidentale industriale/capitalista a beneficio di una nuova dimensione spirituale più autenticamente vissuta/sentita/partecipata, acquistando una sincerità, autenticità dell’espressione artistica che doveva coincidere con la qualità di una svolta esistenziale che questi artisti praticarono anche nelle loro scelte di vita. Gli artisti praticavano dei ritiri nella campagna bretone, protagonista di questo gruppo di artisti fu MAURICE DENIS accanto a PAUL SERUSIER e PIERRE BONNARD. Il più impegnato sul piano teorico, nella formulazione dei principi cui si spirava la pittura degli aderenti al gruppo era Denis, aveva dato la definizione del quadro dipinto che avrebbe fatto scuola, lo intendeva come una finestra sulla natura che prima di essere qualsiasi altra cosa è una superficie piana ricoperta di colori accostati secondo un certo ordine e per il piacere degli occhi. È un atteggiamento simile dai quei tentativi di affrancamento dalla realtà che negli stessi anni stava coltivando Cezanne anche se con esiti molto diversi. MAURICE DENIS, la sua pittura è caratterizzata da queste visioni sognanti di fanciulle quasi sempre ritratte in abiti bianchi, delle vere e proprie vestali laiche in tunica. I Pittori Nabis intendevano rivendicare la loro appartenenza a una cultura altra/antica che si trasferiva nella loro pittura e nelle scelte di vita/costume che praticavano. Una pittura dalle ampie campiture piatte, dalla linea di contorno nera netta, dalla radicale astrazione bidimensionale come vediamo nell’opera Le muse del 1893 o ancora nell’opera Aprile del 1892. Pittura intrisa da umori più spirituali, psicologisti ma così anche nelle produzioni di altri artisti, a prevalere è sempre questo carattere più astratto, celebrale, intellettuale, decorativo nell’impiego massiccio delle siluette 2D, soprattutto in riferimento alle figure femminili. PAUL SERUSIER artista del quale vediamo l’opera Il Talismano del 1888, qui la pittura si confronta con il paesaggio naturale. Dipinto icona dalle dimensioni molto piccole, si trattava del coperchio di una scatola di sigari. Opera che nasce da una collaborazione a più mani, da una pittura realizzata sotto dettatura nel confronto con Gauguin e gli altri Pittori Denis che rivendicava la libertà/autonomia di scelte cromatiche azzardate, in questa sua atmosfera sognante, sospesa che ne fanno quasi un dipinto radicalmente astratto, costruito sull’accostamento di macchie di colori vagamente riferite a forme naturali come le chiome degli 37 alberi, la superficie specchiante dell’acqua, il prato sullo sfondo, risolte con un azzardo cromatico e compositivo che ne hanno fatto una sorta di manifesto della pittura post-impressionista/simbolista francese. Civiltà europea consegnatasi al progresso e all’industrializzazione su scala globale, avendone avvertito i pericoli e i limiti, aveva previlegiato una pittura/sensibilità di ritorno all’antico, a un’idea di antico vagamente declinata/vagheggiata, con riferimenti proprio all’antichità classica greco-romana, con riferimenti primitivi extra-occidentale o con riferimento all’esotismo mediorientale/estremo come quella giapponese. GUSTAVE MOREAU nel suo caso si spinge addirittura a esplorare l’India moghul o la civiltà assiro- babilonese così evidente in alcuni suoi dipinti come Il Prometeo del 1868 o ancora come ne L’Apparizione del 1874-76, dove vediamo una scena di ispirazione biblica, la Salomè che balla di fronte la testa mozza del Battista, caratterizzata da questo interno così sontuoso che fa riferimento a un esotismo lontano, incrostato di gemme e materiali preziosi, in cui il vagheggiamento di questi interni così da sogno servono ad allontanare lo spettro di quella gretta cultura borghese occidentale a beneficio di una pittura pura, di idee, sensazioni, di una pittura che sia grande. Moreau rivendicò sempre per sé la definizione di pittore di storia, invece la sua è una pittura di anticipazioni di atmosfere simboliste, così visionarie, immaginifiche, misteriose, preziose, sospese radicate in una conoscenza erudita di fatti e contesti. PIER PUVIN DE CHAVANNES artista di cui vediamo opere come Giovani donne sulle rive del mare del 1879, caratterizzate da un’asciuttezza quasi 2D, le figure di questi corpi elegantemente atteggiate su una spiaggia e sospesi in un’atmosfera di attesa fuori dal tempo. Composizioni tenute su una gamma cromatica molto bassa, con toni caliginose, gli azzurri, i malva, mezzi toni che concorrevano a smaterializzare, a conferire ai suoi dipinti questo carattere più etereo e rarefatto. Tutto ciò rimane inalterato anche quando lavora sulla parete, nelle grandi pitture murarie, rispondevano a quel progetto tipicamente ideista di una grande arte decorativa, pubblica ed ideificante dalla vocazione sociale di apertura, inclusione, di un’arte pubblica concepita non per il chiuso degli Atelier/dimore di ricchi collezionisti ma a beneficio della città e dello spazio comune. SIMBOLISMO FRANCESE Una delle personalità più significative è quella eccentrica di REDON noto per le sue incisioni, è autore di più di 166 litografie che traducono un universo cifrato, misterioso di figure mostruose, di esseri presi in prestito dall’iconografia scientifica del microscopio o della botanica. In pittura autore di tele preziose, sognanti e terrificanti, impregnate di materia pittorica tali da evocare un universo onirico, immaginario nutrito da colti riferimenti letterari (E.A. Poe). Una produzione che si definisce tutta all’interno di una vicenda biografica marginale, ripiegata su sé stessa, costretta dentro un sentimento claustrofobico, a una deriva autoreferenziale di ossessioni, paure, angosce in cui radica quello spirito del tempo che si è lasciato alle spalle quella fiducia del progresso, nella scienza e nello studio della realtà che aveva caratterizzato le ricerche precedenti. Il sentimento proprio della cultura della decadenza, più aperto a dare spazio agli incubi della psiche, alla dimensione dell’inconscio e dell’irrazionale che non a dare una forma concreta e leggibile a un’ipotesi di relazione con la realtà. Questo è vero in tutta quella produzione di nature morte/vasi con fiori di Redon, in cui anche il motivo più apparentemente innocuo, in realtà traduce sempre un’atmosfera di mistero, spesso troveremo i suoi fiori come galleggiare/fluttuare in un tempo-non tempo disperatamente aggrappati nella loro esistenza effimera alla materia di una pittura spesso sontuosa che si dà per stratificazioni importanti di materia. Il Simbolismo Europeo conosce declinazioni diverse su scala nazionale, un movimento che avvicina sensibilità distanti ma accomunate da questo netto rifiuto del primato della logica, della possibilità di controllo, analisi, studio e rappresentazione della realtà. A volte con un registro più di tipo figurativo, tradizionale, legato dettami dell’Accademia, è il caso del pittore ARNOLD BOCKLIN, svizzero di origine ma attivo a Monaco. Una 40 SIMBOLISMO IN ITALIA GIULIO ARISTIDE SARTORIO artista italiano molto vicino a questo simbolismo legato a una tradizione classicista, ha importanti esperienze internazionali nel suo percorso di formazione, avviato a Roma negli anni ’70 all’interno di una tradizione in cui teneva banco la lezione di Maria Fortugno, un pittore di origine catalana ma residente in Italia, che praticava un Impressionismo di genere con scene di paesaggio o ambientazioni in costume. Qui Sartorio maturò un virtuosismo abile che lo ha reso uno dei protagonisti del periodo. Fu in Inghilterra nei primi anni ’90, ebbe modo di entrare direttamente in contatto con artisti come Rossetti e Morris; o ancora in maniera più determinante si stabilì a Vaimar dal 1886/99, di cui abbiamo testimonianza nei due grossi dipinti che oggi compongono il Dittico che anticipa l’aspirazione ambientale, pubblica e sociale della sua pittura, noto soprattutto per i suoi grandi cicli decorativi, la maggior parte dei quali andati distrutti, ne rimangono solo frammenti come quelli realizzati per la Biennale di Venezia del 1907. Il dittico è composto dalle opere: Diana di Efeso e gli schiavi del 1899/01 e La Gorgone e gli eroi del 1899/01. Opere che trasudano elementi di questa cultura internazionale, l’idea di una femminilità bella, fatale, seduttiva, avvolgente e allo stesso tempo distruttiva evidente nella Gorgone con la folta capigliatura rossa. Gruppo milanese che si era imposto tra polemiche e prese di posizioni radicali all’Esposizione Triennale di Brera del 1891, circostanza in cui furono esposte le opere Maternità del 1890/91 di GAETANO PREVIATI e Le due madri del 1889 di GIOVANNI SEGANTINI, due variazioni sul tema della maternità inclini a confermare quella cultura sentimentalista incline al patetismo e alla commozione. Opere innovative per quelle prerogative di linguaggio e di stile che fanno delle due opere gli avamposti della cultura Divisionista italiana. Le due madri di Segantini, ambientazione in una stalla, popolare, in cui il tema della maternità è raddoppiato nella figura della mamma con il bambino che sta allattando al seno e in quello della mucca con il suo vitello accanto. DIVISIONISMO che raccoglieva quella testimonianza di cultura francese mediata in Italia soprattutto da Plinio Nomellini, un pittore toscano documentato a Genova. Artista che si caratterizzava per questa stesura più filamentosa, di una pittura quasi pettinata per striature condotte sempre in modo più radicale negli anni. La pittura dei Divisionisti Italiani è prevalentemente a sfondo sociale, si vede in autori come LONGONI, MORBELLI interessati a raccontare il mondo degli scioperi milanesi, della grande città, della realtà del proletariato urbano, delle miserie delle mense popolari dei poveri senzatetto. GIUSEPPE PELLIZZA pittura insieme di forte impegno politico, socialista e militante, attento alle istanze dei lavoratori della campagna, essendo egli stesso di un’agiata famiglia di contadini. Attento già da dipinti di gioventù come Ricordo di un dolore del 1889, ritratto della sorella morta. La sua fu un’esistenza puntellata da una serie di lutti molto pesanti, dalla perdita prematura della sorella, alla morte della giovane moglie e del figlio che indussero l’artista al suicidio nel 1907. GIOVANNI SEGANTINI artista con un’esistenza travagliata, in cui su tutto era pesato il lutto per la perdita della madre. Il tema della maternità è stato sempre centrale in tutta la poetica dell’artista, fino alle Cattive madri del 1897, una visione di alta montagna innevati, sperimentazione di queste rifrazioni luminose da rendere attraverso lo spettro cromatico di una pittura divisa, filamentosa per lunghi e articolari tratteggi. In questo caso dove si gioca su scala di grigi-bianchi riescono ad animare comunque la rappresentazione di una vibrante atmosfericità spettrale/sinistra e drammatica delle madri cattive, sono quelle che abortiscono e rinunciano alla maternità, condannate nella visione immaginifica del pittore ad una sorta di contrappasso inchiodate all’evidenza dei ghiacciai di alta montagna. GAETANO PREVIATI pittura dell’artista cui sarà debitrice i primi esperimenti del giovane Boccioni, che esplicitamente dichiarerà una riconoscenza nei confronti della pittura degli stati d’animo di Previati. Pittura 41 sempre più mossa, agitata da una sensibilità di tipo Wagneriana, come vediamo nelle opere con soggetti ad alto contenuto simbolico, spesso di derivazione letteraria o mitologica, risolte con un’enfasi in cui negli anni della maturità (‘90) sono caratterizzati dall’intensificazione di questi toni gialli-rossi-aranciati che contribuiscono ad imprimere un pathos estremo e radicale alle ambiziose composizioni. Composizioni concepite in forma di decorazione ambientale, sono spesso tele di grande formato realizzate con la decorazione di ambienti, tali da suggerire l’idea di quell’opera d’arte totale che sarà una costante di molte delle più avanzate posizioni di ricerca di fine secolo. SECESSIONE DI MONACO del 1892 che vede protagonista indiscusso la personalità di FRANZ VON STUCK legata a questa iconografia direttamente prelevata dal mondo antico, da un’antichità dionisiaca legata a quelle forze oscure, istintive dell’inconscio. Nella cui produzione pullulano Satiri, Centauri, Minotauri, Sfingi, tutto quell’armamentario terrificante propria di un’antichità greca arcaica, controcanto alle pagine più gloriose della civiltà greca antica. Il peccato del 1909, meravigliosamente incorniciato in questa sorta di tabernacolo ligneo che ricalca motivi dell’architettura greca arcaica. Scena dell’opera omaggio al tema della Femme-Fatale, è un Eva peccatrice così sfacciatamente offerta nella sua prosperosa nudità, dallo sguardo demoniaco, dal coloro della pelle diafano e un unicum con il serpente che la cinge tutto in torno, è una sorta di alter-ego simbolo di tentazione e peccato. Tema della misoginia ricorrente nella Pittura Fin de Siècle, tema largamente condiviso, vedremo le donne ugualmente interpreti di una stessa tensione spirituale antagonista nei confronti anche di quel processo di progressiva affermazione di una condizione femminile non subalterna a quella maschile, ma che adesso rivendicava spazi di affermazione e di esistenza, diventando anche una sorta di minaccia nella coscienza di una cultura maschile sempre più rinunciataria, ripiegata su sé stessa e spaventata dai cambiamenti epocali che si andavano a presentare su questo fronte. È il timore per l’alterità, del diverso che non può essere tollerato e per questo viene esorcizzato e respinto, reinterpretato nelle forme di una caratterizzazione malefica. SECESSIONE DI BERLINO del 1898, uno dei protagonisti involontario è EDVARD MUNCH, norvegese di Oslo, è l’allestimento di una sua Mostra nel 1892 su iniziativa del Gruppo degli Undici, capitanati da Max Liebermann, naturalista sollecitato dall’esperienza francese declinata secondo una sua peculiare visione. Mostra che costituisce il primo atto di una separazione dall’ufficialità dell’Accademia di Belle arti che sarà formalizzata solo nel 1893. Fra le personalità più colpite dalla pittura di Munch, considerato padre dell’Espressionismo nord-europeo prossimo per cultura e indole alla linea più drammatica dell’Espressionismo tedesco agli aderenti alla Brucke, proprio per il carattere più tragico e cupo della sua pittura. Il Grido del 1893, dipinto Manifesto di paura, terrore, disorientamento e annientamento della figura umana di fronte al baratro di incertezza, incoscienza e pericolo verso cui sta correndo rovinosamente il secolo. Tema che sarà declinato nei suoi dipinti, affrontati tra malinconia, solitudine variazioni sul tema dell’incomunicabilità tra i sessi dell’uomo moderno, dalla rovina nei rapporti personali, anche sentimentali destinati al fallimento. Tutto rappresentato in questa pittura come una sequenza ininterrotta di variazioni sui temi principali della vita, amore e morte, in un ultimo rigurgito di cultura romantica che attraversa tutto il XIX sec, serie di dipinti intitolato Fregio della vita compresi fra i primi anni ’90 dell’800 e gli ultimi anni del primo decennio del ‘900, che fra pittura e produzione grafica raccontano il dramma di questo progressivo scollamento, di perdita di identità, di solidità e riferimenti della cultura europea nel mondo contemporaneo. Una pittura giocata su toni di colore molto accesi, come il rosso-giallo, una pittura molto mossa che articola questi grandi vortici importanti dal punto di vista della loro stesura, del corpo materico di una pennellata che sembra stringere e definire queste forze centrifughe che concorrono a una sorta di implosione dell’immagine dentro sé stessa, il baratro di una visione destinata a un epilogo tragico. 42 KATHE KOLLWITZ pittrice che nell’opera grafica racconta la desolazione degli ultimi, delle periferie nelle grandi città, si fa interprete di una condizione femminile, raccontata dal punto di vista di una donna, che non ha nulla di quella estetizzante visione sessista di una donna demone portatrice di morte/pericolo per l’uomo di intelletto, o al contrario intangibile e bellezza da idolatrare come ponte di accesso al divino/metafisico. Qui troviamo una donna in carne e ossa che ha i connotati e ruoli sociali propri in questo contesto storico. Pittrice che sarà un riferimento importante per la Pittura Espressionista tedesca di inizio secolo della Brucke nelle sue tarde manifestazioni negli anni ‘10/’20. LOVIS CORINTH artista che al contrario è soprattutto un pittore di paesaggio che privilegia una stesura violenta, approssimativa e scomposta, anche se talvolta con una tavolozza brillante si fa testimone di un periodo generale di instabilità, precarietà con una predilezione per le scale di verdi-blu-azzurro che saranno particolarmente frequentati dalla pittura Espressionista tedesca e dagli aderenti al Brucke. SECESSIONE VIENNESE che si sviluppa alla fine del XIX sec-inizio XX. Strappo di alcuni artisti che si pongono fuori dall’Accademia, nel caso di specie a Vienna nel 1897 e su iniziativa del protagonista di questa stagione, GUSTAV KLIMT. Artista che si era formato in una scuola di arti applicate, ne erano state aperte diverse sulla scorta delle esperienze del Movimento inglese Art and Crafts di William Morris, che tendeva a porre sullo stesso piano tanto la formazione di pittori e scultori, quanto quella di artisti impiegati nella realizzazione di opere d’arte decorativa. È la stessa scuola che darà una impronta radicale agli indirizzi di ricerca definendo un vero e proprio stile che prende vari nomi in base gli stati in cui si sviluppa: Art Nouveau in Francia, Liberty in Italia, Jugendstil in Germania, Secessionstil in Austria e Modernismo in Spagna. Tutte capitali epicentro di questo nuovo fenomeno di gusto e di cultura del progetto artistico, in cui si realizza quell’aspirazione all’opera d’arte totale, all’integrazione delle arti per cui un progetto si realizza unicamente in ogni suo dettaglio e sotto un’unica regia progettuale a cui concorrono in maniera alla pari competenze specifiche su diversi ambiti di intervento creativo. È il caso della collaborazione di Klimt con Hoffman e Moser nella realizzazione del cosiddetto Palazzo Stoclet a Bruxelles, dimora concepita come un’opera d’arte di questo importante uomo di affari (Hoffman) che aveva vissuto a Vienna in anni di affermazione del Movimento. Nel caso di questo edificio progettato da Hoffman e realizzato in ogni suo dettaglio di arredo e decorazione da Moser e altri artigiani, a cui concorre Klimt con la realizzazione di due mosaici sulle pareti lunghe della sala da pranzo del palazzo realizzato tra il 1905/1909 per quanto riguarda gli interni e poi completato nel 1911 rispetto al progetto integrale dell’edificio. Quella di Klimt è una pittura che nasce sin dagli esordi come vediamo nei primi interventi sul Teatro di Vienna negli anni ’80 o alle decorazioni dello scalone monumentale del Kunsthistorisches Museum di Vienna dei primi anni ’90, ha una vocazione ambientale a farsi opera d’arte totale, a rivarcare il limite del quadro da cavalletto della tela dipinta, benché avesse avuto uno straordinario successo come ritrattista dell’alta borghesia, delle professioni e imprese di Vienna, come possiamo ricordare nel Ritratto di Adele Bloch-Bauer del 1907, era considerata un po’ la Monna Lisa della storia della pittura austriaca, tale era la forza di questo capolavoro. Opera che fu al centro di una lunga controversia giudiziaria tra gli eredi della Famiglia Bloch- Bauer e lo Stato Austriaco che era entrato in possesso dell’opera, precedentemente sottratta dai Nazisti alla famiglia ebrea costretti al confino nei campi di concentramento; l’opera è stata restituita alla famiglia, la scelta da parte dell’erede è stata quella di donare l’opera a un museo americano. Le sue opere riguardano soprattutto i temi a lui più cari, si pensi al grande Fregio di Beethoven, realizzato in occasione della Mostra allestita nel Palazzo della Secessione di Vienna (1898, Palazzo dedicato alle Mostre degli aderenti al gruppo della Secessione), realizzata in occasione della 14esima esposizione degli artisti nel 1902. Opera che fu smantellata e divisa, solo in tempi recenti è stato acquistato dal Governo Austriaco e riambientato in un diverso allestimento, ma molto simile e rispettoso della sua originaria ambientazione documentata da fotografie dell’epoca, nel restaurato Palazzo della Secessione. Da questa tradizione di pittura giocata su raffinato linearismo grafico, sulla preziosità di materiali (oro) quale retaggio della cultura tardo-imperiale bizantina cui Klimt guardava con grande interesse, retaggio di una 45 La storiografia più recente non ha mancato di riconsiderare l’eredità Fauves oltre il 1907, in altre ricerche di Avanguardia, dal Futurismo all’Orfismo, all’elaborazione della nozione della pratica del colore puro e alla pittura astratta di Kandinskij. HENRI MATISSE personalità