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Storia dell'Arte Contemporanea (Grazioli) - Patella, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Appunti completi del corso di Storia dell'Arte Contemporanea del 2022-23. 30

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 26/06/2023

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Scarica Storia dell'Arte Contemporanea (Grazioli) - Patella e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! 1 04/10/2022 Introduzione: Arte Povera, Minimalismo, Arte Concettuale Per quanto riguarda l’arte contemporanea, l’Italia non ha brillato di luce internazionale, ad eccezione che nel caso di un movimento, quello dell’Arte Povera, che nel Novecento ha avuto un’eco internazionale. Venne apprezzata maggiormente in Europa, meno negli USA, che non l’hanno riconosciuta a pieno, ed ebbe degli echi di tipo formale verso est, da Israele fino al Giappone. Questo movimento è centrale perché l’artista di cui tratta il corso, Luca Maria Patella, è stato tangente a questo movimento, senza entrarvi a pieno titolo, bensì operando parallelamente ad esso. Successivamente, forse anche perché non godette del medesimo successo, assunse una posizione conflittuale nei confronti di questo movimento. Questo è un problema che va molto al di là di Patella, perché l’arte italiana degli ultimi quaranta cinquant’anni (siamo a fine anni Sessanta) spesso ha dovuto far fronte a questo tipo di questioni: dei movimenti artistici facevano più successo di altri, e chi rimaneva fuori o viveva situazioni di isolamento, talvolta anche smettendo di fare opere, o di rivalsa. L’Arte Povera in particolare era organizzata come gruppo in una maniera particolarmente convinta e chiusa, in modo quasi militare: si decideva chi entrava e chi non poteva entrare, e chi non entrava era molto osteggiato. In parallelo cronologico all’Arte Povera italiana ci sono due movimenti artistici internazionali: il Minimalismo, termine che può dare adito a discussioni e di cui è preferibile la definizione inglese (Minimal Art) e l’Arte Concettuale, o Conceptual Art. Particolarmente utile per approfondire questi movimenti, soprattutto per chi non ha seguito i corsi del triennio, è il manuale Minimalismo, Arte Povera, Arte Concettuale di Francesco Poli. Introduzione: Luca Maria Patella Patella consente di guardare più in dettaglio la storia dell’arte italiana di almeno un paio di decenni (Sessanta, Settanta e parte degli Ottanta), toccando questi tre movimenti artistici di primaria importanza. Patella fu un artista singolare, colto, che ha voluto che la cultura fosse un vero argomento dell’arte, e non un semplice sfondo che un artista poteva possedere o meno, impostando la sua arte intorno ad essa, permettendoci di uscire anche dal contesto dell’arte. Patella non è un artista piacevole. L’arte contemporanea in generale ha discusso della funzione del bello oggi, di cosa fosse la bellezza in arte, etc., e nell’opera di Patella non c’è niente che corrisponda alla nozione di bellezza così come la conosciamo, ovvero come era stata tramandata fino alla contemporaneità. Anche per questa ragione si utilizza, per riferirsi a questo tipo di arte, la categoria dell’Arte Concettuale, nella sua accezione allargata a tutte quelle forme d’arte in cui non è più il fattore estetico (bellezza) o espressivo ad essere in primo piano, bensì l’idea, per definire questa arte finalizzata a esprimere un’idea. Patella ha voluto unire alla sua arte la scienza, materia a cui era particolarmente interessato in quanto in giovane età fu prima studente in un laboratorio di chimica strutturale elettronica, e in seguito assistente di Linus Pauling, futuro doppio premio Nobel per la fisica-chimica e tra i più celebri scienziati del Novecento. Patella fu inoltre interessato alla semiotica, alla psicanalisi, in particolare junghiana, e conosceva il latino e il greco. È in generale una persona di grande complessità culturale, e tutte queste esperienze lo portarono alla convinzione che l’Arte potesse contenere scienza, psicologia, politica, poesia, linguistica. In questo senso, Patella consente di studiare l’arte come disciplina nettamente più aperta. Attualmente siamo in un periodo in cui, più che di storia dell’arte, da più parti si invoca la cultura visuale, i Cultural Studies, i Visual Studies, che vanno nella direzione dell’allargamento del campo di studio, in cui la storia dell’arte non ha un privilegio e non ha un’autonomia. Conseguentemente, ad oggi è in atto una forte critica nei confronti della storia dell’arte e di come è stata affrontata fino agli anni Novanta, ovvero come disciplina autonoma e chiusa nel suo campo, e per la sua scelta di allargare il campo dell’arte, coerentemente alle tendenze odierne, Patella è stato scelto come parte del programma del corso. 2 Espressionismo astratto americano e Informale europeo Patella nasce nel 1934 a Roma. Nascere in quegli anni voleva dire tante cose, in primis fare parte di una generazione particolare, cresciuta durante la guerra. La formazione di questa generazione di artisti avviene subito dopo la guerra, un periodo difficile in Italia, che dopo una dura sconfitta si ritrova a dover fare i conti con la generazione che aveva esagerato in autoritarismo e fascismo. La ripresa dopo il periodo di autarchia, in cui l’Italia mussoliniana si era chiusa culturalmente ed economicamente rispetto agli altri paesi, fu estremamente lenta. Autarchia e arte figurativa L’autarchia imposta da Mussolini aveva costituito anche un’autarchia mentale e culturale, una chiusura, talvolta un osteggiamento, nei confronti di un certo tipo di arte, quella dell’avanguardia, mentre l’arte accettata è solo quella definibile di stampo accademico, basata su una rappresentazione mimetica della realtà perfettamente riconoscibile, senza deformazioni o alcun tipo di intervento fuori dall’immagine. La cultura italiana del dopoguerra si ritrova così arroccata su un gusto e su un interesse esclusivamente per l’arte figurativa, e ciò porta ad uno scontro tra arte figurativa e arte astratta, che è poi proseguito fino agli anni Settanta. Questo scontro fu particolarmente combattuto anche perché lo stesso PCI è stato influente in questo dibattito, non limitandosi semplicemente a dire la sua, bensì chiudendo strade e impugnando l’argomento per bistrattare l’arte astratta e l’arte d’avanguardia. Informale: conflitto tra generazioni In questo aggiornamento e in questa reazione del dopoguerra italiano il movimento artistico considerato d’avanguardia più condiviso e frequentato dagli artisti è l’Informale, che ha un grandissimo seguito in Italia. Quando l’informale trionfa, verso la metà degli anni Quaranta, la generazione del ’34 ha dieci/quindici anni, e quando ne ha 20 già non ne può più, dunque reagisce all’Informale, contrapponendosi alla generazione precedente e chiamandosene fuori. Si sottolinea in particolare il concetto di generazione perché Barilli dà tantissima importanza a questo meccanismo della storia, e in particolare della storia dell’arte: i cambiamenti che intervengono di generazione in generazione sono spesso dovuti alla reazione che le generazioni hanno nei confronti delle precedenti. Per questo per lui è importante sottolineare quando è nato un artista, e nel caso di questa generazione è un dato ancora più importante, perché di mezzo c’è stata la Seconda guerra mondiale. I due centri artistici italiani: Biennale di Venezia e Roma In ambito artistico i due grandi centri sono la Biennale di Venezia, all’epoca considerata in tutto il mondo come la manifestazione artistica più importante del pianeta, che si ritrova a dover rincorrere l’aggiornamento di diversi decenni, e Roma, città più internazionale della penisola in questo periodo. Roma si distingue da Firenze, altrettanto internazionale soprattutto per gli anglosassoni, sia inglesi che americani, la quale anch’essa nel dopoguerra riprende il turismo e la vita culturale, rimanendo tuttavia più legata agli studi sul Rinascimento, e dunque con vita culturale incentrata più su questo che sulla contemporaneità. Roma non ha questo monopolio dell’interesse rinascimentale, è più aperta. Per questo motivo accoglie gli artisti americani anche tra i più avanguardisti, arrivati nella città in particolare tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, che corrispondono agli anni di formazione di Patella. Anni Trenta: emigrazione degli artisti europei dall’Europa agli Stati Uniti Negli anni Trenta l’Europa si riempie di dittature e regimi autoritari, dalla Spagna (Franco), all’Italia (Mussolini), all’URSS (Stalin), che in ambito culturale portarono ad una chiusura, soprattutto a livello europeo e russo. Le arti avanguardistiche vengono osteggiate e perseguite, e gli artisti, che non possono più lavorare o esporre, vivono in un’atmosfera assolutamente negativa. Gli artisti si ritrovano dunque di fronte 5 Arshile Gorky, Agonia, 1947 L’arte diviene sempre più astratta, nel caso specifico di Gorky sempre più diradata a livello figurativo, sempre più stilizzata (espressione rischiosa ma accettabile in questo contesto), ma sempre con una volontà a non rinunciare al rimando figurativo, che diviene però sempre più una suggestione. Gli elementi figurativi riconoscibili all’interno del dipinto, una sedia, un divano, un tavolino, a formare una scena di interni. Willem De Kooning, Labirinto, 1946 Nel 1926, poco più che ventenne, l’olandese Willem De Kooning si nasconde nella stiva di una nave mercantile diretta in America, approdando come clandestino negli Stati Uniti. De Kooning è un tecnico esperto, e negli Stati Uniti si guadagna da vivere facendo restauri e decorazioni. De Kooning è una personalità estremamente tormentata e, come quasi tutti gli artisti della sua generazione, è un perfezionista al limite del nevroticismo e dell’ossessione. Il tormento interiore e l’indecisione che caratterizzarono questa generazione di artisti spinsero molti di loro all’abuso di alcol, che divenne un enorme problema generazionale. Questo discorso vale anche nell’ambito letterario: prima di passare alla droga c’è stato l’alcol. De Kooning è importante per due ragioni. Innanzitutto, è stato il primo, dentro questo dilemma sull’astrazione, a fare il passo e divenire un astrattista prima di tutti (salvo poi far retromarcia), e per questo motivo è stato ammirato dai suoi compagni come un faro in questa direzione. La seconda ragione è evidente a partire dalla sua opera. Il tema, come si evince dal titolo, è quello del labirinto, che torna anche in Pollock, altro grande protagonista di questo passaggio tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. Il labirinto rappresenta metaforicamente la perdita del centro e dell’orientamento, e anche nel caso di labirinti strutturati in maniera regolare, al loro interno questa regolarità non si percepisce. È una distinzione estremamente importante: un conto è vedere le cose dall’interno, un conto dall’esterno, ed è la medesima situazione in cui ci troviamo osservando dal di fuori questo movimento artistico, con un pathos che si sentiva fortemente dall’interno, mentre dal di fuori, in una posizione distaccata, se ne può avere un’impressione completamente diversa. Il Novecento ha rimesso in discussione tutto quanto, rendendo la generazione di De Kooning una generazione estremamente disorientata, e questa questione della perdita del centro diventerà un tema diffusissimo, che la sua opera rappresenta perfettamente. Nel Surrealismo l’inconscio rappresenta un territorio di scavo per questi artisti, i quali, Pollock in particolare, hanno guardato Jung piuttosto che Freud. I surrealisti hanno guardato la psicanalisi non tanto per i temi dell’immaginario e della sessualità, come fece il Dadaismo, bensì come ricerca interiore: perché sono così? Cosa mi fa essere così? La risposta non si trova in superficie, e per questo si parla di scavo, di interiorità, profondità, anteriorità temporale fino all’infanzia. Questa tematica è talmente sentita da questi artisti che ognuno vede nell’astrattismo la possibilità di trovare un segno visivo che li rappresenti, nella loro personalità e nel loro essere. 6 Jackson Pollock, La donna lunare, 1942 Pollock è l’artista più importante per diverse ragioni, innanzitutto perché è riuscito a condensare nella sua figura e nel suo percorso aspetti che negli altri artisti erano sparsi, ma anche perché ha fatto il passo verso l’astrattismo senza remore, e passato lui il guado gli sono andati dietro tutti gli altri. L’associazione che Pollock fa tra la figura simbolica della luna e il femminile è ripresa da Jung, studioso di psicanalisi distaccatosi da Freud intorno al 1913 durante un viaggio negli Stati Uniti. Jung non condivide l’eccessiva attenzione che Freud dà al ruolo della sessualità nell’inconscio, e dirige la sua attenzione sulla cultura, interrogandosi sul perché uomini di culture diverse e scollegate tra loro abbiano avuto miti simili, figure simili, etc. Jung ritiene infatti che vi sia qualcosa di profondamente radicato nell’uomo, al di là delle questioni individuali, che chiama inconscio collettivo, uno dei grandi temi che distinguono Jung da Freud. Altro grande tema è quello dell’archetipo, termine che indica le figure simboliche radicate nell’inconscio collettivo, ovvero che appartengono a tutti in un patrimonio comune. Una di queste figure è la luna, che Pollock rappresenta personificata in un corpo. Tutto ciò che si trova intorno è ossessività: anche Pollock, come De Kooning, era ossessivo nei confronti delle sue opere, e continuava a lavorarvi senza sosta. Jackson Pollock, Ricerca di un simbolo, 1943 Si riconosce al centro dell’opera un animale steso in orizzontale, e intorno a lui si trovano altri personaggi. Il primo titolo che Pollock aveva dato all’opera è Moby Dick, titolo del libro che costituisce la pietra miliare della cultura americana. Al centro della storia vi è un monstrum, un essere straordinario, d’eccezione, una balena bianca su cui un capitano si fissa ossessivamente. Il mare in cui è ambientata la storia può essere visto come un labirinto senza tracciato, e la balena bianca di Moby Dick, a sua volta, altro non è che il minotauro al centro del labirinto in cui gli artisti americani sentono di trovarsi. Questo è il messaggio che Pollock vuole trasmettere con la sua opera, tanto che l’idea iniziale era quella di dipingere una balena, salvo poi cambiarla per renderla meno illustrativa. Come si era anticipato, accanto ad essa si trovano altri personaggi, che nel quadro successivo chiama esplicitamente “custodi”. Jackson Pollock, Custodi del segreto, 1943 Ogni luogo sacro dal punto di vista simbolico ha dei custodi alla sua entrata, che nel quadro si vedono rappresentati a destra e a sinistra. La struttura del quadro è diventata a celle: una esterna, violacea, e una interna, bianca. L’animale questa volta è a terra. Ciò che è accaduto è sintetizzato nel termine segreto. L’inconscio è il luogo in cui è depositato questo segreto, che è la cifra identificativa di me come individuo. Questo segreto per l’artista è lo stile, ciò che gli 7 consente di rendersi riconoscibile. La ricerca dello stile per l’artista altro non è che la ricerca di se stesso. Questo ha determinato che nell’arte astratta, ancora più che in quella figurativa, l’imitazione è assolutamente fuori discussione: ognuno deve trovare il proprio stile, e se qualcosa è già stato fatto da un altro non può essere rifatto. Questa è la ragione per cui questi artisti si differenziano nettamente l’uno dall’altro: questa distinzione costituisce la riprova della giustezza della loro ricerca. Jackson Pollock, Numero 1, 1948 La ricerca del proprio stile ha portato Pollock al groviglio, che corrisponde al labirinto astrattamente restituito. Il groviglio risponde alla necessità degli astrattisti di illustrare un labirinto senza copiarlo. Pollock non voleva essere illustrativo, e l’unico modo per rendere un labirinto senza illustrarlo era lo sgocciolamento, e per questo ci si è buttato dentro, rendendolo il suo stile. Per dipingere con questa tecnica la tela viene posta per terra, non più sul cavalletto, e così Pollock cambiò tutto: non stai più guardando la realtà, perché sei dentro la tela. Pollock annulla completamente il rapporto di rappresentazione tra immagine e realtà, e intanto la pittura diviene azione: per questo si parla di action painting. In termini estetici, Pollock cambia anche il rapporto del fruitore con l’immagine, che non può più essere interpretata con i criteri precedenti. L’immagine non è più l’opera, bensì solo il sintomo di quello che è accaduto: è il segno del processo che l’ha realizzata. È per questo che si parla di action painting: ciò che vedo rimanda all’azione, e il suo significato viene assunto dalla deduzione del processo che l’ha creato. Jackson Pollock, Autumn Rhytm, 1950 In quest’opera è particolarmente evidente l’intreccio di colori, sempre mescolati. Pollock abbandona la pittura a olio per la pittura industriale, priva di sfumature di colori, composta di colori netti, utilizzando quello che vi era a disposizione. Viene eliminato il pennello anche il pennello, e per praticare questa tecnica intingeva un bastoncino per poi far colare il colore sulla tela. In questi dipinti non c’è mano, sapienza tecnica, gestione dei materiali, e nelle colature si creano chiazze, coaguli, mescolamenti, tanto che, osservando l’opera più da vicino, si possono talvolta vedere anche i segni delle mani e delle scarpe. 10 Barnett Newman, Chi ha paura del rosso, blu e giallo?, 1966 In quest’opera è ancora più evidente il rimando di Newman a chi ha usato i colori primari, ovvero Mondrian, utilizzati in questo caso in maniera completamente diversa. Nel minimalismo, dove c’è poco, addirittura quasi nulla nel monocromo, si rende necessario esercitare il pensiero sui minimi dettagli: la linea di sinistra, quella blu, appare più netta di quella gialla sulla sinistra, più sfrangiata. È dunque possibile che non si tratti di una linea, bensì della fine di un rettangolo che si trova al di fuori del quadro. Newman si riferiva a queste linee, nella loro essenzialità ma anche nel loro effetto massimo, chiamandole zip, perché come le cerniere, che uniscono e dividono, costituiscono una sorta di soglia, che appartiene a entrambe le dimensioni, e che delinea il passaggio da una dimensione a un’altra. 