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Storia dell'arte moderna II parte 2, Appunti di Storia Dell'arte

Storia dell'arte moderna II: parte 2 del libro per le scuole

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 02/07/2019

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71 documenti

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Scarica Storia dell'arte moderna II parte 2 e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! JACQUES-LOUIS DAVID (1748-1825) Nato a Parigi il 30 agosto 1748, David compì i primi studi nella capitale francese, dove frequentò l’Académie des Beaux-Arts partecipando più volte al concorso per il premio di pittura che dava la possibilità ai vincitori di risiedere per un lungo periodo a Roma, a contatto con le antichità. David soggiornò in Italia dal 1775 al 1780 (e poi, ancora, dal 1784 al 1785) ed ebbe così modo di studiare la scultura e la pittura romane, in particolare le opere di Raffaello. Dopo un viaggio a Napoli, Ercolano e Pompei, l’artista dichiarò anche di aver aperto gli occhi sull’Antico; solo allora egli comprese che «operare come gli antichi e come Raffaello è essere veramente artisti». Rientrato in Francia, ebbe numerosi incarichi di lavoro e partecipò attivamente alla rivoluzione del 1789, fu deputato e poi presidente della Convenzione Nazionale, appoggiò Robespierre e, alla morte di questi, fu incarcerato dall’agosto al dicembre del 1794. Successivamente, come molti altri intellettuali europei, subì il fascino di Napoleone, tanto da diventare suo sostenitore, e il 18 dicembre 1804 venne anche nominato Primo Pittore dell’Imperatore. Dopo la caduta di Napoleone e la restaurazione della legittimità prerivoluzionaria, nel 1816 l’artista fu costretto all’esilio a Bruxelles, in Belgio, dove si spense il 29 dicembre 1825. IL DISEGNO - Raramente i disegni di David sono realizzati con tecniche grafiche elaborate o colori seducenti, al contrario, si presentano molto austeri. Solitamente si tratta di opere in cui si nota l’uso per lo più esclusivo della matita a mina di piombo. Tuttavia David impiega anche la penna e l’inchiostro, il cui segno netto è ravvivato dall’acquerello (bruno, nero o grigio) e dalle lumeggiature a tempera bianca o gessetti. Le finalità che David si propone nel disegno sono la chiarezza del segno, la purezza dell’immagine e la sua semplificazione per mezzo del contorno netto, della linea. Risale alla fine del secondo soggiorno romano dell’artista (o ai primi mesi del 1786) il disegno raffigurante Marco Attilio Regolo e la figlia, l’unico giunto sino a noi tra quelli inerenti al progetto di un dipinto – mai eseguito – avente per oggetto l’eroe romano in procinto di partire per ritornare a Cartagine dove lo avrebbero atteso le torture e la morte. Una forte componente dinamica caratterizza il disegno a penna, acquerellato in modo da lasciar trasparire – a tratti – il colore grigio-verde della carta. L’espressione decisa del volto di Attilio Regolo e la sua attitudine, colta in un’andatura sostenuta, mentre cerca di liberarsi dalla stretta implorante della figlia gemente e caduta a terra, sottolineano il carattere eroico di chi si sacrifica per amore della patria. L’acquerello grigio illumina soprattutto le spalle e le braccia della giovane donna a sottolineare la forza degli affetti e la coesione familiare, componenti fondamentali delle virtù romane. Nel disegno di una Donna dal turbante il soggetto enigmatico è reso con una tecnica simile a quella dell’incisione. Un tratteggio incrociato e fitto determina il fondo scurissimo contro cui si staglia il profilo nitido della fanciulla. Il turbante, le fasce e l’abito drappeggiato sono anch’essi resi con tratti incrociati molto sottili disegnati in punta di penna. Il segno è insistito dove l’oscurità dev’essere più forte e i mezzi toni sono dati da un tratteggio parallelo obliquo o verticale, ma il passaggio dall’una agli altri è addolcito da innumerevoli puntini che si infittiscono nelle parti maggiormente in ombra. Tale tecnica è ancor più evidente nel volto, nel braccio e nella nuca della fanciulla dove la puntinatura – che, quasi impercettibilmente, simulando lo sfumato, permette il graduale trapasso dall’ombra alla luce rendendo il senso delle carni tornite e sode – si aggiunge all’azione delicata del tratteggio rado e arcuato. Il giuramento della pallacorda, opera iniziata e mai conclusa da David, ricorda il giuramento solenne dei membri del Terzo Stato – costituitosi in Assemblea Nazionale – il 20 giugno 1789. Il disegno a penna, inchiostro bruno e acquerello, conservato a Versailles, mostrante lo stato definitivo che avrebbe dovuto essere trasposto sulla tela, era stato preceduto da non pochi studi. Quello conservato al Fogg Art Museum dell’Università di Harvard consente di capire quanto meticolosa e precisa fosse la tecnica grafica di David. Il foglio, infatti, mostra una puntualissima prospettiva geometrica, che non solo delinea in modo credibile l’architettura, ma, grazie alla griglia del pavimento, consente di collocare i personaggi in profondità dimensionandoli in modo adeguato. Il confronto tra i due disegni, francese e americano, fa capire la notevole sensibilità grafica e compositiva dell’artista. Il punto di fuga, inizialmente posizionato sul petto di Bailly (il personaggio in piedi su un tavolo) e lungo l’asse verticale b, viene spostato più in alto, in corrispondenza della testa, in modo da coincidere esattamente con il centro geometrico del foglio a, accrescendo l’impressione di profondità dell’ambiente. Il margine superiore dell’architettura è abbassato, così le figure vengono a trovarsi nella metà inferiore della carta, lasciando quasi vuota la metà superiore. Il trasporto del disegno sulla tela, lasciata come abbozzo, di cui si conserva un frammento, consente di verificare come tutte le figure fossero state disegnate nude. Solo con l’apposizione del colore