più emergente tra tutti. La sua è una vocazione tardiva, aveva iniziato i suoi studi in giurisprudenza che presto abbandonò per dedicarsi totalmente alla pittura, prima come allievo di Bouguereau, artista che gli lasciò una memoria di raffinatezza, ricercatezza e sensualità della pittura nei suoi nudi e nelle sue scene di carattere storico/sacro; poi fu accettato senza esame da Moreau all’interno dei suoi Atelier, il quale incoraggiò la formazione di Matisse in ragione del suo talento. Va citata la frequentazione della Scuola di Arti Decorative dove conobbe Albert Marquet, sodale compagno di scoperte e intense sperimentazioni in pittura. Nel 1896 l’artista aveva esposto al Salon ufficiale un dipinto intitolato La lettrice che era stato acquistato dallo Stato, nonostante Matisse diventi pittore d’Avanguardia per antonomasia ha una sua preistoria istituzionale e ufficiale. In questi stessi anni matura anche un interesse per la scultura di Rodin, di cui aveva acquistato un busto, aveva anche frequentato corsi di scultura, un esercizio ritenuto a lungo sporadico e occasionale rispetto la produzione pittorica, ma che in realtà ha avuto un ruolo centrale nella messa a fuoco di alcuni problemi formali o compositivi, di temi iconografici frequentati dall’autore, come il nudo. Dal 1901 le esposizioni al Salon degli Indipendenti si alterarono regolarmente a quelle nella Gallerie di Vollard, la sua prima personale fu nel 1904 e poi al Salon d’Automne nel 1903. Fra i quadri in mostra era presente l’opera Donna col cappello del 1905, acquistato dalla coppia di fratelli Stein, intellettuali americani che avranno un ruolo capitale nella difesa dell’Avanguardia parigina di autori come Matisse e Picasso, fu per il loro tramite che nel 1906 i due artisti si conobbero. Matisse sulla scorta di Picasso iniziò ad interessarsi di Art Negre, scultura primitiva africana, e iniziò a sperimentale sul fronte della grafica, in particolare nella litografia e nella xilografia. Nel 1906 realizzò anche il primo viaggio in Algeria, a cui seguirono altri viaggi in Germania, Spagna, Italia, Russia, Marocco, definendo così una geografia sentimentale/culturale destinata ad avere un peso negli svolgimenti dell’artista, lo notiamo nei trionfi cromatici nell’opera La gioia di vivere del 1905/06 e nel primitivismo di Nudo Blu, ricordo di Biskra del 1906/07, alle più stilizzate silhouette e alle serrate campiture piatte de La Musica e La Danza del 1910. Da qui esplode la straordinaria fortuna critica e commerciale, grazie al supporto delle Gallerie. Negli anni della Grande Guerra, Matisse inizia ad esplorare il sud della Francia, soprattutto Nizza, che poi l’artista eleggerà a partire dal 1921 come sua residenza fissa almeno per metà dell’anno. Sono anni in cui Matisse sperimenta una sua particolare misura di ritorno all’ordine, è il periodo delle Odalische dipinte su rutilanti partiti decorativi, si veda la celeberrima Odalisca dai pantaloni rossi del 1924/25. A New York, il figlio di Matisse, Pier avrebbe aperto un importante Galleria che avrebbe promosso e fatto conoscere l’Avanguardia europea e francese negli USA. Proprio fra anni ‘20/’30 Matisse maturò una vocazione sempre più monumentale e ambientale della sua pittura, a partire dalla commissione americana Alfred Patz per la sua Fondazione della Danza del 1932/33 che è la prima di una serie di occasioni per sviluppare una sua pittura in termini ambientali. Realizza anche le vetrate e i pannelli ceramici per la Cappella del Rosario di Vence nel 1948/51. ESPRESSIONISMO TEDESCO, GRUPPO DELLA BRUCKE. Costituito a Dresda nel 1905, inizialmente sotto una vaga adesione a fermenti anti-impressionistici, considerando l’Impressionismo un’esperienza conclusa e di larga fortuna in ambienti borghesi e conservatori, contro i quali questi giovani artisti intendevano prendere posizione in maniera drastica e radicale. ERNST LUDWIG KIRCHNER, fondatore del gruppo e il più riconoscibile, si veda il suo dipinto Cinque donne sulla strada del 1913 caratterizzate da queste silhouette tagliate, incise nella materia pittorica, per molti aderenti alla Brucke deve andare alla tradizione grafica dell’arte tedesca, alla xilografia come pratica di 46 cultura tedesca tale da generare queste forme così taglienti, accidentate e risolte in questo caso con un contrasto cromatico così accentuato e violento: blu-viole vs giallo-verde. Un’immagine che tradisce la violenza di una visione che è derivata dalla consapevolezza di una tragica condizione umana, che privilegia scene urbane, metropolitane, là dove nel 1901 Kirchner si trasferisce a Berlino, questo carattere è ancora più accentuato. Torre rossa a Halle del 1915, è una veduta metropolitana, costruita su questa prospettiva delirante, convulsa, quasi implosa tale da suggerire una sorta di instabilità, precarietà della condizione umana, in cui l’uso antinaturalistico in senso espressivo del colore tende a esasperare e enfatizzare quegli aspetti di tragedia incombente che caratterizza la pittura di questi artisti. Autoritratto come soldato del 1915, qui registriamo la tragedia dell’imminente primo conflitto mondiale che vedrà lo sciogliersi definitivo del gruppo già dal 1913, al cui senso di dissoluzione e disfatta è tutto presente nella pittura di questi artisti già dai primi anni ’10. Lo stesso Kirchner aveva parlato della sua pittura come di geroglifici, intendendo con ciò un riferimento alle culture primitive, a cui questi artisti guardavano con grande interesse (si vede nelle fisionomie), e alla cultura dell’Antico Egitto, alla spiritualità misterica e iniziatica che pervade la pittura di alcuni degli aderenti alla Brucke EMIL NOLDE, all’anagrafe Hansen che aveva preso in prestito il nome della sua cittadina di nascita per siglare i suoi dipinti. Vediamo il dipinto L’ultima cena del 1909 è improntato a una dimensione spirituale così pervasiva ed escludente, totalizzante, quasi un rigurgito di cultura romantica che fa capolino nella pittura di Nolde. Lo vediamo così anche nei suoi paesaggi, come nell’opera Sole Tropicale del 1914 in cui la lezione della pittura romantica di paesaggio tedesca con Friederich è risolta in una cifra di esplosione cromatica forte, una cromia piena e pulsante di tonalità come rosso cupo-giallo arancio-blu assecondando quella eloquenza del colore che contestualmente avrebbe trovato una sua più sistematica trattazione nelle riflessioni di Kandinskij. KARL SCHMIDT-ROTTLUFF cui si deve il nome del gruppo, artista in cui registriamo una cromia violenta e una forma più violenta di una geometria aspramente disegnata, si veda nell’opera Banchi di sabbia e bassa marea del 1912, in cui il forte contrasto cromatico blu-rosso è reso ancora più ostile alla percezione dalle scheggiate forme geometriche che campeggiano al suo interno. OTTO MULLER artista che privilegia una pittura di figura dai toni più bassi, neutri, virati su una scala di gialli- ocra-terra, interessato alle figure di nudo, anche queste desunte dal serrato confronto con la statuaria africana primitiva. Tramonto con nudi gialli del 1919. MAX PECHSTEIN artista che fu fondatore della nuova Secessione di Berlino nel 1911, un’esperienza presto conclusa l’anno dopo, e poi nel 1913 si registra il definitivo scioglimento della Brucke. Sotto gli alberi del 1911. La Brucke, il ponte è anche un omaggio a quel celebre dipinto del Grido, l’idea di una comunicazione impossibile fra spazi diversi, fra l’ordinaria tranquillità borghese da una parte e dall’altra la conquista di una dimensione più spaventosa/inquietante, una sorta di mediazione tra uomo e natura, tra presente e futuro, tra realtà e dimensione metafisica e spirituale. 47 Appendice dell’Espressionismo Tedesco, che si muoveva dalla lezione di Munch, debitrice di altre Influenze culturali, è quella dell’ESPRESSIONISMO AUSTRIACO che nasce da una costola dell’esperienza della Secessione Viennese. I suoi due protagonisti, Egon Schiele e Oskar Kokoschka, nascono e si formano all’interno del più ampio magistero di Klimt. EGON SCHIELE cioè è particolarmente evidente nei suoi ritratti, in cui la tendenza decorativa derivata da quel linguaggio suntuoso di Klimt tende a radicalizzarsi su una tensione emotiva evidente nelle pose contratte e innaturali come in uno spasmo muscolare o in un assai funesto rigor mortis che caratterizza molti dei suoi ritratti. La committenza di Schiele è di fatto, soprattutto agli inizi della sua attività, illuminata consapevole di questo linguaggio intriso di umori negativi della sensibilità dell’artista, che affidava a un segno nervoso la sua pittura. Tutto è ancora più evidente negli Autoritratti da nudo in cui anche l’oscenità del corpo maschile, ostentata senza fingimenti o idealizzazioni, ma esposto nella sua carnalità più becera, malata e sofferente in un modo di aderire onestemente alla tragedia incombente. Molti hanno voluto leggere nella pittura di Schiele e nei dipinti di paesaggio come Il vecchio mulino del 1916 proprio la rappresentazione plastica della fine dell’Impero Austriaco in cui la forza dell’acqua, delle correnti del ruscello, scompaginano e distruggono la precaria costruzione di legno del mulino. OSKAR KOKOSCHKA artista che ugualmente recepisce e elabora questo clima di progressivo disfacimento che si registrava nel paese, ha una dimensione pittorica più sontuosa, impastata, in qualche modo di derivazione barocca. Evidente nell’opera La sposa del vento del 1914, in cui due amanti, è possibile riconoscere l’autoritratto dello stesso artista, si lascia andare alla deriva di una corrente impetuosa, quella della storia che sta trascinando l’Europa alla tragedia della Guerra. Nel suo caso vediamo una pittura dai toni aspramente drammatici, violenti, una pittura convulsa con una pennellata sporca, accidentata e satura, una sorta di materia che si dà per grumi di pittura o al contrario per lunghe stesure violente che concorrono a definire questa aurea di estrema precarietà dell’abilità della condizione umana. Gli artisti viennesi riescono ad interpretarla così magistralmente anche forti di una cultura che negli stessi anni stava elaborando ugualmente interpretazioni del mondo che andavano in quella direzione. VASSILY KANDINSKIJ artista stabilito a Monaco di Baviera. Primo nucleo del Cavaliere Azzurro (Blaue Reiter) che fonda insieme a Franz Marc nel 1911. Azzurro perché sintetizzava quel principio maschile, austero e allo stesso tempo spirituale che il colore azzurro rappresentava per antonomasia della cultura del Romanticismo Tedesco e non solo, colore più etereo/astratto nel suo richiamo naturalistico al cielo, a una condizione di rarefazione di evanescenza ma anche perché visto come un colore attraversabile, leggero, possibile di quella immaterialità che caratterizzava la condizione dello spirito. Nel 1912 gli aderenti al gruppo pubblicano anche un Almanacco in cui trovano posto molte interessanti riflessioni che tentavano di tenere insieme esperienze di pittura più avanzata francese, con riferimenti alle personalità di Van Gogh, Gauguin e dei Fauves, vi erano anche affondi su l’arte manicomiale o dei fanciulli, tutte quelle condizioni espressive più autentiche e meno mediate dal filtro di una cultura di formazione accademica/artistica che potessero tradire/compromettere quello spirito/slancio di espressione autentica e genuina che era la parola d’ordine per la poetica di Kandinskij. Teorizzazioni contenute ne Lo Spirituale nell’Arte, un libro di carattere teorico che aveva elaborato a partire dal 1910 e che pubblicò nel 1912, in cui l’artista insiste su questa dimensione interiore, su questo necessario scavo all’interno della propria sensibilità e psicologia. In cui il colore stesso si dà come necessità interiore, come opportunità per esprimere stati d’animo e condizioni dello spirito precise, che progressivamente in questi anni perdono ogni riferimento al dato naturalistico esterno, presente in alcuni suoi dipinti, come Paesaggio con torre del 1908 o Il cavaliere in corsa del 1903. Opere che diventeranno sempre più astratte e prive di riferimenti esterni tanto da adottare nei titoli l’idea di una progressione numerica che ora definisce quelle che Kandinskij intitolò Improvvisazioni, ora andando più avanti negli anni preferì chiamare 50 Un quadro come un’autobiografia che ci racconta ancora dell’incertezza dell’affermazione dell’artista giovane, ma non più giovanissimo, a Parigi in un contesto competitivo, pieno di personalità di talento in cui Picasso riuscì ad emergere. Ritratto di Gertrude Stein del 1906, un’opera in transizione tra il Periodo Rosa e la Stagione Cubista, anno in cui, grazie agli Stein, Picasso aveva avuto modo di incontrare Matisse e di coltivare insieme a lui questo interesse per l’Art Negre e la scultura africana, di cui fu collezionista, andava ad aggiungersi come suggestione visiva ad altre importanti esperienze di pittura antica o alla riscoperta della scultura iberica. Ritratto dalla lunga gestazione, Picasso risolve a favore di questa sorta tipizzazione in senso bruto, primitiveggiante del volto, quasi intagliato nella materia dura del legno, dai profili taglienti e scheggiati. L’avvio della collaborazione con Braque che risentì tantissimo della sconcertante della visione dell’Atelier di Picasso a Montmartre, nel grande nudo de Les Demoiselles d’Avignon in cui registriamo una torsione innaturale dei corpi e uno schiacciamento della tavolozza su questa scala di ocra-gialli-terra-azzurri, presi in prestito e derivati dalla pittura di Cezanne nelle sue Bagnanti, ma anche fatti propri dell’artista in altre opere come Viadotto a L’Estaque del 1908 che ugualmente riducono un tentativo di sintesi costruttiva di forme presenti nella realtà. Picasso rimase fedele a una pittura di figura, anche durante la sua Stagione Cubista, il ritratto di persone a partire dagli affetti a lui più vicini, delle sue compagne e gli amici. Ritratto di Vollard del 1910, in cui l’ossequio al confronto con Braque abbassa la tavolozza verso tinte più neutre e spente. SCULTURA a opera dello stesso PICASSO genio multiforme che sperimentava su più fronti, i suoi Collage approdano a uno sviluppo nel 3D, preleva elementi dalla realtà fra di loro incongruenti, ricomposti e risignificati, come vediamo per esempio nel Bicchiere di Assenzio del 1914. Dove la ricerca è più pura, come nella Testa di donna, Fernande del 1909, in cui è ancora più evidente quel retaggio di cultura primitivista che guardava alla statuaria africana. Il tentativo è quello di dare uno sviluppo su più dimensioni alla statua, in cui tanto la torsione del collo così come la sovrapposizione di piani divisi sul capo della donna, tentano di restituire plasticamente nelle 3D, quello slittamento/articolazione di piani che contestualmente Picasso stava operando in pittura. GEORGES BRAQUE, cultura pittorica più celebrale e già attenta, indipendentemente dall’incontro con Picasso, all’elaborazione la lezione di Cezanne. Braque privilegiò sempre paesaggi e nature morte, lavora sul motivo, emancipare la pittura da ogni riferimento naturalistico in cui l’oggetto da rappresentare diventava poco più che un pretesto per consentire alla pittura di elaborare un linguaggio autonomo, una sua originalità espressiva e linguistica che poteva restituire visioni della realtà. Da qui l’esigenza di una disarticolazione delle figure nello spazio, della restituzione delle tre dimensioni e della quarta, rispetto a una visione interiore, secondo quelle aperture in senso intuizionista, memoriale del tempo e che si traducono in una serie di tentativi. Violino e tavolozza del 1910 in cui questa analisi nel dettaglio di ogni singolo oggetto, della sua espansione nello spazio irrazionale ed emotiva, doveva fedelmente farsi interprete delle visioni dell’artista che intendeva ricreare la realtà tramite un nuovo linguaggio pittorico. Pittura che negli anni esigeva una possibilità di sintesi di queste esperienze, è la fase di passaggio dal cosiddetto CUBISMO ANALITICO a quello SINTETICO, in cui le visioni tendono ad essere ancora di più compendiate in un’astrazione intellettuale, in cui è addirittura il frammento di realtà ad essere preso in prestito e diventare elemento linguistico autonomo e fondante di questa nuova pittura. Il Collage su cui entrambi iniziarono a cimentarsi, celeberrima è la Natura morta con sedie di paglia del 1912, in cui già dà uno sviluppo plastico e 3D come se si trattasse di una sorta di scultura, realizzata a partire da un 51 tessuto di tela-cerata stampato con quest’effetto trompe d’oeil che ricalcava una sedia impagliata, sulla quale Picasso dipinge elementi più o meno riconoscibili e lettere, proprio a sottolineare quel carattere illusorio di costruzione intellettuale astratto di questa nuova pittura. L’ampio utilizzo delle lettere, il Lettering, che fa la sua comparsa della pittura di questi artisti, va in questa direzione. Dopo il 1914 i due artisti si separano, Picasso dichiarerà che dopo questo saluto non si furono più rivisti, confermando la separazione di due percorsi che conosceranno sviluppi divergenti. Se negli anni della Guerra, Picasso inizia a sperimentare un suo ritorno all’ordine in cui guarderà alla tradizione della pittura accademica, presente nei Ritratti della moglie Olga o nel dipinto Tre donne alla fontana del 1921, per poi sperimentale in ambito surrealista o espressionista lungo una carriera operosa e prolifica che attraversa tutto il ‘900. Braque si terrà più fedele a un lessico cubista già sperimentato in questi anni e ripensato con poche varianti ed eccezioni lungo gli anni post-bellici. Sul protagonismo di queste due personalità è stato un po’ costruito l’equivoco di un Cubismo esauritosi nelle intuizioni e sperimentazioni di questi due artisti, in realtà la compagine Cubista era assai più articolata sulla scena parigina, la loro fu una presenza presto blindata dall’azione protettiva di Daniel-Henry Kahnweiler, un gallerista di origine tedesca che si occupò per molto tempo, in via quasi del tutto esclusiva, della pittura di Braque, Picasso e pochi altri pittori Cubisti, in particolare di Juan Gris e Fernand Leger. A questo gruppo di 4 artisti è quasi esclusivamente estesa la storia del Cubismo, secondo un’impostazione storiografica che si deve allo stesso Kahnweiler che, in quanto ebreo-tedesco a Parigi, avendo subito per lunghi periodi l’interruzione commerciale della sua attività di gallerista si dedicò anche alla critica e alla definizione di un indirizzo storiografico, lasciato in consegna a una storiografia americana, che cristallizzava in questo quartetto la punto più avanzata di ricerca in ambito cubista. I veri cubisti di cui parlava la stampa francese erano quelli che avevano partecipato al Salon degli Indipendenti, alla Section d’Or dal 1911, non solo Gris ma anche Albert Gleize, a cui si deve la pubblicazione del 1912 di un importante libro di riferimento, Du “Cubisme”, che tenta una definizione teorica di quello che era stata l’esperienza importante della pittura a cavallo tra il primo e secondo decennio del ‘900 a Parigi. Artisti che concorsero a definire una stagione con aperture piuttosto importanti: LEGER sul fronte del colore, della sperimentazione di un colore più vivo e acceso che in qualche modo rifiutava quelle algide palette quasi monocrome o costruite su variazioni di toni che, soprattutto nella fase del Cubismo Analitico, Braque e Picasso avevano praticato; GRIS al contrario a beneficio della ricerca di una forma smagliante, metallica e presaga di quella svolta meccanicista che, negli corso degli anni ’20, avrebbe preso campo in molta pittura d’Avanguardia in Europa; MARCEL DUCHAMP giovane artista che dà un contributo alla scomposizione Cubista che ha altri importanti sviluppi, tra il 1911/12 è un pittore autore di due importanti dipinti Giovane triste in un treno del 1911/12 e il celebre Nudo che scende le scale del 1912, presentato con grande scandalo e seguito di interesse critico all’Armony Show di New York del 1913; Pittori che si muovono all’interno delle suggestioni aperte dalle sperimentazioni di Picasso e Braque ma spingendo verso esiti radicalmente distanti e irriducibili alle premesse che muovevano i due pittori capostipiti del movimento. ROBERT DELAUNAY artista cui dipinti come Torre rossa del 1911 o La Ville de Paris del 1912 non si spiegherebbero se non alla luce di quella larga frequentazione della pittura da Salon degli Indipendenti in cui esponevano gli altri Cubisti, intanto per la scelta dei temi della metropoli che non avevano mai accolto nei loro testi cubisti, le vedute urbane e metropolitane, notiamo la Torre Eiffel in entrambi i dipinti citati, 52 paesaggio accompagnato da queste figure di nudi femminili che rimandano a un orizzonte di tipo Simbolista. In queste due opere è evidente l’uso del colore di derivazione Fauves, in cui il colore rosso impiegato per la definizione della Torre Eiffel è una