06/10/2022 Una necessaria distinzione tra arte americana e arte europea È un bene che i movimenti presenti negli Stati Uniti, americano ed europeo, al di là delle somiglianze che li accomunano, abbiano delle denominazioni diverse, in primis perché l’impostazione dei due movimenti è diversa. L’arte contemporanea, soprattutto a partire dal dopoguerra, affronta un processo di semplificazione delle forme, di svuotamento dell’opera d’arte, o, utilizzando le parole di Roland Barthes, faro di riferimento nel campo non solo della scrittura ma anche dell’arte, di azzeramento (Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, 1959). Nelle forme più radicali di arte contemporanea, come nel caso di Barnett Newman, si ha uno svuotamento totale di materiali. A fronte a questa semplificazione dell’aspetto delle opere gli artisti iniziano ad assomigliarsi molto, in alcuni casi arrivando quasi a confondersi l’uno con l’altro. Il retroterra, ciò che determina anche l’intenzione dell’artista, è tuttavia completamente diverso, come si vedrà ad esempio nel monocromo, che costituisce il massimo grado di questa semplificazione: la tela ricoperta da un unico colore. In tanti hanno utilizzato il monocromo, tuttavia ciascuno di loro aveva una propria intenzione, parola utilizzata con l’accezione attribuitale dal linguaggio comune: quello che uno ci mette dentro. America: Espressionismo e pragmatismo Data questa premessa, e nonostante le somiglianze tra l’arte americana e l’arte europea, è bene che i due movimenti abbiano denominazioni diverse. Per l’America si parla di Espressionismo, invece che di Surrealismo. Espressionismo significa accentuare l’aspetto espressivo, ancora più evidente nell’action painting. Lo sfondo, il contesto culturale in cui si sviluppa questa forma di arte è quello che viene chiamato il pragmatismo americano, termine che indica la disposizione culturale alla prassi, all’azione. Di fronte a una scelta la mentalità americana è portata ad andare verso l’azione, senza arrovellarsi. Fa, e attraverso il fare deduce dagli effetti il valore di quello che ha fatto, senza stabilirlo preventivamente. Al contrario, la cultura europea tende prima all’analisi del problema, così da decidere come comportarsi, e solo infine passa all’azione. Pollock è un esempio perfetto di questa mentalità, e osservandolo affrontare la tela bianca emerge proprio questa sensazione di horror vacui, della pagina bianca dello scrittore: invece che arrovellarsi su come cominciare, Pollock si butta, fa, e il suo fare è ciò che dà un senso dell’opera. Crisi culturale del Secondo dopoguerra: sterminio e bomba atomica Come detto, totalmente differente è la mentalità dell’Europa, che porta l’eredità della cultura, dell’analisi, e affronta le questioni solo dopo averle analizzate, per poi decidere e infine passare all’azione. Questa 11 distinzione si sente in modo particolarmente forte nel secondo dopoguerra. Già la Prima guerra mondiale aveva messo la cultura europea di fronte al nichilismo, ovvero il Dadaismo, i cui esponenti, per la prima volta nella storia in maniera sentita e condivisa, hanno messo in discussione tutta la cultura. La Seconda guerra mondiale ha costituito un discrimine ancora più netto. Due eventi in particolare, al di là degli autoritarismi e delle dittature che si imposero nello spazio europeo e sovietico, hanno messo completamente in crisi, e nuovamente dopo la Prima guerra mondiale, tutta la cultura occidentale e non solo. Il primo sono i campi di concentramento e la questione dello sterminio. Questo atto di grandissima crudeltà, attuato da un’intera popolazione, e dunque non un caso singolo o un fenomeno sociale, ha fatto toccare con mano a quella generazione la disumanità. Il secondo evento, ancora più sentito dagli americani, è il lancio della bomba atomica sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Per la prima volta nella storia la preoccupazione che l’umanità abbia a disposizione un mezzo di autodistruzione completa non è più un pensiero teorico: lo sviluppo della bomba atomica mette l’umanità nella possibilità concreta di autoeliminarsi completamente. Europa: Informale ed esistenzialismo Il passaggio in Europa tra l’Espressionismo astratto americano e quello che in Europa si chiama Informale è segnato da questo: gli americani sono pragmatici, gli europei sono esistenzialisti. Il termine esistenzialismo viene dalla parola esistenza, che nel linguaggio comune è ciò che appartiene all’individuo, all’individualità della persona, in contrapposizione all’essere, che indica la dimensione del tutto. L’esistenza, al contrario, è caratteristica dell’essere umano. Il pensiero esistenzialista risente particolarmente di questo periodo di generale pessimismo, e le formule di questa generazione di pensatori sono essenzialmente pessimiste. Si parla dunque di “essere gettato”: l’uomo è gettato nel mondo, come se fosse stato buttato lì e abbandonato. Ma soprattutto, come dice Jean Paul Sartre, l’uomo è situato, e non si può astrarre dalla sua condizione: l’uomo è intrinsecamente legato a dove si trova, pertanto bisogna tenere conto dei limiti, di come realmente è fatto, senza astrarre i valori. Similmente, anche i tre valori fondamentali del bene, del giusto e del vero, vanno situati. Nel pensiero esistenzialista, che sente fortemente il peso della condizione dell’individuo, contano tanto la società, le condizioni materiali, ma soprattutto i limiti: siamo fatti così. Esistenzialismo significa dunque ripensare tutto a partire da qui, a partire dall’esistenza, non dall’essere, non dall’idealità, non dall’astrazione, non dalla razionalità. Questa è un’arte tormentata, perché essa stessa nasce dal tormento. Come gli americani, anche gli europei hanno fatto uso di alcol e droghe, trovando in queste sostanze dei lenitivi ma anche e soprattutto degli strumenti per trovare, soprattutto con le droghe, delle accelerazioni della creatività, degli stimoli, che è ciò che interessa all’artista, soprattutto nei momenti di scavo. Il primo che ha avviato questa sensibilità è stato Jean Fautrier. Jean Fautrier, L’ebrea, 1943 L’opera è datata 1943, e dunque siamo ancora in piena guerra. Fautrier stesso fu spettatore, pur non vedendo direttamente la scena, della disumanità della Seconda guerra mondiale, in quanto ogni notte, dal suo atelier, poteva sentire le fucilazioni dei tedeschi. Fautrier non può fare a meno di scaricare la propria rabbia per la mutilazione dell’uomo a cui assiste, dando vita ad una materia che si fa carne. In questo quadro così vediamo un brandello di corpo, che non è più un corpo. Si intravede un busto, accennata a destra una curva di quello che può essere l’inguine, o i seni. È la carne, ed è questa l’idea che Fautrier vuole trasmettere con le sue opere: una visione della materialità della condizione umana, attraverso l’immagine di un corpo martoriato, torturato, deformato, senza arti, perché la tortura riduce l’essere umano a una 12 carne vivente, al limite della vita. Questi artisti prendono delle tematiche e le fanno diventare delle metafore assolute, come è reso particolarmente evidente dalla forma, da una rappresentazione che è scarnificata. La tortura diviene metafora assoluta della condizione umana: non è solo l’ebrea ad essere torturata, lo siamo tutti. La condizione esistenziale umana è al limite, ed è Fautrier a lanciare questa visione. Jean Fautrier, Nudo (Ostaggio), 1943 Di questa figura, rapportata alla precedente, si riconosce di più il busto, la curva rientrante che è l’inguine, e la parte alta del corpo che è il petto, il seno. Al di là di come è rappresentata, ciò su cui è importante porre l’attenzione è come è fatta. Questi dipinti non sono pittura a olio o illustrativa: come in Pollock, anche nel caso di Fautrier non si ha più un rapporto di illustrazione con la realtà, e questa rottura con la rappresentazione, nel caso di Fautrier, passa attraverso i materiali. Il quadro è sostanzialmente formato da tre parti: lo sfondo, preparato con una colorazione molto imprecisa, vaga, mossa, neutra, la materia bianca, fatta a spatolate, e poi le pennellate del disegno. Tralasciando lo sfondo, ciò che conta è il rapporto tra gli altri due elementi: la materia e il disegno. La materia è costituita da un impasto, parola in sé molto significativa. Impastare significa legare tra di loro materiali che normalmente non stanno insieme, a formare quella che i francesi chiamano la pâte, la pasta, che si vede ancora più della pennellata. Fautrier utilizza un impasto di gesso unito con della colla di pesce, che lega l’impasto alla superficie della tela. La particolarità di questo impasto è che asciugando, soprattutto con il gesso, si restringe. Fautrier è un pittore, e come tutti i pittori, che da sempre hanno pensato il rapporto tra la linea, il contorno, e la superficie, riflette su questo legame. In questo caso, il contorno, segnato dal segno scuro a pennello, e la materia, non si corrispondono più: asciugandosi, la materia si è ristretta, e la linea non coincide più con il contorno di questo corpo. Questo concetto richiama l’idea del rapporto tra anima e corpo: l’anima che è in ostaggio, parola utilizzata esplicitamente dallo stesso Fautrier, del corpo, e queste due entità non coincidono più. Fautrier rende in questo modo questa discrepanza, che si fa sentire nei momenti di crisi, sia personale che storica, restituendola attraverso un esercizio dell’arte che non è più consegnato alla rappresentazione, quanto piuttosto alla forma, e dunque ai materiali del linguaggio, in questo caso pittorico. È importante segnare questo passaggio. Gli artisti iniziano ad utilizzare un titolo unico per delle serie. Nel caso di Fautrier si parla appunto della serie degli ostaggi o della serie delle spoglie. Jean Fautrier, Spoglia, 1946 Quest’opera rappresenta un corpo raccolto a feto, con il busto e nuovamente l’inguine. La spoglia, termine che dà il titolo all’opera, altro non è che il corpo senza vita. E allora cos’è la vita? Che differenza c’è tra un corpo morto e uno vivo? 15 11/10/2022 In-formale: prefisso spia di una riconsiderazione del rapporto tra gli opposti Come si era detto nella scorsa lezione, nella grammatica italiana il prefisso in- è utilizzato per rovesciare il significato di ciò a cui si applica. Tuttavia, nel caso della parola informe c’è un gioco che si rende evidente: l’opposto dell’aggettivo non è informe, bensì amorfo. La scelta di questo aggettivo è molto particolare, perché indica che questo prefisso in- nella cultura del Novecento, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, diventa un “prefisso spia”, che vuole sottolineare una riconsiderazione del rapporto tra gli opposti, che non vanno più considerati opposti in senso assoluto, l’uno la negazione dell’altro, bensì in un rapporto rinnovato, in cui il termine a cui viene aggiunto il prefisso in- diventa a sua volta attivo, carico di una sua dinamica, valenza, validità e valore. Il Novecento, in particolare nella seconda metà, è il secolo della ricerca della dialettica dei rapporti e delle dinamiche, una ricerca che cambia completamente la visione delle cose, in quanto inizia a vederle in movimento, dando origine al pensiero che si colloca alla base di questo movimento, che non dà mai una cosa come acquisita, definita e statica. Tutta la cultura della seconda parte del XX secolo, in questo senso, attua una revisione delle categorie date per acquisite. Questo pensiero, apparentemente complesso, è in realtà solo una questione di visione, di posizione: basta cambiare la posizione e farla diventare dinamica per entrare in questo meccanismo. George Bataille: radicalizzazione del pensiero dell’informe In questi stessi anni, nel biennio 1929-30, George Bataille, un pensatore francese, un personaggio estremamente attivo che ha raccolto intorno a sé una grande cultura, dagli artisti a pensatori di ogni ambito, dirigeva la rivista d’arte Documents. Ciò che accomunava gli scritti di questa rivista era il concetto di informe, attorno a cui si concentra l’intera riflessione di Bataille, che ne propose un’ulteriore visione che all’inizio degli anni Novanta è stata ripresa, dando il via ad un dibattito estremamente vivo e di cui si parla ancora oggi. Bataille radicalizza il pensiero dell’informe, che nel suo pensiero è concepito come un principio dinamico, il cui compito non è negare statuto alle cose, assimilato a un costante processo di decostruzione delle forme. L’informe di Bataille è l’irrecuperabile da qualsiasi forma di pensiero, l’irriducibile, l’inassimilabile o, come disse lui stesso, la nozione che scardina ogni categoria. Finisce il suo testo dedicato a questa parola non a caso e dice che tutto ciò che informe è al pari di uno sputo o di un ragno schiacciato, qualcosa che suscita una reazione di repulsione immediata, che non passa attraverso il pensiero e la parola. Informale: oltre il pensiero per opposizione Il pensiero di Bataille vale per buona parte dell’Informale, di cui Dubuffet ne ha proposto la visione più radicale, intendendo come informe la transvalutazione della forma, cioè un ripensamento, una rielaborazione, un altro tipo di forma: quello che noi mettevamo prima in conto al brutto, e in generale agli aspetti negativi. Noi, ad esempio, come eredità della tradizione di pensiero cristiana, che ha eliminato la nozione di spirito, che fa il triangolo tra anima e corpo, consideriamo la materia come l’opposto dell’anima. È stato Platone il primo ad affermare che l’anima è in ostaggio del corpo, dando il via a questo pensiero per opposizione, che venne ripreso da Aristotele, che lo chiamò metafisica, e che poi si trasmise al pensiero occidentale. La nostra cultura è dunque segnata da questo pensiero per opposizione, da cui il Novecento cerca di uscire in tutti i modi possibili. Informale: un cambio di sguardo, la macchia in se stessa Secondo gli informali, l’informe è la forma che la materia ha in sé stessa, che dà la materia, e non che dà all’uomo. Questo è importante perché comporta due cose: da una parte evidenzia il fatto che la forma è una proiezione dell’essere umano (es. siamo noi a vedere forme nelle nuvole), dall’altra, indirizza la nostra attenzione a queste nuove forme, comportando dunque un cambio di gusto, di sguardo, che è sempre importante in arte, sancendo un semplice ma fondamentale passaggio: l’arte comincia a guardare le macchie con un altro sguardo, con un’altra attenzione. 16 L’Informale a questo punto diventa un esercizio della visione di macchie, di materie diverse, di mescolamenti e di segni, senza più che rimandino alla realtà, alla raffigurazione. In questo senso, tornando al dibattito tra figurazione e astrattismo, questa distinzione non vale nemmeno più: non è più un’opposizione, perché io guardo sia delle macchie che vanno a formale delle figure, sia delle macchie che non vanno a formare delle figure, diversamente, in quanto macchie. In altre parole, non le vedo più come qualcosa che producono delle forme: le vedo e le apprezzo per se stesse. Henri Michaux, Composizione, 1954 Anche Michaux, considerabile il corrispettivo europeo di Kline, è influenzato dall’interesse per la cultura orientale, e in particolare per la calligrafia. Invece che l’azione, l’ampia pennellata, la grande superficie, nelle sue opere prevale la concentrazione. Michaux, infatti, ha prodotto pochissime tele, anche perché in realtà era più uno scrittore che un pittore. Il suo è un lavoro di polso, proprio come la calligrafia, che tuttavia non imita più la calligrafia orientale, come ancora può sembrare Kline, le cui opere sembravano degli ideogrammi ingigantiti e scollegati dal loro significato alla parola: quella di Michaux diventa proprio una scrittura astratta. Anche qui c’è lo stesso rapporto tra la macchia nera e il fondo bianco, in cui il nero circonda delle zone bianche facendole diventare a loro volta delle forme. Henri Michaux, Disegno mescalinato, 1958 Il segno vibrante che caratterizza quest’opera, come suggerisce la didascalia, è stato prodotto sotto effetto della mescalina, un oppiaceo. Michaux, tra i numerosi sperimentatori delle droghe di quella generazione, è quello considerabile il più responsabile, perché nel suo caso lo fa con l’intenzione di mettere alla prova e vedere quello che succede, in maniera controllata e sempre assistito da un medico, così da non creare alcuna dipendenza. In immagini ha prodotto questi disegni, e nei suoi testi ha poi descritto queste esperienze a parole, spiegando come la droga esaltasse alcune delle caratteristiche fisiologiche del polso e della mano, e in ambito visivo dei cambiamenti dei colori e delle forme, etc. La droga era vista da quella generazione come uno strumento di scavo, di potenziamento delle possibilità umane per andare in direzioni inesplorate. 17 Wols, La città, 1948 Wols, pseudonimo che condensa nome e cognome di Wolfgang Schulze, è un tedesco trasferitosi a Parigi. Estremamente povero, passava da un albergo all’altro un po’ pagando e un po’ sfuggendo, facendosi prestare soldi. La dipendenza da alcol lo porta al tormento, alla nevrosi ossessiva, alla depressione. In questo disegno, delle dimensioni di un foglietto, si vede evidentemente il tremolio dovuto all’alcol. Questa cosa va al di là del pensiero, è una forma di automatismo, uno dei concetti chiave del Surrealismo, un movimento ancora molto vitale soprattutto in Francia, capitanato da Breton. L’automatismo fa diventare un segno una figura, che poi cresce su se stessa, esattamente come accade a questo paesaggio di città, che diventa ancora una volta un labirinto, un perdersi dentro questi segni che riproducono i moti della mente. Wols, Acquerello, 1949 Wols disegnava con quello che aveva. In mancanza di acqua, ha talvolta utilizzato lo sputo, le ultime gocce di alcol rimaste nella bottiglia, un pennino e un po’ d’inchiostro. Questo tipo di arte, come si vede, apre numerosissime varietà di possibilità, e questa è anche la ragione per cui è dilagata, divenendo un movimento internazionale con tantissime forme d’espressione e tantissimi artisti divenuti informali. Antoni Tàpies, Pittura, 1958 Antoni Tàpies è il primo artista informale spagnolo. Tàpies comincia questo quadro come un pittore astrattista relativamente tradizionale (ormai anche l’astrattismo era diventato una tradizione, esisteva da almeno 40 anni): disegna un quadrato rosso su una superficie, un po’ alla Rothko, utilizzando dei grigi diversi per annullare il rapporto figura-fondo, e dei segni sulla parte grigia a destra. Questo quadrato rosso, realizzato con una materia con alto spessore, distribuita per mezzo una spatola, viene steso, come si fa normalmente con la spatola, tenendo la tela in orizzontale. Tàpies decide però di non aspettare che la materia si asciughi, alzando il quadro in posizione verticale, e le spatolate, non ancora incollate al fondo, hanno dato origine a queste curve. È questa sua scelta a distaccarlo dall’astrattismo: quella che era la forma regolare per eccellenza, il quadrato, è così divenuto l’informe, e lo è divenuto di per se stesso, per la proprietà della materia utilizzata. 