David le avrebbe “vestite”, guidato dalla sottostante precisione anatomica. Le accademie di nudo Durante il primo soggiorno romano Jacques-Louis David è impegnato in tutte le attività e nei programmi stabiliti per i pensionnaires. In particolare nell’esecuzione di disegni e dipinti in grado di rivelare l’originalità creativa degli artisti; tra questi le accademie di nudo. A questa tipologia appartengono sia l’Accademia di nudo virile riverso, sia quella di Nudo virile semidisteso e visto da tergo. Si tratta di due oli su tela eseguiti rispettivamente nel 1778 e attorno al 1780, a conclusione del quinquennio romano. Solitamente identificato come Ettore riverso dietro il proprio carro da guerra, il nudo del 1778 è mostrato in scorcio, adagiato su supporti che costruiscono un ideale piano inclinato, secondo un andamento diagonale, con il busto illuminato in primo piano e le gambe, incrociate, spinte in profondità e quasi nell’oscurità. Il secondo e più tardo nudo, tradizionalmente identificato con Pàtroclo, è visto da tergo, ha la testa reclinata in avanti, mentre i capelli appaiono come mossi dal vento. L’atteggiamento, con la torsione del busto, consente a David di esercitarsi nell’anatomia. Correttamente, e con grande capacità di osservazione da parte dell’artista, il rosso del drappo su cui il giovane uomo è collocato si riflette sulla coscia sinistra e sui glutei: una conquista rispetto all’Ettore, in cui il nudo e lo sfondo scuro non si erano valsi degli effetti del giallo-aranciato del drappo contro cui si staglia il corpo dell’eroe troiano. • Il giuramento degli Orazi La permanenza a Roma fu particolarmente proficua per David. Nei cicli delle Stanze Vaticane e nei dipinti di Raffaello, infatti, egli colse ciò che, a suo avviso, costituiva il carattere grande dell’Urbinate: essere riuscito a isolare ogni personaggio e averlo reso autonomo, pur all’interno di una narrazione con tante comparse e numerosi protagonisti. Questo egli volle ripetere. Il giuramento degli Orazi, firmato e datato 1784 e risalente, perciò, al secondo soggiorno romano dell’artista, fu realizzato su commissione del re di Francia e l’anno seguente venne presentato al Salon. Il soggetto è scelto dalla storia della Roma monarchica quando, durante il regno di Tullo Ostilio, i tre fratelli Orazi, romani, affrontarono i tre fratelli Curiazi, albani, per risolvere in duello una contesa sorta fra Roma e la rivale Albalònga. I tre Curiazi morirono mentre uno solo degli Orazi si salvò, decretando in tal modo la vittoria della propria città. Il soggetto sta dunque a rappresentare le virtù civiche romane e l’amore per la gloria: i tre giovani, infatti, giurano di vincere o morire per Roma. L’adesione di David a tale ideale è certa, come sicura è la volontà di proporlo a chi guarda perché l’esempio spinga all’emulazione i suoi compatrioti. La scena, non priva di una certa teatralità, si svolge nell’atrio di una casa romana inondata dalla luce solare. L’impianto prospettico è sottolineato dalle fasce marmoree che racchiudono riquadri di pavimento in laterizi disposti a lisca di pesce. Nel fondo due pilastri e due colonne doriche dal fusto liscio sorreggono tre archi a tutto sesto oltre i quali, immerso nell’ombra, un muro delimita un porticato (ornato di una lancia e uno scudo appesi), mentre un’ulteriore arcata – a destra, aperta nel muro in un piano arretrato – lascia intravedere altri ambienti abitativi e una finestra alta da cui entra una luce fioca. I personaggi sono distinti in due gruppi incorniciati dalle arcate estreme, mentre il vecchio padre si erge nel mezzo, isolato, conscio della propria centralità nella storia e consapevole di mettere a repentaglio la vita dei figli chiedendo loro il giuramento di combattere per Roma; da essi soltanto sarebbero dipese le sorti della città. Egli ha appena parlato: è l’unico ad avere le labbra dischiuse. Il rosso del mantello, che richiama su di lui l’attenzione di chi guarda, lo distingue come personaggio chiave della rappresentazione, mentre leva in alto le spade lucenti che, successivamente, consegnerà ai figli. È proprio su quella mano tenuta stretta che sta il punto di fuga (lievemente spostato a sinistra rispetto all’asse di mezzeria della tela), lì i raggi prospettici conducono gli occhi dell’osservatore. D’altra parte è in direzione del padre e verso le spade che si protendono le braccia dei tre fratelli, tenute alte nel giuramento solenne. Un giuramento che unisce nell’eroismo i tre giovani, allacciati in un abbraccio che indica grande forza morale, sprezzo del pericolo e unanimità di intenti. A destra le donne, meste e mute, carezzate da una luce morbida e diffusa, sono abbandonate nel dolore e nella rassegnazione. In posizione più arretrata la madre degli Orazi copre con il suo velo scuro, presàgo di lutto, i due figli più piccoli, mentre Sabina (moglie del maggiore dei fratelli), affranta e senza più lacrime, si volge verso la cognata Camilla. Questa, piegata verso di lei, le tiene sulla spalla una mano su cui appoggia il capo chino. Secondo l’estetica neoclassica, David non mostra il momento cruento del combattimento, ma grandi novità del dipinto, benché criticata fortemente dai contemporanei: i quattro personaggi principali maschili in primo piano, infatti, sono raffigurati nudi, alternando – da sinistra a destra – la rappresentazione tergale a quella frontale. Nonostante la massiccia presenza della rupe Tarpea e delle possenti fortificazioni del Campidoglio, non è tanto la prospettiva che qualifica il dipinto, quanto la composizione geometrica. Tutti i personaggi, in particolare quelli di maggior rilievo, sono collocati all’interno della metà inferiore della grande superficie dipinta di cui la figura femminile dalla veste rossa e dalle braccia piegate e portate contemporaneamente alla fronte sottolinea la mezzeria. Inoltre la posizione inclinata e divergente di Tazio e di Romolo forma con la