scelta di campo in senso Espressionista ben preciso, tale da disintegrare e animare come in una sorta di esplosione visiva l’immagine riprodotta. Il colore è a definire la forma, l’articolazione di una forma che si accampa su superfici multiple, punti di vista divergenti, come in una frammentazione di uno specchio che restituisce rifrazioni incongruenti di uno stesso brano di realtà. Nell’opera della Torre rossa c’è un’attenzione a una definizione atmosferica dell’ambiente circostante, affidato da questi sinuosi sviluppi di fumi, nubi che sembra potersi riconoscere sullo sfondo del dipinto, che daranno la stura a più compiute sperimentazioni sul fronte della forma e del colore ormai di indirizzo astratto che a partire dal 1913 caratterizzeranno la pittura di Delaunay. Disco simultaneo, opera realizzata già nel 1912 e che è concepita come una sorta di forma astratta in cui è il colore pulsante, i contrasti di colore a definire dinamicamente una forma. È chiaramente una pittura intrisa di riferimenti di natura spirituale e psicologica, bisogna tenere a mente le riflessioni sulla forza e significato del colore come necessità interiore che in questi anni, fra il 1909 e il 1912, stava compiendo Kandinskij. Tempestivamente un critico/poeta Guillaume Apollinaire, molto vicino a Picasso, uno degli interlocutori per la definizione della messa appunto della poetica cubista, definì Orfismo proprio nel corso di una conferenza tenuta a Berlino Apollinaire presentò per la prima volta questa nuova corrente, prendendo spunto da una sua poesia del 1908 dedicata ad Orfeo e al potere di seduzione e incanto della sua poesia pura. FRANTISEK KUPKA artista di cui vediamo in particolare l’opera Amorfa, fuga a due colori del 1912, oggi a Praga. Ugualmente interpretava secondo un andamento sinuoso, un impianto grafico di derivazione simbolista, quasi una sorta di arabesco calligrafico elegante e accampato sullo spazio della rappresentazione. Tentava di dare una forma dinamica al colore come puro elemento compositivo significante. SONIA DELAUNAY artista russa che approda a Parigi dove sposa Robert Delaunay. Spinge le ricerche cromatiche condivise dal marito e Kupka verso esiti ancora più radicali. Ricerche cromatiche al di là dei limiti della superficie di una tela, a beneficio di una vocazione ambientale della sua pittura, spingendosi fino alla moda e alla decorazione di interni, realizzando anche tessuti, parati per cuscini, tende o divani. OSSIP ZADKINE un artista russo che si segnalò per la qualità della sua proposta a partire dal 1913, anche lui suggestionato dalla statuaria antica Pre-Rinascimentale, Medievale Romanica fatta di importanti superfici monolitiche e appena spezzate/scheggiate da interventi sicuri, e nello stesso tempo verso la semplificazione che ha già qualcosa di astratto, tentando così di coniugare una solida strutturazione compositiva di natura più sintetica rispetto alla visione analitica di altri scultori come Archipenko. ALEXANDER ARCHIPENKO artista russo ma a Parigi dal 1908, produsse una scultura polimaterica e policromatica, quindi assecondando e dando riscontro a una ricerca di orientamento più libero e meno ortodosso rispetto al cubismo di Picasso e Braque, più incline alle divagazioni dei cubisti da Salon. Tenta di aprire le figure, rompere la pasta della materia, ad alleggerirla, a renderla animata nello spazio, questo lo vediamo nella sua opera Incontro di pugilato del 1914. RAYMOND DUCHAMP-VILLON artista fratello di Marcel Duchamp, così come vediamo nella sua opera Il Cavallo del 1914, meccanizza le forme della natura a beneficio di quel processo di progressiva meccanizzazione delle forme che, in parte condiviso da altri Cubisti come Leger, Gris e negli anni ’20 dai Futuristi, troviamo queste superfici levigate, smaglianti, riflettenti in cui quei minimi elementi di riconoscibilità figurativa dell’opera, come lo zoccolo del cavallo in primo piano, diventano poco più di un pretesto per restituire una forma che è già meccanica della natura. 55 del 1912/1914 o anche nell’opera Velocità d’automobile + luce + rumore del 1913 in cui anche il riferimento a quei miti del motore, la velocità, la luce, il rumore, vediamo come gli esiti sono quelli di una radicale astrazione evanescente, elegante nei suoi andamenti curvilinei su cui continuerà a lavorare negli anni ’20 e ’30 del ‘900. GINO SEVERINI artisti di cui vediamo l’opera La ballerina in blu del 1913 e l’opera Il Boulevard del 1911, dipinti di ispirazione parigina, legati al soggiorno di Severini a Parigi. Questo artista rappresenta il caso più eclatante, futurista di origine toscana e presto trasferitosi a Parigi dove visse per tutta la vita. L’opera Maternità del 1916 è considerata la chiave di questo passaggio di consegne tra prima e dopo la guerra, in realtà è una data molto alta con il conflitto ancora in corso. Quella linea neo-puntinista molto sollecitata con l’incontro con i futuristi di primo nucleo romano (Balla) e a Parigi l’amicizia con i Cubisti, sceglie per quest’opera uno stile di solida costruzione plastica che rimonta a una tradizione di cultura italiana rinascimentale. Svolgimenti di Pittura Europea legati in qualche modo al Futurismo. Furono allestite diverse Mostre in giro per il continente, come quella allestita a Londra nel 1912, Mostra dei Futuristi Italiani, colpì molto la curiosità di un giovane artista WEYNDHAM LEWIS che in realtà aveva una sua preistoria come pittore d’avanguardia legato a Roger Fry e al gruppo del cosiddetto Omega Workshop, un’esperienza di artisti/proto-designers che nascevano da una costola del Bloomsbury set, cioè quegli artisti aderenti al circolo di Bloomsbury, un quartiere di Londra dove abitavano quasi tutti gli aderenti al movimento e che aveva come figure principali di riferimento Virginia Woolf, Vanessa Bell, Roger Fry. Artisti in cui sopravviveva ancora un retaggio di cultura romantica che innestava le novità provenienti dal confronto con la cultura francese a una tradizione inglese che radicava nella pittura pre-raffaellita e nel decoratismo prezioso di Morris e dei Arts and Crafts. WEYNDHAM LEWIS artista che dopo lo shock, procurategli dall’incontro con le opere futuristiche, decise di abbandonare Fry e gli artisti dell’Omega Workshop per dedicarsi a una pittura di derivazione futurista e di agili sintesi compositiva, dalla linea veloce, dalle composizioni radicalmente astratte che tendevano a simulare quei principi poetici di velocità, progresso e avanzamento tecnologico, poetico, estetico e esistenziale. In un omaggio al Futurismo Italiano tenne a battesimo un Movimento che chiamò VORTICISMO, ebbe nel poeta Ezra Pound il maggiore sostenitore e ideologo. Movimento che si costituì ufficialmente a Londra nel 1914, già nell’estate di quell’anno apparve il primo numero della rivista Blast, una sorta di grande organo di stampa di riferimento per gli aderenti al gruppo. Fra gli artisti aderenti al Vorticismo inglese c’è la personalità di CHRISTOPHER NEVINSON, artista più orientato a privilegiare una pittura di figura stilizzata in un linguaggio corsivo, spezzato, grafico ma allo stesso tempo come abbreviato in una stilizzazione meccanica che poteva restituire quegli effetti di velocità vorticosa, progressista e tecnologicamente avanzata. JACOB EPSTEIN artista di cui vediamo una scultura, un torso in metallo intitolato La perforatrice del 1913/1915, opera che nel titolo evoca le funzioni proprie di una macchina industriale, ha nella sua stilizzazione un residuo di figurazione umana. HENRI GAUDIER-BRZESKA artista che realizza ritratti più primitiveggianti, lo vediamo nel Ritratto ieratico di Ezra Pound del 1914. Poeta ideologo molto amato anche dai Futuristi e dai Fascisti in Italia, proprio per le sue posizioni più reazionarie e conservatrici, nazionaliste che ne fece un punto di riferimento (oggi Casa Pound), caratterizza questa spinta bellicosa, interventista degli anni di guerra, la pittura specialmente di Nevinson. 56 Appendice in area anglo-americana legata alla fascinazione del Futurismo Italiano è quella dei pittori americani STANTON MACDONALD-WRIGHT e MORGAN RUSSELL, entrambi di istanza a Parigi, affascinati dalla Pittura Cubista e Futurista e sollecitati soprattutto dalla pittura Orfica Cubista. Nell’opera di entrambi, tra il 1909/1910 avevano iniziato a utilizzare il termine Sincromista per definire questa idea di simultaneità, di convergenza cromatica, giocando su questo equivoco fra sincronia con l’idea di una velocità, di un tempo unico e sincromia come unità emotiva, psicologica ma anche poetica, estetica e formale del colore intriso di umori e intendimenti di natura mentale/spirituale. È una pittura che risente molto del confronto Delaunay, con queste sue sintesi astratte di colori pulsanti. STANTON MACDONALD-WRIGHT artista di cui vediamo Astrazione a partire dallo spettro nel confronto con il Disco simultaneo di Delaunay sul filo delle stesse date (1913/1914). JOSEPH STELLA pittore americano di origine italiana, innestò questa fascinazione per il Futurismo italiano per l’Orfismo su una visione metropolitana della città di New York rappresentata come una scintillante megalopoli multiforme, animata di vita propria, in cui grattacieli, ponti e luci, la vita febbrile del centro abitato si traduceva in fantasmagorie che seducevano la sguardo e allo stesso tempo modificavano la percezione stessa della realtà a beneficio di una visione vorticosa, totalizzante e moderna della città. Altro ambito di fertile proliferazione delle idee Futuriste fu la Russia, paese già negli anni prima della Rivoluzione d’Ottobre 1917, particolarmente attenta a cogliere le novità che venivano da Parigi/Germania, gli artisti russi in giro per l’Europa sono un tramite importante per l’aggiornamento, la visione di una ricerca di avanguardia anche in Russia. Nel 1913 appariva a Mosca il Manifesto del MOVIMENTO RAGGISTA, firmato da LARIONOV e dalla compagna NATALIA GONCHAROVA, sintetizzava le idee che contestualmente venivano prelevate dai Manifesti Futuristi. La Goncharova attenta a recepire le sollecitazioni più interessanti che potevano venirle dal confronto con l’arte d’avanguardia europea, senza mai perdere di vista quella forte componente di cultura tradizionale, antica russa, sarà un tratto distintivo delle Avanguardie Russe/Sovietiche, anche nelle posizioni più estreme e sperimentali da un punto di vista formale e più tipicamente figurativo. Entrambi gli autori avevano aderito all’Associazione Fante di Quadri a cui partecipava anche l’artista Kazimir Malevic, il quale avrà un ruolo fondante nel radicalizzare le ricerche di avanguardia russe, e nel farsi regista di strappi clamorosi che gli valsero una pesante damnatio memoria nel suo paese anche dopo la sua morte. Larionov nel Manifesto dichiarava che: “Lo stile della pittura Raggista che noi promuoviamo si occupa delle forme spaziali conseguite con l’intersezione dei raggi riflessi dai vari oggetti e dalle forme individuate dall’artista”. Permaneva una sorta di attitudine spiritualista, cioè l’idea di smaterializzare i corpi, di restituire una forma pittorica attraverso uno studio attento della luce e della scomposizione che la luce, tanto più nei corpi visti in velocità, imprimeva e restituiva a una nuova occasione di visione realmente moderna. Larionov raggiunge esiti radicalmente astratti nelle sue prove migliori, in cui si registra quella situazione dei corpi attraversati dai raggi della luce che quasi riflette una visione come in uno specchio rotto, in parte lo avevamo visto in altri artisti Futuristi italiano come Boccioni e Balla. Più legata a una persistente figurative è la pittura di NATALIA GONCHAROVA, si deve per esempio nell’opera Il Ciclista del 1913, anch’esso largamente debitore di analoghe situazioni futuriste interessate a rendere il movimento in pittura e i suoi effetti visivi di scomposizione cromatica sui corpi. Si parlò anche con riferimento alla Pittura di Larionov e della Goncharova di CUBOFUTURISMO, in qualche modo il Raggismo sintetizzava le istanze più innovatrici che venivano dai due Movimenti, impegnati l’uno dei confronti dell’altro a rivendicare primati e supremazie d’ordine intellettuale e politico. 57 La personalità centrale è quella di KAZIMIR MALEVIC, perché sua è la regia di quelle che possono essere considerate le più importanti Mostre d’Avanguardia del momento, facevano il punto delle più avanzate proposte che erano maturate in quel frangente in Russia. In particolare nel 1915, Malevic pubblicava quello che è il testo teorico/Manifesto della sua Pittura, più in generale dell’Avanguardia Russia/Sovietica di cui si proponeva come un leader, che si intitola “Dal Cubismo al Suprematismo”, si dà per acquisita e superata l’esperienza Cubista e Futurista per approdare in una dimensione altra e più alta, quella del SUPREMATISMO. Rivendicava la conquista di una dimensione spirituale più alta, non oggettiva, senza che avesse alcun riferimento alla natura/realtà. Una pittura che per questo suo carattere quasi mistico/religioso, lo vedremo nella Mostra 010 del 1915 quanto l’esposizione del suo Quadrato nero su fondo bianco del 1913/1915 generò sconcerto e perplessità con riferimento al desiderio di conquistare un quadro zero della pittura, di eliminare totalmente ogni riferimento esterno alla pittura, per concentrarsi solo sul potere iconico della forma elementare ed essenziale come quella del quadrato, come forma astratta dell’assoluto e perfetta. Un quadrilatero concepito secondo proporzioni perfettamente omogenee, immagine/simbolo di una perfezione metafisica che valsero a Malevic molti problemi, soprattutto dopo la Rivoluzione d’Ottobre nel 1917 e la diffidenza con cui i Soviet guardavano all’esperienza religiosa, alla devozione, come fattore irrazionale che allontanava i cittadini dalle preoccupazioni reali di una vita disciplinata dai ritmi del lavoro, della produzione e del benessere che doveva essere garantito in modo egualitario a tutti. Malevic rimase sempre fortemente legato a una tradizione russa, tanto che nella celeberrima Esposizione 010 del 1915, appese il suo Quadrato nero su fondo bianco a ridosso del soffitto e a cavallo dell’angolo di incontro tra due pareti, nella posizione tradizionale in cui venivano allestiti nelle case russe, di ogni ceto e ordine sociale, le icone sacre. Icone che avevano un carattere stilizzato e imperniabile agli svolgimenti della cultura figurativa occidentale, con un linguaggio senza tempo che continua ad affidarsi alle mani di esperti pittori che seguivano i dettami della più ortodossa iconografia religiosa. Allo stesso modo la stilizzazione radicalizzata nella forma nel dipinto di Malevic, in cui l’allestimento stesso dell’opera è parte integrante della lettura/interpretazione e comprensione dei suoi significati, rimontava a quel tipo di tradizione iconografica, in cui il fondo oro era sintetizzato dal fondo bianco, proprio perché considerato neutrale e più evanescente/spirituale, tale da conferire maggiore risalto, quasi plastico, come se fosse una figura emergente dal fondo al quadrato nero che sintetizzava l’aspirazione a una pittura dell’assoluto come chiave di accesso a una dimensione più alta e suprema della stessa ricerca artistica della pittura d’avanguardia. Quando iniziarono a maturare il malcontento nei confronti di questa deriva spiritualista della poetica di Malevic, che iniziò a perdere consenso e pubblico, pur essendo una figura di riferimento importante attiva su più livelli e in diversi ambiti di intervento creativo, aveva lavorato molto con il teatro realizzando le Scenografie per la rappresentazione teatrale di Vittoria sul Sole di Matjusin, in cui il sipario nero si proponeva con la stessa valenza formale e poetica del suo dipinto. L’Unione Sovietica iniziò a guardarlo con sospetto, lo sollevò dai ruoli pubblici, come quello di docente e di intellettuale, fece calare una cortina di imbarazzato silenzio su questa produzione d’Avanguardia a beneficio di un linguaggio sempre più orientato a privilegiare la figurazione e la retorica propria della retorica di regime, il cosiddetto Realismo Sovietico. Questa sua attenzione alla costruzione di valori spirituali ha un riscontro nel tentativo di dare alle sue creazioni uno sviluppo ambientale, come vediamo nei quadri 3D a scopo architettonico, i cosiddetti Architectoni, o i disegni preparatoria di questi quadri detti Planiti. Tutto all’insegna di questa accelerazione verso una deriva spiritualista per nulla gradita ai vertici politici Sovietici, tanto che i suoi quadri, la sua cospicua produzione fu a lungo rilegata nelle cantine, solo a partire dagli anni ’80 si è potuto tornare a rileggere/riconfigurare il ruolo che ha avuto Malevic in Europa. VLADIMIR TATLIN artista che seguì più esplicitamente le sorti della Rivoluzione d’Ottobre, in maniera più convinta, sistematica e militante si schiarò a beneficio della Rivoluzione e fu fra gli intellettuali russi più impegnati sul fronte della rifondazione di una nuova idea di mondo, di società, di civiltà e di rapporti fra il popolo e il potere. Ha una personalità curiosa ed eccentrica, con una formazione poco ortodossa ed esperienze professionali dalle più disparate, da quella di marinaio a quella di carpentiere, fu determinante 60 popolare russa, di un’arte popolare in quanto tale autentica che doveva diventare l’arte di massa, condotta su livelli anche di produzione industrialmente avanzata. NEOPLASTICISMO OLANDESE: PIET MONDRIAN e THEO VAN DOESBURG PIET MONDRIAN la sua pittura è fortemente sollecitata da un’ambizione spiritualista, come si vede da un’opera d’esordio come il Trittico Evoluzione del 1910/1911, profondamento debitore di un’eleganze secessionista, simbolista tipica dell’area belga e olandese, il riferimento deve andare soprattutto a Toorop che rappresentava una punta d’Avanguardia per le ricerche più sperimentali in Olanda nei primi due decenni del ‘900. Il Trittico di Mondrian ci indica una compattezza di piani, una sintesi d’ordine geometrico e matematico celebrale, fatta di rilievi minimi e zone omogenee, all’interno delle quali è campito un colore uniforme e radicale che poi troveremo nella più matura pittura alla fine del decennio. La Serie dedicata all’Albero nelle sue diverse evoluzioni, è indicativa di questo percorso di maturazione e affrancamento della pittura di Mondrian, da riferimenti ancora di tipo mimetico, naturalistico come nella figura dell’Albero come si vede nell’opera del 1910 e le sue evoluzioni come variazioni su un tema che assume, nei più tardi esiti degli anni ’10, lo vediamo nel 1914 il Quadro 3 o ancora nel 1914 la sua Composizione n6, esiti radicalmente astratti, in cui la memoria dell’albero, del suo intreccio stilizzato di rami e linee perpendicolari, che di fatto diventa la griglia su cui Mondrian costruirà la sua fortuna di artista. Fortuna molto controversa e avversata da più parti, anche nel giudizio di molti osservatori d’Avanguardia la pittura di Mondrian sembrò noiosa, rinunciataria, priva di anima e guizzi, di idee, così come era concentrata sull’estetica minimale del quadrato e quando la cromia si ridusse all’uso dei tre colori primari + bianco e nero (non colori), usati solo come momenti di pausa, di allontanamento di questa forma regolare geometrica. L’esistenza di Mondrian fu metodica, quasi francescana, per il rigore delle sue variazioni estetiche appena scalfite dalla più tarda produzione degli anni ‘30/’40 e dell’incontro a New York con la cultura nord americana. Cultura di cui rimane traccia in opere come Victory Boogie Woogie che restituisce un’immagine più scomposta, vivacizzata del colore e della forma, pur sempre all’interno di un rigore compositivo che anni dopo farà celebrare il tema della griglia. Neo-Plasticismo con riferimento a un nuovo modo di concepire e trattare la plastica, la forma. Un linguaggio autonomo, in sé fondato, che non rimanda ad altro, che si dà per sé stesso e che tenta di interpretare nuovi valori di aspirazione mistica e spirituale. Sugli aderenti a De Stijl, nome del Movimento del 1917 e della rivista. Movimento andato avanti fino al 1928. Prevedeva una radicale astrazione e sintesi intellettuale anche nella realizzazione di ambienti, c’è sempre un’aspirazione all’opera d’arte totale, a una costruzione ambientale come esigenza di definizione di un nuovo spazio esistenziale per l’artista e l’uomo contemporaneo, che sempre in movimento allarga anche al contributo di alcuni architetti, come Gerrit Thomas Rietveld. Designer autore di importanti mobili come la famosa Sedia rosso, blu e gialla, icona del design, riferimento per gli sviluppi in ambito Bauhaus. Sulla posizione di De Stijl sono documentate la fascinazione delle dottrine teosofiche, questa quasi nuova religione laica, che praticava/predicava lo studio storico delle religioni, a beneficio di una sorta di sincretismo religioso ecumenico, che rinnegava