20 Alberto Burri, Cretto G1, 1971 La terza serie di Burri, il cui principio è quello della terra bruciata dalla calura, prende il nome di Cretti. Burri realizza un impasto di gesso, distribuito su una superficie con spessore diverso, così che, una volta seccato, si formino delle spaccature. Come Dubuffet, Burri si limita a predisporre l’impasto, per poi lasciare che sia l’impasto stesso a fare tutto il resto. Burri è veramente un apripista nell’ambito dell’Informale italiano. In seguito ad una sua mostra, tenutasi a Milano, tutta una generazione viene sconvolta, e decide di seguirlo e rielaborarlo. Emilio Vedova, Dal Ciclo della protesta, 1953 Emilio Vedova opera a Venezia, un contesto con tutto un altro bagaglio visivo e culturale rispetto a Burri, ed è un artista particolarmente interessante perché rappresenta la versione italiana dell’espressionismo di Kline. Anche nel suo caso, come in Kline, il segno non diventa figura e neanche parola, tuttavia, come si capisce a partire dal titolo che ha dato a questa serie di opere, la sua arte non è ispirata dalla calligrafia orientale, bensì ai gesti di protesta, dei quali la sua arte, attraverso i segni, si porta dietro la carica. Questo aspetto è stato molto importante in Italia, dove un filone dell'arte Informale si è concentrato sul fatto che l’utilizzo una materia spessa in grande quantità, in questo caso tradizionale, ossia pittura a olio, sulla tela resta la traccia del gesto dell’artista, come era avvenuto in Kline e De Kooning. Questo significa che, osservando questi segni dal vero, si può vedere il vettore della pennellata, da dove è partita e in che direzione è andata, perché resta la spinta (la pennellata è più pesante all’inizio del segno e più leggera in chiusura). Se la pittura tradizionale aveva sempre nascosto la pennellata a favore della figura, questo filone inizia a guardare la pennellata da questo punto di vista: i segni divengono le tracce di come sono stati fatti. Tutto questo si era già visto con Pollock parlando della sua tecnica, il dripping, che funzionava nello stesso modo. Emilio Vedova, Dal ciclo della protesta, 1956 Come si vede in questo quadro, Vedova utilizza spesso il colore nero per il suo segno, in quanto, come detto, si tratta di un segno di protesta, che nella sua opera assume anche un significato politico, sociale e ideologico. 21 Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1950 Lucio Fontana, di famiglia italiana ma argentino di nascita, si forma all’Accademia di Brera a Milano, ed è un artista del tutto lombardo. Lucio Fontana è inscrivibile in un altro ambito ancora, molto influente e che ha avuto grande seguito. Argomento centrale nel pensiero di Fontana è quello che lui stesso definisce il “concetto” di spazio. L’arte si è sempre occupata di rappresentare lo spazio (es. prospettiva), tuttavia, la concezione che si ha dello spazio all’epoca di Fontana è completamente cambiata, soprattutto grazie alla tecnologia. Il nostro spazio, oggi, è completamente percorso da cose invisibili, che tuttavia esistono (es. onde radio), pertanto bisogna rappresentare e restituire un’idea di spazio in una maniera completamente diversa. Ecco perché usa il titolo di “concetto” spaziale: obiettivo della sua arte non è rappresentare lo spazio inteso nel senso di spazio interstellare, come potrebbe sembrare osservando questo sfondo non uniforme, con buchi che possono sembrare presenze. L’idea è invece quella di un concetto: restituire un’idea di spazio più aderente al pensiero contemporaneo. Per fare questo, non volendo rappresentare, raffigurare lo spazio, ha dovuto inventarsi un’idea di spazio. Non volendo raffigurare, ed avendo a disposizione solo una superficie, Fontana decide di bucarla, sfondarla, mostrando allo spettatore che è solo una superficie, andando al di là della superficie stessa. Questo costringe chi guarda a pensare a cos’è un buco, e non semplicemente a vedere cosa raffigura. Facendo questo, inoltre, Fontana utilizza la geometria, la figura mentale per eccellenza, forme stabilite dall’uomo che non esistono come realtà concreta. Le forme che utilizza, inoltre, sono quelle più moderne: il vortice, la spirale, le linee diagonali che attraversano le forme invece che ordinarle. Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1962 Dopo i buchi, Fontana mette in atto una sintesi totale: un solo gesto, un solo sfondamento. Non con la punta, che ha un senso di aggressività e di sadismo, bensì un colpo di lama preciso. Lo sfondo è monocromo, senza sfumature, non vi sono più ambiguità. È la forma più sintetica ma anche più radicale di questo modo di pensare. In questo caso, il taglio assume poi i significati simbolici del taglio: una fessura, che fa pensare alla divisione, al sesso femminile, etc., e tutta una serie di significati di cui è stato caricato da commentatori diversi e che Fontana ha accettato. 22 Lucio Fontana, Attese, 1966 Lucio Fontana ha poi realizzato una serie di varianti nell’ambito di questa tecnica del taglio, sia con il colore di fondo che con il numero di tagli. Queste opere, tutte caratterizzate da un unico taglio o da una serie di tagli verticali, netti, decisi, con cui l’artista incide la tela monocroma, sono state raccolte nella serie delle Attese. Lucio Fontana, Ambiente con neon, 1951 Fontana è l’autore di una delle opere più belle del Museo del Novecento a Milano, ossia una struttura al neon che realizzò nel 1951 per il soffitto di un salone. Questo ulteriore salto fatto da Fontana non è comprensibile se non nei termini introdotti in precedenza: è il concetto di spazio, che nasce dall’idea delle nuove tecnologie, e che assume le nuove tecnologie come strumento di arte. Ulteriore novità dell’opera è il mezzo espressivo utilizzato, assolutamente nuovo: la luce al neon. Questa in particolare è un’installazione cosiddetta ambientale, in quanto si dilata tridimensionalmente in tutto l’ambiente, in questo caso una stanza buia, divenendo quella che oggi si definisce immersiva: lo spettatore, osservando l’opera, si sente entrare in questo concetto spaziale. Un’altra forma di “arte ambientale” innovativa realizzata da Lucio Fontana utilizza un altro tipo di luce, la luce ultravioletta, una luce invisibile che l’occhio non percepisce, ma che esiste, e si riflette su diversi materiali. Il movimento di Lucio Fontana, lo spazialismo, ebbe poi un grande seguito, in particolare a Milano, dove diede origine ad una serie di movimenti che, con alcune differenze di concezione, iniziarono a ripensare lo spazio. Al seguito di Fontana, altri artisti diedero origini ad altri filoni, uno dei quali è quello dell’arte nucleare, i cui esponenti più noti sono Tancredi e Roberto Crippa. Tancredi, Nucleare 2, 1951 Le opere di Tancredi e Crippa hanno in comune questo segno sgocciolato. Entrambi gli artisti riprendono il dripping, ma dandogli la forma del vortice, della spirale, perché rappresenta la trasposizione grafica del movimento, mai chiuso su se stesso: ogni volta che torni sullo stesso punto, nel fare la spirale, sei costretto a rimpicciolire o ingrandire. Anche come figura in sé, la spirale è data per dare il senso del tempo, non lineare e progressivo, bensì fatto di ritorni ogni volta diversi. 25 Pedersen, Fantasia, 1942 Ad Amsterdam il nucleo principale del museo di arte contemporanea è pieno di questi artisti, che sono stati uno dei movimenti più importanti di metà Novecento, di cui un esempio perfetto è Pedersen. Nel dipinto si vedono bene i bambini, il sole, l’animale, disegnati con una tecnica di pittura a pennellate grossolane, similmente a come stava facendo l’Informale, e che qua si vede ancora di più. Karel Appel, Due teste, 1953 Karel Appel, l’artista più longevo di questo movimento, ha avuto un grandissimo riconoscimento nell’ultima parte della sua vita, ossia negli anni Ottanta, quando, ormai trasferitosi negli Stati Uniti, si è ritrovato al centro di un rinnovato interesse per la pittura. Come dice il titolo, l’opera rappresenta due teste, che l’artista ha dipinto brutalmente, infantilmente. Questo uso del segno infantile in questo caso è motivato dal desiderio dell’artista di rappresentare un’umanità brutta, in modo negativo e assolutamente non lusinghiero. Asger Jorn, Imbecillità sottosviluppata, 1956 Asger Jorn è ancora più esplicito, a partire dal titolo della sua opera, attraverso il quale descrive con due parole la sua visione della civiltà, della società, e in generale dell’umanità tutta: imbecillità sottosviluppata. Agli occhi di questi artisti l’umanità è infatti un insieme di imbecilli sottosviluppati che non reagiscono, di conformisti. Questi argomenti verranno in seguito ripresi all’insegna di quella che viene chiamata società di massa, dopo la Seconda guerra mondiale, a partire dalla ricostruzione post-industriale che avrà come effetto proprio questo concetto di massa. Insieme all’italiano Pinot Gallizio, Asger Jorn ha fondato un movimento detto anti-Bauhaus: se il Bauhaus ha rappresentato la scuola del design, del disegno industriale, dell’architettura razionalista, questi artisti erano esattamente al contrario. 26 Asger Jorn, Il mito muto, 1955 Anche quest’opera rappresenta dei personaggi antropomorfi, più che delle vere e proprie figure umane, con le facce deformate. Pinot Gallizio, Pittura industriale, 1959 Pinot Gallizio è l’inventore del concetto di pittura industriale. Secondo la regola del mercato, infatti, i prezzi delle opere sono stabiliti in base alle dimensioni, in contraddizione rispetto all’idea che abbiamo dell’arte, secondo cui la qualità viene prima della quantità. Tuttavia, il mercato è il mercato. Allora Pinot Gallizio, nell’era industriale, ha proposto la pittura industriale, ossia rotoli di tela dipinta che lui vende a metro per smontare l’idea commerciale ed elitaria dell’arte. La tecnica stessa con cui dipinge la tela è industriale: non c’è una composizione che giustifichi questa lunghezza, in quanto è fatta secondo uno stile che si ripete lungo tutta la tela. La pittura industriale esprime il paradosso della svalutazione del gesto artistico, creativo, ripetuto e ricreato all'infinito in una serialità che tende a mettere in luce la qualità principale della società moderna: la produzione e il consumo, qualità che se applicata al mondo dell'arte mette in crisi il sistema di cose. Pinot Gallizio, La caverna dell’antimateria, 1958 Altra idea introdotta da Pinot Gallizio è quella de La caverna dell’antimateria, legata a un altro concetto che la scienza sviluppa in quel periodo: l’antimateria. Nel corso del Novecento la fisica quantistica ha stravolto completamente tutto ciò che si credeva sul mondo, specialmente per quel che riguarda l'infinitamente piccolo, in particolare ipotizzando l’esistenza dell'antimateria, materia uguale in tutto e per tutto a quella che conosciamo, ma di segno opposto. Si scopre che quando una particella e un'antiparticella vengono a contatto si assiste al fenomeno dell'annichilazione, e questa scoperta scientifica contribuisce tra le altre ad infiammare gli animi degli artisti, perché è facile la trasposizione: chi ha un’idea della società e della cultura molto critica, come lo è quella di questa generazione, concepisce l’arte come l’antimateria della società e della cultura: potesse mai l’arte fare esplodere le categorie errate della società e della cultura. Con questa prima grande opera ambientale, Gallizio supera definitivamente la bidimensionalità del quadro o dei rotoli di pittura, per fare esplodere l'arte nel contesto fisico della galleria. Lo spazio viene assorbito dalla pittura, che, nel suo dilagare nell'ambiente, muta anche il concetto espositivo: non più tele incorniciate appese alle pareti, ma pareti di colore. Gallizio anticipa la stagione dell'arte ambientale, che si affermerà a partire dagli anni Sessanta, con proposte artistiche che irromperanno nello spazio, scardinando le regole tradizionali della pittura per coinvolgere direttamente lo spettatore. 27 Asgel Jorn e Pinot Gallizio daranno origine al movimento che prende il nome di Internazionale Situazionista, un movimento rivoluzionario che intende esercitare una critica radicale alla cultura capitalistica, ispirandosi alle ideologie marxiste e anarchiche ed alle avanguardie artistiche dell'inizio del Novecento. Questo movimento si basa sull’invenzione di intervenire sull’esistente, per esempio i fumetti, cambiando il testo o le figure, come si vede in questa vignetta dell’Internazionale Situazionista del 1962. Guy Debord, The Naked City, 1957 Quest’opera rappresenta una cartina di Parigi, ed è stata disegnata dal più noto degli esponenti di questo gruppo situazionista: Guy Debord. Lo stile è definito dallo stesso autore come psicogeografia, che si sforza di evocare emozioni dal pubblico raffigurando i luoghi geografici in un modo insolito, ossia per come sono percepiti. Del nostro territorio, infatti, percorriamo soltanto alcune strade, che sono quelle che Debord ha scelto di rappresentare in questa mappa, disegnata con tantissimi vuoti e tantissimi vettori, che vogliono indicare il vagare per la città, non seguendo alcun piano precedente. Da qui il rilancio del flâneur, il passeggiatore, che passeggia senza una meta, che può camminare magari dove non è mai passato, cambiando prospettiva. Guy Debord è autore di uno dei romanzi più influenti di quegli anni: La società dello spettacolo. L'opera, di chiara ispirazione marxista, descrive la moderna società delle immagini come una mistificazione volta a giustificare i rapporti sociali di produzione vigenti. È particolarmente importante, in questo contesto, perché oggetto della prossima lezione saranno la Pop Art, il consumismo, etc., e quest’opera contribuì a segnare questo passaggio. 13/10/2022 Pop Art: le origini inglesi Intorno alla metà degli anni Cinquanta il fenomeno dell’Espressionismo astratto americano e il suo corrispettivo europeo Informale iniziano ad essere sentiti dalla generazione successiva come pesanti e svuotati di corrispondenza rispetto ai cambiamenti in atto nella società. In maniera diversa, in tutto il mondo gli artisti hanno reazioni importanti, ancora una volta negli Stati Uniti, ma non solo: la risposta a questa insofferenza viene elaborata anche e soprattutto in Gran Bretagna, e da questa risposta scaturirà la Pop Art. Contrariamente a quanto si è portati a credere, infatti, in realtà la Pop Art nasce in Gran Bretagna, a Londra, piuttosto che negli Stati Uniti. Ciò avviene perché è guardando da fuori che si osserva il 30 A sinistra si vede Marilyn Monroe nel film L’amore non va in vacanza. L’uomo che cerca di guardare sotto la gonna, in una situazione paradossale, trattandosi di un’immagine bidimensionale, rende l’idea del potere dell’immagine, che scatta proprio in questo contesto, e in una maniera diversa rispetto a prima. Nell’immagine centrale si vede il robot con la bella, un’immagine che ricorda il film King Kong, e nell’immagine di destra si vede il trionfo del cinema sull’immaginario. Queste immagini mettono a fuoco come è cambiato il panorama visivo della cultura. Prima osservazione, e di fondamentale importanza, è che si tratta di una cultura urbana. La Pop Art è infatti un movimento artistico che nasce dalla cultura urbana, mentre nella provincia e nelle campagne non esiste questa dimensione, portando così ad uno scollamento che si sente molto, non solo negli Stati Uniti ma anche altrove. Seconda osservazione da fare è che le immagini sono integrate all’interno di un percorso. Integrate è un aggettivo particolarmente importante perché indica che queste immagini non si possono estrapolare: non sono dipinti, in quanto si tratta di un’occupazione dell’intero ambiente attraverso l’immagine. Più avanti, questo tipo di esposizione prenderà il nome di installazione. Richard Hamilton, Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?, 1956 Al centro di questo percorso spicca l’opera di Richard Hamilton, spesso citata fra le testimonianze più rappresentative della Pop Art e divenuta un manifesto non solo dell’esposizione, ma più in generale per gli artisti di quella corrente. Anche il titolo dell’opera è divenuto una specie di slogan: Che cosa rende le case di oggi così diverse, così attraenti? All’interno dell’opera tutti gli ingredienti di questo cambiamento “attraente”, come lo definisce Hamilton, a partire dalla donna, una pin-up, e dall’uomo, un culturista, arrivando poi ai numerosi oggetti ammassati in questo bizzarro interno casalingo: un paralume con il logo della Ford sullo sfondo, una confezione di prosciutto posta sul tavolino al centro della stanza, un tappeto raffigurante un'indistinta folla di persone, un nastro magnetico in primo piano, una striscia a fumetti sulla parete, un cesto di frutta su un televisore, etc. Il soffitto è decorato, e fuori dalla finestra si vede il cinema. A sinistra, il nuovo elettrodomestico, che è l’aspirapolvere, che una donna di servizio sta passando sulle scale. Il gruppo che si era occupato di questa sezione della mostra prende il nome di Independent Group, ed è tra tutti il più responsabile della formulazione, discussione e diffusione di molte delle idee di base della Pop Art britannica. I principali artisti coinvolti furono Richard Hamilton, Nigel Henderson, John McHale, Eduardo 31 Paolozzi e William Turnbull. L'Independent Group includeva anche i critici Lawrence Alloway e Rayner Banham e gli architetti Colin St John Wilson, Alison e Peter Smithson, esponenti del brutalismo. Tutto questo è ciò che avvenne in Gran Bretagna a partire dagli anni Cinquanta, in reazione a quello che in quegli anni stava succedendo negli Stati Uniti, un grandissimo cambiamento che fu molto percepito dagli artisti inglesi, che lo osservavano da fuori. Ma cosa succede negli Stati Uniti? Pop Art americana In America ci sono due giovani in particolare, allora ancora ventenni, entrambi omosessuali, molto legati ma al contempo estremamente diversi tra loro, e per questo in un certo senso considerabili complementari. Robert Rauschenberg, Rebus, 1955 Rauschenberg, il primo dei due giovani, è il più neo- dadaista (in questa fase del movimento pre-Pop si parla infatti di New Dada). Le influenze del dadaismo sono presenti non solo nel collage, ma anche in questa dimensione della non rinuncia alla casualità, nella tecnica dello sgocciolamento e nella confusione e nel caos che emergono dal dipinto. Lo sgocciolamento, il colore, le forme, sono ancora eredità dell’Espressionismo astratto della generazione precedente. Questi due artisti fecero un po’ da ponte in questo passaggio: entrambi erano giovanissimi, e Rauschenberg frequentava il bar in cui si riunivano gli espressionisti astratti, spesso rimanendo in un angolo, facendo sin dall’inizio cose un po’ diverse, che gli altri espressionisti non capivano: in realtà stava proprio maturando questo cambiamento. A questi elementi ereditati dalla pittura dell’Espressionismo astratto Rauschenberg unisce ciò che si era evidenziato nell’Independent Group: la cultura di massa, che si ritrova in queste immagini che non sono più dipinte. È proprio questo che costituisce l’elemento di passaggio: questa pittura che recupera l’immagine attraverso l’esistente, e quindi attraverso le riviste, e più in generale quelli che venivano chiamati mezzi di comunicazione di massa. Il motivo di questa operazione si ritrova nello stesso titolo dell’opera: il rebus, che noi conosciamo come gioco enigmistico, e che in realtà è uno strano tipo di immagine. Il rebus è incoerente, perché al suo interno si mettono immagini diverse che a volte non possono stare insieme, unite addirittura a delle lettere. Quando vediamo il rebus, tuttavia, non ci sorprendiamo di questo, perché sappiamo che è necessario decifrarlo per trovare il suo significato. Il principio del rebus è proprio quello che Rauschenberg vuole esprimere, a partire dalla frase in alto a sinistra: that repre(…sentation), ossia questa rappresentazione, una rappresentazione che oggi è fatta così: non è più il racconto lineare, l’immagine coerente. Nella società di oggi l’uomo che si muove per la città attraversa diversi stimoli percettivi, una serie di informazioni che la mente consapevole mette in ordine, ma al di sotto del livello della consapevolezza e dell’elaborazione, se venissero trascritte durante quel percorso, ne uscirebbe una rappresentazione di questo genere. Questa per Rauschenberg diventa l’indicazione che il mondo è diventato un collage, che cessa di essere una semplice tecnica e diviene una vera e propria forma mentale: la percezione del mondo contemporaneo, che funziona esattamente così. Ma quali sono i meccanismi di questo funzionamento? 