direzione delle braccia allargate e delle gambe a forbice di Ersilia dei triangoli che congelano il movimento in primo piano, mentre il dinamismo della giovane madre che leva in alto il figlioletto, stando su una porzione di trabeazione, sembra arrestare le schiere confuse dei soldati di cui la selva di lance suggerisce il gran numero. La tela evidenzia sia lo studio dei modelli antichi da parte di David sia l’orientamento dell’artista teso a tradurre il linguaggio scultoreo in quello pittorico, grazie anche all’accordo cromatico. Non a caso, infatti, i contemporanei vedevano la narrazione come lo svolgersi di un bassorilievo. David, inoltre, ha ben assimilato l’insegnamento del Raffaello dell’Incendio di Borgo e quello del classicista Guido Reni della Strage degli innocenti, come rivela il serrato gruppo centrale delle donne e dei fanciulli che, raggruppati attorno a Ersilia, portano pace tra i contendenti. • Leonida alle Termopoli In Leonida alle Termopili, eseguito poco prima della caduta di Napoleone, il soggetto ricorda l’eroico sacrificio degli Spartani guidati dal generale Leonida per difendere il passo delle Termopili contro l’incalzante avanzare delle armate persiane di Serse. Di nuovo David si orienta verso la rappresentazione delle virtù patrie, aiutato in ciò dalla celebrata fedeltà degli Spartani alla polis e dalla loro altrettanto nota rigidità di costumi. Pur con delle modifiche rispetto allo studio d’insieme di New York, ancora una volta l’artista si concentra sulla rappresentazione di perfetti nudi eroici: dal pensoso Leonida, al centro della composizione, ai due ragazzi che, rimandati indietro con uno stratagemma a causa della loro giovane età, decidono invece di restare e morire con gli altri: entrambi coronati di fiori, l’uno si allaccia un sandalo, l’altro (a destra) si stringe al vecchio genitore. Al suono delle trombe che annunciano l’avvistamento delle truppe nemiche i Greci si preparano alla battaglia (le gambe divergenti e i busti inclinati dei soldati, soprattutto di quelli in primo piano, sottolineano la fretta del momento). Alla battaglia partecipa anche un anziano soldato cieco – all’estrema sinistra – sostenuto da uno più giovane. A destra, sotto Leonida, il cognato Agis, deposta la corona di fiori, si appresta a indossare l’elmo. L’abbraccio del Giuramento degli Orazi è riproposto nel gruppo dei quattro amici che, allacciati, offrono le loro corone all’indirizzo di un commilitone che con l’elsa della spada incide sulla roccia un messaggio per i futuri viaggiatori: «Straniero, va’ a dire agli Spartani che siamo morti qui, obbedendo ai loro ordini». Il messaggio diviene muto incitamento all’emulazione e formidabile testimonianza di coraggio e lealtà. • Bonaparte valica le Alpi Agli inizi della folgorante ascesa militare di Napoleone Bonaparte e all’epoca della convinta adesione di David al pensiero politico dell’ufficiale, diventato poi imperatore, risale invece Bonaparte valica le Alpi al passo del Gran San Bernardo. Commissionata dal re Carlo IV di Spagna e seguita da almeno tre repliche, la tela mostra il generale che monta un focoso cavallo pezzato, ritto sulle zampe posteriori. L’insieme delle due figure occupa l’intero primo piano campeggiando sullo sfondo delle vette alpine e di un cielo a tratti nuvoloso, mentre, nei piani arretrati, pochi soldati che trainano o spingono affusti di cannone e numerose canne di fucile sporgenti da una balza rocciosa suggeriscono una grande armata in lento e difficile movimento. Napoleone si volge allo spettatore indicandogli genericamente un punto al di là dei monti: la meta della lunga marcia, ma anche il futuro, il destino che lo attende. Il suo volto – ringiovanito dal pennello dell’artista – è idealizzato e la sua calma ostentata risalta in confronto all’agitato cavallo. Alla spinta verso sinistra, la direzione del moto, contribuiscono anche la coda e la criniera dell’animale che, al pari del mantello del generale, sono mosse dal vento. A simboleggiare l’azione ardimentosa di Napoleone, David dipinge in primo piano a sinistra, delle rocce con incisi i nomi di Bonaparte e dei grandi condottieri hanno valicato le Alpi: Annibale e l’imperatore Carlo Magno. • Marte disarmato Il disimpegno politico – conseguente all’abbandono della politica attiva e alla caduta delle illusioni – caratterizza, invece, gli ultimi anni di David, il cui stile, tuttavia, non risente dei cambiamenti di contenuto. Durante l’esilio in Belgio, infatti, l’artista riprende i vecchi temi mitologici, ma il suo principale interesse pare rivolto alla pura rappresentazione della bellezza ideale. È il caso di Marte disarmato da Venere e dalle Grazie, un dipinto ultimato nel 1824, l’anno prima della morte. Sullo sfondo di un portico corinzio tetrastilo le tre Grazie allontanano le armi da Marte offrendogli, allo stesso tempo, del vino. Il dio, semidisteso su un letto a barca e completamente denudato, viene distratto da Venere, anch’essa nuda, che lo incorona con una ghirlanda di rose, mentre Eros gli slaccia un sandalo b. Due colombe, simbolo dell’amore fra il dio della guerra e la dea della bellezza, tubano. Le forme delicate di Venere sono simili a quelle della Psiche di Canova, e la sua postura ricorda, in controparte, quella di Paolina Borghese come Venere vincitrice. L’evidenza geometrica del portico sospeso tra le nuvole dell’Olimpo dà stabilità alla scena, tutta raccolta in uno spazio pressoché quadrato. La verticalità delle colonne controbilancia l’armoniosa inclinazione di Marte e Venere verso sinistra, mentre il dipinto prende forza dalle varie tonalità dei blu accordate con i rossi, gli ori e il rosato degli incarnati. BERTEL THORVALDSEN (1770-1844) Una folla di circa quarantamila danesi festanti accolse il 18 settembre 1838 il ritorno di Bertel Thorvaldsen nella natia Copenaghen. Grida di giubilo, cori, sventolare di bandiere, applausi, onori militari e i professori