qualunque forma di conflitto per una dimensione spirituale da coltivare in ogni ambito dell’esistenza. DADAISMO esercitò una lunga eredità lungo tutto il XX sec. Molte delle posizioni, che si affacciarono alla seconda metà del secolo, in ambito del cosiddetto di Neoavanguardia, prendevano le mosse direttamente dalle sperimentazioni più radicali che erano maturati in seno ai vari gruppi Dada in Europa e negli USA. Una caratteristica del Movimento fu questa sua trasversalità geografica, con epicentri europei che vanno da Zurigo a Parigi, da Colonia a Berlino, fino a questa sua appendice Newyorkese ugualmente vitale e destinata a decidere profondamente sugli svolgimenti dell’arte del XX sec negli USA. I Dadaisti raccoglievano l’eredità che era quella degli altri movimenti d’avanguardia, di fatto rispetto ad essi respingevano ogni residuo di continuità per quanto rivoluzionata nei linguaggi, nei contenuti, di poetica e 61 negli approcci/rivendicazioni legati ai vari Manifesti, all’esplorazione di sensibilità e ambiti di intervento creativo insondati fino a quel momento, spinti verso più radicali posizioni. Posizioni distruttive, nichiliste per un verso, a partire dallo stesso nome, Dada come ha affermato Tristan Tzara, uno dei principali esponenti del movimento, non vuol dire niente; in realtà l’origine del nome è stata oggetto di diverse interpretazioni, come: il balbettare tipico dei bambini, a beneficio di quella idea di no- sense che caratterizza molto le azioni del gruppo, all’intercalare tipico delle lingue slave, Idea di un anti-arte, di un’arte che allo stesso tempo non lo è, tradisce perfettamente lo spirito contestatario, ribellista che aveva conquistato l’Europa. Non è un caso che il Dada abbia il suo primo focolaio a Zurigo negli anni del Primo conflitto mondiale, perché la Svizzera era un paese rimasto neutrale, per questo aveva catalizzato le presenze di tutti gli anti-interventisti, degli intellettuali che si erano dichiarati contro la follia del conflitto armato. TRISTAN TZARA e MARCEL JANCO, poeta l’uno e architetto l’altro, si erano recati in Svizzera per studiare filosofia il primo e architettura il secondo. Erano soliti frequentare il Cabaret Voltaire, un locale animato da un imprenditore teatrale e poeta fuggito dalla Germania per non raggiungere l’esercito, aveva intitolato questo ritrovo al genio Illuminista di Voltaire, un omaggio e presa di posizione che rivendicava il primato della ragione e del buon senso rispetto la follia della guerra. Le serate Dada al Cabaret Voltaire iniziarono presto ad animarsi di quello spirito goliardico, contestatario sorretto da posizioni non interventiste, anarchico-socialiste, pacifiste, che intendevano provocare e accendere una riflessione sulla deriva distruttiva che il conflitto stava prendendo. Contro ogni certezza e convinzione, contro ogni posizione assolutista, i dadaisti rivendicavano una sorta di principio di relativizzazione, il caso diventa uno dei luoghi poetici privilegiati, sia nella composizione di poemi sia in quella di opere d’arte. Manifesto sull’amore debole, amore amaro pubblicato nel 1920 da Tristan Tzara, riprende quel carattere esaltato che era delle declamazioni futuriste, in cui è il caso ad essere esaltato come condizione irrinunciabile dell’esistenza umana, legge casuale che poco aveva a che fare con i principi di buon senso a cui si ispirava paradossalmente la scelta di intitolare a Voltaire il Cabaret in cui i dadaisti avevano trovato agio di proporre la loro opposizione. Un procedimento provocatorio che aveva molto a che fare con i principi delle parole di libertà marinettiane, con quella libertà tipografica che avevano sperimentato i Futuristi, in cui i diversi punti di carattere del giornale potevano offrire, in questa opera diligente di ritaglio e di ricomposizione casuale, le più diverse e imprevedibili combinazioni. Un procedimento che sarà vitale e centrale per molte altre esperienze, in ambito Surrealista per esempio. Con questo stesso criterio si muoveva forse il più dotato degli artisti visivi del gruppo di Zurigo, ovvero HANS ARP, poeta e artista, considerato il vero regista dell’opera. Con questo criterio Arp componeva i suoi Collage con dei fogli di carta ritagliati, mescolati in un sacchetto e lasciati cadere, fermati sulla carta nel modo accidentale con cui si erano poggiati sul foglio. Questa stessa pratica lo condusse a sperimentare con altri materiali, ritagli di legno, con sagome di diversa foggia e colore, a beneficio di composizioni astratte in cui resiste un’idea compositiva, una ricerca di ritmi e armonie compositive che fanno di Arp uno dei più accreditati sperimentatori in ambito astratto pittorico e scultoreo. Si spiega l’avvicinamento di Arp ai Surrealisti prima e dopo al Gruppo di Abstraction-Creation nel 1931, quando si trasferì definitivamente a Parigi. La moglie Sophie Taeuber, arredatrice di interni, tessitrice e pittrice, uno di quei talenti dimenticati dalla storia dell’arte cresciuta all’ombra del marito ingombrante. In Germania per continuità territoriale con la Svizzera, è un paese che ha visto tre raggruppamenti significativi, quello Berlino a partire dal 1917 e due di Colonia e di Hannover dal 1919. A BERLINO i protagonisti del Movimento furono JOHN HARTFIELD, HANNAH HOCH e RAOUL HAUSMANN che raccolsero intorno a sé molti intellettuali. 62 JOHN HARTIFIELD nei suoi montaggi fotografici, con prelievi dalla stampa di propaganda, denunciò la mostruosità, la deriva distruttiva del Nazismo, irridendo simboli del potere come la svastica. HANNAH HOCH artista che utilizzò allo stesso modo il ritaglio, il collage di giornali con spirito irridente anche all’autorità politica. Una sua opera del 1919 intitolata Taglio con il coltello da cucina, ultima birra in pancia nell’epoca culturale di Weimar, celebra la fine dell’impero germanico e l’avvio della Repubblica di Weimar che coincide con l’epilogo dell’avvento del Nazismo. RAOUL HAUSMANN artista che in una sua celebre opera, Tatlin a casa del 1920, collage che propone un ritratto insolito del Tatlin, ugualmente visto in questa deriva meccanomorfa, costruttivista, vista come pericolo di alienazione, di perdita di umanità che rappresentava la faccia opposta di una realtà sempre più votata alla modernità, ora nella sua deriva totalitaria come trionfo del discorso capitalista, ora dall’altra in questo suo slancio utopico di rivoluzionario, a cui si guardava con preoccupazione. Il gruppo di Colonia è caratterizzato dalla presenza di HANS ARP e dall’amico MAX ERNST, avrà un ruolo chiave nello sviluppo del Surrealismo in Germania, in Francia e negli USA. MAX ERNST si segnalava in questi anni per la sua capacità di sperimentazione su tecniche fino a quel momento inedite, di sua invenzione, come il Frottage che consiste nello sfregamento di una matita su un foglio di carta poggiato su materiali duri, legno/foglie/monete, per far si che l’immagine che emerge sul foglio di carta sia un’immagine indiretta, realizzata senza l’intervento della mano umana ma che riveli l’impronta nascosta sotto il foglio, la vita autonoma degli oggetti indipendentemente dalla nostra capacità di rappresentazione/composizione del nostro controllo di quei materiali. Il caso di una vita non accessibile all’esperienza diretta dei nostri sguardi va nei confronti di una ricerca anti-artistica. Esperienze che attirarono l’attenzione di André Breton, padre del Surrealismo, e che presto chiamò a raccolta a partire dagli anni ’20, Max Ernst all’interno della compagine internazionale del Surrealismo. Il caso di Hannover è limitato alla sola personalità di KURT SCHWITTERS, artista che ebbe sporadici contatti con il gruppo di Berlino, aveva avuto una formazione ortodossa all’Accademia di Dresda. Iniziò presto a produrre collage con ogni genere di rifiuto, con oggetti di scarto sottratti al consumo di massa, inaugurando un filone che nel corso del ‘900 sarebbe stato particolarmente fecondo, l’impiego di materiali extra-artistici all’interno di opere d’arte. Siglava le sue opere utilizzando il termine Merz, nasceva da un occasionale ritaglio di una scritta di un volantino della Commerce Bank di Hannover, questo ritaglio che aveva a che fare con il concetto del commercio, del degrado della materia affidato a meccanismi che si iniziavano a denunciare come disumani. Serialità del suo lavoro che iniziò a crescere intorno a sé stesso in una vocazione di tipo ambientale, i suoi collage iniziarono ad acquisire dimensioni sempre più grandi fino alla composizione del suo lavoro più celebre, la Merzbau, opera che invase ogni angolo della sua abitazione negli anni fra il 1923/1943, opera che crebbe in un ventennio come un work in progress domestico da raccoglitore seriale, che andò distrutta negli anni del secondo conflitto, fu ricostruita a partire dalla scarsa documentazione fotografica che esisteva dell’opera nel Museo di Hannover. Questa aspirazione ambientale, a un’opera che si sviluppa dentro e intorno alla persona dell’artista, questa coincidenza totale fra arte e vita, in cui la stessa condizione umana quotidiana diventa opera d’arte abitata ogni giorno, farà da stura ad altre più radicali sperimentazioni negli anni ’60. A Parigi sono attive le personalità di FRANCIS PICABIA pittore di formazione ortodossa e tradizionale, presto sollecitato dalla rivoluzione Cubista, diventa uno dei protagonisti del Dada a Parigi e a New York dove si trasferisce insieme a MARCEL DUCHAMP per sottrarsi alla Prima Guerra Mondiale. 65 femminile con aperture e un’idraulica che farebbe pensare all’apparato genitale femminile in dialogo con quelle dinamiche meccaniche che riprodurrebbe le dinamiche dell’accoppiamento. Questa componente erotica e sessuale rivive anche nell’opera L. H. O. O. Q. del 1919, la Gioconda con i baffi, qui l’acronimo con cui è intitolato questa banale poster. Opera che aveva già acquisito uno statuto di icona mediatica, riprodotta in poster, cartoline, pubblicazioni, alla cui fortuna visiva concorse Duchamp con questa sua irriverente proposizione, in cui la sigla letta in inglese significherebbe “look”, guarda come se l’icona rivendicasse un’attenzione esclusiva, è tale l’intensità dello sguardo delle Monna Lisa ritratta che ingaggia con lo spettatore. Duchamp definì una sua precisa lettura dell’opera, irriverente perché rende più espliciti la possibilità che dietro il ritratto si celasse una sorta di autoritratto, ragione per cui il volto assume sembianze maschili con baffi e pizzetto, a voler aggravare questa ambiguità grossolana, l’acronimo letto in francese traduce la frase “Ella ha caldo al culo”, chiaramente un’allusione volgare alla presunta sessualità di Leonardo, al mistero della calma e criptica di questo ritratto androgino. La figura dell’androgino è cara alla cultura alchemica, perché rappresenterebbe la perfezione nel carattere ibrido tra il maschile e il femminile. André Breton ha parlato di Duchamp come “Alchimia della parola”, un testimone quasi in presa diretta delle sue opere, vicinanza dei gruppi proto-surrealisti e al gruppo dadaista di Parigi, ci dà un’indicazione utile sulle componenti di cultura verso cui si potevano orientare le scelte di Duchamp. Nel 1919 è Duchamp protagonista di una serie di travestimenti in abiti femminili, di ritratti nelle fotografie di Man Ray, in cui l’artista da corpo al suo alter ego femminile che è Rose c’est la vie, anche questo in francese è una sorta di gioco di parole, foneticamente coincide con un possibile nome e cognome ma, anche con la frase Rosa è la vita, in allusione a quel principio di dominio femminile, unità dei due sessi. Grande vetro opera realizzata a partire dal 1915 e che ha un titolo lunghissimo La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme che significa “La sposa messa a nudo dai suoi pretendenti, ancora”. Un titolo in cui si annidano diverse interpretazioni, in cui nel tema della Mariée sono state viste delle allusioni al tema della Maria cristiana, della grande madre e dell’amore. La stessa composizione dell’opera, concepita su due registri linguistici sovrapposti, con un registro basso che doveva essere quello dei pretendenti, al raggiungimento della sposa inserita nel registro alto, che canta e seduce con la sua elegante figura, questa attrazione attiva lo strano meccanismo rotatorio (macinino da caffè) che imita pratiche e consuetudini di comportamenti amorosi/sessuali, costretti da una sorta di girone infernale in attesa del raggiungimento di questo più alto stato della Mariée da conquistare. C’è chi si è avventurato nel voler riconoscere in questo doppio registro una sorta di riproposizione della più classica iconografie/tipologie compositiva della cultura visiva della Contro Riforma, la pala d’altare. Maurizio Calvesi, a lui si deve l’interpretazione in chiave alchemica de L’orinatoio del 1917, è stato fra i più attenti e illuminanti esegeti di Duchamp. La rottura del Grande Vetro nel 1926 a ritorno di una mostra segna l’atto conclusivo dell’opera, con lo spirito/intelligenza con cui Duchamp ha sempre condotto la sua vita, in questa circostanza all’apertura della cassa che rivelava i danni subita dal trasporto, disse “Finalmente l’opera è conclusa”. Il Caso ha assunto un ruolo centrale nella poetica di Duchamp, questo incidente del Vetro per lui rappresenta un’opportunità, l’intervento esterno non previsto che concorre a definire i significati/lo statuto dell’opera d’arte. La stessa scelta del vetro era dettata da questo principio assorbente, tale da catturare dentro di sé quelle possibilità di attraversamento per cui l’opera poteva essere vista da entrambi le parti, e comprendere nella sua visione i visitatori di un museo che le sarebbero girati intorno, diventando essi stessi parti in causa di questa tensione erotica, ispirazione al passaggio da una condizione all’altra, da un registro all’altro. Macinino da caffè che ritroviamo in altre singole opere di Duchamp, ne aveva realizzato uno nell’opera Macinatrice di cioccolato del 1914, che si era presto caricata di quei significati di oggetto del desiderio che Duchamp gli aveva attribuito nel momento in cui lo aveva scoperto nella vetrina di cioccolataio, in cui lo stesso piacere/attesa del piacere del cibo che questo macino si portava con sé, come prefigurazione di quella esperienza di piacere. Interpretazioni e comportamenti che dal suo punto di vista erano quelli che governavano il mondo. Questo mondo ridotto allo stato larvale di macchine senza anima, mosse da un desiderio automatico, quasi pre- 66 razionale, il desiderio sessuale che era capace di attivare meccanismi e dinamiche che spesso si caricavano di significati più profondi e ambiziosi. Dopo poco la conclusione dell’intervento realizzato sul Grande Vetro, con la piombatura delle parti rotte come atto ultimo del completamento dell’opera, si ritirò quasi del tutto dalla scena artistica per dedicarsi esclusivamente al gioco degli scacchi, sua altra grande passione per la sua mente matematica e estremamente intelligente. Affidò la riproduzione di tutte le sue opere in miniatura alla Scatola in valigia, una sorta di micro museo trasportabile che rappresenta una summa del suo lavoro, la libertà di liberarsi dalla pittura, dell’eros inteso come forza cosmica di attrazione tra gli opposti e potenza generatrice del mondo e da ultimo il ribaltamento costante di senso, di quei principi su cui si era costruita la società occidentale in cui al contrario tutto e il contrario di tutto sono possibili come opzioni, l’alto può convivere con il basso e viceversa, sovvertendo l’ordine di riferimento pre costituito. L’eredità di Duchamp, non solo dal punto di vista intellettuale e concettuale, in cui è l’idea che fa l’opera d’arte e non più la sua esecuzione, ma nel travestitismo di Duchamp si intravedono i prodomi di un’attività performativa che grandi proseliti avrebbe poi fatto, soprattutto in ambito di Neoavanguardia quando la Body Art, la Performance Art e l’Happening diventeranno cavalli di battaglia, pratiche privilegiate per un’arte che si voleva fuori dai circuiti istituzionali del Museo e dell’Accademia e commerciali della Galleria. Indicativo di questa sensibilità è il Ritratto fotografico che Man Ray fa della nuca di Duchamp nel 1921, in cui l’artista è ritratto di spalle e la nuca è rasata con la forma di una stella in negativo, una sorta di tonsura che è anche un atto di ribellione. L’acconciatura dei capelli sono sempre state scelte dettate da significato profondi da ragioni religiose, di appartenenza sociale. Movimento importante che si colloca a inizio ‘900 è la METAFISICA, di cui abbiamo anticipato alcuni aspetti soprattutto con riferimento all’eredità importante che lascerà in consegna al Surrealismo. Sulle prime identificò in Giorgio de Chirico il rappresentante più significativo, colui che tenne a battesimo la definizione stessa di Pittura Metafisica, anche se in maniera controversa e problematica contendendola con Carlo Carrà, che nel 1919 aveva pubblicato un libro dedicato alla Pittura Metafisica, nel quale il nome di de Chirico era stato censurato. Eredità lasciata al Surrealismo che sulle prime riconobbe nella Pittura Metafisica molte importanti premesse della sua poetica, salvo poi arrivare a una clamorosa frattura fra Breton e lo stesso de Chirico. GIORGIO DE CHIRICO il suo è un percorso singolare ed eccentrico, forse è anche questa la ragione per cui la sua personalità, il suo temperamento da artista sfugge a una precisa definizione, condensa esperienze di cultura europea in maniera trasversale, anche fra di loro apparentemente distanti, allo stesso tempo è capace di restituire una posizione originale, rimbalzata ad altre proposte di ricerca maturate negli stessi anni. Condivide alcune istanze con la Pittura Dada, ha una componente di cultura di formazione intrisa di un’eredità simbolista e classica allo stesso tempo che guardava a modelli di cultura antica greco-romana per un verso e italiana rinascimentale per l’altro, salvo poi il giro di boa degli anni ’20 vira verso una pittura più pastosa e tradizionale. Eccentrica è la traiettoria di de Chirico rispetto già al dato biografico della sua nascita, nasce in Grecia da genitori italiani che si erano trasferiti per lavoro, qui si consuma la prima formazione/educazione di de Chirico che studia al Politecnico di Atene e coltiva una cultura a cavallo tra Grecia e Italia. Nel 1905, alla morte del padre, la madre decise di tornare in Italia per poi trasferirsi a Monaco di Baviera, proprio per assecondare la formazione dei due figli, Alberto de Chirico avrebbe poi preso lo pseudonimo di Savinio, pittore e letterato, per distinguersi dal fratello più grande. Un rapporto fra fratelli molto intenso che rimase una costante per il lavoro di entrambi, soprattutto fra gli anni ‘10/’20 e ancora prima, quando i loro percorsi di formazione si sovrappongono e sostengono, si alimentano di uno scambio quasi simbiotico, un rapporto rafforzato dalla perdita del padre e dell’attaccamento molto forte alla figura della madre. Monaco alla data del 1905 era un importante crocevia internazionale di formazione artistica, sede di una delle più prestigiose Accademie di Belle Arti e nota le aperture cosmopolite e le presenze internazionali dei 67 suoi allievi. De Chirico ammira molto il filosofo Nietzsche, fonte intellettuale cui guarda nella formazione del suo pensiero/sensibilità di artista e la fascinazione/particolare lettura della scrittura di Nietzsche legata alla condizione di esistenziale/attesa/crogiolo/nostalgia di un tempo andato o labile pronto a rarefarsi che è trattenuto da una sorta di desiderio/aspirazione a trattenere la memoria di questa sensazione, questo lo vedremo nel Ciclo delle sue Piazze Italiane o anche ancora nella Serie degli Enigmi. Con riferimento alla prima produzione di de Chirico, fra gli anni ’00 e ’10 del ‘900, fra l’esperienza di Monaco e il rientro in Italia nel 1910 prima a Firenze e poi a Torino, due città che lasciarono un’impronta molto forte sulla sua pittura, dialoga in stretto confronto con quella tradizione di pittura romantica/simbolista. Si pensi al quadro Lotta di centauri del 1909 nella Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma al confronto con analoghe tele di Bocklin come la sua Battaglia dei centauri del 1872. De Chirico approderà alla definizione di questa pittura metafisica nel 1916 quando si ritrovò a lavorare a Ferrara in contatto con Carlo Carrà, Savinio e altri pittori che erano attratti nell’immediato da questa svolta della pittura italiana. Un dipinto proto-metafisico del 1910 come L’enigma dell’oracolo, tradisce la derivazione palmare di molte delle sue idee, più in generale di un assetto compositivo che aveva come fonte visiva principale il dipinto di Bocklin Ulisse e Calipso del 1882. Dipinto che già nel titolo dichiarava apertamente la fascinazione che de Chirico coltivava nei confronti dell’enigma, in questa sua