32 Robert Rauschenberg, Gloria, 1956 Il principale si vede con questo altro dipinto, apparentemente dadaisticamente destrutturato, tanto da dare l’impressione di non significare niente. Tuttavia, come già era avvenuto in Rebus, se ne legge il significato a partire dalla porzione in alto a sinistra, dove Rauschenberg ha collocato le fotografie di due sposi. Il principio del matrimonio è l’unione, e per questo motivo si vedono, nella porzione centrale del dipinto, le scritte BI e CO, i prefissi del doppio. Similmente, tutti gli elementi che costituiscono l’opera appaiono moltiplicati per due. È il meccanismo che conta, e Rauschenberg lo distribuisce sulla superficie in una maniera non lineare, perché non si tratta di un pensiero lineare, bensì di un pensiero che va per ripetizione, per riconoscimento, per associazione. Queste sono le nuove parole che identificano il nuovo modo di vedere e di pensare nella contemporaneità, ed è proprio da qui nasce la Pop Art, che poi diventa, proprio con Rauschenberg, quella che già conosciamo. Robert Rauschenberg, Asse, 1964 Nella sua operazione artistica c’è un senso di immersione all’interno della cultura che sta cambiando, e che diverrà la cultura cosiddetta di massa e del consumismo, che lui restituisce quell’aspetto di confusione. Come dice la stessa parola, con-fusione, non si tratta soltanto caos, bensì anche di fusione, una percezione unitaria ma in un altro modo, non nel senso strutturato del termine. È la nostra mente che elabora elementi diversi in cui si trova immersa: il presidente, che rappresenta in questo modo, l’arte che rappresenta in questa maniera, o ancora la conquista dello spazio, etc. Robert Rauschenberg, Canyon, 1959 Quest’opera è stata realizzata con una tecnica divenuta la specialità di Rauschenberg, alla quale lui stesso diede il nome di combined painting (teneva alla pittura, quindi continua a parlare di painting), che consisteva nell’aggiunta di oggetti tridimensionali alle sue opere. Quest’opera in particolare fu in seguito tolta dalla collezione a causa delle lamentele da parte di gruppi di animalisti. 35 di immagine-segno, semioticamente parlando, è quasi unica, e Johns andrà a caccia di immagini di questo tipo, che diverranno poi i soggetti delle sue opere. Altro aspetto è la tecnica che Johns ha adottato, o meglio, reinventato, per restituire questo particolare tipo di immagine: l’encausto, un'antica tecnica pittorica che si basa sull'uso di colori mescolati alla cera attraverso il calore. Nel tempo la tecnica ad encausto è stata perfezionata e modificata per effetti sempre più raffinati, fino ad essere soppiantata prima dalla pittura ad olio, poi da materiali più moderni, in genere a base sintetica (colori acrilici), di più facile applicazione e più veloce essicazione. L’utilizzo della cera, diversamente dalle altre tecniche di produzione del colore, comporta un esito particolare: un colore pastoso, come si vede soprattutto nella parte bianca del dipinto, in cui, proprio a causa della sua pastosità, resta la traccia del pennello, come si era visto nell’Informale. Altro esito è dato dal fatto che la cera non è un solvente, e dunque il pigmento resta almeno in parte ancora una polvere, che rimane “sospesa” nell’impasto, il quale, non essendo del tutto sciolto, non risulta omogeneo. Il risultato è molto particolare visivamente, perché sembra un’unione, come effetto visivo, della pittura ad olio e dell’acquerello. Nell’acquerello il colore è in parte trasparente e, come avviene anche nell’encausto, sembra essere sospeso all’interno dell’impasto, dando l’impressione visiva che l’immagine sia dentro la materia. Johns ha scelto questa tecnica in quanto perfettamente adatta a ciò che contava allora per gli artisti di quel movimento, ossia trovare il punto di fusione tra ciò che normalmente si considerava separato: contenuto e forma, astratto e figurativo, etc., e anche a livello di colore e forma, in Johns tutto appare impastato insieme. Jasper Johns, Bersaglio, 1955 Altro soggetto della mostra di quell’anno sono i bersagli, un’altra immagine al contempo figurativa e astratta. Come nel caso della bandiera, ancora una volta si ha una fusione tra figurativo e astratto, problema centrale della generazione di Johns. Ricollegandosi alle lezioni precedenti, e riprendendo dunque lo sviluppo artistico generazionale, i pittori della generazione precedente erano quegli espressionisti astratti per i quali il passaggio all’Astrattismo era stato esito di un grandissimo tormento interiore. La generazione di Johns, al contrario, non si riconosce più in questo rovello interiore, in quanto è più proiettata sulla realtà, sulla società, e in generale su tutto quello che diverrà la Pop Art. Johns fa parte di quegli artisti che ad oggi sono considerati di passaggio, e alla sua mostra, infatti, tutti coglieranno immediatamente questo aspetto: siamo passati dalle forme astratte dell’Espressionismo alle forme della società. 36 Jasper Johns, Numeri, 1958 Anche i numeri fanno parte di questo insieme di immagini particolari, in quanto fanno parte di questi segni, nel senso semiotico del termine, univoci e convenzionali, e quindi astratti, anche se indicano qualcosa di concreto. Johns è andato a cercare tutte queste forme visive di raffigurazione estremamente particolari, in quanto tengono insieme ciò che normalmente consideriamo separato, ed è esattamente per questo motivo che in questo caso decide di utilizzare i numeri come immagini, dipinti utilizzando soltanto con colori primari. Jasper Johns, Painted Bronze II, 1960 La vicenda che precede, e che anzi portò alla realizzazione di quest’opera, è particolarmente interessante. All’epoca di Johns iniziano ad esserci alcune frizioni tra le generazioni, e si capisce bene perché un artista come De Kooning non apprezzasse molto questo tipo di arte. Si racconta che durante una mostra di Leo Castelli, cui De Kooning aveva partecipato, quest’ultimo aveva sbuffato dicendo che questi artisti avrebbero potuto anche esporre una lattina di birra e farla passare per arte. Questa battuta viene riferita a Jasper Johns, che pare che abbia realizzato quest’opera proprio in risposta all’affermazione di De Kooning. Il titolo non è “lattine di birra”, bensì Painted Bronze, ossia bronzo dipinto, ed ecco quello che Johns vuole indicare propriamente: non si tratta di una lattina, bensì di un bronzo dipinto. C’è un motivo in particolare per cui Johns fa questa distinzione. Sono passati alcuni anni dai suoi primi dipinti, e in questo periodo è emersa una figura, che fino a quel momento non aveva assunto quella importanza, che proprio questa generazione di artisti americani, da Rauschenberg a Johns, iniziò a prendere in considerazione in maniera centrata: Marcel Duchamp, il cui momento di gloria fu proprio il 1957. Quasi 45 anni prima Duchamp aveva inventato il cosiddetto ready made: un oggetto del quotidiano, senza che su di esso sia attuato alcun intervento di tipo artigianale, diventa di per sé un’opera d’arte. È un gesto di scelta di prelievo e decontestualizzazione: tolto dal suo contesto d’origine, e così privato della sua funzione pratica, l’oggetto viene ricontestualizzato nel contesto dell’arte, che ha determinate caratteristiche, per cui non lo si guarda più per la sua funzione, bensì in quanto oggetto estetico. Questa era una delle riflessioni più radicali che si erano fatte nell’arte contemporanea, che aveva messo in crisi tanti e aperto altre strade, molte delle quali, fino al 1957, vennero rifiutate dalla stragrande maggioranza degli artisti, che invece continuavano a essere attaccati all’aspetto manuale e sensoriale dell’oggetto estetico. In quest’opera di Johns, dunque, c’è una riflessione anche su questo tema: non si tratta di un ready made, non sono lattine prese e ricontestualizzate, come si vede anche dal fatto che sono state poste su un piedistallo e fuse insieme. La parola Bronze del titolo fa riferimento al fatto che le lattine sono realizzate in bronzo, non tanto e non solo perché si tratta del materiale storico della scultura, ma soprattutto perché è un materiale per fusioni. Osservando un oggetto in bronzo è automatico pensare alla tecnica con cui viene realizzato, ossia la 37 fusione, e come nel caso della bandiera il collegamento è immediato. Secondo aspetto, cui fa riferimento la seconda parola del titolo, ossia Painted, è che questo bronzo è dipinto. In questo caso, Johns fa riferimento all’etichetta, che è dipinta, e dunque non ready made. Qual è il risultato? Il risultato è la fusione, come si era anticipato, che qui diviene ancora più esplicita, in quanto si tratta materialmente di una fusione, ossia quella del bronzo, che diviene però anche una fusione di bronze, ossia scultura, e painted, pittura, due tecniche separate e storicamente in competizione fra loro sin dal Rinascimento (famoso paragone delle arti). Johns ha dunque usato la scultura, per quanto in una forma estremamente elementare, per trasportare anche in ambito scultoreo questo suo modo di affrontare le cose. Ultimo aspetto dell’opera riguarda la scelta di utilizzare due lattine di birra invece che una sola. La spiegazione è semplice: il problema è la scissione, e la scelta è anche quella di un’idea di fusione che mantiene separati i due oggetti pur mettendoli insieme, che apre un’altra possibilità di moltiplicazione. Quest’ultimo aspetto porterà alla serie, tipica della Pop Art, la ripetizione, grandissimo tema degli anni Sessanta, perché tutto è ripetuto, dal livello quotidiano (pubblicità, comportamenti, etc.), fino all’analisi di qualsiasi aspetto mentale e filosofico della questione, in un modo assolutamente pervasivo. Il decennio del Sessanta avrà un culmine nel 1964 con Differenze e ripetizione del filosofo francese Deleuze, in cui viene affrontata proprio questa questione, che si vedrà più esplicitamente in seguito con Warhol: pensando alla ripetizione si pensa sempre alla ripetizione dello stesso, tuttavia, il principio della differenza è intrinseco a quello della ripetizione, perché due cose non sono mai perfettamente uguali l’una all’altra. Jasper Johns, Savarin Can, 1960 Alla fine di una giornata lavorativa, quando il pittore lascia lo studio, per non far seccare i pennelli questi generalmente vengono puliti e lasciati in un recipiente con all’interno del diluente. Era uso comune riciclare barattoli, in questo caso il barattolo di un caffè, in cui i pennelli venivano lasciati, imbevuti nella trementina, generalmente ancora sporchi di colore. È questo che Johns vuole rappresentare con la sua opera, anche nei suoi risvolti metaforici: la scultura, in quanto in questo caso si tratta di una scultura, inizia quando finisce la pittura. Quando il pittore abbandona i pennelli, dunque, questi diventano una scultura. Come nel caso delle lattine di birra si tratta di una fusione in bronzo, in quanto la forma del pennello non è scolpita: è proprio la fusione dell’oggetto stesso, e anche in questo caso le etichette sono dipinte. Tutto il colore che si vede nel bronzo è dipinto: Johns, infatti, non ha usato dei pennelli sporchi, bensì ha dipinto lo sporco sopra la fusione del pennello. Prendendo ad esempio alla colatura azzurra in primo piano sulla scatoletta, ci si potrebbe chiedere se si tratti di una colatura vera o finta. La risposta è tutte e due. È un controsenso, ma come nel caso dell’immagine della bandiera, del bersaglio, e dei numerosi soggetti scelti da Johns, anche in questo caso l’opera ha la particolarità di essere due cose separate, fuse insieme nello stesso momento. 40 premio a Rauschenberg. A partire dal 1964 la Pop Art è pervasiva, è dappertutto, elemento da tenere da conto anche in relazione a Patella. James Rosenquist, F-1111,1964-65 Quest’opera, realizzata da Rosenquist per la sua prima mostra personale alla Leo Castelli Gallery di New York, prende il nome dall’omonimo cacciabombardiere F-111 che si estende per tutta la lunghezza del dipinto. L’opera si compone di cinquantanove pannelli ad incastro, estesi lungo tutte le quattro pareti dello spazio espositivo, in modo che l'opera, una volta appesa, circondasse e avvolgesse lo spettatore. Al corpo del cacciabombardiere sono sovrapposti, come in collage, una serie di elementi, per lo più fotografie e pubblicità stampate, tra cui un motivo floreale simile a una carta da parati, una torta, uno pneumatico Firestone, lampadine, una forchetta bloccata negli spaghetti e un ombrellone sovrapposto a un'esplosione atomica. Questi artisti appartengono al filone della Pop Art più illustrativa, accanto al quale esiste un’altra parte della Pop Art, rappresentata soprattutto da Andy Warhol e Roy Lichtenstein, che hanno in comune l’utilizzo del fumetto. Andy Warhol Warhol nacque a Pittsburgh, una città mineraria industriale, da due immigrati originari della Slovacchia. Warhol mostrò da subito il suo talento artistico, e studiò arte pubblicitaria in una scuola di design industriale. Dopo la laurea si trasferì immediatamente a New York, dove ebbe da subito un grande successo per il suo talento eccezionale di grafico, trovando lavoro per celebri riviste come Vogue e Glamour. Andy Warhol è anche inventore della tecnica cosiddetta della blotted-line (linea macchiata d'inchiostro). La tecnica consisteva nel tracciare un disegno a matita su un foglio idrorepellente. In seguito, questo tracciato veniva ricalcato a inchiostro di china, che non veniva assorbito dal foglio, per poi essere impresso su un foglio di carta assorbente. Questa tecnica consentiva a Warhol di eliminare l’aspetto di intervento manuale dell’artista, e soprattutto di ottenere numerose copie da uno stesso originale. Questo disegno meccanico, realizzato attraverso un procedimento meccanico, non è considerabile né soggettivo né oggettivo. È in parte soggettivo perché si tratta di una reinvenzione originale di una tecnica, che consente di riconoscere l’individualità dell’autore, ma non è soggettivo perché non ci si trova di fronte ad un disegno fatto a mano, che tradisce la personalità di colui che lo fa, ossia il suo stile. Andy Warhol, un po’ come Johns, era alla ricerca di qualcosa che normalmente si considera separato. A New York ha da subito un grandissimo successo, che gli permette, a partire dal 1959-60, di allentare il lavoro di grafico e di fare l’artista. Warhol inizia così a produrre alcune opere, e il primo ciclo di dipinti, esito della sua mentalità anche da grafico, sono il frutto della sua ricerca di un tipo di immagine che sia condiviso, che tutti conoscono, apprezzano, e dunque comprendono, ossia le pubblicità e i fumetti. 41 Andy Warhol, Dick Tracy, 1960 Come detto, Andy Warhol trae i suoi primi soggetti dai mezzi di comunicazione di massa, e realizza dei dipinti di grandi dimensioni, come questo, in cui ingrandisce delle immagini tratte da pubblicità e fumetti. Quest’opera è esito di un momento di passaggio, in cui non c’è un vero e proprio abbandono della pittura. Gli artisti vogliono ancora tenere insieme le due cose, come si vede dalle sgocciolature, dal bianco che cancella le parole all’interno del fumetto, dall’immagine fuori registro, con una linea nera come al di sopra vi fosse un’ulteriore vignetta, dalle figure che sembrano essere finite solo per metà, etc. Tutti questi elementi sono quelli che si chiamano effetti pittorici, che normalmente consentono di vedere e apprezzare l’aspetto di manualità della pittura, piuttosto che l’immagine netta, così com’è. Andy Warhol, Coca-Cola, 1960 Un giorno del 1960 Warhol realizza due dipinti, tutti e due dedicati alla bottiglia di Coca-Cola. Uno è questo, come il precedente, con ancora tutti questi effetti pittorici che si erano elencati prima (i segni della matita, del colore, etc.). In un altro solo la bottiglia di Coca- Cola, pulito, netto, senza trattamenti. Dopo aver realizzato questo secondo dipinto Warhol era esitante, e dunque, rivolgendosi ad un amico di fiducia, dopo avergli messo di fronte i due quadri, gli chiede quale preferisse. L’amico immediatamente esprime la sua preferenza per il secondo dipinto, ed è molto interessante la giustificazione che dà: perché noi non siamo pittura, noi siamo Coca-Cola. Questa risposta è abbastanza sorprendente, perché sposta il discorso dalla pittura, portandolo alla società, all’immagine, mettendo l’accento sul fatto che noi siamo già Pop, come si potrebbe sintetizzare la sua affermazione. In questo senso, la Pop Art è l’arte corrispondente alla realtà, a quello che siamo già noi stessi: non è solo una questione di immagine, bensì di essere. A partire da quel giorno Warhol capisce e fa suo il consiglio dell’amico, diventando l’artista pop che tutti conosciamo. Senza più esitazioni pittoriche, passa addirittura a un procedimento di realizzazione dell’immagine meccanico, ossia la serigrafia, e realizza le prime serie divenute in seguito leggendarie. Andy Warhol, Campbell’s Soup Cans, 1962 Questo cambio di Warhol inizialmente non viene apprezzato, e anzi, l’artista riscontra diverse difficoltà. I suoi stessi amici, che più di altri avrebbero potuto apprezzare, come appunto Rauschenberg o Johns, non sostengono questo passaggio. Per questo motivo Warhol, come farà anche in altre occasioni nel corso degli anni Sessanta, va prima a esporre le sue opere dall’altra parte degli USA, a Los Angeles, dove c’è una 42 mentalità più aperta, meno commerciale e più diretta nel giudizio. È qui che espone per la prima volta la serie delle Campbell’s Soup Cream, un’installazione composta da 32 quadri identici e delle stesse dimensioni. Ogni dipinto è la replica di una delle varianti esistenti, e sono tutti realizzati allo stesso modo: immagine centrale, fondo neutro senza nessuna ambientazione o contestualizzazione, oggetto in se stesso. Come in Johns, si tratta dell’immagine dell’oggetto, che in questo caso non è il cibo, bensì la scatola, una delle grandi novità dell’epoca. Warhol avrà e manterrà per tutta la vita questo acume da designer, che lo porta a cercare e scovare ciò che è estremamente e sinteticamente rappresentativo del momento, della società, del cambiamento. Nelle sue interviste, Warhol ha sempre giocato con l’apparente banalità delle sue risposte articolate. Alla domanda di un intervistatore, che gli aveva chiesto perché avesse scelto la Campbell’s Soup, Warhol aveva risposto che l’aveva scelta perché la mangiava tutte le sere. Questa risposta, che è solo apparentemente banale, trasmette in realtà questo senso di identificazione: noi siamo scatolette, esattamente come noi siamo bottiglie di Coca-Cola, etc. Il concetto di ripetizione costituisce un ulteriore passaggio in questa mostra di Los Angeles: Warhol espone questa serie su una mensola che corre lungo tutte le pareti della galleria, richiamando alla disposizione delle scatolette nel supermercato. Andy Warhol, Shot Marilyn, 1964 I quadri di Marilyn Monroe sono senza dubbio le serigrafie più note di Andy Warhol, che inizia a raffigurarla a partire dal 1962. Quest’opera fa parte della serie The Shot Marilyn Monroe del 1964, composta da quattro immagini della diva di Hollywood in diverse varianti di colore. Di