dell’Accademia di Belle Arti che ricevevano il famoso scultore che sbarcava dalla fregata Rota nella rada della capitale della Danimarca costituirono gli episodi più significativi dell’eccezionale avvenimento. Bertel – che vi era nato il 19 novembre 1770 da un intagliatore di legno islandese e vi aveva studiato all’Accademia Reale – aveva lasciato la capitale danese giovanissimo, nel 1793, dopo aver ottenuto una borsa di studio per Roma. Viaggiando via mare era prima approdato all’isola di Malta, quindi a Palermo, a Napoli e, finalmente, nel 1797 era arrivato a Roma. Non abbandonò l’Urbe che nel 1837, avendola destinata a propria patria adottiva. A Roma, dove arrivò a essere nominato presidente della prestigiosa Accademia di San Luca, restaurò i marmi dei frontoni del Tempio di Athena Aphaia, lì fatti trasportare nel 1815 da Ludovico di Baviera, che li aveva acquistati nel 1812 per la Gliptoteca di Monaco. Lavoro, questo, che procurò a Thorvaldsen una fama maggiore di qualunque altra opera egli avesse mai realizzato in precedenza. Lo scultore morì il 24 marzo 1844 nella città natale che, dopo la sua scomparsa, gli dedicò un museo .La scultura di Thorvaldsen – il «Fidia del Nord», il «moderno Prassitele», come venne presto definito – si inscrive perfettamente nella cultura neoclassica del vivace ambiente romano dominato dalla figura di Canova, il cui esempio fu per l’artista danese di grande importanza, ma non tale da poter essere seguito fino in fondo. E quando il grande scultore di Possagno instillava quasi un vero respiro nelle sue sculture, mediando il bello ideale con quello di natura, Thorvaldsen preferiva restare fedele alla bellezza ideale senza tempo. IL DISEGNO - Un segno deciso spicca sul foglio con studi per un Diomede con il Palladio, disegno preparatorio mai tradotto in scultura. Eseguito attorno al 1804, l’insieme delle varianti (se ne vedono tre a figura intera sulla destra) è superato dalla forza della matita nera che delinea un guerriero che occupa quasi l’intera altezza del foglio ed è raffigurato in nudità eroica e in una posa che rinvia al chiasmo di Policleto. Si discostano dagli esempi del grande scultore di Argo soltanto la testa ruotata nella direzione della gamba non portante e l’esilità e dolcezza delle forme, che hanno maggiormente risentito di un’ispirazione prassitelica. L’eroe impugna una corta spada nella destra, mentre con la sinistra tiene il Palladio, simulacro di Athena rubato nel tempio della dea a Troia, città che esso rendeva invincibile. • Giasone Gli stessi criteri formali del Diomede sovraintendono alla realizzazione del Giasone. Qui, inoltre, allo schema policleteo si sovrappone l’esempio dell’Apollo del Belvedere, per il vello d’oro che pende dal braccio sinistro piegato e proteso in avanti dell’eroe mitologico. La scultura mostra Giasone che incede recando la lancia nella mano destra e appoggiata alla spalla, e il vello nella sinistra. Una cintura, che sostiene una spada entro il fodero, gli attraversa diagonalmente il busto all’altezza dei pettorali. La testa è completamente ruotata verso destra, tanto che risultano leggibili il perfetto profilo classico, l’elmo e il cimiero ondulato. Questa attitudine suggerisce che, nonostante qualcosa abbia colpito l’attenzione dell’eroe, questi non accenna a fermarsi. La scultura, tutta contenuta entro i margini ideali di un solido la cui base coincide con quella marmorea della statua, è fatta per essere guardata frontalmente. La linea di contorno, sicura e senza asperità, definisce il volume plastico sollecitandone la lettura secondo valori lineari e bidimensionali piuttosto che spaziali e tridimensionali. Significative, a questo riguardo, appaiono le differenze con il Perseo trionfante di Canova, di cui costituisce una risposta. In tal modo Thorvaldsen sembra aderire, più dello stesso Canova – che crea molteplici punti di vista per le sue sculture, che si espandono nello spazio – alla «quieta grandezza» riconosciuta da Winckelmann come una delle peculiarità della scultura classica. • Venere vincitrice Sulla stessa direttrice di ricerca si colloca anche la Venere vincitrice. L’esemplare che qui si propone – scolpito nel 1846 per il Thorvaldsens Museum di Copenaghen da un allievo dello scultore, Johann Scholl (1805-1861) – è una delle numerose repliche della creazione di Thorvaldsen, che ne fissò le forme nel 1813-1816. La scelta è giustificata dallo stesso metodo di lavoro, quasi industriale, della bottega di Thorvaldsen, che non lasciava che un minimo ruolo – spesso nessuno – all’intervento diretto dell’autore. La Venere, che contempla il pomo donatole da Paride, si pone in posizione colloquiante sia con l’esemplare antico di riferimento – l’Afrodite Cnidia di Prassitele conservata ai Musei Vaticani – sia con quello moderno, la Venere italica scolpita da Antonio Canova nel 1804-1812. Laddove Canova copre pudicamente le nudità della dea, che leggermente si piega in avanti, ma ruota la testa verso destra, determinando così l’assoluta padronanza dello spazio, Thorvaldsen ne accentua la bidimensionalità, quasi come in un disegno. Se la Venere canoviana può dunque essere contemplata da una qualsiasi posizione, quella di Thorvaldsen va guardata soprattutto di fronte. La gamba destra è portante, mentre la sinistra, lasciata mollemente andare all’indietro, comporta il forte pronunciamento in fuori del fianco destro, lo spostamento in senso opposto del busto e l’abbassamento della spalla sinistra. Tale complesso e inedito movimento viene equilibrato dalla rotazione della testa verso sinistra. Il braccio destro, infine, è piegato, mentre l’altro regge un drappo che, per necessità statiche, poggia su un tronco d’albero. La composizione molto sinuosa sottolinea i valori lineari di questa scultura, mentre la grazia accentuata delle sue forme, così come le proporzioni slanciate e l’atteggiamento pensoso, parlano del superamento dell’esemplare