composizione si rivela nell’assetto curioso dell’ambientazione, questo spazio ibrido aperto-chiuso in muratura e naturale, aperto su un orizzonte panoramico come una voragine sull’abisso verso cui si è attratti e spaventati, quale rigurgito di una cultura romantica del sublime. La figura di spalle avvolta in una toga antica, in cui volendo identificarla con l’Ulisse del dipinto di Bocklin, ugualmente ritratto di spalle, alto su una rupe e con lo sguardo rivolto all’orizzonte verso il mare, come anelito, nostalgia del rientro in patria. Questo desiderio del ritorno alla propria terra- casa, in questo de Chirico si è sempre sentito costretto dal destino a girare tra stati continuamente, un’esistenza che solo nella maturità è approdata a Roma nel famoso Palazzetto del Borgognoni, oggi Casa Museo de Chirico a Piazza di Spagna. Questa enigmaticità della figura di Ulisse è complicata da questa statua antica, di cui si intravede solo la testa in alto dietro questa tenda che la copre, in maniera coerente con quello spazio sacro-intimo del tempio antico e poi da lì della chiesa, in cui il naos, la parte centrale più sacra, veniva destinata alla conservazione della divinità a cui solo i sacerdoti potevano accedere, ad uno sguardo contemporaneo poteva non essere un riferimento così scontato. Andando avanti negli anni questa atmosfera sospesa ed enigmatica, ricordiamo il dipinto Autoritratto sulla cui cornice campeggiava un’epigrafe in latino, “Che cosa amerò se non ciò che è un enigma?”, in cui de Chirico si ritrae in controparte rispetto a una celeberrima fotografia di Nietzsche, a sua volta, ricalcava l’iconografia della malinconia, del pittore con una guancia appoggiata a una mano che regge la testa, in una posizione di abbandono, di pensiero, di attesa e ripiegamento nostalgico dentro sé stessi. Quest’atmosfera inizia a strutturarsi in modo più compiuto nelle piazze d’Italia, in cui i punti di fuga multipli, le linee deliranti delle quinte degli edifici che si affacciano su queste piazze desolate e prive di umana presenza. L’enigma dell’ora del 1911, qui vediamo la serrata partitura ritmica del colonnato della piazza su cui si affaccia questo orologio, non a caso segna le 14.50, ora nel primo pomeriggio che dava corpo e sostanza alle visioni della pittura di de Chirico. In molti hanno voluto riconoscere il colonnato dello spedale degli innocenti di Firenze. La ricompensa dell’indovino del 1913, qui molti hanno voluto vedere i portici della città di Torino, città che aveva visto il passaggio di Nietzsche. La composizione improvvisa fatta di rivelazioni o materializzazioni inquietanti, come l’Arianna, una celebre statua di età ellenistica che compare spesso nei sui dipinti, emblema di una condizione propria della malinconia, caratterizzata da quelle ombre lunghe da meriggio autunnale, con riferimento alla fascinazione della lettura della scoperta del filosofo tedesco, questo recupero della cultura antica nella sua doppia anima 70 GIORGIO MORANDI, artista di ambito bolognese, figura isolata e solitaria. Condusse un’esistenza abbastanza ritirata, condividendo la sua casa con le sorelle per tutta la vita, con qualche uscita estiva in una casa di campagna che rappresenta quelle poche occasioni di eccezione di paesaggi nella sua produzione, rispetto al genere della natura morta praticata sempre all’interno della sua stanza studio, sempre con pochissimi riconoscibili oggetti e variamente combinati nelle composizioni. Questa meditazione costante su un’idea di variazione perpetua su un unico tema di molteplicità nell’unità di una vocazione costante che fece gridare ai critici più impegnati, nell’immediato secondo dopoguerra, a una sorta di disimpegno incosciente nei confronti del dramma del regime fascista; altri lessero all’interno della cultura del regime, questa pittura in termini di fedeltà al mestiere, di una pittura senza frizzi e velleità, di sperimentazione avanguardista ma al contrario impegnata in un percorso di pulizia formale e mentale; altri ancora lessero in chiave antifascista questa produzione, proprio perché dedita alle piccole cose, alla quotidiana riflessione su elementi di poco conto, rispetto una pittura ufficiale di regime che celebrava in maniera trionfante l’epopea del Ventennio e serviva la causa della propaganda. Periodo metafisico di Morandi, confinato nello stretto giro di pochi anni, in cui ritroviamo i manichini. Natura morta Jucker del 1917-1918/19, in cui troviamo elementi propri delle sue nature morte che diventeranno frequenti e riconoscibili. In questi primi anni le nature morte sono affidate a campiture piatte, linee di contorno nette e ombre lunghe che concorrono a dare quelle atmosfere stranianti e sospese alla sua pittura, gamma cromatica virata su colori spenti, su una teoria di grigi in scala, crema, panna che concorrono ad abbassare le cromie a definire un ambiente neutro, molto ambito nel collezionismo. Morandi aveva tempi molto lunghi di lavoro paradossalmente, restituivano quell’atmosfera gelida, sospesa, inanimata, celebrale e intellettuale che faranno la fortuna dell’artista. La pittura di Morandi ha poche variazioni sul tavolo di lavoro all’interno della camera da letto dell’artista. La sua è una esistenza volutamente ai margini della società. Morandi era molto informato, sono documentate le sue letture e interessi per la pittura moderna francese, sono note le sue incursioni alla Biennale di Venezia dove aveva modo di aggiornarsi sulle vicende internazionali, sono note le sue frequentazioni con critici e intellettuali, a Bologna con Roberto Longhi. La sua posizione è difficile da integrare nelle dinamiche culturali del regime fascista negli anni fra le due guerre, proprio perché questa sua ostinazione sul tema dimesso della natura morta lontana dalla pittura di figura celebrativa di propaganda promossa dal regime negli anni, la scelta del piccolo formato e del tema sembrò essere una sorta di ritirata e sconoscimento di una funzione sociale e pubblica per la pittura contemporanea, sembrò essere la pratica di un soggetto commercialmente accattivante e disimpegno politico. Riflessione sulle frange più ortodosse di pittura a Parigi, negli anni dei primi decenni del ‘900, che costituiscono un polo di dibattito interessante per seguire gli svolgimenti della produzione artistica a cavallo fra le due guerre. AMEDEO MODIGLIANI, artista italiano ebreo, dopo una prima formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, si trasferisce nel 1903 a Venezia per seguire i corsi della Scuola Libera del Nudo, nel 1906 si trasferisce a Parigi, dove morirà giovanissimo nel 1920. A Parigi entra in contatto con gli ambienti dell’avanguardia, del gruppo degli artisti che condividono gli spazi di lavoro del Bateau-Lavoir, la sede dell’Atelier storico di Picasso. Modigliani è molto sollecitato dalle sperimentazioni che andavano maturando in quel contesto, da lì i suoi interessi per la scultura africana, per i linguaggi propri di un’arte primitiva dell’Oceania e quelle espressioni extra-occidentali condivise con altri artisti. Parallelamente a una sua meditazione sulla pittura di Cezanne, in particolar modo a beneficio di una volontà di sintesi, di costruzione plastica attraverso la pittura di figure/ritratti caratterizzati da una stringatezza celebrale e di sintesi che pur nel principio di una figurazione riconoscibile che tiene Modigliani al di qua, tanto delle sperimentazioni Fauves quindi di quelle deformazioni in senso antinaturalistico impresse dal colore, quanto dalle mutazioni/scomposizioni proprie della pittura cubista, a favore di una produzione nella quale l’artista giudicò insufficiente distruggendola. 71 Gli anni a cavallo fra il primo e il secondo decennio del ‘900, sono caratterizzati da un suo impegno sul fronte della scultura, sono gli anni di partecipazione al Salon des Independants con i primi idoli primitivi, le teste in arenaria dalle fattezze primitive allungate e stilizzate che resero Modigliani celebre nei circoli d’avanguardia a Parigi, ma che ugualmente furono presto dismesse. Opera Testa del 1911-1912. Dal 1914 iniziò quella Serie di Ritratti per i quali oggi è più noto, ugualmente caratterizzati da una rivisitazione di quella sintesi plastica tipicamente Cezanniana, di costruzione di volumi attraverso una stesura compatta del colore, intesa a restituire formalmente un’idea di astrazione intellettuale della forma e di un linguaggio autonomo della pittura. Ritratto del Mercante Paul Guillaume del 1916. Figure che spesso si allungano per intero in Nudi, dipinti tra il 1916/1917, in cui si ritrova una più matura capacità compositiva nel segno di una armonia libera e sensuale, in cui anche la scomposizione dei corpi e le figure esemplate su tutto un repertorio di pose della più aulica tradizione dell’Accademia, come segno forte di una cultura italiana della forma che Modigliani non abbandonerà mai, lo imposero come una figura di riferimento, soprattutto post-morte, per quelle indagini sul corpo e sulla figura. JULES PASCIN anagramma del nome bulgaro di Julius Mordecai Pincas, artista ebreo proveniente da un’agiata famiglia di banchieri che non aveva tollerato questa sua vocazione artistica, per non dispiacere il padre decise di attribuirsi questo nome d’arte, come Modigliani e Chagall andava a ingrossare la compagine di artisti stranieri che avevano scelto Parigi per studiare/tentare la loro affermazione. Pascin ha un esordio legato alla grafica, aveva collaborato con la Rivista satirica Simplicissimus, pubblicata a Monaco di Baviera, città che ritorna nelle esperienze di formazione di molti degli artisti di questa generazione, è uno snodo importante per capire sviluppi paralleli. Si trasferisce poi a Parigi dove era stato tentato dalla lezione di Cezanne e dei Fauves. Noto anche lui per l’erotismo dei suoi nudi femminili, si deve nel suo dipinto Le due ragazze dei 1907; e per la sensibilità di uno sguardo sempre delicato e melanconico sulla società parigina, come vediamo nell’opera Le giovani americane. Pascin fu ribattezzato il Principe di Montparnasse (quartiere di Parigi) per i suoi modi eleganti e raffinati e perché al centro di una fitta trama di relazioni ed eventi mondani che avevano visto la capitale francese alla ribalta. Questa definizione rimasta immortalata dal capitolo a lui dedicato in Festa Mobile di Hemingway nel 1964, libro pubblicato postumo di memorie di questi anni parigini. Pascin si trasferì a New York negli anni della Prima guerra mondiale, proprio per fuggire alla guerra dal 1914/1920 per poi ritornare a vivere stabilmente a Parigi, dove fino al 1930, anno del suo suicidio continua a praticare una pittura sempre più rarefatta e intimista, come vediamo nel dipinto Manolita del 1929. MARC CHAGALL artista russo che aveva una formazione vicina a quella di Léon Baxst un pittore di cultura simbolista noto per la decorazione dei grandi scenari dei balletti russi di Sergei Djagilev. Nonostante la difficoltà della lingua e di un inserimento non facile per un artista russo a Parigi, riuscì presto a conquistarsi il suo consenso, mantenendosi fedele a una pittura di persistente figurazione e animata dal richiamo a temi, miti, racconti della cultura tradizionale russa. Questo riferimento alla propria cultura rimane determinante, da cui la presenza visionaria, onirica e sognante dei musicisti volanti o di quelle figure romanticamente sospese in un tempo/spazio indefinito, ovattato, immaginifico. Omaggio ad Apollinaire del 1911/1914, opera in cui la presenza delle cupole tipiche delle Chiese ortodosse russe, di rito orientale, convivono con messaggi mistici di derivazione biblica a favore di quell’equilibrio, a quel principio di armonia anche formale che governa l’ispirazione della pittura di Chagall. Pittura che nel dopoguerra avrebbe avuto grandi consensi nella cultura francese, fino alla commissione di opere pubbliche di grande impegno, come ad esempio il Soffitto dell’Opera di Parigi. CHAIM-SOUTINE artista russo che si allontana da quella tradizione di cultura popolare russa per spingere agli estremi quelle istanze di radicale contestazione della pittura Fauves, in un riavvicinamento a Van Gogh con la sua pittura estrema, violenta, dalla gestualità insistita, ossessiva, affidata nelle tele di Soutine a colori 72 cupi gialli, rossi, blu, marroni che tendono a restituire una figurazione che va a definire la compagine internazionale di pittura praticata a Parigi e nota come ECOLE DE PARIS. Pittura di Soutine cruenta resa di una materia sofferta anche nei suoi ritratti e nature morte che guardavano ad esempi di pittura antica, come nella famosa opera La carcassa del bue del 1923. COSTANTIN BRANCUSI scultore rumeno più vicino a soluzioni astratte e avanguardistiche, si era inizialmente accostato alla lezione di uno scultore di indirizzo classicista, aveva guardato con interesse alla scultura di Emil Bourdelle, per rimanere affascinato dalla produzione di Rodin e quella forza endogena che veniva fuori dalle sue opere. Da lì prese le sue mosse per le prime opere più mature, come La musa addormentata del 1910, in cui è evidente l’eredità di cultura simbolista da Moreau a Redon e Rodin. L’opera è una testa mozza che campeggia solitaria, in questo caso, senza basamento come sospesa, sognante, dallo sguardo chiuso e introiettato verso una dimensione più intima e spirituale che costituisce il primo passaggio di una più radicale misura astratta verso cui si orienteranno le variazioni sul tema dell’opera La Maiastra del 1912, un grande uccello mitico della favole rumene che realizzerà in più materiali, privilegiando il bronzo levigato per le qualità specchianti e riflettenti della sua materia. Condivide in parte il pensiero di Duchamp, di riflessione sullo statuto di una scultura che non doveva essere più monumentale, celebrativa e mimetica, non doveva rappresentare la realtà, ma trovare all’interno di sé stessi le ragioni di una nuova espressione formale. Colonna infinita del 1938 (apertura), opera che nelle sue varie stesure, altezze e materiali a partire dalla riproposta di un unico modulo di rigorosa geometria solida, la quale la ritroviamo riutilizzata singolarmente come base per alcune sue sculture, traduce questa aspirazione all’infinito, al metafisico a un’idea di purezza che si allunga verso una linea verticale di ascesa e collegamento tra realtà terrena e mondo spirituale, fino a sfiorare i limiti di un immenso da raggiungere e indicare come aspirazione costante per la poetica dello scultore. Il suo studio è stato riproposto e ricostruito in sede museale, tappezzato di polvere grigia in cui troneggiavano le sue opere come momenti e frammenti di un discorso ideale che dovevano proiettare una nuova società verso un’era nuova. SURREALISMO Nel 1924 André Breton pubblicava il Manifesto del Surrealismo, così definiva questo nuovo movimento “Puro automatismo psichico, attraverso cui si intende esprimere verbalmente, con la scrittura o attraverso qualsiasi altro metodo il vero funzionamento della mente e il dettato del pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale”, c’erano tutte le premesse per un movimento che si dichiarava già nella sua definizione, un movimento rivoluzionario tale da scardinare la morale, l’estetica vigenti, ma anche rinunciare a secoli di centralità del logos nella cultura occidentale a beneficio dell’irrazionale e dell’inconscio. Breton è l’unico firmatario di questo Manifesto e si pone come leader unico del movimento, presto diventato una vera e propria chiesa con le sue annessioni, esclusioni e scomuniche, attraverso il filtro del suo padre fondatore. In realtà già allora, dagli ultimi anni del Dadaismo, l’approdo fra gli ultimi anni ’10 e i primi anni ’20 di Max Ernst, Tristan Tzara e Hans Arp da Zurigo e da Colonia a Parigi, l’incontro con Breton e gli intellettuali che gravitavano intorno la Rivista Littérature, aveva già posto le basi perché maturasse questo indirizzo di ricerca più attento al dominio delle forze della mente, a liberare la mente dalle costrizioni imposte dalla cultura, morale, religione e politica, da tutte quelle forme strutturate proprie della cultura occidentale che avevano negato e recluso la forza più autentica dell’IO umano. Dietro considerazioni di questo tipo risiedeva la fascinazione che già negli anni stessi della Prima Guerra Mondiale Breton aveva iniziato a maturare nei confronti della Psicoanalisi e di Freud. Da studente di medicina arruolatosi al servizio militare, chiese di essere assegnato a un centro di neuropsichiatria in cui venivano curate le vittime di shock bellico. Freud vedeva nel Surrealismo una pericolosa deriva patologica, nella misura 75 Fu un grande sperimentatore e pioniere di tecniche e linguaggi nuovi, a partire da quello del Collage che privilegiava l’illustrazione ottocentesca o per l’infanzia o dei repertori di medicina, spesso tutto insieme come a generare i cortocircuiti inediti e spiazzanti. Vestizione della sposa del 1939-1940. Ultima produzione europea prima del definitivo trasferimento negli USA, in quanto tedesco antinazista e disertore che si trovava nella Francia occupata, costretto a scappare prima in Spagna, in Portogallo e infine a New York, dove fu accolto da Peggy Guggenheim, sua moglie per un breve periodo. Opera che condensa molte delle novità della pittura di Ernst, rispetto alla tecnica in cui troviamo l’utilizzo della decalcomania, cioè quella tecnica risultante dalla compressione del colore sulla tela/carta ripiegato su sé stesso con effetto di immagini speculari e determinate dal caso. Opera in cui vediamo una figura femminile nuda, dipinto di iniziazione e passaggio a una fase adulta della condizione femminile, in cui la scoperta del sesso, la lancia spezzata è tenuta per la mano da questo essere mostruoso alla sinistra, una sorta di uccello mitologico in cui l’artista si era identificato sin dai suoi sogni da bambino, spesso fa capolino nei suoi dipinti come un suo alter ego. La lancia spezzata è il simbolo di una verginità che si sta per infrangere, nella iconografia antica il corno dell’unicorno era considerato puro e intangibile è spesso associato alla verginità di Maria o alle virtù femminili della castità fino al momento del matrimonio. L’ibrido animale-umano di questa donna per metà uccello, civetta simbolo di saggezza, animale che vede nel buio e attributo iconografico della dea Minerva, concorrono a restituire della donna l’immagine di questa figura e responsabilità iniziatica di accesso in un mondo altro che l’uomo può raggiungere solo tramite l’accoppiamento con lei. Questa è l’interpretazione prevalente del dipinto, una sorta di sposalizio della vergine surrealista, popolata da animali sinistri, come l’idolo primitivo androgino con quattro seni e organi genitali maschili a vista e piedi palmati che Ernst conosceva bene dal suo interesse per le Arti Primitive dell’Oceania. Incrostazione materica che caratterizzò il suo grande dipinto Europa dopo il diluvio del 1940-1941, quello che forse più emblematicamente cristallizza il disagio e la sofferenza degli anni del secondo conflitto prima della sua partenza fortunata. Unico dipinto che riuscì a portare con sé arrotolato. HANS BELMER artista con alle spalle studi di ingegneria, abbandonati al momento con l’incontro dei pittori Otto Dix e George Grosz a Berlino che lo spinsero a occuparsi di arte. Poupée del 1934-1935, opera nota attraverso un reportage fotografico pubblicato sulla Rivista Minotaure Surrealista pubblicata a Parigi negli anni ’30, aveva accolto una sequenza di immagini di questa bambola variamente scomposta e rimontata in pose a volte oscene e incongruenti con arti fuori posto, progettata dallo stesso artista e ispirata ai giocattoli tedeschi a orologeria come automi inquietanti che generavano pensieri sinistri o patologiche derive ossessive compulsive si natura sessuale. Molti hanno voluto vedere quasi la materializzazione di quel sogno proibito di amore nei confronti di una giovane cugina in cui il corpo manipolato e oltraggiato risponde al desiderio erotico del maschio che non deve immaginare una controparte al proprio desiderio. Una visione fortemente sessista che rivelano quanta strada ci fosse da fare sul piano di una emancipazione e condizione femminile sottratta a questa sua dimensione di oggetto di desiderio maschile. Realizzò anche disegni e libri di artista su testi di ETA Hoffmann o di Paul Edwards riferimenti che rimangono costanti per la pittura surrealista, nei quali rinnovò la pratica fotografica a partire dai negativi in maniera da rendere le stampe sempre più suggestive e portatrici di atmosfere oniriche e visionarie. Nel 1968 il Libro illustrato Il Piccolo trattato di Morale è una sorta di omaggio al desiderio erotico delle fanciulle, è un terreno campo minato su cui esisteva un tabù molto forte, una coscienza sessuale delle adolescenti che in questa deriva di liberazione del desiderio