Marilyn è raffigurata solo la testa, posta su un fondo neutro che riempie tutto lo spazio visivo del quadro. Anche in quest’opera è evidente il richiamo al ready made, anche se l’opera in sé non costituisce un ready made vero e proprio: Warhol prende un’icona, Marilyn Monroe, decontestualizzata e isolata all’interno del quadro, e chiede al fruitore di concentrarsi solo su questo oggetto, solo su quest’immagine. Quest’opera è stata realizzata attraverso la tecnica della serigrafia in bianco e nero, a cui Warhol aggiunge i colori. Nel caso della serie, Warhol utilizza la stessa immagine cambiando la disposizione dei colori del volto dell’attrice, che si trova sempre su un fondo monocromo. La serie nella Pop Art Con la serie, tipica della Pop Art, si torna a quella questione della ripetizione e della differenza che si era introdotto a proposito dello scritto Differenze e ripetizione di Deleuze. Tornando alla scatoletta, questo oggetto, più di qualsiasi altro, rappresenta il tema della serie, ossia la quantità di oggetti basati sulla ripetizione, nel senso che ognuno è la ripetizione dell’altro. Ciò che distingue la serie dalla sequenza è che quest’ultima ha un inizio e una fine stabiliti, per cui c’è una narrazione, un effetto narrativo che inizia e finisce. Prendendo quattro immagini casuali, poste l’una accanto all’altra, necessariamente si è portati a leggerle da sinistra a destra, cercando di interpretarle in sequenza. Questo è il periodo del trionfo cinematografico di Hollywood, all’insegna di quello che viene chiamato happy ending, ossia il lieto fine, esito anche di una particolare ideologia: la società dello spettacolo deve trasmettere un ottimismo ideologicamente orientato, che dica al pubblico che va tutto bene, e che per questo deve mettere da parte il senso critico e di denuncia. Così, Hollywood diventa lo strumento di esportazione del modo di vita e di pensare americano, e in opposizione a questo sistema nasce tutto il 45 Andy Warhol, Ambulance Disaster, 1963 Questa serie, che si era citata nella scorsa lezione, giunge totalmente inaspettata da un artista della Pop Art, soprattutto per modo in cui si è abituati a pensare questo movimento. Queste addirittura erano immagini che Warhol era andato a prendere nelle redazioni delle riviste e dei quotidiani, scartate perché considerate impubblicabili, troppo violente. Andy Warhol, White Burning Car III, 1962 Nell’immagine si vede ancora questa ripetizione. L’ultimo spazio è lasciato vuoto, aperto, come era avvenuto con la Coca-Cola, che lascia pensare a qualcosa, qualcuno dice ancora di trascendenza, al di là del disastro e della morte. In basso a destra si vede un’auto incendiata, che sembra essere il soggetto dell’immagine, e invece è un uomo di colore impiccato sul palo della strada. Quest’uomo aveva accelerato lungo una strada di Seattle, ribaltandosi e colpendo un palo della luce. L'impatto lo scaraventò giù dall'auto, impalando su uno spuntone da arrampicata. Un’opportuna traiettoria di lettura viene rilanciata e drammatizzata da Hal Foster nel suo Death in America, in cui il celebre critico e storico dell’arte americano analizza le famose immagini della serie Death and Disasters di Warhol: Lacan definisce il traumatico come un incontro mancato con il reale. In quanto mancato, il reale non può essere rappresentato: può solo essere ripetuto, anzi, deve essere ripetuto. La ripetizione in Warhol non è riproduzione nel senso o rappresentazione (di un referente) o simulazione (di un'immagine pura, un significante distaccato). Piuttosto, la ripetizione serve a schermare il reale inteso come traumatico. Ma proprio questo bisogno punta al reale, ed è proprio a questo punto che il reale rompe lo schermo della ripetizione. È una rottura non nel mondo ma nel soggetto, o meglio, è una rottura tra percezione e coscienza di un soggetto toccato da un'immagine. In Camera chiara (1980), Barthes chiama questo punto traumatico il punctum. È questo elemento che sorge dalla scena, ne scaturisce come una freccia, e mi trafigge. Barthes scrive: "È ciò che aggiungo alla fotografia e ciò che comunque è già lì". Questa confusione sulla posizione della rottura, o punctum, è una confusione tra soggetto e mondo, dentro e fuori. È un aspetto del trauma. In effetti, potrebbe essere questa confusione ad essere traumatica. In Camera chiara Barthes si occupa di fotografie semplici, quindi mette in relazione il punctum con i dettagli del contenuto. Questo è raramente il caso di Warhol. Eppure, c'è un punctum per me (Barthes precisa che è un effetto personale) nell'indifferenza del passante. Questa indifferenza per la vittima dell'incidente impalato sul palo del telefono è già abbastanza grave, ma la sua ripetizione è irritante, e questo indica il funzionamento generale del punctum a Warhol. Hal Foster, Death in America 46 In questa sua osservazione, a partire dalla questione della ripetizione e della differenza, Hal Foster riprende la questione del punctum introdotta da Roland Barthes, il quale, nel suo libro Camera chiara, aveva sostenuto l’esistenza di due modi di considerare un’immagine. Il primo, lo studium, la affronta in quanto oggetto di studio, ossia secondo una prospettiva di storico, sociologo, e in generale secondo un approccio disciplinare. Il secondo, ossia il punctum, dal latino pungere, fa riferimento ad un punto che emerge dall’immagine, rivolgendosi direttamente al singolo fruitore, che dunque affronta l’immagine per il suo aspetto soggettivo, che colpisce, punge, che fa pensare non a qualcosa che è illustrativo, nel senso dello studium, bensì porta a sollevare altre questioni assolutamente soggettive. Nel caso di questa immagine è molto interessante la riflessione proposta da Hal Foster: se il punctum, secondo un punto di vista comune a tutti, sembrerebbe essere l’uomo impiccato, che colpisce tutti quanti, il critico è ancora più colpito dall’indifferenza della persona che passa lì sotto. Con Warhol, e in particolare con la ripetizione, alla quale per la prima volta viene dato questo grande rilievo, emergono tutte queste questioni, assolutamente nuove in questa chiave e in questa modalità. Warhol ha smosso completamente l’arte contemporanea, anticipando tanti elementi e infatti ha un ritorno di successo dopo il decennio degli anni Settanta, in cui tutti gli rimproveravano di essere ripetitivo nel senso negativo del termine, ossia senza idee nuove. Negli anni Settanta è stato ripreso come campione dell’anticipazione di tanti temi del postmodernismo, perché è stato lo snodo. Nel 1961 Andy Warhol va a presentare le sue opere a Leo Castelli. Quel giorno il gallerista non era presente, e così Warhol viene accolto dall’assistente, che dopo aver visto le sue opere lo porta in magazzino. Lì, Warhol si trova di fronte le opere di un altro giovane artista che era passato sei mesi prima: Roy Lichtenstein. All’alba del 1961, Lichtenstein non solo ha già ripreso con anticipo i temi del fumetto, su cui stava lavorando anche Andy Warhol, ma lo sta facendo con quelle tinte piatte tipiche del fumetto, senza quegli aspetti pittorici cui Warhol era ancora legato. In quanto grafico e designer, Warhol coglie subito la grande novità delle opere di Lichtenstein, e decide così di cedergli il passo. Tornato a casa, dunque, si lancia nella ricerca di nuove idee, che non siano il fumetto ma che siano altrettanto in grado di rappresentare la società contemporanea in una maniera iconica: è così che arriva alla Campbell’s Soup, etc. Roy Lichtenstein, Braccio di Ferro, 1961 Con questa sua operazione, Lichtenstein mostra la complessità di qualcosa di apparentemente semplice: una vignetta di un fumetto ingrandita. L’ingrandimento è una modalità molto significativa che sarà assunta da diversi artisti, tra cui Cles Oldenburg, che rappresenta un cambio di scala, ossia un cambio di posizione dell’osservatore. Tuttavia, non si tratta solo di questo, in quanto questa operazione comporta in primis un prelievo, a cui non si pensa guardando un’immagine come questa: l’immagine, infatti, è stata tolta da una narrazione, da un flusso di immagini, da una sequenza, che le dà sempre un significato. Questa operazione di estrazione è ancora una volta un richiamo al ready made: Lichtenstein ha tolto l’immagine dal contesto, mettendola sotto lo sguardo dello spettatore per altri motivi, per evidenziare altre caratteristiche, etc. In questo senso, il prelievo mette lo spettatore nella condizione di concentrare l’attenzione su quell’immagine, che nella narrazione in qualche modo si perde, caricandola di significato. In questo caso, l’immagine rappresenta Popeye, che è un uomo semplice, che ha appena mangiato gli spinaci, come si vede dalla scatoletta aperta sulla sinistra. L’arte sono gli spinaci, dice Lichtenstein, o meglio, è quello che gli spinaci sono per Popeye, che attraverso di essi diventa super. 47 Roy Lichtenstein, Hopeless, 1963 Le frasi isolate nella nuvoletta acquistano con forza degli aspetti metaforici che all’interno di una narrazione generalmente verrebbero trascurati. Quella di Lichtenstein è una riflessione sull’arte stessa, su quello che l’artista sta facendo e sulla concezione dell’arte propone all’osservatore. È come se noi vedessimo l’artista che si rivolge a noi, che ci chiede di essere attivi, di interpretare, di partecipare, di seguire il racconto. L’arte, come si vedrà poi in altri esempi, sta chiedendo un ruolo sempre più attivo allo spettatore. Tutta la cultura, iniziata prima degli anni Sessanta, sta andando in questa direzione. La fenomenologia, che viene presentata negli anni Quaranta e che ebbe il suo sviluppo maggiore dopo la Seconda guerra mondiale, è impostata proprio su queste questioni: la conoscenza è un incontro tra le caratteristiche dell’oggetto e le caratteristiche del soggetto. Con Warhol e Lichtenstein si è passati a tutti gli effetti ad un ready made dell’immagine, e non più dell’oggetto. Tutti questi artisti, a partire da Warhol e Lichtenstein, prendono immagini già esistenti per farne poi un trattamento particolare. Roy Lichtenstein, Tensione, 1964 Questa immagine, estrapolata dal suo contesto, presumibilmente una scena in cui i due avevano avuto un problema, diventa l’immagine della tensione. La tensione a cui Lichtenstein fa riferimento è la tensione estetica: un personaggio è in bianco e nero, l’altro è a colori, e sono questi gli elementi che contano per un artista, che parla con il linguaggio visivo, non con quello verbale. A partire da quest’opera, Lichtenstein abbandona le stesure piatte iniziali, frutto ancora dell’influsso della pittura della generazione precedente, per concentrarsi sul fumetto, come si vede da tutti questi puntini che ricordano il retino tipografico. Quest’opera può sembrare la stampa ingrandita di una vignetta, invece è tutto rifatto a mano: tutti i puntini sono stati realizzati meticolosamente a mano con vernice e griglie traforate. Roy Lichtenstein, Hot-dog, 1963 Anche in quest’opera è presente il retino tipografico, il cui utilizzo significa che a Lichtenstein, come anche a Warhol, anche se questo aspetto in lui non era stato approfondito, non premeva solo l’immagine, ma anche la tecnica. Con questi artisti il ready made si estende a tutti gli aspetti dell’operazione artistica, che non è fatta soltanto dell’oggetto o dell’immagine, ma anche della tecnica, o meglio, della forma. In questo senso, Lichtenstein vuole fare dell’arte con la tecnica tipografica, e così facendo, in estrema sintesi, vuole trasformare il mondo in un fumetto. 50 Claes Oldenburg, Good Humor Bar, 1965 Verso la metà degli anni Sessanta Oldenburg inizia a pensare di collocare i suoi oggetti preferiti in un paesaggio. In questo caso, si tratta di un monumento colossale proposto per Park Avenue nel 1965, che però non venne mai realizzato. Questi monumenti non sono solo sculture su larga scala, che normalmente hanno tendono a inserirsi armonicamente nel sito in cui vengono realizzate. Al contrario, il progetto di Oldenburg l’avrebbe sconvolto. L’idea, infatti, era quella di impedire il flusso del traffico quotidiano, obbligando le automobili a passare all’interno del morso, che rappresenta il gesto del consumo, ed è esattamente questo quello che Oldenburg vuole comunicare con il suo progetto: il consumo detta la legge del comportamento. George Segal, The Dry Cleaning Store, 1964 La Pop Art dilaga negli Stati Uniti, e ben presto esce da New York. Uno dei primi artisti Pop che operarono al di fuori di New York è George Segal, nato a New York e vissuto in California. Nel lavoro di George Segal, la Pop Art incontra il realismo sociale. Frustrato dal modo in cui la cornice di un dipinto stabiliva i limiti spaziali, Segal iniziò a realizzare sculture a grandezza naturale, che sono definibili, ormai a tutti gli effetti, delle vere e proprie installazioni, e per questo motivo è un artista estremamente difficile da collezionare. Utilizzando un nuovo tipo di bende in gesso ad asciugatura rapida, Segal realizza dei calchi dei suoi modelli, di solito familiari o amici, che inserisce all’interno di ritratti di scene quotidiane, che trasmettono il senso di ciò che significa essere umani. George Segal, The Dinar, 1965 Nelle sue installazioni, Segal ricostruisce gli ambienti con gli oggetti stessi che si trovano al loro interno. Tutti gli oggetti, dunque, corrispondono a quello che sono nella realtà, mentre la presenza umana è ciò che viene rifatto dall’artista. L’essere umano diviene dunque una presenza in un certo senso fantasmatica, perché quello che vuole comunicare con questo tipo di installazioni è che la realtà che hanno gli oggetti è superiore a quella delle persone, secondo una visione del mondo rovesciato, per come viene visto da alcuni. 51 Ed Ruscha, Standard Station, 1963 Ed Ruscha è un influente pittore, incisore e fotografo di Los Angeles. Andando verso la metà degli anni Sessanta, a questo punto nella Pop Art inizia anche una ricerca di soggetti da raffigurare, che diventano i soggetti di dove è cambiato il mondo. È così che Ruscha approda alla stazione di servizio, una delle sue immagini più iconiche. In occasione della Biennale di Venezia il suo lavoro viene incluso nel padiglione americano, una specie di architettura neoclassica con un’entrata centrale e due ali perfettamente simmetriche. In un’ala ha messo questa serie di dipinti degli anni Sessanta, e in un’altra ala li ha rifatti per l’occasione, come a ribadire che in cinquant’anni le cose erano rimaste tali e quali. L’aspetto più curioso di questo dipinto è il suo trattamento piatto, non pittorico, senza alcun effetto, che al tempo stesso costituisce un’esasperazione geometrica che fa pensare, stranamente, alla pittura costruttivista dei russi, i quali, come si sa, non erano amatissimi dagli americani. 27/10/2022 Luca Maria Patella disvelato Capitolo 1. La formazione Luca Maria Patella, nato a Roma nel 1934, appartiene ad una generazione ancora molto giovane durante la grande diffusione dell’Informale. Quando questa generazione di artisti comincia a studiare e a rendersi conto dell’arte intorno a sé, l’Informale è già maturo ed estremamente diffuso, addirittura in una fase già stancante, in cui non ha più quel mordente sulla realtà che aveva convinto la generazione precedente. Quella di Patella, utilizzando le parole con cui la presenta Barilli, è la generazione in uscita dall’Informale. Il padre, Luigi, è un uomo di scienza, ma per interesse personale si occupa anche di cosmografia. Patella gli renderà omaggio in diverse occasioni, proprio richiamandosi a questa disciplina. Presa alla lettera, la cosmografia è la scienza del cosmo, e Patella ha proprio questa ambizione: tenere insieme tutto, secondo una visione dell’arte come unico ambito dell’attività umana in grado di tenere insieme tutti gli aspetti della cultura e dell’uomo. Gli altri ambiti, infatti, sono direzionati: la scienza privilegia la razionalità, l’arte classica va troppo verso l’intuizione, etc. Patella, dal canto suo, rivendica una formazione in entrambi gli ambiti, grazie al padre e, in seguito, in età più matura, per i suoi stessi interessi. La madre, Ambrosina, è una donna colta, conosce il francese, all’epoca la lingua delle persone di cultura, e scrive per sé, senza pubblicare. Ma Patella può vantare familiari di spessore risalendo ad una generazione ancora precedente: il nonno, Vincenzo, fu un medico e professore di patologia medica e semeiotica, oltre che scopritore di una malattia legata alla tubercolosi che prese il suo nome. Questa è la situazione in cui Luca Maria Patella cresce e che rivendica, un ambiente di cultura che gli garantisce un’educazione poliedrica, dalla creatività all’attenzione scientifica. 52 Pagina di un libretto ideato e illustrato da Patella, dettato alla zia Peggy, 1939. Altro vanto di Patella è quello di essere stato creativo sin da piccolo. Pare che già a cinque anni, infatti, dettasse dei racconti a sua zia, Peggy, un’altra importante figura della sua infanzia. Oltre a invogliarlo e a sostenerlo in questa pratica, Peggy gli insegna anche la lingua inglese, contribuendo così a completare la sua cultura e personalità. La prima formazione artistica La casa del giovane Patella, grazie ad un interesse diffuso in tutta la famiglia, è frequentata da diversi artisti. In particolare, una persona che ebbe un grande ruolo nella sua formazione artistica è Raoul Dal Molinalla Ferenzona, un artista di ambito simbolista e decadentista, il quale gli insegnò in particolare la tecnica dell’incisione, che sarà l’attività iniziale di Patella. Questo artista, appartenente ad una generazione più anziana, gli fece inoltre conoscere gli artisti internazionali simbolisti: Odilon Redon, Gustave Moreau, Georges Rouault, i cosiddetti visionari del simbolismo. Questa caratterizzazione di visionarietà vuole mettere l’accento sulla maggiore contemporaneità di questi simbolisti: se il Simbolismo è stato un fenomeno ottocentesco, Redon, Moreau e Rouault furono in grado di proiettarlo nel Novecento e nelle Avanguardie. Redon è considerabile un pre-surrealista, molti degli allievi di Moreau divennero esponenti dei fauves, un movimento artistico d’avanguardia, e Rouault appartiene addirittura della generazione successiva, tornando al Simbolismo in maturità, dopo essere stato cubista. Gli anni a Montepulciano Patella cresce circondato da donne colte, che lo incitano a coltivare i suoi aspetti creativi. La sua giovinezza, a ridosso della guerra, è molto travagliata, e Patella subisce molti spostamenti. Per questioni di lavoro del padre, ancora bambino si trasferisce con la famiglia a Milano, dove comincia gli studi. Continuando a spostarsi per tutta l’infanzia, Patella fatica a integrarsi, e in quegli anni non avrà grande vita sociale. Essere circondato da donne e continuare a trasferirsi, infatti, lo chiude rispetto all’empatia nei confronti degli altri, rendendolo un ragazzo solitario, isolato, che coltiva le sue cose e non trova riscontro se non in famiglia, in particolare presso i cugini e le cugine. Allo scoppio della guerra la famiglia si rifugia a Montepulciano, luogo che diventerà mitico per lui, dove frequenta le scuole medie e il ginnasio. Montepulciano è il luogo d’origine di un ramo della sua famiglia, quello più che benestante, ossia quello materno, dove la nonna ha dei possedimenti, e lì si trovano tutti i suoi cugini, che ben presto diventano il suo entourage. Di quegli anni Patella ricorda un episodio in particolare, un aneddoto della guerra abbastanza significativo nella sua memoria: si tratta del ricordo di un’incursione aerea. Un giorno, mentre si trovava in bicicletta, di ritorno dalla casa della nonna, un aereo inizia a mitragliare sulla strada in cui si trova, colpendo i passanti intorno a lui. Patella riesce a salvarsi buttandosi con la bicicletta in un fosso, e quando l’aereo torna indietro, forse per risparmiarlo in quanto bambino, non riprende il mitragliamento. Nonostante sia riuscito a salvarsi, Patella ha una prima esperienza della morte molto presto, un’esperienza molto forte e significativa, soprattutto per un bambino. Gli studi: Roma e Montevideo Finita la guerra la famiglia si trasferisce a Roma. Qui Patella frequenta il liceo classico Giulio Cesare, dove impara il latino e il greco, lingue che padroneggia ancora oggi, ed entra in contatto con i testi classici, che citerà nelle sue opere. 