antico. • Ganimede e l’aquila Suggerito dall’iconografia classica e, verosimilmente, anche da un’antica gemma della propria collezione, nel 1815 Thorvaldsen realizza una prima versione di piccole dimensioni (44×55 cm) del gruppo di Ganimede e l’aquila. Risale al 1817 la versione di dimensioni maggiori. Anche in questo caso la lettura risulta completa e coerente solo se l’opera viene guardata frontalmente, per quanto la tridimensionalità sparisca per lasciar posto alla suggestione di un grande bassorilievo. I profili, perciò, e la linea di contorno diventano il criterio principale di giudizio.La scultura trae la sua forza dal contrasto fra il corpo ricoperto di piume opache dell’aquila di Zeus e quello del tutto liscio e lucido del giovane principe frigio rapito dal padre degli dei e condotto sull’Olimpo in qualità di coppiere. E, per l’appunto, il fanciullo, in posizione inginocchiata, è colto mentre quasi devotamente offre da bere all’uccello divino dallo sguardo arcigno e dal becco adunco. JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES (1780-1867) Fra i più appassionati e famosi direttori dell’Accademia di Francia, che fu sotto le sue cure dal 1834 al 1841, Jean-Auguste-Dominique Ingres risiedette a lungo a Roma. Vi si recò giovanissimo nel 1806, dopo aver vinto il Prix de Rome, rimanendovi fino al 1820, ben oltre la scadenza della sua borsa di studio (1810). Dal 1820 al 1824 dimorò a Firenze. Ingres, quindi, visse in Italia per 25 anni, trascorrendovi circa un terzo della sua vita. Vi stette in compagnia degli amatissimi dipinti di Raffaello alla cui arte lo aveva iniziato il pittore Joseph-Guillaume Roques (1754-1847) che aveva avuto come maestro all’Académie des Arts di Tolosa, dove aveva studiato dal 1791 al 1797.Nato a Montauban (nella Francia Sud-occidentale) il 29 agosto 1780, il giovane Ingres, figlio di un modesto decoratore, dopo i primi studi si trasferì a Parigi nel 1797 per frequentare l’atelier di David. Nel 1825 fu eletto membro dell’Académie des Beaux-Arts divenendone uno dei professori nel 1829. A parte la parentesi romana del 1834-1841, una sorta di volontario esilio, da lui stesso scelto come risposta alle critiche per un insuccesso professionale (e critiche ne aveva ricevute più volte, peraltro, negli anni bagliori rossastri, coprono i due terzi della tela circondando completamente l’insieme delle figure. Dal cielo azzurro, sulla sinistra, la gelosa Giunone ascolta, non vista. Giove, ammantato di un drappo rosato, ha il possente busto nudo; il braccio sinistro poggia su una nuvola, mentre il destro impugna uno scettro: la divaricazione delle braccia mette ancor più in evidenza l’ampiezza delle spalle in confronto allo stretto bacino. Il volto, impassibile e fisso avanti a sé, è ornato da una fluente barba e da una criniera di capelli scuri; dietro la testa è dipinta una stilizzata aureola di sette raggi. Teti, in ginocchio e discinta, implora Giove tenendogli il braccio destro sulle gambe – quasi ad abbracciarle – mentre con la mano sinistra lo vezzeggia carezzandogli la barba. La composizione è piramidale (i lati obliqui sono suggeriti dalla schiena di Teti e dal manto di Giove). Nella figura del padre degli dei prevalgono le direttrici orizzontali e verticali (che ne sottolineano la ieraticità e la possanza divina), mentre nell’implorante Teti predominano le orizzontali e le linee oblique. Una griglia modulare, infine, pare sostenere e dare equilibrio al disegno d’insieme suggerendo anche la posizione di elementi notevoli del dipinto. Il fitto panneggio del drappo grigio-verde e del velo bianco della nereide contrasta con la resa pressoché bidimensionale del manto del signore dell’Olimpo. Inoltre la narrazione mitica è proposta in maniera statica. In tal modo Ingres opta per il più adatto tipo di raffigurazione quando si vogliono rappresentare delle divinità; allo stesso tempo la composizione si arricchisce di valori lineari e cromatici, piuttosto che spaziali, collocando la scena fuori dal tempo e lontano dal mondo dei mortali. • L’apoteosi di Omero Il vero e proprio manifesto del Neoclassicismo di Ingres è L’apoteosi di Omero. Il dipinto, realizzato nel 1827, appare – grazie anche alle sue notevoli dimensioni – di grande solennità e magniloquenza, nonostante un’impostazione complessiva fortemente retorica. Non a caso, quando venne esposto al Salon di fronte a un’opera di Delacroix, ricevette il plauso e l’ammirazione anche dei pittori romantici. Al centro di un’affollata composizione che rinvia alla raffaellesca Scuola d’Atene, davanti alla facciata di un tempio ionico esastilo, su un alto piedistallo siede Omero coronato dalla Vittoria librata in aria. Ai suoi piedi stanno le personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea: due figure femminili esemplate sulle Sibille michelangiolesche della volta della Cappella Sistina. Il sommo poeta greco è circondato dai “grandi”, antichi e moderni, divisi in due schiere: gli antichi in alto, i moderni in basso, ma con due significative eccezioni perché Raffaello, tenuto per mano da Apelle, e un pensoso Michelangelo sono collocati tra i primi, in quanto pari agli Antichi. Dante (all’estrema sinistra), accompagnato da Virgilio, è in una posizione intermedia tra gli uni e gli altri. In basso, in primo piano Molière e Poussin guardano lo spettatore indicandogli Omero come modello da seguire e come vetta insuperata e insuperabile. Omero è visto come una divinità. A lui, infatti, è dedicato il tempio alle sue spalle, la cui decorazione frontonale (rielaborazione dall’Apoteosi di Antonino Pio e Faustina sul basamento della Colonna di Antonino Pio, ora in Vaticano) reca proprio l’apoteosi del sommo poeta, portato in cielo dall’aquila di Zeus. Inoltre, una scritta in greco, scolpita su una delle alzate della grande scalinata che a lui conduce, proprio al di sotto delle personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea proclama: «Se Omero è un dio, che lo si onori tra gli dei; se non è un dio, che sia considerato tale». La divinizzazione del poeta è sottolineata dall’offerta che ciascuno dei presenti gli porge: Dante gli offre la Commedia, Pindaro la sua lira, Fidia lo scalpello e il mazzuolo, Alessandro Magno la teca dove conserva gli scritti omerici. Tutti compiono un gesto o un movimento, tranne Omero che è perfettamente immobile e frontale, quasi in esclusivo e divino isolamento, sottolineato, come già nei dipinti di Raffaello, dallo spazio libero da figure che lo fronteggia. Tale spazio è delimitato dai due raggi proiettivi che, seguendo gli spigoli dei due muretti posti ai margini inferiori destro e sinistro della tela, convergono al punto di fuga, coincidente con lo sgabello su cui Omero poggia i piedi. Questi ultimi – studiati accuratamente da Ingres – sono raffigurati in obbedienza alla prospettiva centrale della composizione. Il dipinto è ricco di allusioni a opere di altri artisti, anche desunte da stampe in circolazione negli anni dell’esecuzione. D’altra parte per Ingres il pittore non doveva esercitarsi nella copia della natura, ma sulle incisioni dei grandi maestri. • Il sogno di Ossain Assai più sentito ed evocatore è Il sogno di Òssian, un dipinto eseguito nel 1813, esemplato sui precedenti di François Gérard e, soprattutto, di Anne-Louis Girodet. Da quest’ultimo, che vi aveva fatto ricorso sin dal 1799, Ingres riprende anche la speciale luce lunare. L’attenzione prestata a Ossian, considerato per alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta del Settecento, pari a Omero, e il tema dell’evocazione proiettano l’ispirazione pittorica di Ingres nel campo del gusto per i primitivi, tipico del preromanticismo francese. Il bardo addormentato, riverso sulla propria arpa, è colto nell’atto di sognare. I personaggi fantastici del sogno, gli eroi armati e le belle eroine che avevano popolato le sue ballate, prendono dunque forma reale sopra e accanto a lui. Si tratta di figure a chiaroscuro, quasi monocrome, illuminate da un lume notturno e opalino che conferisce loro la forma. Esse poggiano su una nuvola come di stucco e, se a sinistra il loro blocco è compatto e le loro pose variate, a destra un muro di armati prospetticamente si allontana suggerendo eroiche moltitudini. La monocromia sottolinea anche l’incorporeità dei personaggi sognati, a, mentre la realtà di Ossian è richiamata dalle sue vesti colorate e dal paesaggio di rocce scure che si stagliano contro un mare azzurro e un cielo blu cobalto, dunque è cromaticamente assai ben definita. Un silenzio soprannaturale avvolge la scena composta dal bardo creatore e dalle spettrali creature dei suoi sogni. L’opera, commissionata per ornare la camera da letto di Napoleone nel Palazzo del Quirinale, dispersa e recuperata da Ingres durante gli anni in cui diresse l’Accademia di Francia, fu modificata successivamente. In particolare entro il 1854 vi furono aggiunti dei personaggi laterali (alcuni dei quali, appunto, non compaiono in un disegno acquerellato preparatorio del 1813): la figura di destra, che tiene in alto uno scudo, protesa in avanti, per esempio; e ancora Oscar (il guerriero di sinistra), figlio di Ossian e di Evirallina, la donna semidistesa di sinistra che tocca il braccio del bardo che sogna.Il suggestivo controluce che caratterizza queste figure è forse ricordo degli armati che vegliano l’imperatore nel Sogno di Costantino, dipinto da Piero della Francesca nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo, città visitata da Ingres all’epoca del soggiorno fiorentino. • La grande odalisca Un clima intimo e conturbante è invece configurato nella Grande odalisca, suggestiva di contaminazioni romantiche per il gusto dell’esotico. Ma l’esotismo di Ingres, a ben considerare, non è autentico, studiato e osservato – come sarà, invece, per Delacroix –, esso ha solo il sapore di una tendenza, un orientamento di certa pittura del tempo. Infatti, gli oggetti orientaleggianti – il bruciaprofumi e la lunga pipa all’estremità destra – sono presenze d’occasione, mentre il turbante e il gioiello che adornano la testa della giovane donna sono ripresi dalla Fornarina di Raffaello, benché in controparte. È infatti ai grandi maestri del Cinquecento che il pittore francese si rifà per la composizione della struttura e lo studio delle forme. La Venere di Urbino di Tiziano sta alla base della composizione, con l’inversione della posizione del drappo e, per conseguenza, della stanza in profondità. Una tenda azzurra ricamata, infatti, fa da quinta laterale ricadendo pesantemente a destra (e in piccola parte anche a sinistra), lasciando trasparire l’ambiente alquanto scuro al di là di essa, ma tale da lasciar comunque intravedere due grandi bauli e il muro di fondo. Contrariamente alla Venere tizianesca, completamente rivolta verso l’osservatore e vista dall’alto, quella di Ingres è veduta di spalle, distesa su un letto – o un divano – rivestito di stoffa azzurra, sul quale sono gettati un grande cuscino, una pelliccia bruna, una coperta gialla e un lenzuolo bianco. Tra la coperta e il lenzuolo è appoggiato anche un gioiello e altri ne indossa la giovane donna al polso, mentre regge un ventaglio di piume di pavone. La sua testa è ruotata indietro e gli occhi guardano un punto all’estremità sinistra. Il volto denuncia un’espressione consapevole, ma non maliziosa. Il grande corpo morbido definito da una linea ondulata, una flessuosa mezzaluna rosata, ha proporzioni deformate. Le membra della donna distesa, esageratamente allungate, derivano dai dipinti manieristi, mentre la postura, con il braccio sinistro che funge da appoggio e la gamba sinistra piegata e portata su quella destra, dipende dalle statue giacenti dei sepolcri medicei di Michelangelo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. I RITRATTI - La grandezza di Ingres si rivela soprattutto nei numerosissimi