e della morale sessuale dai condizionamenti esterni aveva fatto di Bellmer una sorta di pioniere della liberazione sessuale che interesserà tanto i Movimenti Femministi degli anni ’60. Uno dei protagonisti del Surrealismo Francese fu ANDRE’ MASSON, aveva vissuto una infanzia a Bruxelles dove fu particolarmente colpito dai dipinti simbolisti di Hans Arp, soprattutto da la lezione degli antichi 76 maestri Rubens e Brugghen, di questa loro pittura così visionaria potente sul piano della stesura impiegata nelle loro opere. Dopo una prima adesione al Cubismo Sintetico e contatti con Cris e Derain, e dopo il suo trasferimento a Parigi nel 1920 si riprese con molta difficoltà dalla sua partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, al punto tale da essere stato ricoverato a lungo in un manicomio per i traumi psicologici riportati. Come conseguenza a questa sua sofferenza maturò negli anni scoperte e posizioni pacifiste e politicamente schierate a sinistra, a beneficio di quei principi di solidarietà internazionale professati dall’Internazionale Socialista e che incontrarono perfettamente gli orientamenti politici di Breton che nel secondo Manifesto del 1929 tentò di teorizzare un’alleanza fra la psicoanalisi di Freud e la ribellione sociale proposta dal pensiero di Marx, come se questi aspetti di rivoluzione sul piano della morale e sociale, già teorizzati nel Manifesto del 1924, dovessero trovare una loro più compiuta realizzazione anche sul piano della lotta politica e del sovvertimento dell’ordine sociale di riferimento. Una delle più importanti riviste surrealiste “La Revolution Surréaliste” pubblicata a partire dal 1925, testimonia questa militanza politica che fece avvicinare molto Masson a Breton. Masson è celebre per le sperimentazioni automatiche di molti suoi dipinti, quella scrittura psicografica affidata a un andamento libero, tortuoso e accidentale, come dettato da uno stato di trans che non rispondeva a nessun’altra legge prestabilita, sennò a quella psiche e dell’impulso primario che doveva attestarsi liberamente. Così anche nei quadri a sabbia, realizzati a partire dal lancio di pugni di sabbia contro tele ricoperte di colla, da queste superfici accidentali maturavano composizioni inattese e sorprendenti. Questa condizione di sperimentazione costante valse a Masson l’accusa di ecclettismo o discontinuità nella qualità e nella tenuta di una ricerca formale che la rigidità di una disciplina storiografica di indirizzo modernista privilegiava come evoluzione continua su una linea di riconoscibilità e coerenza formale e stilistica. Masson in altri dipinti, come in Metamorfosi degli amanti del 1938, si caratterizza per questo ibridismo (Ernst) in cui figure animali antropomorfe o con contaminazioni con regimi biologici altri, una natura così grumosa, anfibia, liquida alludeva a universi misteriosi e in quanto tali rivelatori di nuove e autentiche verità sfuggite a noi fino a quel momento. Traferitosi negli USA durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua figura fu centrale per sperimentazioni che poi sarebbero maturate a partire dalla fine degli anni ’40, in riferimento all’Action Painting di Pollock. Nel 1943 Masson aveva preso le distanze da Breton dopo una lite, segnava il suo definitivo distacco dal Surrealismo. YVES TANGUY pittore francese rimasto impressionato dalla pittura di de Chirico, sarà lo spunto e la fonte visiva privilegiata di molti altri artisti surrealisti, soprattutto in ambito belga. Nei suoi dipinti ritroviamo quelle atmosfere segnate da momenti aurorali/crepuscolari fatti di luci smorzante o nascenti che si aprono su vaste lande desolate, anche come memoria del paesaggio africani che aveva visto da giovane quando aveva viaggiato come marinaio. Sono lande popolate da microrganismi biologici, figure vagamente zoomorfe, animali/vegetali di fantasia che concorrono a rafforzare quell’atmosfera straniante dei suoi dipinti. La natura con paesaggi ossuti, quasi fossili animati da minime presenze larvali e per la maggior parte spazi vuoti che genera disorientamento. Tanguy in ragione della sua amicizia con il figlio di Matisse, Pier, un importante gallerista a New York, il tramite principale per la conoscenza della pittura Surrealista ed Europea in USA. Il pittore fu un importante tramite per la diffusione del Surrealismo negli USA. Surrealisti belga si stagliano le due personalità di DELVAUX e MAGRITTE. Entrambi profondamenti influenzati dalla pittura di de Chirico, che ritroviamo in quel principio di figurazione esatta, aderente al dato di realtà, caratterizzandosi in modo diverso dalla pittura di andamento più astratto/aniconico della tradizione francese, ma ugualmente dagli effetti stranianti. In entrambi i pittori è molto forte il retaggio di cultura simbolista belga. PAUL DELVAUX vediamo forse il suo più celebre dipinto L’Aurora del 1937, in cui una teoria di donne nude ma dal corpo per metà umano e vegetale, bloccate e radicate a terra come un tronco d’albero ben saldo sul 77 terreno, quasi novelle Dafne sottratte e pietrificate per un desiderio di possessione fisica, per una pulsione sessuale a cui sembra alludere le due figure sullo sfondo che stanno correndo una verso l’alta. La condizione dell’attesa, della speranza e del desiderio costituiscono l’ispirazione surrealista di questo pittore. Allo stesso modo lo specchio che si trova al centro della scena è un’allusione a quella condizione di proiezione narcisistica, di desiderio che ha a che fare con un’autoreferenzialità sempre più respingente e fissata su un principio di voyerismo e autocompiacimento. RENE’ MAGRITTE artista che ha avuto un lungo soggiorno parigino dal 1927-1930, in cui ebbe modo di avvicinarsi molto a Breton, per poi distaccarsene clamorosamente come spesso accadeva. Preferì ritirarsi a vivere nella più quieta dimensione borghese nella sua casa a Bruxelles come antidoto alla solitaria, sofferenza e disperazione di un ricordo traumatico della sua infanzia che lo aveva colpito molto e si rinnovava in molte delle figure femminili della sua pittura, la memoria del cadavere della madre che si era suicidata annegandosi con una camicia da notte avvolta intorno alla testa. Questa figura velata o la camicia da notte appesa vuota e animata da un soffio di vita segreta, come nell’opera La Filosofia del Boudoir del 1948, che ripropone l’incubo di quell’indumento come già aveva fatto nell’opera Gli Amanti del 1928 o la presenza all’identificazione della donna con la bara come nel Madame Recamier di David del 1950, in cui ritroviamo l’idea di un amore infranto e impossibile, la rappresentazione plastica di una condizione di desiderio, di una infelicità che trova solo nella pittura occasione di sublimazione. Nell’opera L’Impero delle luci del 1954, quadro tardo, rivisitazione di un celebre dipinto di Khnopff che ugualmente ripropone in quell’atmosfera sospesa mestizia, qui resa ancora più perturbante dall’incongruenza fra le luci artificiali che illuminano la casa e il nitore del cielo sullo sfondo blu come da illuminazione piena delle ore in cui il sole è più alto durante la giornata. Accanto ai quadri in cui l’artista ripropone ossessivamente sé stesso in una sorta di autoritratto cifrato, le famose silhouette dell’uomo in bombetta che popolano molti dei suoi dipinti, caratterizzati da immagini incongruenti, da questa impossibilità della pittura di restituire la realtà, ma di dare forma a un pensiero della realtà e accogliere l’ambiguità tra realtà e realtà dell’arte, da Cezanne in poi è autonoma, in sé fondata, in un linguaggio che non riproduce ma configura nuove ipotesi di realtà. L’uso della parola I del 1928/29 opera in cui ritrae una grande pipa con la semplicità e banalità propria dell’immagine da illustrazione pubblicitaria commerciale, accompagnata dall’epigrafe “Ceci n’est pas une pipe”. Il saggio di Michel Foucault “Le parole e le cose” che coglieva in questa intuizione arguta dell’artista il fondamento teorico per ragionare sul linguaggio dell’arte/letteratura che è cosa altra dalla realtà, vale a dire una convenzione, un artificio, una sorta di condizione parallela della realtà che non può essere scambiata o sostituita con l’esperienza diretta delle cose. Surrealisti Spagnoli divisi fra Barcellona e Parigi le due personalità più rappresentative sono DALI’ e MIRO’. Due artisti molto diversi tra di loro per linguaggi, poetiche, temperamenti e convinzioni politiche. Una caratteristica comune con Dalì, il Surrealismo Spagnolo si innesta su una componente di cultura visionaria, onirica che era già tutta nella tradizione della Lirica Barocca Spagnola, substrato attraverso cui la cultura spagnola resiste al ferreo regime dittatoriale di Franco, non in forma passiva ma ricomponendo l’imperfezione della realtà dei tempi presenti in questo sogno di una realtà altra che poi prese il sopravvento. JOAN MIRO’ artista più allineato di posizioni di militanza socialista, fu duramente critico nei confronti del regime di Francisco Franco, suo è il grande Mietitore del 1937 per il Padiglione della Repubblica Spagnola, lo stesso in cui verrà esposta Guernica di Picasso, erano un omaggio ai valori della Repubblica Spagnola dopo la ferita aperta dalla guerra civile e un deterrente di fronte al consenso crescente nei confronti del generale F. Franco che terrà il paese in un regime dittatoriale fino alla sua morte nel 1975. Mirò pratica una pittura biomorfa, organica, popolata da microrganismo fluttuanti in atmosfere sospese e rarefatte. La sua è un’immaginazione quasi microbiologica di organismi pulviscolari e caratterizzati da questo andamento così calligrafico, rampante, corsivo che in parte recupera la tradizione della pittura simbolista 80 totale che direttamente dal Romanticismo Tedesco, ora viene declinato nella vita di tutti i giorni. Dalla lezione di queste esperienze passate, la Scuola del Bauhaus (Casa della Costruzione) doveva perseguire questo obiettivo di concorrere a una produzione di larga scala seriale e industriale di qualità e artisticamente fondata, il tentativo era quello di estendere sulla produzione seriale la qualità estetica che aveva caratterizzato le prime riflessioni in questo senso da parte di molti artisti dagli ultimi decenni del ‘800. Le tappe di questa storia sono note. L’originaria sede della scuola era a Weimar, poi si spostò a Dessau nel 1924 dove rimase fino al 1930 e poi a Berlino fino al 1933. Il primo Direttore fu WALTER GROPIUS aveva fatto riferimento alla tradizione di diverse scuole europee, il Bauhaus spinse molto nella direzione dell’unione delle arti creative e il mondo industriale, decretando la fine di questi movimenti che rimasero sempre esperienze al margine, con costi di produzioni molto alti, sia in termini di ricerca che di produzione, destinati a un pubblico di danarosi acquirenti con grandi disponibilità, tradendo quel progetto di socialismo della bellezza e di un’arte per tutti da cui muovevano le premesse di questi movimenti. Il tentativo di portare questi stessi valori, rivendicati fino alla fine, sancirono la chiusura della scuola sotto costrizione militare per le istanze delle rivendicazioni socialiste che la caratterizzarono nel 1928 la sede di Dessau, quando Gropius fu sostituito da HANNES MEYER convinto marxista che spinse in questa direzione la visione produttiva del Bauhaus. Questa radicalità di posizioni, a fronte del montante clima nazionalista che intendeva anche privilegiare un tessuto economico-industriale locale nei termini di una visione cinicamente capitalista, in cui il massimo profitto doveva essere raggiunto con il minimo investimento, l’impegno di questi giovani artisti per sottrarsi a quel meccanismo e rappresentare un alternativa al mercato della Germania dell’epoca, sembrò presto uno scomodo ostacolo al sistema imprenditoriale-produttivo della Germania degli anni ’20. Alcuni dei momenti chiave della storia del Bauhaus, come l’ingresso nel corpo docente nell’anno accademico 1921-1922 dell’olandese THEO VAN DOESBURG, che portava quelle istanze di radicalità concretista, neoplastica propria del gruppo olandese di De Stijl che impresse alle ricerche Bauhaus quella purezza ed elementarità di linguaggi che soprattutto nel design nei disegni dei progetti di mobili/arredi di MARCEL BREUER; vanno anche segnalati i rapporti con i costruttivisti russi, in particolare con EL LISSITZKY o ancora con l’artista ungherese LASZLO MOHOLY-NAGY. La qualità del corpo docente è caratterizzata da questa estrema mobilità di autorevoli maestri che collaborano occasionalmente o in pianta stabile con la scuola, bisogna ricordare le personalità di KANDINSKIJ e KLEE o ancora quelle di JOSEPH ITTEN e OSKAR SCHLEMMER che sono fra tutte le più carismatiche. Questa mobilità era in parte dettata dalle incompatibilità e diverse/opposte visioni artistiche e didattiche che caratterizzavano l’operato di alcuni dei docenti. Il Bauhaus aveva un percorso formativo abbastanza particolare che prevedeva un semestre propedeutico comune e trasversale per tutti gli indirizzi e poi una successiva specializzazione che poteva essere coltivata a un primo livello entro i primi 3 anni di attività e poi un secondo livello più specialistico che dava la qualifica di maestro d’arte. La circolarità fra i vari indirizzi e le varie discipline/laboratori all’interno dei quali si lavorava a stretto contatto con i materiali, radicavano in questa idea molto fluida che è plasticamente rappresentata dal cerchio del Bauhaus che condensa e sintetizza in una sorta di diagramma la struttura dell’offerta didattica e dei percorsi formativi all’interno della scuola, ha come contenitore più grande questo corso di base seguito da tutti gli iscritti e diretto da J. Itten che sollecitava gli studenti a un rapporto molto empatico diretto e non filtrato con materiali/forme/colori, si trattava di un’educazione sentimentale all’estetica/arte in cui gli studenti venivano lasciati liberi di sperimentare e prendere le misure personali, a partire dalla sperimentazione del proprio corpo. Lezioni in cui tutto portasse gli studenti, indipendentemente dalla specializzazione che avrebbero scelto, a decisioni consapevoli rispetto l’uso di un colore, all’adozione di una forma o alla pratica di un materiale ben preciso. Su questa stessa falsariga si definiscono anche le posizioni di Kandinskij e Klee, i due avevano già sperimentato una teoria della forma e del colore che adesso al Bauhaus diventa sempre più dogmatica, 81 prescrittiva e normativa. Atteggiamenti che riflettono anche la produzione pittorica di KANDINSKIJ, linguaggi liberi, gestuali e corsivi così come vediamo nel suo Acquerello Astratto del 1910, è riconosciuta come una datazione postuma per rivendicare il primato di una pratica artistica rispetto ad altri esperimenti d’avanguardia. I riferimenti prossimi erano quelli degli scarabocchi e dell’arte manicomiale, erano riflessioni che avevano trovato spazio sull’Almanacco del Cavaliere Azzurro, adesso registra una sorta di razionalizzazione e congelamento in senso geometrico-matematico della forma che riflette una generale tendenza europea alla sintesi geometrica e alla purezza astratta della matematica come pura riflessione teoretica che accomuna esperienze lontane. PAUL KLEE lavora contaminando la ricerca di tipo astratto con una riflessione sulla psicologia degli elementi pittorici, della forma e del colore. Per lui la teoria doveva emergere dalla pratica, da un esercizio empirico della pittura, l’intuizione unita alla ricerca era il credo del suo insegnamento, così come nella sua stessa produzione artistica. Incoraggia gli studenti a sviluppare tecniche artistiche ispirate ai processi naturali, per cercare il divenire delle forme o l’antecedente del visibile tale da connaturarsi alle pratiche degli studenti. Tutte le opere d’arte tenevano conto degli spazi e dei movimenti che il corpo disegnava nell’ambiente. Rimane una figura isolata, di padre tedesco e madre svizzera, fra gli autori esposti nella Mostra di Arte Degenerata dai Nazisti, dai quali era stato cacciato dalla Germania. Si forma a Monaco di Baviera, prestigiosa sede di Accademie, aveva studiato con Franz von Stuck; qui ha incontrato Kandinskij e gli altri aderenti del Cavaliere Azzurro. Rifuggì sempre da ogni competizione o desiderio di affermazione personale, pur condividendo molte esperienze di gruppo spesso abbandonava, faceva un passo indietro per concentrarsi su una ricerca personale, solitaria più intima e introspettiva, libera da condizionamenti che potessero venire da istanze ideologiche o da riflessioni teorico-pratiche rispetto all’esercizio di alcuni linguaggi. Viaggiò moltissimo in Italia per un anno e nel Nord Africa, rimase famoso il viaggio compiuto insieme ad August Macke nel 1914 in Tunisia, quando la scoperta dei colori e della luce brillante del Mediterraneo lo lasciarono segnato, riconoscimento di valore della propria vocazione di artista-pittore. Colpiscono della sua esperienza italiana l’ammirazione scontata ai grandi maestri, l’interesse per l’arte popolare e la devozione popolare, questo spiega perché Klee si orientò negli anni a privilegiare quelle forme non convenzionali di produzione artistica anonime, legate a una produzione popolare e a una prassi artigianale. Preferì al mondo antico l’artigianato e la produzione artistica nord africana o la produzione del tardo antico contaminato da innesti di cultura barbara. Per tutta la sua vita rimangono sempre molto forti ed evidenti queste filiazioni: linguaggio dei fanciulli, linguaggio dei malati di mente e il riferimento a una tradizione artistica folk/barbara/popolare che guarda a modelli nord africani/europea continentale. Klee è spesso associato a un carattere Surrealista. ALBERTO GIACOMETTI artista della Svizzera italiana, fu tentato da un’annessione alla compagine Surrealista ma preferì maturare un percorso solitario di ricerca che muoveva dalla lezione di Emile Bourdelle, fra i migliori allievi usciti dall’Atelier di Rodin, che aveva conferito al giovane Giacometti quella componente di plastica solidità figurativa anche negli esiti più astratti delle prove mature, a partire dagli anni ’20. Tentato dal linguaggio cubista, come vediamo in Donna cucchiaio del 1926, come anche più eleganti e minimali stilizzazioni grafiche e filiforme, come nel suo Uomo e Donna del 1928/1929 o in Sfera sospesa del 1930, proprio quest’opera piacque tantissimo a Breton, anche per l’esplicita simbologia sessuale che caratterizza i lavori di Giacometti, in cui forme sferiche e seducenti, accoglienti giocate su movimenti concavi/convessi tali da evocare il corpo femminile e il ventre nella sua doppia funzione di accoglimento/espulsione. In anni di maturità la sua opera si concentrò, a partire dagli anni ’30, sulla scultura dal vero, in particolare lavorando su una costante variazione del ritratto del fratello Diego cui era legatissimo, in forza di un legame famigliare viscerale che univa i fratelli alla madre. Si tratta di variazioni sempre molto tormentate, in cui la superficie liscia delle sue prime sculture cede il passo a una materia più nervosa, grumosa, in cui rimangono evidenti i segni dei polpastrelli e della lavorazione materica che si sfalda, si allunga, diventa filiforme fino all’inverosimile, con figure emaciate dolenti e sospese in un’aurea di mistero. Sono stati chiamati in causa 82 vari riferimenti, dalla scultura etrusca alla plastica surrealista, in cui nei Ritratti del fratello Diego il soggetto rimane sempre, nelle sue deformazioni, sempre riconoscibile. Giacometti acquisì una notorietà straordinaria soprattutto negli anni dell’Esistenzialismo, in cui esegeti della sua opera come Jean Paul Sartre, padre teorico/intellettuale francese, indicò nel suo lavoro una sorta di traduzione plastica di quelle inquietudini, del nichilismo di quella deprivazione morale/intellettuale/etica che aveva caratterizzato quella stagione, a beneficio di una nuova ipotesi di ricostruzione per quanto precaria e imperfetta successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Le opere della maturità, come La donna alta I del 1960, condensano questo carattere di precarietà dell’esistenza, dove vediamo comunque la capacità di attestare sé stessa, questo restituisce un valore di testimonianza sul quale costruire una nuova idea di civiltà. La GERMANIA del Bauhaus con una spinta in senso MODERNISTA molto forte che riguardava molti ambiti, negli stessi anni faceva i conti con altre situazioni collocate sotto l’etichetta di Ritorno all’Ordine dove a prevalere sono istanze apparentemente più conservative di figurazione, di ritorno alla figura e a linguaggi propri di una tradizione senza tempo, di buona pittura fatta di virtuosismi e citazioni colte di grandi maestri del passato, in particolare di quella tradizione classicista che parte da Raffaello e arriva all’800 di Ingres. La Germania, con in tutti gli altri