55 Guardando le immagini non si direbbe, perché con queste opere si è talmente allontanato dal realismo che avrebbe potuto realizzarle anche in casa, tuttavia, i soggetti di queste sue opere sono scenette quotidiane prese dal vivo. Patella, infatti, mantiene questa attenzione, e continua ad eseguire dal vivo: non disegna a memoria, di testa, ma davanti alle cose, interpretando quello che vede. Questo elemento sarà determinante nel suo successivo passaggio alla fotografia. In Donne, realizzata all’età di 27 anni, aggiunge per la prima volta un po’ di colore, delle sottolineature di azzurro attraverso le quali fa emergere alcuni particolari. Patella, infatti, non si accontenta mai, non esercita mai le tecniche così come sono state tramandate, secondo la tradizione, bensì le reinventa sempre: è un grande re-inventore, a tutti i livelli, e per questo è continuamente alla ricerca di innovazioni tecniche. Quando gli diedero la possibilità di lavorare nel laboratorio della calcografia nazionale di Roma, Patella si chiuse dentro tutta la notte a sperimentare, modificando il torchio per cambiare la modalità della stampa, i materiali, etc. In questi anni comincia anche a esporre, si dice con un certo successo, anche se non vi sono documentazioni che lo dimostrino. Tuttavia, si può dire con un certo grado di certezza che in questi anni entra nel giro delle esposizioni, cominciando a farsi notare, iniziando a trovare i primi riscontri. Gli studi di psicanalisi Se da una parte Patella è un instancabile sperimentatore in ambito tecnico, che quindi va a fondo nelle questioni pratiche e artigianali, dall’altra è anche un instancabile studioso di teoria dell’arte, che esercita in tutte le direzioni. Oltre all’ambito scientifico e di storia dell’arte, a questo punto allarga le sue ricerche e le sue curiosità all’ambito psicologico, in particolare psicanalitico. Patella non è un semplice curioso che vuole un’infarinatura di cultura generale, e anche in questo caso manifesta il suo interesse in maniera radicale, arrivando al livello più alto della sua ricerca. Se nella scienza era divenuto l’assistente di un collaboratore di un premio Nobel, nella psicanalisi studia presso lo psicanalista di prima generazione più famoso in Italia, Ernst Bernhard, un tedesco che trasferitosi a Roma nel dopoguerra, iniziatore della scuola psicanalitica junghiana in Italia. L’avvicinamento a Jung piuttosto che a Freud sarà importante nell’opera di Patella. In questi anni comincia a frequentare i più importanti critici d’arte di Roma, Argan e Gallese, i quali dedicano subito attenzione alla sua opera. Sguardo passante, 1962 In quest’opera le cose sono parecchio cambiate. Innanzitutto, il soggetto non sono più donne, bambini, passanti, bensì lo sguardo, uno sguardo che è esso stesso passante, come dice il titolo, che forse è arrivato dopo. Patella, infatti, come molti artisti che si ricostruiscono il passato a proprio interesse personale, mistifica molto i primi anni. L’idea, dunque, è quella di uno sguardo che è passante, e non più di una donna che passa, ed è questa la traslazione che sarà il tema fondamentale di questa fase, che è finalmente la prima originale di Patella. Gli anni a Parigi Nel 1962 si reca a Parigi a lavorare all’Atelier 17, che appartiene ad un re-inventore nel campo dell’incisione, Stanley William Hayter, che ha inventato l’uso dei colori simultanei. Fino a quel momento, nelle tecniche che passano attraverso una macchina (incisone, litografia, etc.), la lastra veniva passata ogni volta in un colore diverso, e non si poteva utilizzarne più d’uno contemporaneamente. Hayter ha inventato 56 una tecnica per poter colorare in un unico passaggio con colori diversi, e Patella si porta a casa da Parigi questa invenzione. A Parigi, sempre in una situazione di isolamento, frequentando le mostre conosce le opere di artisti ancora più vicini alla sua generazione: Masson, del Surrealismo storico, che nel dopoguerra continua per conto suo in una maniera originale, Gorky, che si era già visto nelle scorse lezioni, e Motherwell, il più giovane dell’Espressionismo astratto, ma con grandi interessi teorici, una figura molto rilevante e molto importante del gruppo degli espressionisti astratti. Presumibilmente in quegli anni vede anche le opere di Pollock. Questo suo interesse per il segno, riassumendo, passando attraverso il suo incontro dell’Espressionismo astratto e dintorni, diventa un interesse per un segno gestuale, come lo si era chiamato parlando di Informale. Questo, dunque, è l’attraversamento dell’Informale da parte di Patella, che Informale, di fatto, non è mai stato. In questi anni frequenta l’ambiente intellettuale parigino e comincia a interessarsi di semiotica e di politica. 03/11/2022 Uscita dall’Informale La situazione italiana durante il periodo di formazione di Patella, l’informazione nazionale che lui vede intorno a sé in quegli anni, dopo quella internazionale che si è vista nelle scorse lezioni, è descritta come da Barilli come la fase di uscita dall’Informale. In quegli anni, infatti, questo movimento si era ormai svuotato di efficacia di depredazione della realtà e dell’individuo, e a seguito del grande momento del ripensamento esistenziale, se non addirittura esistenzialista, venne il decennio della cosiddetta ricostruzione, termine che vale sia nel senso materiale del termine (ricostruzione dopo la distruzione della guerra), sia nel senso culturale e mentale (ricostruzione di un senso, di una nuova visione della realtà). 1960: mostra Possibilità di relazione Sia il volume di Barilli che quello di Poli fanno riferimento a delle esposizioni, perché è in questi contesti che avviene veramente la documentazione dell’opera: tanti artisti hanno retrodatato o raccontato alla loro maniera le cose, e per questo motivo gli storici cercano proprio dove le cose sono documentate, ossia nelle esposizioni, le quali, soprattutto negli ultimi decenni, sono diventate il cardine degli studi storici. L’esposizione a cui fa riferimento Barilli si intitolava «Possibilità di relazione», un titolo molto significativo, in quanto si tratta innanzitutto di una dichiarazione estetica: adesso poniamo la nostra attenzione sulle possibilità di rapporti, di relazioni. Non si tratta più, dunque, di un’asserzione, di una scelta, o di una posizione, come in questo caso nella scelta tra figurazione e astrattismo, quanto più di vedere quali possono essere i rapporti, intesi in senso costruttivo e positivo e, in altre parole, di ricostruzione. In particolare, questo gruppo di artisti, difesi dal critico Enrico Crispolti, curatore della mostra, lavorano sui rapporti tra figurazione e astrazione, e individuano le possibilità di relazione in nuclei di narrazione. Narrazione è una nozione importante, molto recuperata anche recentemente come strumento per dare senso alle cose, altrimenti abbandonate alla frammentazione, se non addirittura alla casualità e al non senso. È interessante che si parli nello specifico di nuclei di narrazione, ossia di condensati, e non veramente di una narrazione. L’immagine ha dei momenti di condensazione, che poi lo spettatore può sviluppare in una narrazione, e non si ha più, dunque, l’immagine che narra, ossia l’immagine figurativa nel senso tradizionale. Gli spostamenti avvengono anche su dettagli della riflessione, e con delle enormi conseguenze, tant’è che le immagini sono queste: 57 Tino Vaglieri, Composizione, 1960 Tra gli artisti più importanti di questa esposizione, con Tino Vaglieri siamo a metà tra la figurazione e l’astrazione. È interessante questa sua scelta di non scegliere, bensì di cercare la sintesi, un aspetto nuovo, senza né sintesi né contrapposizioni. Nuclei di narrazione, infatti, significa esattamente questo: non stiamo a perdere tempo a discutere se è figurativo o astratto, andiamo avanti e cerchiamo cose nuove. Queste cose nuove sono proprio il nucleo di narrazione. Valerio Adami, Interno, 1960 Valerio Adami, che si ritroverà in seguito in un altro contesto, inizialmente aderisce a questo filone di pensiero. Nonostante in seguito cambierà stile, resterà in lui quest’idea di ricostruire delle immagini che siano dei nuclei narrativi. Giuseppe Romagnoni, Racconto, 1961 All’epoca il più famoso, considerato il capofila di questa opzione estetica. Soprattutto in questi due artisti, Adani e Romagnoni, l’elaborazione è molto forte: non c’è più il completo abbandono al segno che si era visto nell’Informale, che parzialmente continua ad esserci anche qui. Gli artisti tornano a lavorare tantissimo l’immagine, la tela, la pittura, e in quest’aspetto si rilegge una mente che pensa a lungo, che riflette molto sull’immagine che sta producendo, e che non si abbandona a un gesto di sintesi, di liberazione, o di sfogo. 60 Benché per il momento si stia parlando soltanto di forme, l’idea è questa, e per distinguere l’uso della geometria e della modulità di questi artisti bisogna sottolineare questo aspetto: l’artista sembra più un designer. Il maggior rappresentante di questo filone cosiddetto dell’arte programmata, Bruno Munari, si conosce infatti più come designer. Bruno Munari, Negativo positivo, 1951 Munari ha un utilizzo particolare della geometria. Quest’opera rappresenta due forme, una blu e una rossa, che sembrano costituire la trasposizione dello yin e dello yang alla maniera di Munari: blu e rosso si incastrano l’uno nell’altro in maniera spiralica, per cui sembra che il rapporto sia in movimento, non fisso, e determina questi aspetti che sono invece il bianco e l’azzurro. Getulio Alviani, Linee luce, 1963 Alviani lavora soprattutto con lamiere, forse alluminio e altri metalli o leghe molto leggeri che fresa in una direzione piuttosto che in un’altra. Questo cattura la luce in modo diverso, che determina questo effetto visivo che sfora in quella che si chiama optical art, ossia arte come gioco ottico. Enzo Mari, Struttura, 1959 Anche Mari è più noto come designer piuttosto che come artista. In quest’opera le forme sembrano quasi quelle di dei cassetti, dei buchi con diversi colori e diverse profondità, che quindi reagiscono alla luce e all’ombra in maniera diversa. 61 Piero Manzoni Insieme a Castellani e Bonalumi, Manzoni fa parte del gruppo Azimuth, ma come si diceva con intenzioni diverse, che lo aprono ad una sperimentazione a tutto campo. Il termine sperimentazione è un termine estremamente importante. Questa somiglianza con il design, infatti, è proprio dovuta a questa impostazione: l’opera diventa un oggetto di sperimentazione. Sperimentazione, nel suo significato scientifico, è utilizzata in riferimento all’esperimento: formulo un’ipotesi e cerco di verificare attraverso esperimenti. Questo tipo di mentalità viene dunque traslata in arte: ho un’idea, e l’opera diventa la sperimentazione di quest’idea, e ciò permette all’artista di andare in direzioni diverse. Comincia così ad esserci un artista che non ha più uno stile che lo rende perfettamente riconoscibile, ma che a seconda dell’idea e della questione può, e in questo caso deve, prendere decisioni diverse, e quindi fare opere anche molto diverse tra loro. Manzoni è il primo a fare questa cosa. Tutto ciò viene da Marcel Duchamp, il quale, fino alla metà degli anni Cinquanta, era rimasto abbastanza nell’ombra, e che in quegli anni cominciava ad essere citato e chiamato in causa sempre più spesso. Duchamp era un tipo che se ne stava in disparte, non amava il mondo dell’arte o stare in prima fila, tanto che nel 1925 aveva dichiarato pubblicamente che non aveva più idee, e che per questo non avrebbe più fatto l’artista e si sarebbe dedicato ad altro. In realtà era molto amato in particolare dai Surrealisti, che lo chiamavano a fare le esposizioni, ma vi appariva sempre con quell’atteggiamento. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, in America la generazione di Jones, Rauschenberg, etc., inizia a richiamarlo fortemente, innanzitutto in quanto inventore del ready made, ma anche perché egli stesso si trovava Stati Uniti, dove fu molto influente su un artista che a sua volta aveva una grande influenza sui giovani, John Cage, più noto come musicista. Dagli Stati Uniti la sua fama riverbera, ritornando in Europa, e così anche gli italiani, e in generale gli artisti europei, lo riprendono in considerazione. Duchamp, come Manzoni, è stato il primo artista a fare cose diverse (ready made, sfere che ruotano, etc.). Piero Manzoni, Achrome, 1958 Il primo all’interno di Azimuth è l’Achrome, che non è il monocromo, il colore solo, bensì il senza colore, ossia la negazione del colore (a privativa), e quindi il non colore. Il bianco nel suo caso non è bianco nel senso di colore, bensì il colore scelto per svuotare il senso del colore a favore di una tela che si raggrinza, oppure, in altri casi, che si suddivide (tele con ritagli cuciti in maniera modulare). Queste opere sono particolarmente significative perché rivelano la sua idea di fondo: non si tratta di una riflessione sulla pittura, bensì di fare un balzo, un salto su un altro piano. Nell’invenzione di Manzoni la tela è come se fosse viva: queste pieghe sembrano essere le rughe del volto, le pieghe del corpo, quello che lui chiama l’organico, quindi non proprio come se fosse viva ma come se fosse organica. L’organico è in contrapposizione all’artificiale, formalista, aspetti legati al monocromo. Questo aspetto è estremamente importante perché porterà Manzoni tutto dalla parte dell’organico, che vuol dire il corpo, la vita. 62 Piero Manzoni, Achrome, 1961 Dopo la superficie, Manzoni abbandona la tela, per essere più chiaro ed esplicativo, e realizza dei corrispettivi acromi, che infatti continua a intitolare in questo modo, anche con materiali bianchi o, come nell’opera successiva, ricoperti di bianco: Piero Manzoni, Achrome, 1961 Queste michette sono bianche perché, come già si faceva con la tela, sono ricoperte da un impasto. In particolare, quello più usato è il caolino, sostanza che si usa nella ceramica. Piero Manzoni, Linea, 1960 Affrontando un argomento diverso questo tipo di artisti, come in questo caso Manzoni, trova soluzioni diverse, cambia completamente tecnica. Se l’argomento dell’acromo trova la superficie, quello della linea trova un’altra soluzione: la linea viene esposta in questo modo, all’interna di una scatola contenente un foglio con al centro una linea disegnata. A seconda della lunghezza del foglio, che è anche la lunghezza della linea, che lo traccia completamente, ogni linea è di una lunghezza diversa, specificata sull’etichetta della scatola. La linea più lunga che ha fatto è di 7200mt, realizzata senza ma interrompere il segno. 65 Piero Manzoni, Scultura vivente, 1960 In quest’opera non si ha più una modella utilizzata per essere rappresentata, bensì, come testimonia la fotografia, in cui Manzoni la sta firmando (ancora una volta si fa riprendere), l’opera è la modella stessa. Queste parti di corpo, che Manzoni chiama Sculture viventi, sono certificate con un tagliando, che attesta che si tratta di una vera e propria opera, in cui è scritto che tal persona è un’opera di Piero Manzoni, con persino una scadenza. Il fatto che l’oggetto che circola è il certificato e non è più l’opera, ossia la persona, introduce anche questa nuova forma di fare arte, che si realizza anche attraverso una certificazione. Piero Manzoni, Base magica, 1961 Come si evince a partire dal titolo dell’opera, Base magica, il discorso è questo: l’arte che è sempre stata dentro una cornice, quando bidimensionale, o su un piedistallo, quando tridimensionale. In questo senso, dunque, ciò che è dentro la cornice è arte, ciò che è fuori è realtà, ciò che è sopra il piedistallo è arte, ciò che è intorno è realtà. Manzoni ha lavorato anche su questa cosa: ha preso un piedistallo e vi ha disegnato delle sagome di piedi, in modo che chiunque salisse sul piedistallo potesse l’opera. In realtà, naturalmente, l’opera è il piedistallo, che è magico proprio in virtù della sua capacità di trasmettere il suo “essere opera”. Il piedistallo stesso normalmente non fa parte dell’opera, ma costituisce solo il suo appoggio, e tuttavia con Manzoni diviene l’opera stessa. Piero Manzoni, Socle du monde, 1961 L’esasperazione ultima di questa sua idea è Socle du monde (“zoccolo del mondo”): un piedistallo di metallo appoggiato al contrario su un campo in Danimarca. Ciò che comunica l’opera è che tutto il mondo, che si trova sullo zoccolo, è diventato l’opera di Manzoni. 66 Nouveau Réalisme Manzoni inseguiva un artista che lo aveva colpito molto, che prima di lui aveva inventato e introdotto tante di queste idee che poi Manzoni aveva rielaborato: Yves Klein. Nonostante avesse uno stile completamente diverso, Klein era considerato il capofila del movimento artistico cosiddetto del Nouveau Réalisme, tradotto in italiano come Nuovo Realismo (il Neo Realismo italiano è un’altra cosa). Come si capisce dal nome, ogni volta che c’è il termine realismo è perché ci si rende conto che la realtà è cambiata, e quindi ci si ripone la domanda: di che realtà stiamo parlando, e di quale rapporto con la realtà? Nel caso del Nouveau Réalisme, come di altri movimenti ad esso paralleli, si tratta dunque della presa d’atto che si è passati ad una società sempre più industrializzata, quella di massa e dei consumi. Mentre la Pop Art, sviluppatasi parallelamente a questo movimento, si era fatta carico di questo cambiamento attraverso la raffigurazione, in maniera tipicamente europea il Nouveau Réalisme aveva messo in atto una critica nei confronti di questa società: se la Pop Art, in altre parole, si era limitata a rispecchiare la società a lei contemporanea, gli europei avevano assunto una posizione nettamente più critica. Lo strumento principale per trasmettere questa questione, in maniera macroscopica e evidente in termini d’immagine, è la pubblicità, che costituiva il mezzo di comunicazione principale della società: contemporaneamente, in tre posti diversi, tre artisti, che poi confluiscono nel Nouveau Réalisme, tra cui Mimmo Rotella, hanno l’idea di prendere direttamente la pubblicità nel suo aspetto materiale, ossia i manifesti pubblicitari, agendo in modi diversi su di essi. Mimmo Rotella, Sul muro, 1958 Come si sa, negli spazi pubblicitari i manifesti sono spesso incollati uno sopra l’altro, finché lo spessore diventa insostenibile e si strappa tutto e si ricomincia da capo. Quando si osserva un manifesto, dunque, si vede quello sopra, ma ce ne sono diversi sotto. L’idea di Mimmo Rotella, in questo senso, è quella di strappare i manifesti e mostrare quello che c’è sotto, ritrovando una possibilità creativa, compositiva, giocando direttamente con gli strati, senza alcun intervento pittorico. Questo tipo di operazione è l’esatto opposto del collage, e per questo motivo lo strappo viene chiamato con il termine francese décollage. C’è un elemento in particolare da mettere in evidenza, esito della riflessione di Rotella su un argomento tipico estetico e artistico che gli italiani sentono ancora molto in quel periodo, ossia il rapporto tra figurazione e astrattismo. Naturalmente, i manifesti originali sono essenzialmente figurativi, salvo per alcuni interventi grafici considerabili astratti. Rotella, in questo senso, gioca nello strappo tra figurazione e astrazione, individuando una specie di spazio intermedio. Anche Rauschenberg aveva pensato a una cosa di questo genere, in altri termini, una tecnica che tuttavia aveva chiamato combined painting, quindi collocandosi ancora nell’ambito della pittura: il suo rimando era ancora alla pittura, ma combinata con elementi extra-pittorici. Nelle interviste insiste molto su questo: ciò che voleva fare non era una vera e propria pittura, bensì qualcosa che si collocasse in mezzo tra scultura e pittura. 