ritratti che eseguì, tutti definiti dalla perfezione del disegno, dall’uso sapiente del colore e da una non comune capacità introspettiva. In essi lo stile costituisce un’immutabile costante che si adatta al variare dei gusti: solo il passaggio dalla moda in stile impero a quella di pieno Ottocento, ben visibile negli abiti delle donne ritratte, infatti, dice del tempo che passa. Di particolare suggestione, a questo proposito, sono i ritratti di Joséphine-Éléonore-Marie-Pauline de Galard de Brassac de Béarn, principessa di Broglie e di Madame Inès Moitessier. L’una del 1853, l’altra del 1844-1856, le opere sanno cogliere con grande finezza la personalità delle due effigiate. Della principessa di Broglie Ingres ha saputo svelare l’anima, carpendone l’essenza: le fonti, infatti, la ricordano come molto bella e altrettanto riservata. Così la dipinge il pittore dopo vari studi preparatori. La giovane donna, che sarebbe morta di lì a pochi anni di consunzione, appena trentacinquenne, è in piedi, tiene le braccia conserte e, appena piegata in avanti, poggia il braccio sinistro sulla spalliera di una poltrona imbottita. Uno scialle color avorio, con un bordo ricamato con fili di seta giallo-oro, sta sulla poltrona rivestita di damasco. Contro di essa risplende l’abito di seta celeste, carico di riflessi metallici, indossato dalla principessa. Un divano di damasco blu corre lungo la parete di fondo a riquadri. La nobildonna indossa dei preziosi gioielli: la catena che le cinge il collo è ispirata a esemplari antichi. Il suo volto, dall’ovale perfetto impreziosito da profondi occhi nocciola, è incorniciato dai capelli in un mobile succedersi di curve e controcurve. La testa, inclinata un po’ sul fianco, volge verso l’osservatore. Un nastro, celeste come l’abito che le orna le chiome ordinate; delle lievi piume verdastre, pendenti dai nastri, si dispongono come un’aureola laica che esalta il sorriso appena accennato. Florida e ricca, Inès Moitessier è seduta su una dormeuse rivestita di damasco rosso. Il suo vistosissimo e ampio abito bianco con bouquets di rose multicolori è reso più civettuolo da nastri, svolazzi e nappe, mentre preziosi gioielli parlano di opulenza ostentata. Un nastro rosso le orna i capelli raccolti riflettendosi in uno specchio che occupa gran parte della superficie pittorica dietro di lei. Incorniciato d’oro, esso fa bella mostra di sé al di sopra di una console ugualmente dorata riflettendo, oltre alle spalle nude e ben tornite di madame Moitessier, anche il ricco ambiente al di qua del quadro: un’infilata di porte laccate e candelieri a muro. La posa morbida della donna e il suo sguardo, che denuncia un sorriso colto sul nascere, ingentiliscono il ritratto rivelando un Ingres critico attento e commentatore sensibile. Lo specchio che mostra quel che è nascosto alla vista – tema che avrà un importante seguito nella pittura impressionista – è usato più volte da Ingres, come stratagemma raffinato per suggerire una completa visione, frontale e tergale, delle sue figure femminili. ANNE-LOUIS GIRODET DE ROUCY-TRIOSON (1767-1824) e HIPPOLYTE FLANDRIN (1809-1864) Furono David e Ingres i due grandi artisti neoclassici che segnarono a lungo, con l’esempio e l’insegnamento, la pittura francese dell’Ottocento; il secondo, peraltro, operando anche in contemporanea con i primi grandi pittori romantici ed esponendo al loro fianco nei Salons parigini.I loro allievi furono numerosi e molto noti. Gli atelier di David e, successivamente, di Ingres, infatti, accoglievano i giovani migliori e meglio dotati di Francia, che dei maestri condividevano le ricerche e le aspettative. Solo di recente la critica ne sta rivalutando la rilevanza ricostruendone le biografie. Due nomi, tuttavia, emergono sia per capacità sia per le opposte volontà o di allontanarsi dal maestro per esplorare nuove strade, o di seguirne fino in fondo l’insegnamento, ma adombrando una sensibilità romantica: Anne-Louis Girodet de Roucy-Trioson e Hippolyte Flandrin. ANNE-LOUIS GIRODET Anne-Louis Girodet poi anche de Roucy – dal nome di un bosco all’interno di una proprietà paterna – e infine Trioson, dal nome della famiglia che lo adottò, si era conquistato nel 1809 un pomposo cognome dall’apparenza nobiliare. Girodet era nato in una famiglia benestante a Montargis il 5 gennaio 1767. Il 13 dicembre 1824, tre giorni dopo la morte, avvenuta a Parigi, i suoi funerali furono seguiti da oltre duemila persone che lo piangevano riconoscendo in lui un maestro, al pari di David.Di Jacques-Louis David (e anche di Étienne-Louis Boullée) Girodet era stato allievo vincendo il Prix de Rome nel 1789. Gli anni della Rivoluzione lo videro a Roma e, come rifugiato, a Napoli. Rientrò a Parigi nel 1795. Lavorò lontano dal potere, pur avendo tentato di ottenere incarichi pubblici.Resosi autonomo da David, a partire dal 1791, l’artista tese alla rappresentazione dell’invisibile e dell’immateriale, secondo un’ottica non completamente neoclassica, scegliendo temi sofisticati e cólti, trattati con un esasperato estetismo. • Il sonno di Endimione Eseguito a Roma nel 1791 ed esposto per la prima volta al Salon del 1793, Il sonno di Endimione riprende un mito poco frequentato dagli artisti, quello del giovane pastore Endimione, figlio della ninfa Calice e di Zeus, che chiese al padre il dono dell’immortalità e dell’eterna giovinezza, l’una e l’altra ottenute al prezzo di un sonno eterno. Il dipinto mostra Endimione disteso e dormiente, vegliato dal proprio cane fedele, mentre Eros, trasformato in Zefiro con le ali di farfalla notturna, eretto di fronte a lui e sospeso in volo, scosta delle fronde che consentono ai raggi di Selène (la Luna, personificazione di Artemide) di unirsi al giovane di cui si è invaghita. Endimione occupa gran parte del dipinto con il suo corpo flessuoso disposto lungo la diagonale della tela che da sinistra sale verso destra, giacendo sul suo mantello e su una