paesi, risente di questo clima più di restaurazione dal punto di vista dei linguaggi, senza però cedere la facile tentazione di immaginare posizioni di questo tipo antitetiche alle Avanguardie Storiche, molto spesso ne raccolgono il testimone o sono gli stessi artisti d’avanguardia a correggere il tiro, a spingere le proprie ricerche verso un altro indirizzo, che dopo il trauma della Guerra tenta una composizione del dramma appena conclusosi. NEUE SACHLICHKEIT (NUOVA OGGETTIVITA’), fu coniata dal critico Hartlaub, quando nel 1925 tenne a battesimo una Mostra con questo titolo alla Kunsthall di Mannheim. Il successo di questa mostra fece prevalere la sua definizione. Fra i partecipanti si possono citare Max Beckamm, Otto Dix, Georg Grosz, si sono distinti per la qualità, la forza e la potenza delle loro proposte raccoglievano per molti aspetti l’eredità dell’Espressionismo Tedesco che, a differenza di quello francese, aveva privilegiato temi di cultura metropolitana, scene di interno, deformazioni dei tratti del volto caratterizzati in senso bruto, con riferimento alle suggestioni che venivano dal confronto con l’Arte Negra. Pur mantenendo questo carattere, adesso si innestava una più feroce critica sociale/politica che raccoglieva il testimone nelle più polemiche posizioni del Dada Berlinese, ma in una pittura dai linguaggi più decantati e classici, anche se si tratta di un classicismo corrosivo e mordente. GEORGE GROSZ artista di cui vediamo nell’opera I Pilastri della società del 1926, dipinto che prende di mira i poteri forti della Repubblica di Weimar, il giornalista, il guerrafondaio, il politico socialista, il soldato, il prete, in cui simboli forti, come la svastica sul nodo della cravatta della figura in primo piano, sono derisi dalle pose o dagli attributi iconografici con i quali ognuno di essi è caratterizzato. Il politico ha il cervello vuoto e riempito da escrementi fumanti, il giornalista ha un vaso da notte in testa come cappello, la figura in primo piano come simbolo di cavaliere errante che pensa solo alla guerra e il prete in alto con il naso rosso che sembra quasi benedire la scena di incendio devastante che si vede in fondo in alto a sx. Spesso sono gli uomini a cavalcare questi punti di vista, le donne sono ritratte con una distanza misogina e irriverente e caricaturale in cui la figura femminile mascolinizzata nei tratti, nel taglio dei capelli, nelle abitudini e nelle mani, nel monocolo intellettuale maschio, diventano attributi di una iconografia derisoria. CHRISTIAN SCHAD. Nei ritratti doppi, in cui spesso è ritratto anche l’artista, in cui è accompagnato da modelle, amanti e amiche, come vediamo nell’Autoritratto con modella del 1927, questa tagliente e precisionista maniera virtuosistica di rendere la realtà in maniera simile a quanto accadeva in ambito Surrealista, adesso inchiodando la rappresentazione a una realtà a cui è impossibile sottrarsi, schiacciante, avvilente e annichilente anche nei suoi aspetti più crudi, come vediamo nell’opera la figura femminile a metà 85 Hitchcock che prese in prestito le suggestioni della sua pittura per alcune celebri location dei suoi film come La casa sulla collina di Psicho. La presenza umana è slegata, bloccata da un’impossibilità della comunicazione e dell’interazione che fa figure dolenti, sospese in un’attesa densa di incertezze. Nottambuli del 1942 ugualmente ritroviamo il mito del bar notturno, sospeso come un acquario, in cui pochissime figure ritratte con quell’eleganza di superfici bombate e dinamiche, dolentemente alienante. STUART DAVIS artista che può essere considerato anticipatore della Pop Art Americana proprio per la sua fascinazione per gli oggetti di consumo, fissando attraverso l’oggetto commerciale un’estetica americana che avrà poi una sua più vistosa affermazione negli anni ’60. Spesso assimilata a questa cultura artistica con esiti molto diversi dal punto di vista dei soggetti e dell’intensità lirica della sua proposta è GEORGIA O’KEEFFE artista moglie di Alfred Stieglitz che a partire della fotografia inizia a praticare una pittura di dettaglio in cui ingigantisce su scala monumentale e privilegiando il grande formato soprattutto fiori/petali che nell’irriconoscibilità immediata simulano l’eleganza sinuosa di corpi nudi femminili/velati rimandi sessuali. Pittura intrisa di suggestioni, anche di tipo psicoanalitico che ha fatto spesso assimilare l’artista a una pittura surrealista in una sua particolare declinazione americana. Il linguaggio è risolto con una forza precisionista disegnativo/pittorico che lega la sua pittura a una tradizione realista che negli anni ’30 avrebbe avuto un peso importante negli USA del New Deal. Grande campagna fotografica lanciata dalla Farm Security Administration che voleva documentare le condizioni di vita nell’America rurale, un forte investimento statale di mecenatismo artistico legato alla produzione di reportage fotografici. Furono chiamati molti fotografi tra cui DOROTHEA LANGE, ha realizzato probabilmente il più celebre scatto di questa generazione, Madri senza Padri, in cui compare una giovane donna californiana da sola insieme ai suoi tre figli, come un emblema della grave depressione economica ma anche della forza del popolo americano nell’affrontare le avversità. MURALISMO MESSICANO avanguardia degli anni ‘20/’30 promossa dallo Stato e guidata da motivazioni ideologiche il cui principale obiettivo era quello di reclamare e rivendicare un’identità messicana indigena basata sul passato precoloniale del Messico. I protagonisti di questa rivoluzione furono DIEGO MARIA RIVERA, DAVID ALVARO SIQUERIOS e JOSE’ CLEMENTE OROZCO. Rivoluzione perché la loro pittura è la diretta conseguenza della rivoluzione agraria degli anni ’10 che unì contadini, intellettuali e artisti contro il dittatore Porfirio Diaz che aveva appoggiato e sostenuto i grandi latifondista terrieri e gli investitori stranieri. Dopo 10 anni di guerra civile, l’insediamento del Presidente Alvaro Obregon, ex leader rivoluzionario riformista e amante delle arti, concorse all’affermazione delle istanze di questi artisti. Il Ministro dell’Educazione José Vasconcelos convinto che l’arte pubblica potesse essere una componente centrale nella missione di educazione di un popolo, anche nella costruzione di consenso da parte del governo su vaste fasce della popolazione, è considerato il fondatore del Movimento del Muralismo perché fu lui con un’azione governativa a disciplinare questa pratica in molti edifici pubblici. Il Muralismo Messicano si confrontava con tutta una tradizione europea di affresco che questi artisti studiarono attentamente. Gli artisti fecero anche esperienze di Avanguardia. L’attività dei Muralisti è sorretta da un’intensa produzione teorica, del 1921 è il primo Manifesto per gli Artisti d’America pubblicato sul numero unico di Vida Americana. Secondo Manifesto scritto nel 1924 una dichiarazione di principi sociali, politici ed estetici. A New York nel 1929 furono organizzate delle Mostre suoi Muralisti Messicani che riscossero molto successo. DIEGO RIVERA artista che nel 1922 iniziò a lavorare ai murales per l’Anfiteatro Bolivar della Scuola Nazionale Preparatoria a Città del Messico e si iscrisse al Partito Comunista seguito dagli altri artisti con cui concorse a 86 fondare il Sindacato di Pittori e Scultori e Incisori Rivoluzionari. Progetto più ambizioso è la Storia del Messico per il Palazzo Nazionale di Città del Messico iniziato da Rivera nel 1929 e lasciato incompiuto alla sua morta, diviso in due parti dalla civiltà ispanica alla conquista e dalla conquista al futuro, avvia un racconto della storia dell’arte messicana e la fine con Marx che apre la strada a un futuro ideale, nulla di più esplicito poteva suggellare l’indirizzo politico consapevolmente adottato dalla Rivoluzione Messicana e coltivato dai suoi principali interpreti. Era fra i tre il più noto, aveva già esposto con grande successo a San Francisco e a Detroit, aveva realizzato i grandi murales per la Borsa Valori della California e per l’Accademia di Belle Arti della California. A Rivera fu dedicata la seconda Mostra del Moma di New York, apertura inaspettata nei confronti del Sud America, la Mostra fu uno straordinario successo di critica e pubblico con un record di presenze. Proprio in ragione di questo successo, Rivera venne chiamato a lavorare ad alcuni importanti progetti, su tutti vale la pena ricordare quello dell’Atrio del Rockefeller Center di New York su commissione della famiglia di petrolieri più ricca del mondo, rappresentava una contraddizione con la sua ideologia dichiarata socialista. La moglie di Rockfeller era stata una delle fondatrici del Moma, già collezionista della sua opera avendo acquistato nel 1931 il Quaderno di schizzi della Parata del 1° Maggio a Mosca del 1928. Il titolo dell’affresco era L’uomo all’incrocio che guarda con lungimiranza e speranza alla scelta di un futuro migliore, è la presenza progettata e in parte realizzata del volto di Lenin all’interno di questa grande scena suscitò molte polemiche, omaggio al comunismo sovietico veniva visto come una sorta di attentato allo stato liberale degli USA, per cui Roger Rockfeller (figlio) gli scrisse chiedendo di rimuovere questa figura, questo atto di censura preventiva fu giudicato intollerabile da parte di Rivera che tentò una via alternativa, trovando un compromesso, promettendo accanto alla figura di Lenin la presenza di altri eroi americani, una sorta di internazionale socialista che potesse tenere insieme anime diverse senza che fosse esplicita la preferenza politica. Questa soluzione di compromesso non venne accettata e Rivera fu pagato come se avesse realizzato l’opera integrale ma per sua stessa volontà abbandonò l’impresa. Questo fece di Rivera una sorta di martire del capitalismo americano. Nel corso degli anni ’30 di fronte ai regimi totalitari europei, Rivera fu visto come una sorta di baluardo e ultimo presidio di resistenza contro il potere perverso di una predatoria politica imperialista occidentale. DAVID ALFARO SIQUERIOS artista che sperimentò tecniche e materiali diversi, i murales dalla composizione sfrontata, dinamica e turbolenta, arricchita da forti elementi surrealisti e dall’uso di prospettive multiple e distorte, colori vibranti che condensa la forza bruta della spinta rivoluzionaria operaia universale. Nella sua pittura rivive l’anima visionaria propria della cultura messicana e che era radicata nella cultura popolare e devozionale del paese. Realizza il Ritratto della borghesia nel Sindacato Messicano degli Elettricisti. Nel 1932 accettò l’invito per un insegnamento nella Scuola d’Arte di Los Angeles e in questa città completò il murales per la Scuola e Centro d’Arte Plaza. A metà degli anni ’30 aprì un Laboratorio di tecniche moderne dedicato alla sperimentazione di materiali e strumenti, seminario seguito anche da un giovanissimo Jackson Pollock. JOSE’ CLEMENTE OROZCO artista che scelse di rendere le sofferenze umane degli oppressi in un realismo sociale più sintetico e di marca più espressionistico come dimostrano i suoi murales nella Scuola Nazionale Preparatoria. Realizza gli affreschi nella Nuova Scuola degli Studi sociali di New York nel 1930-1931. MURALISMO EUROPEO della prima metà nel XX sec. Occasionato dalla commissione del Governo della Repubblica Spagnola per la decorazione degli interni del Padiglione dell’Esposizione internazionale di Parigi nel 1937, erano anni in cui il governo era impegnato in una lotta violenta civile contro il fronte monarchico di Franco. Agli arei dell’aviazione nazista si deve il bombardamento della città di Guernica nel nord della Spagna, PICASSO commemora come atto di gloriosa resistenza della società civile spagnola contro la barbarie nazi-fascista. GUERNICA è un dipinto che ha fatto scuola dai profondi significati politici, a lungo ospitato nel Moma di New York tornò solo nei primi anni ’80 in Spagna dopo la morte di F. Franco, al Museo del Prado e 87 poi nel Museo di Arte Moderna di Madrid. Un quadro manifesto per tutti gli artisti impegnati in un impegno di resistenza dei regimi totalitari, impressione per l’eloquenza drammatica in cui donne, bambini, soldati e animali soccombono di fronte alla guerra. Una composizione per la quale Picasso reinventa un lessico cubista, che sarà la cifra più caratteristica della sua maturità, che si confronta con la pittura di storia/sacra in cui molte figure come la madre che piange disperata la morte del figlio sul suo grembo o la figura disperata che alza le braccia al cielo, sono state lette come chiare reinterpretazioni di iconografie sacre, la Pietà e la Crocifissione con la Maddalena. Il vertice visivo e drammatico della scena è questa luce tenuta per mano al centro della scena in alto che insieme alla lampadina elettrica concorre a definire questa atmosfera cupa, sinistra, in cui anche la scelta di questo bianco/nero, non poteva esistere colore per rappresentare una tragedia così immane, aveva anche dei precedenti nel cinema. Il quadro, icona politica molto forte, fu replicato in forma di arazzo nella sede di New York del Consiglio della Nazioni Unite, è stata in anni recenti censurata quando si discuteva di guerra preventiva in Iraq per evitare il cortocircuito fra la linea interventista che prevalse e la denuncia clamorosa che il dipinto alle loro spalle suscitava. ITALIA la situazione nazionale prende avvio con la Rivista Valori Plastici pubblicata a partire dal 1918 su iniziativa del pittore Mario Broglio che la diresse fino al 1922, anno di chiusura. Aveva anche un’edizione francese, ciò portò il dibattito sul ritorno all’ordine e sul recupero di una tradizione segnatamente italiana, latina e mediterranea anche in Francia, essendo il francese la lingua veicolare delle relazioni internazionali anche in altri contesti come quello tedesco. Fra i collaboratori della rivista troviamo Carrà, de Chirico, Morandi, Savinio ecc. In genere quando si parla di ritorno all’ordine si fa riferimento a quella necessità avvertita da più parti di ricomporre la lacerazione/dramma che il primo conflitto mondiale aveva rappresentato per le coscienze di tutta una generazione di giovani artisti/intellettuali. Necessità di una ricostruzione, di certezza, di un clima di pacificazione e serenità. È un errore immaginare queste proposte in termini di discontinuità, inevitabilmente si portavano dietro molte delle istanze che erano maturate in un contesto delle prime ricerche di avanguardia che erano connaturate all’indole/sensibilità di molti degli artisti coinvolti da questa improvvisa inversione di rotta. In Italia fu adottato il termine di REALISMO MAGICO, su iniziativa del critico tedesco Franz Roh che nel 1921 in una Mostra allestita a Berlino e dal titolo I Giovani Italiani aveva presentato le ricerche di de Chirico, Morandi e Carrà. Molte delle proposte in mostra in quella circostanza hanno molti punti di contatto: profili marcati, taglienti, una asciuttezza celebrale e ridotta all’osso, scarna, paesaggi desolati/abbandonati, priva di umana presenza, incongruenti nell’accostare elementi plausibili tra loro, giustapposti l’uno accanto all’altro concorrevano a restituire quell’atmosfera di mistero e sospensione che era caratteristica di questi anni. Questa dimensione misteriosa già di per sé varrebbe una considerazione di non appartenenza a una cifra linguistica più rassicurante/conciliante/restaurativa, nel linguaggio privilegiano elementi di immediata riconoscibilità figurativa, ma che ha ancora un retaggio di inquietudine, incertezza, paura/dramma che era nella coscienza di chi aveva vissuto la guerra. Molte di queste esperienze transitarono verso una misura di maggiore compostezza formale quando a organizzare alcune di queste proposte fu una giovane critica d’arte Margherita Sarfatti. Era molto vicina al duce, firmò una importante biografia di Mussolini tradotta in più lingue. Primo nucleo del cosiddetto NOVECENTO ITALIANO, fondato nel 1909, nome che tradisce l’ambizione di una giovane generazione di artisti di farsi testimone di un intero secolo di pittura nazionale, di dare con le loro ricerche un’impronta forte elaborando linee guida/indirizzi di ricerca sui quali poi si sarebbe dovuta mantenere costante la produzione artistica successiva. Ne facevano parte Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Guido Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. In occasione della loro prima Mostra si registra la partecipazione di Mussolini che tiene un discorso, nonostante dichiari di non voler prendere partito nei confronti di un indirizzo artistico ben preciso che potesse definire un’arte fascista/di stato. 90 A questa scuola appartenevano autori come: Mario Mafai e la moglie Antonietta Rafael, Fausto Pirandello, Corrado Cagli ecc. Gruppo che nel corso degli anni ’30 si mantiene fedele a una pittura di figura di sapore antico, calcinosa, gessata che fa il verso a una tradizione di pittura classica romana, artisti che praticano il muralismo. FILIPPO DE PISIS e GIORGIO MORANDI due personalità difficili da rubricare all’interno di un movimento. Si tratta di due percorsi solitari e in modo diverso eccentrici alla norma vigente fra gli anni delle due guerre in Italia. FILIPPO DE PISIS dopo un iniziale contributo alla definizione della pittura metafisica a Ferrara, sua città natale, dopo una breve parentesi romana, si trasferisce a Parigi. Sono i suoi anni migliori e di più felice e libera creatività in cui sperimenta e mette appunto un registro singolare, una pittura frammentata, corsiva, filamentosa, molto rapida e memore della lezione dei pittori impressionisti. Pittura che si porta dietro un retaggio di cultura italiana, nella pratica della pittura di paesaggio e in quello della natura morta. De Pisis realizza una serie di tele in cui oggetti di varia natura sono adagiati su una spiaggia e hanno come sfondo l’orizzonte del mare. Nature morte essenziali e ridotte all’osso, legate a un’oggettualità marginale di risacca marina, affidate a un registro rarefatto, labile e scomposto che destò qualche sospetto, sembrò un atteggiamento disfattista, come conseguenza di una incauta dichiarazione su un periodico francese in cui prendeva le distanze dal regime. La pittura di de Pisis fu premiata da uno straordinario successo commerciale e collezionistico soprattutto privato, i suoi dipinti parvero di una gradevolezza e semplicità disimpegnata borghese che trovò nella forza della Galleria Milano la sua macchina da guerra che contribuì alla sua fortuna. Esiste una produzione più segreta e contenuta di de Pisis con riferimento a scorci di città di Parigi, oggetto privilegiato di passeggiate dell’intellettuale italiano, ancor di più eccentrica quando si prende in considerazione l’omosessualità di de Pisis, ostentata e esibita, chiaramente in maniera poco ortodossa con quelle che erano le politiche maschiliste del regime, che si appunta in una serie di studi di nudi maschili in schizzi/tavole dipinte che raccontano di questa condizione di desiderio vissuta apertamente in una città di larghe vedute. Si tratta di una umanità dolente, frammentaria e clandestina che molto bene traduce lo spirito del tempo. Sono molti gli scultori che lavorano in Italia in questi anni, è il genere privilegiato dal regime perché quello destinato ad assicurare una durata più lunga nel tempo dei fasti fascisti. A dispetto di questa idea di una scultura spesso a servizio/dialogo con un’architettura di tipo celebrativo, è chiaro che quando si studiano questi anni difficili bisogna tenere conto del contesto storico. Alcuni di questi casi sono oggi meglio studiati e noti a livello internazionale, benché non si possa parlare di estraneità al regime fascista. ARTURO MARTINI uno scultore di Treviso che ha una formazione classica, appassionato della statuaria antica e di Canova, che spesso fa capolino con citazioni dirette o reinterpretazioni nella sua opera. Si era formato nell’atmosfera di Valori Plastici, in una convinta affezione per la tradizione della scultura, dimostrando una versatilità anche su dimensioni e materiali diversi. A lungo sono prevalsi giudizi ideologicamente condizionati sulla sua produzione, all’interno della quale ad essere previlegiati erano i lavori in terracotta perché visti più autenticamente resistenti ad un’idea di monumentalità celebrative del regime. Una lettura condizionata da un celebre saggio pubblicato nel 1945 che fece epoca, cioè Scultura lingua morta, in cui Martini dichiarava l’impossibilità del monumento/scultura di poter minimamente restituire una dimensione aurica alla contemporaneità così come era stato nel passato, non erano più tempi da celebrare. Queste considerazioni gettarono un’ombra lungo la sua attività negli anni ‘20/’30. Opera La Pisana del 1929 realizzata in più esemplari, questa è conservata nel Museo Novecento di Firenze o l’opera Il Figliol prodigo del 1926 in cui con citazioni dirette dall’antico/scultura medievale italiana troviamo una dimensione più magniloquente e statuaria/monumentale. 