67 Mimmo Rotella, A rosso, 1962 Questo è più evidente: sotto c’era un volto che viene fuori dallo strappo, e sembra proprio che la persona, che esce da una breccia della superficie che è astratta, sorride dall’altra parte. Anche lo strappo delle parole: la parola occhi, etc. Mimmo Rotella, Marilyn, 1963 Mimmo Rotella, Il bacio, 1962 Secondo aspetto importante dell’opera di Rotella è il cinema, di cui queste opere costituiscono due esempi. Rotella era di Roma, e questi erano gli anni di maggior fioritura di Cinecittà: gli spazi pubblicitari romani erano occupati o dalle pubblicità di merci o da manifesti cinematografici. L’opera di sinistra ricorda i fumetti di Lichtenstein: il bacio, per il fatto di essere isolato e non per dire il film, quanto per attirare l’attenzione sulla singola scena, diventa l’idea di arte. L’arte, come la pubblicità, come il cinema, è una seduzione. A destra l’indimenticabile manifesto con Marilyn, strappato. Rotella strappava illegalmente i manifesti esposti. Con la sua opera si introduce dunque anche questo aspetto, che poi è stato enfatizzato, ossia l’idea che l’arte sia anche un esercizio illegale, dentro una società che critica in maniera molto radicale. A Rotella interessa sottolineare questo aspetto. È comunque interessante il fatto che la pubblicità sia protetta dalla legge: la società protegge attraverso la legge una sua manifestazione che di fatto non è governativa, pubblica, in quanto è l’industria privata che si fa la pubblicità e che la vende. Altro aspetto da sottolineare, che si mantiene per tutti gli artisti del Nouveau Réalisme, è un aspetto intrinseco alla strategia di interventi critici di questo filone nei confronti della società, ossia l’aspetto di 70 Daniel Spoerri, La tavola blu, 1963 Spoerri apre un locale dove mangiare, e alla fine dei pasti invece che buttare tutto incolla ciò che rimane sulla tavola, per poi metterlo sotto plexiglass ed esporlo. Christo, Piazza della Scala Christo è forse il più famoso di tutti, e la sua operazione più riconducibile al Nouveau Réalisme è quella dell’impacchettamento. In queste sue opere si capisce bene un altro aspetto dell’ambivalenza di cui si era parlato: Christo nasconde, impacchetta, ma lo fa in maniera stretta, per cui è ancora possibile vedere quello che c’è sotto. L’idea è quella della censura, che consiste nel coprire una parola rendendola illeggibile. Al contempo, tuttavia, si rende leggibile proprio questo processo di censura, che porta a chiedersi per quale motivo sia stato attuato. È in questo modo, dunque, che scatta il meccanismo di scoprire cosa ci sia in Piazza della Scala: nonostante ci si è passati svariate volte, per un automatismo si è portati a passare e non guardare, soprattutto se è un luogo di passaggio. Il meccanismo introdotto da Christo, in altre parole, consiste nel sottrarre allo sguardo proprio per accentuare l’attenzione dello spettatore. Christo, Reichstag impacchettato, 1971 Christo ha portato questi meccanismi a livelli mastodontici, per cui c’è anche un aspetto gigantesco dell’operazione artistica, che comincia a costare delle cifre altissime, innescando una serie di altri meccanismi. Guardando un dipinto generalmente non si pensa a quanto possa essere costato a livello di materiali: al contrario, nel caso di Christo, questo è uno degli aspetti normalmente non considerati che vengono messi in evidenza. 71 Christo, Costa impacchettato, 1969 Con Christo si passa inoltre alla cosiddetta Land Art, l’arte che interviene a livello del paesaggio, che si ritrova in un altro capitolo del manuale. Jean Tinguely, Fontana, 1963 Tinguely ha riciclato i rifiuti meccanici, tipo cimitero delle automobili, e ha riassemblato i pezzi in modo da creare non più una macchina, un altro dei simboli della società industriale, bensì uno strumento giocoso, che serve solo a far casino oppure, in alcuni casi, produce anche dei disegni. Ancora una volta, dunque, un artista propone il tema del riciclo, del rifiuto riutilizzato. Jean Tinguely, Homage à New York, 1962 Nel 1962 Tinguely viene invitato a fare un’esposizione al MoMA, che in quegli anni costituiva un vero e proprio tempio dell’arte internazionale. Quell’invito, dunque, rappresentava una vera e propria consacrazione, ma lo spirito critico di questi artisti li spinge a reagire a questo aspetto puramente apologetico, consacratorio e mercantile dei musei americani. Tinguely realizza una delle sue sculture nei giardini del museo, mettendolo in azione la sera dell’inaugurazione. Dopo un breve fracasso durato per qualche secondo, l’opera implode distruggendosi: questo è il gesto beffardo dell’artista, che critica quegli aspetti del mondo dell’arte della società americana, per la quale, alla fine, non resta niente e si butta tutto quanto. 72 César, Dauphine, 1959 Un altro artista importante e César, il quale mette in atto un’altra operazione di recupero, realizzata in un altro modo ancora, ma altrettanto significativa. Prendendo delle automobili dal cimitero delle automobili, dopo che sono state schiacciate dalla pressa, le espone direttamente come sculture. César, Compressione, 1963 Quest’automobile è stata schiacciata a formare un parallelepipedo. Soprattutto in questa immagine si ritrova quell’aspetto di décollage che si era visto precedentemente: colori, forme, lettere o parole che emergono e si combinano in una maniera imprevista. Yves Klein Citato precedentemente per il suo ruolo nella formazione di Manzoni, Klein espone per la prima volta a Milano un gruppo di opere, che colpiscono Manzoni al punto da spingerlo a cominciare, a partire da quel momento, a realizzare i suoi acromi. Infatti, Klein è uno di quegli artisti che per una strada arriva al monocromo, ossia alla tela di un unico colore. Yves Klein, Espressione dell’universo del colore arancio, 1955 Soprattutto all’inizio, i dipinti di Klein sono estremamente omogenei, e in questo caso si ha un’intera una tela dipinta di un unico colore. Il titolo dell’opera rappresenta l’idea, la strada da cui arriva Klein: non l’astrattismo pittorico, come si vedrà in altri casi, che porterà all’arte minimal. Klein, infatti, non fa parte della Minimal Art, bensì del Nouveau Réalisme: arriva per un'altra strada, quella spiritualista, e ciò che gli interessa è l’espressione del colore, che nella sua opera diventa un intero universo. 75 In questo caso, Klein non vende l'oggetto-opera d'arte, e in questo senso, dunque, non è l’opera l’oggetto dell’arte: è la sensibilità, immateriale, che per ragioni storiche si incarna in un’opera-oggetto. Questa sensibilità si può disincarnare, vendendola direttamente attraverso un certificato. Anche in questo caso, i certificati di Manzoni vengono da qui. Arte cinetica Altro movimento legato al contesto milanese, stranamente difeso, nonostante la grande distanza, da Azimut e dallo stesso Manzoni, è l’Arte cinetica, che introduce il movimento reale dentro l’opera. Molti movimenti, come era stato il caso anche dell’Arte programmata, si sviluppano nel Nord Italia, dove c’è una mentalità e soprattutto una vera e propria professione che sta crescendo, quella del designer e del grafico. Tutti questi movimenti, nati parallelamente, non sono altro che la trasposizione di questa mentalità nel mondo dell’arte, e introducono il movimento reale, dunque, non rappresentato, bensì, appunto, reale. Gianni Colombo, Struttura pulsante, 1959 Gianni Colombo è l’artista più famoso di questo movimento. La sua prima opera, Struttura pulsante, è costituita da mattoncini in polistirolo bianco che vengono incollati su una tela. Dietro l’opera si trova un motorino, il quale, consente il movimento della superficie, che in questo modo appare sempre pulsante. Gianni Colombo, Spazio elastico, 1966-67 La sua opera probabilmente più famosa, che occupa un’intera stanza, è il cosiddetto Spazio elastico. Si tratta di una stanza dalle pareti tutte nere, anche il pavimento, che dunque spesso è al buio, illuminata con la luce di Wood, quella ultravioletta, che evidenzia soltanto i fili, che essendo bianchi brillano. Lo spettatore si trova dunque all’interno di uno spazio completamente buio, mentre tutti questi fili bianchi si muovono intorno a lui. L’effetto, dunque, è quello di un fortissimo disequilibrio. Colombo ha realizzato anche dei percorsi sconquassati, per cui non riuscendo ad appoggiare bene i piedi lo spettatore prova questo senso di disequilibrio percettivo, che ancora una volta educa lo sguardo, la percezione, la sensibilità, laddove ha sempre governato un automatismo: se camminiamo normalmente non ci facciamo caso, ma se lo facciamo su un terreno accidentato allora l’azione diventa consapevole, e al tempo stesso singolare, particolare, straniante. 76 Davide Boriani, Superficie magnetica, 1959-62 Giovanni Anceschi, Vetroliquido rosso, 1959 Altri due artisti di questo movimento sono Davide Boriani e Giovanni Anceschi, che hanno realizzato delle opere, nelle quali, ancora una volta, è presente un movimento reale. All’interno di contenitori hanno messo della sabbia o dei liquidi, i quali, muovendosi, cambiano conformazione. Pol Bury, Erettile, 1962 Altri artisti stranieri hanno fatto cose molto singolari. Pol Bury, ad esempio, ha posto su una tela dei fili molto sottili, dotati di una punta luminosa. Per spostarli è sufficiente la presenza di un filo d’aria, per cui la composizione dell’opera cambia in continuazione. Rafael Soto, Penetrabile, 1969 Simile è il caso di questa installazione di Rafael Soto, dove lo spettatore si ritrova ad attraversare questo ambiente pieno di fili, che determina una percezione particolare. 77 Roma Il ruolo che Manzoni e Castellani hanno avuto a Milano, a Roma lo ha Francesco Lo Savio, che fa un altro tipo di monocromo. Franceso Lo Savio Lo Savio realizza un altro tipo di monocromo, perché ha un’altra idea: quello che a lui interessa è la luce. Il monocromo, per lui, è il filtro della luce, un modo per dare la gradazione della luce. Naturalmente, luce vuol dire colore, ed ecco il titolo di questo suo ciclo di opere: Filtro cromatico. Francesco Lo Savio, Filtro cromatico, 1960 In quest’opera, e in altre analoghe, Lo Savio adotta un tipo particolare di forme: il rettangolo, che ripete la forma del quadro internamente, ed il cerchio, al suo interno, che lo “buca”. Utilizza materiali diversi, anche sperimentali, come ad esempio delle carte oleate, semitrasparenti, oppure strati di pittura e colore diversi. Barilli, nel presentare questo movimento, lo lega, come era avvenuto anche con i milanesi, ad una sostanziale adesione al mondo industriale, che si ritrova nell’astrattismo, nella geometria, nell’ordine e nella razionalità. Tuttavia, i romani sono ancora più concreti dei milanesi. Francesco Lo Savio, Metallo opaco nero, 1960 Dopo i filtri, Lo Savio passa all’aggetto: la superficie diventa aggettante. Nel caso a destra si piega e si sviluppa tridimensionalmente nello spazio, nel caso sotto in un certo senso si “sfoglia”, moltiplicandosi su un lato. Le superfici sono in metallo, e per lo più nere o di colorazione molto scura. L’idea è ancora quella della luce: dove picchia la luce diventa un rivelatore del funzionamento della luce. 80 Mario Schifano, Senza titolo, 1966 Mario Schifano, Senza titolo, 1968 Schifano ha l’idea di fotografare lo schermo televisivo, che stampa con una tecnica appena messa a punto in quegli anni, la tecnica cosiddetta della tela emulsionata: invece che dipingere la tela, al di sopra viene stesa un’emulsione, come su una lastra fotografica, così che si possa stampare direttamente sulla tela un’immagine fotografica, che poi rielabora, colorandola. Nell’immagine di sinistra Schifano prende come soggetto un incidente, come aveva fatto in precedenza Andy Warhol, oppure, nell’immagine di destra, e questa è la particolarità italiana, prende i soggetti della storia dell’arte, ma passati alla televisione. Scuola di Piazza del Popolo Altri tre compagni di squadra della Scuola di Piazza del Popolo sono Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, ciascuno dei quali si specializza in un filone. Franco Angeli, La Lupa capitolina, 1964 Il tema principale di Angeli è il potere, che propone nelle sue opere attraverso i suoi marchi. Il marchio del potere romano, ad esempio, è la Lupa capitolina, di cui lui riprende la sagoma, esattamente come se fosse un marchio, rielaborandolo in modi diversi. 81 Franco Angeli, Half Dollard, 1964 Altro marchio del potere, in questo caso degli Stati Uniti, è il dollaro. Il marchio del dollaro è realizzato a stencil, ed è dunque quest’ultimo a determinare la composizione. Questo significa che l’artista lavora dentro all’immagine, che è già data, come se fosse un ready made. Lo stencil, in questo senso, è usato come strumento di appropriazione dell’immagine ready made, dentro alla quale l’artista realizza le sue variazioni. Tano Festa, La creazione dell’uomo, 1964 Tano Festa è colui che, tra i tre, più usa le immagini dell’arte. La stragrande maggioranza delle sue immagini sono tratte dal sistema turistico: la Cappella Sistina, con il dito di Dio che si unisce a quello di Adamo nell’atto della Creazione, sono immagini quasi da “cartolina”. Giosetta Fioroni, Giovinetta, 1961 L’immagine è quella della donna, così come è veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, e al tempo stesso caricata di un forte senso di empatia, come si vede dalla lacrima, che l’immagine al di sotto non ha, e dal suo sguardo particolarmente introspettivo, interrogativo. Quest’opera si colloca, dunque, a metà tra la critica e l’identificazione. 81 Franco Angeli, Half Dollard, 1964 Altro marchio del potere, in questo caso degli Stati Uniti, è il dollaro. Il marchio del dollaro è realizzato a stencil, ed è dunque quest’ultimo a determinare la composizione. Questo significa che l’artista lavora dentro all’immagine, che è già data, come se fosse un ready made. Lo stencil, in questo senso, è usato come strumento di appropriazione dell’immagine ready made, dentro alla quale l’artista realizza le sue variazioni. Tano Festa, La creazione dell’uomo, 1964 Tano Festa è colui che, tra i tre, più usa le immagini dell’arte. La stragrande maggioranza delle sue immagini sono tratte dal sistema turistico: la Cappella Sistina, con il dito di Dio che si unisce a quello di Adamo nell’atto della Creazione, sono immagini quasi da “cartolina”. Giosetta Fioroni, Giovinetta, 1961 L’immagine è quella della donna, così come è veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, e al tempo stesso caricata di un forte senso di empatia, come si vede dalla lacrima, che l’immagine al di sotto non ha, e dal suo sguardo particolarmente introspettivo, interrogativo. Quest’opera si colloca, dunque, a metà tra la critica e l’identificazione. 84 Mario Ceroli, Mister Muscolo, 1965 Mario Ceroli, La casa di Dante, 1965 Altro compagno di strada in questo momento verso l’Arte Povera è Mario Cerioli, insieme poi a Gino Marotta, artisti che per la verità sono abbastanza scomparsi. Questi tre artisti hanno in comune il fatto che come mestiere, per sbarcare il lunario, lavoravano molto nel cinema e nel teatro, realizzando le scenografie, come si vede bene soprattutto in Ceroli. Questa idea della scenografia evidentemente li porta a concepire lo spazio come installazione, come scena teatrale che occupa tutta una stanza e che ha l’abitudine di inglobare lo spettatore. La specialità di Ceroli è l’uso del materiale povero, un legno volutamente lasciato grezzo, e la ripetizione delle figure, ben visibile in Mister Muscolo, preso da una pubblicità di quegli anni. In alcuni casi la ripetizione è molto più marcata, e diventa la sua cifra stilistica. Gino Marotta, 1966 Altra faccia di questo passaggio, che sembra opposta ma nasce dallo stesso atteggiamento, è quella di Gino Marotta. Differentemente da Cerioli, Marotta fa largo uso della plastica, in un certo senso considerabile all’opposto del legno grezzo, in quanto all’epoca era l’idea della tecnologia, il materiale dell’industrializzazione. Tuttavia, l’idea era la medesima: quella della scenografia, anche se nel suo caso non necessariamente basata sulla ripetizione. C’è comunque un principio di rappresentazione anche in questo caso, data da questa restituzione tridimensionale degli alberi, rappresentati da punti diversi. 