91 MARINO MARINI scultore toscano che pur privilegiando alcuni temi classici come il tema della statua equestre, ha rivisitato questi temi con sottile ironia e un senso generale di fragilità della vita tale da neutralizzare ogni slancio monumentalistico/celebrativo che queste figure a un primo sguardo potevano suggerire. Fra tutti vediamo l’opera L’angelo della città del 1948, è una variazione sul tema del cavaliere a cavallo e conservato al centro dell’atrio di accesso del Palazzo Venier dei Leoni a Venezia. La figura del cavaliere è ridotta a quella di un omino tozzo e incerto nella sua stabilità, un angelo caduto/smarrito che si affida a gambe/braccia aperte alla guida del cavallo poggiato su fragili zampe, costretto a una condizione di marginalità. Siamo di fronte a una scultura spesso mossa e accidentata, dalle superfici ruvide, scomposte e scheggiate, molto lontane da quella idea di patinata e levigata di una scultura accademica che veniva previlegiata dalla retorica del regime. ANTONIETTA RAPHAEL moglie russa di Mario Mafai, artista che si dedica al piccolo formato, a materiali più poveri come la terracotta, molto intensi sono i ritratti delle figlie fra cui la celebre Miriam Mafai, giornalista e femminista, militante del PCI. Insieme al marito appartenevano alla Scuola Romana anti- Novecentista. FAUSTO MELOTTI scultore che già dai primi anni ’30 sperimenta esiti di filiformi e di estrema sintesi formale, materiale e compositiva che sempre più negli anni approderanno a una essenzialità linguistica che si tramuterà in scultura astratta con strutture geometriche che rinunciano a ogni richiamo figurativo. GIACOMO MANZU’ pittore bergamasco vicino agli artisti di corrente, fortemente influenzato da una tradizione della scultura moderna che va da Rodin a Medardo Rosso. Predilige alcuni temi, amato dalla committenza ecclesiastica, celebre è la sua serie dei cardinali del 1934 in cui l’abbigliamento concorreva a definire l’elemento plastico di astrazione che faceva di queste figure quasi dei coni astratti, involucri in cui giacevano imprigionati i corpi solitari e costretti in un’armatura che ne negava lo sviluppo/interazione. Grande Monumento al Partigiano del 1977 di cui fece dono a Bergamo. Tarde posizioni in ambito astrattista/avanguardista negli anni dei regimi totalitari in Europa, sono l’anello di congiunzione fra le prime proposte di ambito più strettamente d’Avanguardia Storica di inizio ‘900 e il recupero di quella lezione nell’immediato secondo dopo guerra. Spesso sono gli stessi protagonisti di questa stagione a facilitare e mediare l’eredità storica così importante con le generazioni di artisti più giovani. Il caso più emblematico è quello del futurista ENRICO PRAMPOLINI che dalla sua base romana fu un importante tramite per le ricerche astratte informali in Italia. Non si spiegherebbe l’opera di BURRI se non in ragione delle sue sperimentazioni polimateriche, non si capirebbero gli astrattisti del Gruppo Forma se non proprio in riferimento a un’immissione di informazioni che si riferivano agli anni eroici del Futurismo (Balla) che è riconoscibile in filigrana nei lavori del gruppo. SECONDO FUTURISMO pubblicazione del Manifesto per la Ricostruzione Futurista dell’Universo del 1915 a firma di Depero e Balla che sposta l’attenzione del movimento su una più ampia aspirazione all’opera d’arte totale, alla sintesi delle arti, all’integrazione della produzione artistica con quella architettonica e plastica. È una rivoluzione destinata ad avere larga fortuna, grazie anche l’iniziativa comunicativa di Marinetti che tendeva a coinvolgere tutto il territorio nazionale e all’estero. I futuristi lungo tutto il territorio italiano avviano un’attività di case d’arte sulla scorta degli esempi di Depero a Rovereto e Prampolini a Roma, in cui si sperimentano ambiti di intervento molto diversi: dalla moda, alla confezione di tessuti per arredo, capi d’abbigliamento. Se molti futuristi attraverso l’esperienza della prima guerra tendono ad abbandonare il movimento per ripiegare su una cifra più tradizionalista allineata alle ricerche figurative del Novecento 92 Italiano, al contrario una più giovane generazione di artisti rimane sedotta dal verbo Marinettiano e ribadisce quella tradizione con esiti innovativi. Pubblicazione del 1922 del Manifesto dell’Arte Meccanica firmato da Prampolini, Pannaggi e Paladini che recupera il mito della macchina ma lo depura da ogni slancio modernista/velocità come prerogativa di un nuovo modo di sentire/sensibilità ma che adesso veniva estetizzata, la macchina/motore diventa un oggetto estetico da apprezzare nella loro eleganza, la stessa che suggerisce forme astratte a questa nuova generazione di artisti. In Sicilia in assenza di un tessuto produttivo industriale e moderno, diventa la natura come il vulcano-mare- vento a tradurre questo slancio macchinista, di febbrile proiezione sul presente che caratterizza l’operato di artisti come Rizzo e Corona. Nel confronto con altre esperienze astrattiste in Europa con il Neoplasticismo Olandese, con il Suprematismo Russo o con le stesse novità che provenivano dal Bauhaus nei confronti del quale è noto l’interesse dei Futuristi, matura una vocazione sempre più spiritualista che è evidente nella pittura di Balla, nelle sue sintesi astratte che spesso hanno titoli evocativi. GIUSEPPE STEINER artista che realizza delle sintesi grafiche psicografiche, in cui tenta di tradurre in emblemi grafici stilizzati, ridotti all’osso stati d’animo ben precisi con esiti efficaci. AEROPITTURA la cui definizione matura a cavallo tra il 1928/1929 con la pubblicazione del Manifesto, in cui questi interessi si spostano su un livello più alto, da un lato in ragione della conquista di una visione ad alta quota, grazie alla diffusione dell’aeroplano (evoluzione del tema della macchina); dall’altro lato la conquista di spazi siderali, di tutto un immaginario astronomico. Rapporto fra Futurismo e Fascismo. Nonostante un iniziale avvicinamento a cavallo fra gli anni ‘10/’20, nel corso degli anni ’20 questa vicinanza, che ha raggiunto picchi molto alti, si è allentata fino alla separazione fra il duce e Marinetti, accademizzato e messo a tacere in un angolo senza investiture ufficiali. Molti artisti futuristi, intellettuali liberi, presero la parola e contestarono lo status quo, cosa che fece Vinicio Paladini che prese le distanze da alcuni Manifesti Futuristi che abbracciavano le politiche fasciste. ASTRATTISTI MILANESI de la GALLERIA “IL MILIONE”, esperienza circoscritta e indipendente dalla vicenda Futurista che si era spostata a Roma. Il teorico dell’Astrattismo in Italia fu il critico Carlo Belli che nel saggio KN pubblicato nel 1935, fa tesoro di una serie di esperienze internazionali di astrazione derivanti dalla didattica del Bauhaus. Artisti che fanno parte di questo movimento: ATANASIO SOLDATI, LUIGI VERONESI, MANLIO RHO, MARIO RADICE, OSVALDO LICINI ecc. Per questi artisti la definizione dell’arte come una costruzione autonoma attraverso la composizione di forme, colori, ritmi precisi scanditi da assetti di impianto geometrico si avvicinava molto alla ricerca degli artisti astratti europei, anche se lo spiritualismo di fondo non sempre era condiviso dagli astrattisti lombardi. OSVALDO LICINI per questo artista l’arte è irrazionale, affidata al predominio di fantasia e immaginazione, la sua è un’astrazione più lirica/poetica, sospesa e fantastica. MARIO RADICE artista del Gruppo di Como che decora gli interni della Sala del Direttorio della Casa del Fascio di Como, progettata da Giuseppe Terragni nel 1934/1936, in questa pittura murale i linguaggi dell’astrazione si legano alla retorica del fascismo, in cui il principio razionalista che governa il progetto dell’edificio in realtà si basa sul principio di un ordine nuovo da rifondare e ricostruire. La rigorosa astrazione di ordine geometrico-matematico della pittura di Radice tradisce il valore di una disciplina del segno, di un rigore di ordine intellettuale/mentale/creativo che doveva fare il paio con la disciplina di regime. La 95 all’interno della tela. In parte è anche questa un’attitudine ricavata dalla passione di Pollock nei confronti delle produzioni artistiche degli Indiani d’America e in particolare gli Indiani Navajo che realizzavano delle grandi composizioni di sabbia, a partire da una pratica analoga che coincideva con una vera e propria performance, dove il corpo dell’artista entra dentro l’opera e diventa strumento di composizione artistica. Pollock si ritrova a dipingere dentro il quadro, inscenando una danza/azione sulla tela, su cui lascia cadere/gocciolare (dripping)/lancia dei colori, con fare violento incurante di ogni confine tra tela e spazio esterno, pittura che si dilata ed espande oltre tutti i confini. Asseconda quella improvvisazione che veniva all’artista dalla consuetudine con la musica Jazz, in cui lo stesso Pollock spesso ritornava per aggiustare e correggere il tiro di queste sue creazioni all’interno di una coerenza compositiva che rappresentava per lui un valore irrinunciabile. Quella di Pollock è una pittura come un atto di esistenza/resistenza, un grado zero della figurazione dell’espressione affidata al gesto istintivo dell’uomo per il quale la pittura diventa una sorta di arena in cui combattere per l’attestazione di una testimonianza di esistenza. WILLEM DE KOONING artista olandese protagonista dell’Espressionismo Astratto USA, anche se la parola astratta è poco corretta per definire una pittura che mantiene forte un residuo di figurazione nella sua ispirazione. Lo vediamo nel dipinto Woman I del 1950-1952, in cui è riconoscibile il profilo di una figura femminile deformata e con i tratti resi in un ghigno quasi diabolico, una sorta di involuzione bruta della figura. Art Brut in questi casi è affidata a una pittura volutamente cattiva, nel senso esecutivo della qualità di questa produzione che rinuncia a tutti quegli insegnamenti correttivo, metodi consolidati in anni di studi accademici che adesso era affidata alla gestualità e forza espressiva di un’azione pittorica che tendeva a cancellare, deformare, correggere, disinnescare questa violenza/rabbia esistenziale che caratterizza bene la sensibilità di molti giovani che appartengono a questa generazione. Opera Excavation del 1950, in cui ugualmente ritroviamo riconoscibili frammenti di corpi umani con un andamento biomorfo che sembra quasi ricordare la pittura di Mirò, dalla quale recupera l’andamento calligrafico, filiforme della stesura dei colori. ARSHILE GORKY artista immigrato armeno che ha mantenuto lungo la sua produzione un carattere ermetico tipico della tradizione Surrealista, anche durante gli anni ‘20/’30 quando si caratterizzava di una persistente figurazione piena della memoria della diaspora armena, rivive anche nella sua più matura produzione degli anni ’40, morirà suicida nel 1948. Lo vediamo bene nell’opera Agony del 1947 e The liver is the cock’s comb del 1944 (Il fegato è la cresta del gallo) in cui tra fin troppo esplicite allusioni sessuali lessicali e figurative, si racconta di un’esistenza costantemente vissuta tra desiderio e privazione, fra slancio utopistico e cupo ripiegamento intimista, lo stesso che lo portò al suicidio. Anche in questo caso prevale da una parte una linea filamentosa, calligrafica e dall’altra quella esplosione cromatica di colori primaria che facevano capolino nella pittura di Mirò; anche la natura sottilmente erotica dell’ispirazione di molte delle sue tele. FRANZ KLINE artista caratterizzatosi per questa sua pittura di grande formato e attraversata da queste laceranti sciabolate di colore nero su grandi campiture piatte di colore bianco, in cui alla violenza del colore affidata l’azione di effrazione nei confronti della pittura che caratterizza la poetica di questi artisti carichi del cupo pessimismo che aveva influenzato chi aveva vissuto l’esperienza della guerra. ROBERT MOTHERWELL artista la cui pittura su tele di grande formato è caratterizzata da queste vaste ferite di colore nero steso con fare gestuale come da tradizione action painting ma su superfici colorate. È celebre la Serie delle Elegie del 1948 ispirate alla morte del poeta Federico Garcia Lorca, vittima della Guerra civile spagnola, opere in cui gigantesche forme ovoidali che richiamano i testicoli di toro, emblema della Spagna rurale selvaggia, come potenti ombre nere attraversano la superficie dipinta a testimoniare di una fine imminente come presagio di un epilogo tragico. 96 COLOR FIELD PAINTING campiture di colore che saturavano la superficie dipinta in maniera uniforme e omogenea, piatta come nel caso di BARNETT NEWMAN, ora più fluida e pulsante come nel caso di MARK ROTHKO. Entrambi sono due ebrei americani di origine europea, si portano dietro questo retaggio di cultura aniconica ebraica, in cui la figurazione era considerata forma di idolatria. Ugualmente è attraversata da questa aspirazione a una sublimità, dimensione altra anche di tensione teologica che esprimeva una spiritualità profonda. MARK ROTHKO la sua pittura è costruita sulla sovrapposizione di fasce orizzontali come variazioni su un tema cromatico, scale di rossi/blu/marroni, raramente spezzate dall’intrusione di un colore a contrasto, per cui a molti hanno fatto pensare come una sorta stratificazione di linee di orizzonte che risolveva sul piano di un’astrazione radicale tutta una tradizione di pittura di paesaggio di cultura romantica che ci aveva abituato a queste vaste campiture di colore. Nella titolazione dei suoi lavori favoriva banalmente la sequenza dei colori che aveva inserito nella realizzazione dei suoi dipinti. BARNETT NEWMAN al contrario privilegia sempre campiture piatte di colore in cui è più esplicito il riferimento biblico dell’ispirazione di molti dei suoi dipinti che si intitolano con nomi appunto biblici. Fa attraversare i suoi dipinti di grande formato da delle feritoie che definisce zip, cerniere che aprano uno spazio attraversabile in altezza, linee che nella poetica dell’artista dovevano mettere in comunicazione umano e divino. AD REINHARDT artista che si dedicò quasi esclusivamente a una pittura apparentemente monocroma, ma che è da considerarsi come una indagine costante sui limiti della pittura, quasi come a volerne decretare la fine oltre alla quale non vedeva altre soluzioni possibili. Indagine condotta sulla superficie della pittura, sulle sue potenzialità visive, sugli inganni ottici delle sue stesure cromatiche, in cui il colore è dato dalla giusta apposizione di griglie in cui con variazioni cromatiche condotte sulla stessa gamma di toni, non sono superfici uniformi ma costruite a partire dalla giustapposizione di colori come il blu-viola-marrone-nero tali da conferire una sorta omogeneità che necessariamente per essere scoperta ha bisogno di una sorta di accomodamento dell’occhio, di un tempo di lettura pausato, sedimentato sull’osservazione dell’opera. Porta alle estreme conseguenze quelle premesse del Suprematismo di Malevic o del Neoplasticismo di Mondrian, di un grado zero della comunicazione pittorica che coincide con lo spegnimento definitivamente di quella vocazione modernista della pittura di inizio ‘900 che non può dire più nulla. THE PACIFIC SCHOOL a differenza della scena Newyorkese condizionata nei suoi esiti dal retaggio di cultura europea, guardava al contrario alla spiritualità orientale e in particolare alla Cultura Giapponese. MARK TOBEY artista che aveva anticipato alcune pratiche come quella dell’All Over, di una stesura libera e incondizionata ben oltre i limiti della tela, così come la gestualità ripetuta e insistita apparentemente violenta e agita. Qui sono più dettate dalla fascinazione per la calligrafia orientale dei maestri giapponesi, tutto un lavoro di scrittura/mano che non di dripping o azioni violente sulla tela come la pittura di Pollock, in cui il riferimento è quello al Gruppo Gutai. Un gruppo di avanguardia giapponese, nato a Osaka nel 1954 le cui esperienze estreme vanno avanti fino alla morte del fondatore del gruppo nel 1972, impegnato in una serie di azioni che spaziano tra la performance alla pittura, secchiate di colore lanciate su enormi tele mentre ondeggiavano su un altalena, pittura stesa con le mani/corpo, in questo momento sono legate a una disciplina del corpo/mente tipica della tradizione giapponese. SAM FRANCIS artista che aveva a lungo vissuto in Giappone, era rimasto colpito dalla nozione di vuoto che caratterizza la sua pittura, affidata a poche macchie di colore stese sulla tela in apparente disordine, anche se di fatto si tratta di sintesi eleganti e ispirate a quella minimale geografia di segni che caratterizza la 97 tradizione pittorica giapponese, in cui le macchie lasciate colare sulla tela concorrevano a definire queste superfici minimali su tele bianche. INFORMALE EUROPEO la città di Parigi è ancora un saldo punto di riferimento. È caratterizzato da una tensione drammatica che è segnata nel vissuto di questi artisti dal dramma della perdita della guerra. Una cosa che caratterizza molto l’Informale Europeo è la persistenza del formato da cavalletto, per contingenza economica e per una consuetudine per un formato che la cultura europea d’avanguardia aveva privilegiato in maniera polemica al più nobile grande formato accademico. WOLS artista berlinese trasferitosi a Parigi nel 1932 e per lungo tempo vicino ai Surrealisti. Nel 1947 espose nella Galleria Durand di Parigi, 40 piccole tele piene di segni psicografici. Nel suo celebre Battello Ebbro del 1945, ispirato alla lirica di Arthur Rimbaud. L’artista mette in scena una sorta di pirotecnica esplosione di segni grafici di tradizione surrealista, una scrittura automatica, in cui una vaga reminiscenza formale di un battello alla deriva lungo la Senna, ma anche per molti identificato come una lisca di pesce, di scheletro ridotto all’ossa, scarnificato dall’umana presenza come testimone di una realtà distrutta/logorata definitivamente. Una pittura spinosa, quasi piena di lische, di spigolose fratture, di agguati pericolosi a qualunque idea di equilibrio impossibile, concise con l’epilogo tragico della vita dell’artista, il quale morì nel 1951 a causa dell’alcolismo. GEORGES MATHIEU artista che nei suoi titoli spesso fanno riferimento a temi storici, come l’opera I Capetingi ovunque del 1954, come a voler riprendere la tradizione della pittura di storia. Si tratta adesso di una storia dai segnali non più decifrabili, in cui le tensioni che hanno attraversato da sempre i conflitti nella storia sono ridotti a segni, con una evidenza grafica tesa, nervosa, affidata a una stesura in cui è il tubetto stesso di colore a essere utilizzato come pennello, da cui i rilievi grafici o l’andamento filiforme di alcuni segni a seconda della diversa pressione della mano. Opere che venivano realizzate come in una sorta di performance in quanto presupponevano quasi sempre un piccolo pubblico che diventava un coprotagonista dell’azione, come una sorta di azione congiunta, di tensione collettiva che si trasferiva nella battaglia di segni che metteva in scena l’artista. HANS HARTUNG artista tedesco le cui linee divennero sempre più secche e quasi incise improvvise e terrificanti. Vediamo un confronto a distanza con la natura minacciosa, adesso spiazzante e distruttiva. Idea di una grafia contrastata, nervosa, accidentata, repulsiva e sinistra nei suoi andamenti ora spezzati, curvilinei, filiformi, più drammaticamente segmentati. PIERRE SOULAGES la stessa tensione la troviamo nella pittura di questo artista, anch’essa giocata su contrasti cromatici forti, spesso caratterizzate da stesure di colore affidate a colpi di spatola che conferivano alle sue composizioni un aspetto sempre più sacrale, ispirato come una sorta di atto di cancellazione, di volontà di azzeramento e ricostruzione di un nuovo linguaggio da cui poter ripartire in un’ipotesi di futuro. Accanto a questa tradizione, a caratterizzare maggiormente l’Informale Europeo da quello USA è il versante materico, tanto in Francia con la pittura di FAUTRIER e DUBUFFET. JEAN DEBUFFET artista che nelle sue “Alte Paste”, uno spesso strato di materia steso direttamente sulla tela e lavorato come se fosse un intonaco con importanti rilievi aggettanti sulla superfice, come residui materiali di una esistenza organica cristallizzatasi in una memoria senza tempo che condensava la tragedia della guerra. Teorico dell’Art Brut, senza manipolazioni e idealizzazioni, arte autentica e bruta, in senso di genuina. Debuffet creò a Losanna un Museo dell’Art Brut in cui iniziò a raccogliere produzioni di fanciulli e internati nelle case di cura mentale, che privilegiava come più autentiche forme di espressione artistica,
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