85 Domenico Gnoli, Senza titolo, 1965 Domenico Gnoli, Senza titolo, 1968 Tra gli outsiders del movimento si cita anche Domenico Gnoli, un artista umbro che ha lavorato autonomamente e che è stato riscoperto solo in seguito, che realizza questi enormi ingrandimenti a livello pittorico. L’ingrandimento è un’altra delle grandi modalità della Pop Art, utilizzato da Oldenburg con gli oggetti, in tridimensionalità, ma anche da altri pittori pop che giocarono sul cambio di scala. In Gnoli c’è una grande attenzione per il dettaglio, che si era visto anche in Pezzi di donna. Queste tipologie opere vanno in direzione di questi ingrandimenti, di attenzione per il dettaglio, per le forme che si presentano quando vengono ingrandite, ossia quando vengono isolate e si concentra l’attenzione su di esse. Questo è nuovamente ready made, e costituisce il modo in cui viene riproposto cinquant’anni dopo. Pop Art in altre città d’Italia Nel resto d’Italia venne proposta una Pop Art in un certo senso sui generis, in quanto gli unici artisti Pop, considerabili propriamente tali nel senso americano e inglese dell’espressione, sono quelli di Piazza del Popolo (Schifano, etc.). In Italia c’è stato naturalmente un diverso trattamento della questione Pop, che ora vediamo in altre città. - Palermo: il Gruppo 63 Barilli propone uno strano ma interessante collegamento con il Gruppo 63, il gruppo letterario in Italia tra i più interessanti di quegli anni. Nel 1963 si tiene a Palermo l’incontro che sigilla questa denominazione, e tra i membri del gruppo si citano Balestrini, Sanguineti, Giuliani, Eco, Porta, Arbasino, etc. Questa caratterizzazione di sperimentalismo dà il senso di una situazione italiana in cui gli artisti individualmente percepiscono un’aria di cambiamento, e sperimentano in varie direzioni. Nel caso deI Gruppo 63 questa sperimentazione avviene in letteratura. - Pistoia: Busconi, Barni, Ruffi Fa parte dello schema di Barilli questo gruppo di Pistoia, che tuttavia non è particolarmente importante. Lo si cita per sottolineare come sia possibile disegnare una geografia di questa diffusione di sperimentalismo dell’atmosfera Pop. - Torino (verso l’Arte Povera): Pistoletto, Gilardi, Mondino, Nespolo La situazione più interessante è a Torino. Tra questi artisti i protagonisti del gruppo dell’Arte Povera sono sicuramente Pistoletto, il quale, essendo più anziano, ha cominciato prima con grande successo, arrivando ad esporre a Leo Castelli a New York, e Gilardi. Questi due artisti saranno portati dentro la situazione 86 dell’Arte Povera non direttamente dal critico ufficiale dell’arte povera, Germano Cela, ma da altri. Seguono Mondino e Nespolo. Michelangelo Pistoletto, Quadri specchianti, anni ‘60 Il più importante di questi artisti è sicuramente Pistoletto, che inventa una modalità completamente nuova: il quadro specchiante. L’immagine della sala intera rende l’idea del tipo di installazione: sugli specchi sono applicate delle figure fotografiche scontornate, per cui quando lo spettatore si trova davanti allo specchio, ed è anch’egli specchiato, entra in relazione con queste figure. In questo modo l’opera diventa in parte viva, cangiante, determinando un contrasto che è molto significativo. Inoltre, Pistoletto introduce un tema che svilupperà anche negli anni seguenti, con opere anche molto diverse: quello che si vede nello specchio è ciò che è dietro di te, e dunque c’è anche questo elemento di rovesciamento della retro-visione. L’idea dello specchio è stata una grande trovata, che in quegli anni scatena commenti su tutti i punti di vista (entrata dentro l’opera, fase dello specchio in psicanalisi, resa nota proprio in quegli anni da Lacan, etc.), ed è stata inoltre una grande invenzione che Pistoletto non ha mancato di sfruttare, in quanto costituisce la parte della sua opera più importante, tanto che ad oggi il mercato chiede di lui quasi esclusivamente questo tipo di opere, che infatti sta riproponendo in chiave rinnovata. Piero Gilardi, Tappeti natura, anni ‘60 Altro artista che in quegli anni centra un tema estremamente importante ed efficace, tornato recentemente al centro dell’attenzione, è Piero Gilardi. All’epoca realizza questi Tappeti natura sono dei frammenti, dettagli non ingranditi, in questo caso mantenuti a grandezza naturale, di angoli di natura (spiaggia, bosco, fiume, etc.), realizzati in poliuretano. Attualmente a Torino organizza esposizioni temporanee in continuazione, dove si occupa proprio di queste tematiche, ma realizzate in modo molto tecnologizzato, con ambienti che si muovono, che parlano, a tutti gli effetti multimediali e multisensoriali. Sia Gilardi che Pistoletto hanno una tale incisività, sia tematica che in termini di innovazione, da arrivare alle gallerie più importanti del mondo, tra le quali quella di Leo Castelli a New York. Gli Stati Uniti spesso chiedevano agli artisti di radicarsi nel territorio, cosa che tanti artisti, soprattutto italiani, non avevano voluto, in quanto non si sentivano vicini alle ideologie del mercato americano, che spingeva gli artisti di successo a produrre decine di opere anche tutte uguali tra loro, come in un’industria, nell’ottica di una trasformazione dell’arte in merce, piuttosto che in un colpo di genio creativo. Prendendo ad esempio gli studi degli artisti americani di successo, questi erano divisi in piani, con persone che realizzavano opere con minime variazioni che, per quanto progettate dall’artista stesso, erano eseguite come in una vera e propria catena di montaggio. 89 Valerio Adami, Interno, 1965 Valerio Adami, Interno, 1967 Nel caso di Adani, specializzato nel disegno, osservando questi contorni neri spessi si vede bene c’è una mano che deforma, ritaglia le figure, per poi assemblarle con pezzi diversi, operando una riflessione sulle questioni, e non in una maniera meramente illustrativa. In questi anni sta nascendo l’Arte Concettuale, in cui il concetto, il pensiero, l’idea, inizia ad ottenere un’evidenza, se non addirittura un posto di primo piano, rispetto alle altre questioni estetiche. Si parla di Pop, in relazione a questi artisti, essenzialmente per questioni quasi puramente stilistiche, che rimandano ad alcuni artisti sia americani, e in questo caso soprattutto inglesi, del movimento della Pop Art. L’immagine di sinistra è la casa, il bagno, la quotidianità, ma anche si ha una frammentazione della figura dietro le tende del bagno, che la spezzano a metà. La stessa cosa avviene nell’immagine di destra, in cui la linea del divano taglia realmente il corpo, che sarebbe dietro, e invece è diviso come se si trovasse davanti: è la compenetrazione dentro lo spazio. Il mentore di Adami, un critico anche scrittore che nelle arti visive faceva il critico invece che l’artista, a lui molto vicino, è Emilio Tadini. Emilio Tadini, Paesaggio di Malevic, 1971 A partire dall’inizio degli anni Settanta inizia a dipingere anche Tadini, ottenendo un enorme successo che lo accompagnerà per tutta la vita, soprattutto nel Nord Italia. Tadini dà la sua versione, molto vicina a quella di Adami, usando questo fondo bianco, su cui staglia degli oggetti in una maniera che ricorda il De Chirico metafisico, ossia mettendo insieme cose che insieme nono stanno, inducendo in questo modo ad una riflessione su quale possa essere il rapporto. In quest’opera si ritrovano sia oggetti della quotidianità che rimandi all’arte (la forma gialla costituisce un richiamo a un famoso dipinto di Malevic, nominato nello stesso titolo), e addirittura le parole. La parola arte, in questo senso, vuole dire: c’è una strada che porta da Malevic a me, e in questo modo Tadini dà la definizione propriamente di arte, invitando lo spettatore a coglierla. Ciascuno degli oggetti ha un significato: la lampada dice che è una questione di luce, gli occhiali che è una questione di visione, le cesoie che è una questione di taglio. 90 Lucio Del Pezzo, Casellari, 1966 L’artista considerabile il più Pop di tutti, insieme a Pozzati, è Lucio del Pezzo. Originario della Campania, Del Pezzo ha anch’egli questa specialità: anche la sua opera ricorda la metafisica, considerabile in un certo senso una via maestra dell’arte italiana, che si ritrova ancora oggi in artisti anche molto diversi tra loro. La metafisica di De Chirico, intesa come maniera di guardare la realtà e di mettere insieme gli oggetti, è rimasta molto nell’arte italiana, in particolare in quegli accostamenti incongrui che inducono naturalmente a pensare oltre la fisica. Metafisica significa proprio questo: si basa su quest’atmosfera straniante, curiosa o, come la chiameranno i Surrealisti, onirica. Nel caso di Lucio Del Pezzo si tratta dei casellari, la forma più usata da questo artista, superfici e anche costruzioni aggettanti, un po’ tridimensionali, divise in caselle, ognuna delle quali contiene un elemento. L’idea del casellario è simile a quella dell’archivio, oggi molto in auge, della collezione, del vocabolario. Concetto Pozzati, Pere, 1967 Con Pozzati si passa a Bologna. Anche qui il verso della ripetizione rimanda a Ceroli. Nel suo caso, tuttavia, sono dipinte. L’uso dei colori molto accesi, e dunque non naturalistici, lo porta perfettamente in ambiente Pop. I soggetti delle sue opere variano, e all’inizio sono molto quotidiani, semplici, ripetuti, come la frutta, in questo caso le pere. 91 15/11/2022 Luca Maria Patella disvelato Capitolo 2. Con & senza peso Questa formula, che Patella stesso ha utilizzato, indica non un semplice e, ma un e intrinseco: & vuol dire inseparabilmente, con e senza. Ad oggi, ad esempio, parla di arte & non arte: non c’è l’una senza l’altra. Tornato da Parigi, dove ha imparato le tecniche di colorazione e incisione, in questa fase della sua vita è molto interessato alla tecnica dell’incisione, che rimarrà importante per tutta la sua vita. Se negli anni della maturità sarà più dei momenti, dei ritorni, delle riprese, in questa fase, invece, è proprio la sua attività principale, se non esclusiva. Tornato a Roma trova lavoro alla Calcografia Nazionale di Roma, cui rimarrà legato per tutta la vita, forse l’unica istituzione cui sente di dovere una grande riconoscenza, perché in quegli anni gli mette a disposizione un grande spazio da utilizzare come laboratorio, fornendogli persino le chiavi, consentendogli così di frequentarla a suo piacimento. Patella non si accontenta di usare gli strumenti che ha a disposizione: li modifica, li reinventa, e in alcuni casi inventa delle tecniche supplementari che sviluppano le solite della litografia, serigrafia, incisione, nelle loro diverse applicazioni. Alchimia Patella vive questo laboratorio come un vero e proprio laboratorio alchemico. L’alchimia avrà un grosso ruolo nella sua vita, e lo ha tutt’ora, in quanto sta tornando in maniera centrale nei suoi ultimi anni. Alchimia significa vivere la condizione artistica come un grande impegno esistenziale, dove mettere in gioco tutto se stesso. L’alchimia ha significato questo nella riscoperta che se ne è fatta nel XX secolo: non è semplicemente un mestiere, o una professione, bensì è una sfida, una scommessa. A questo punto inizia ad entrare in scena Jung, prima pupillo di Freud e poi suo antagonista (si allontanerà di molto dall’idea freudiana della psicanalisi), e si vede bene proprio per l’interesse nei confronti dell’alchimia: il lavoro con le sostanze è caricato di valore simbolico. Mentre la psicanalisi freudiana va verso l’analisi della psiche cercandone come snodo interpretativo la sessualità e la vita individuale della persona nei suoi primi anni, Jung prende la strada più generale della cultura. Questo aspetto è tornato in maniera molto forte in questi anni, in particolare in relazione al concetto di cultura visuale: il culturale e il visuale hanno assunto un significato di apertura mentale sulle cose, che non pensa più per categorie disciplinari, bensì concepisce la cultura come un organismo vivente, secondo una visione d’insieme, non di separazione delle discipline. Questa è la direzione cui porta Jung, che è molto sentita da chi, come Patella, maneggia la materia, le sostanze. Questo pensiero era evidente a partire da Sguardo passante: non si può scindere la figura dal materiale usato, in quanto è proprio quest’ultimo a determinare degli aspetti della figura stessa. Il torchio è una fase di trasformazione, termine chiave dell’alchimia, dell’immagine e della materia. Da un punto di vista realistico, l'esistenza stessa dell’alchimia è quasi inconcepibile (ricerca della pietra filosofale, trasformare la materia in oro, etc.): questa disciplina cercava di realizzare dei compiti impossibili, ma nei compiti impossibili, e nello stesso sostantivo impossibile, si trova anche altro. Altrimenti, perché mai porsi come obiettivo l’impossibile? Per alcuni era l’utopia, l’ideale a cui tendere, ma per l’alchimista era soprattutto qualcosa che era già in atto: la ricerca dell’impossibile è già la sua realizzazione. Questa, dunque, che assume un aspetto di chiusura, il chiudersi nel laboratorio a fare esperimenti, con la consapevolezza che non funzioneranno mai, è proprio l’essenza dell’alchimia, che non è tanto finalizzata a, bensì è la cosa stessa. Questo vale anche per l’arte: non è finalizzata a qualcosa, è la cosa stessa, e quello che conta è essere artista, e non fare l’artista. Si tratta di questioni in gioco sin dall’Ottocento, come anche il legame tra arte e vita, determinante per le avanguardie storiche, e che ritorna in Patella, che spesso si rifà più a queste ultime che ai suoi contemporanei. 94 Marcel Duchamp, Passaggio dalla Vergine alla Sposa, 1912 Lo sviluppo seguente di Duchamp, che dà a Patella la nuova definizione, è quella di passaggio, termine che si ritrova nel titolo di una delle più importanti opere di Duchamp, a sua volta di passaggio tra il post cubismo delle opere precedenti a quello che sarà il Grande Vetro, titolo con cui è nota un’opera originariamente intitolata La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche. In quest’opera, come dice il titolo, si assiste al passaggio dalla vergine alla sposa, rappresentato non tanto in maniera simbolica, ossia come passaggio dall’illibatezza, verginità, alla vita sessuale compiuta, ma proprio per l’idea di passaggio. Paradossalmente, dunque, la parte più importante del titolo, e quindi dell’argomento, è l’idea di passaggio, e non in cosa consiste questo passaggio. Questo interessa molto a Patella, in quanto significa che il movimento non è più assunto come tema in modo concreto e materiale, come facevano i Futuristi. Per i Futuristi il movimento era la macchina, l’accelerazione dello spazio-tempo, etc., e conseguentemente il loro sforzo era cercare di raffigurare il movimento attraverso un’immagine fissa, come la pittura o la fotografia. A partire da questo momento, invece, acquista tutto un altro significato, a un altro livello, in un certo senso simbolico: è un modo di concepire un po’ tutto come un passaggio, secondo un concetto che in filosofia si dice divenire. Questo è quello che accade nella mente di Patella: ha trovato la chiave dell’essere, ossia il passaggio, la trasformazione, la metamorfosi. L’arte stessa è concepita come passaggio, non come realizzazione di un oggetto, che non è un fine: è un passaggio. Facendo un passo indietro, a questo punto torna ai suoi argomenti, e li riprende con una carica nuova. Inizia così una trasformazione, un passaggio, che vediamo attraverso una sequenza di immagini, a partire dal suo periodo di formazione. Luca Patella, Sguardo passante, 1962 Luca Patella, Viaggio veloce, 1963 A partire da Sguardo passante, è una questione di sguardo, non una questione materiale di ciò che passa: dalla realtà siamo passati alla percezione. Similmente, Viaggio veloce non è la rappresentazione del viaggiare: è la ripetizione dell’immagine, la tiratura delle linee e delle forme, come l’incisione permette di fare, e in questo senso, dunque, non è il viaggio rappresentato, è esso stesso un viaggio. 95 Luca Patella, Strusciante, 1964 Luca Patella, Carrello filato, 1965 Il passaggio, come detto, avviene nel 1964, anno in cui Patella, a livello tecnico, passa dal disegno dei primi anni ad una tecnica nuova, impostata soprattutto con l’entrata della fotografia. Per il momento misto: c’è una lavorazione grafica sulla fotografia, che comunque viene trasformata poi, ossia passata attraverso la tecnica dell’incisione. Il movimento-passaggio viene analizzato in tutte le sue varianti, e ogni modalità del movimento viene caratterizzata: in queste due opere si vede quello a struscio, segno-traccia oggettiva di un movimento, e quello filato, realizzato attraverso la ripresa con fotocamera in movimento, ma Patella realizza anche quello simulato nel riflesso in una vetrina (Riflesso passante pseudofilato, a965), quello ripreso dal treno in movimento (Paesaggio passante-filato, 1965), quello al contrario in cui è l’oggetto a muoversi (Soggetto mosso, 1965), etc. Ogni elemento in gioco (soggetto nella realtà, macchina da presa, persona che si sposta attraverso il movimento del mezzo su cui si trova) viene sfruttato per riprodurre il movimento in tutte le sue possibilità. Patella è preciso, attento, e non vuole lasciar fuori nulla, mentalità che si porterà dietro per tutta la vita. Il concetto di complessità Nel 1965 Patella abbandona il segno disegnato e mantiene solo la fotografia. Questo passaggio è molto significativo, soprattutto perché il disegno e l’incisione sono tecniche antiche, con una propria storia, e costituiscono dunque un modo di pensare che non si libera del passato. Passando esclusivamente alla fotografia, Patella fa leva su tutte le caratteristiche della fotografia: messe a fuoco e sfocature, mossi, riflessi, trasparenze, sovrapposizioni, sequenze di più immagini. Da parte loro, gli oggetti si fanno oggettivi-complessi-riflessi, ossia: non c’è realtà oggettiva senza la complessità. Questo è il discorso su cui insiste, più di tutti quanti, ossia il concetto di complessità: le cose non sono semplici, naturali, spontanee, dirette, bensì sono sempre complesse. La nozione di complessità è presa per il suo valore scientifico, e non per il suo significato nel linguaggio comune (per dire cose complicate, o non semplici): è proprio la complessità del concetto scientifico. Nella scienza, la complessità ha due aspetti particolarmente importanti all’interno dell’ambito dell’arte. Innanzitutto, nel calcolo scientifico influisce sempre chi fa il calcolo e lo strumento del calcolo: l’oggettività non esiste in senso assoluto, perché è sempre relativa all’osservatore e allo strumento di osservazione. Quello che si vede in Patella è proprio un’attenzione allo sguardo, e dunque all’osservatore, oltre che all’oggetto osservato, e allo strumento (macchina fotografica, macchina da ripresa, riflessi, sovrapposizioni, etc.). Il secondo carattere di complessità in ambito scientifico nasce con i nuovi ambiti della scienza, e in particolare con la statistica: il calcolo matematico si fa estremamente complesso, e non potrò più essere precisissimo nel calcolo. A questo punto, il carattere peculiare della scienza, ossia la precisione, salta. Altro elemento importante è l’indeterminazione, un principio che era già stato formulato nel 1913, ma che ritrova la sua formulazione più contestuale nella teoria della complessità. Quello che è importante per noi, soprattutto in ambito artistico, è soprattutto la prima parte: l’osservatore influisce sul processo di osservazione. Tutto questo, in Patella, passa in fotografia: 96 Luca Patella, Passa, 1965 In questa fase attraverso la fotografia è stampata ancora attraverso la trasposizione di una lastra, quindi non in camera oscura ma sul torchio. Questo elemento di passaggio è restituito non solo dalla gamba sollevata, ma anche dallo sfocato (quando il soggetto si muove la macchina fotografica restituisce un’immagine sfocata). Luca Patella, Rosa riflessa-complessa, 1965 Ancora, il mosso si vede anche in quest’opera, in acquaforte fotografica colore. I titoli diventano sempre più astrusi: Patella non lesina complicazioni a nessuno. In questo caso, il passaggio è reso non solo attraverso il mosso, ma anche attraverso la sequenza. Luca Patella, Paesaggio colorato, 1966 Nel 1966 realizza una serie particolare, intitolata Paesaggio colorato, che lo stesso anno espone alla Biennale di Venezia. Nell’arco di pochi anni, Patella è arrivato auna delle esposizioni più importanti a livello internazionale. Questa estrema velocità di riconoscimento è dovuta in primis al suo essere anche un intellettuale, oltre che un artista: Patella non si limita a fare le sue opere e a cercare qualcuno che le esponga, ne parla, le presenta in modo competente e forbito. Così facendo, fa breccia in alcuni critici
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