pelle di felino maculata. Languidamente composto, il dopo l’artista è a Madrid e nel 1769 decide di intraprendere un viaggio di formazione in Italia, allo scopo di approfondire le fonti di quel classicismo che, allora, costituiva il modello di riferimento di tutta la cultura accademica. Nel 1773 Goya è nuovamente a Madrid e due anni dopo, grazie alla notorietà acquisita dipingendo alcuni cartoni per la fabbrica reale di arazzi di Santa Barbara, viene nominato vicedirettore del dipartimento di pittura alla prestigiosa Accademia di San Fernando. Nel 1799, infine, diventa «primo pittore da camera del re», carica che conserverà fino al 1826, nonostante il progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute e la sua sempre più delicata collocazione politica. La diretta dipendenza dal re, non impedisce a Goya, grazie al prestigio di cui gode, di rimanere al riparo dagli intrighi di corte e di mantenere una forte autonomia di azione e di giudizio, tanto da passare indenne sia attraverso la burrascosa esperienza napoleonica (1808) sia attraverso la spietata restaurazione di Ferdinando VII. IL DISEGNO - Parallelamente alla grande produzione pittorica, Goya conduce anche un’intensa attività grafica che, per l’originalità dei temi e l’immediatezza del linguaggio espressivo, costituisce una vera e propria novità nel panorama artistico del tempo. Il sonno della ragione genera mostri è il disegno preparatorio per una celebre incisione appartenente alla serie dei Capricci, raccolta nella quale l’artista intende rappresentare le allegorie dei vizi e delle bassezze umane, al fine di metterne in ridicolo la brutalità e di promuoverne la sconfitta. La scena rappresenta un uomo addormentato (forse Goya stesso) mentre intorno a lui, quasi sprigionandosi dal suo cervello, prendono forma sinistri uccelli notturni e una lince dagli enormi occhi, simbolo della notte e delle ancestrali paure che il buio può suscitare. Il fitto tratteggio incrociato crea drammatici effetti di chiaroscuro, in piena sintonia con il sapore simbolico del titolo. In tal modo, infatti, l’artista vuole mettere in guardia dalla tentazione di allentare il controllo della ragione sul nostro operato, al fine di evitare il prevalere dei nostri istinti peggiori: i mostri, appunto. Senza la mediazione della ragione, infatti, avrebbero il sopravvento gli istinti peggiori e più animaleschi e l’unica legge possibile sarebbe quella selvaggia del più forte, fatta di violenza, prevaricazione e morte. • Ritratto della marchesa della Solana Fin dal 1785 Goya intraprende un’intensa attività di ritrattista per una selezionata e facoltosa committenza vicina agli ambienti aristocratici e di corte. Un grande dipinto a olio conservato al Louvre ritrae a dimensioni pressoché reali la marchesa della Solana, María Rita Barrenechea y Morante (1757-1795), celebre e colta nobildonna spagnola, ritratta poco prima della sua prematura scomparsa. L’esile e severa figura della donna, che indossa un semplice abito nero lungo, si staglia con rilievo sullo sfondo neutro di un interno spoglio di qualsiasi arredo e decoro. La posizione eretta, con le mani inguantate incrociate all’altezza della vita (la destra regge un ventaglio chiuso) e le gambe lievemente accavallate, come si evince dai piedi che calzano scarpini appuntiti alla moda, allude a una personalità decisa e raffinata. Il volto dallo sguardo intenso e altero, incorniciato da una folta capigliatura castana, pare incastonato tra il gran fiocco rosa dell’acconciatura e il ricco velo bianco che dalla testa ricala vaporosamente sulle spalle avvolgendo l’intero busto. La pennellata veloce di Goya, più che alla resa dei particolari, mira all’effetto d’insieme, cercando sempre il perfetto bilanciamento dei toni. Tema, questo, che ricorre anche in molti altri ritratti femminili dell’artista, sempre particolarmente attenti a restituire lo spessore umano e l’inclinazione psicologica dei personaggi. • Maja desnuda e Maja vestida Le due tele con la Maja desnuda (nuda) e la Maja vestida (vestita), senza dubbio tra le più celebri di Goya, dovrebbero essere state realizzate tra gli ultimi anni del Settecento e il 1808, per quanto la Maja desnuda, talvolta ritenuta successiva, sia ormai definitivamente accertata come sicuramente anteriore (ca 1795/1796). Nonostante l’apparente somiglianza le modelle scelte potrebbero essere diverse: quella della Maja vestida, infatti, sembra più alta e slanciata; quella della Maja desnuda – al contrario – è di statura inferiore e di corporatura più minuta. Al di là di varie ipotesi più o meno fantasiose, comunque, nulla di certo si sa circa la loro reale identità (forse la duchessa d’Alba o l’amante del probabile committente), il che – unitamente al fatto che la Maja desnuda sia forse il primo nudo in pittura che non rappresenti personaggi mitologici, storici o biblici – ha senza dubbio contribuito alla fama leggendaria dei due dipinti. Mollemente adagiate su dei grandi cuscini, entrambe le majas, volutamente collocate nella stessa maliziosa postura, assumono un atteggiamento vagamente artefatto e innaturale. Ciò è comunque riscattato dall’intensa naturalezza dei volti, nei quali i vividi occhi sono puntati con decisione, quasi con sfrontatezza, verso chi osserva il dipinto. La tecnica, infine, fa già presagire la grande rivoluzione goyesca degli anni successivi. Nella Maja vestida, ad esempio, che le testimonianze del tempo descrivono abbigliata «alla gitana», le maniche riccamente lavorate della giacchetta giallo-oro, simile a un bolero, con nappe nere lungo gli orli sono realizzate con pennellate giustapposte di giallo, di ocra e di bruno, secondo una sensibilità già molto attenta al colore e alle emozioni che esso suscita. In ambedue i casi, comunque, il risultato che ne scaturisce è quello di un’atmosfera luminosa e serena, nella quale tutto contribuisce a mettere in rilievo la vitale femminilità del personaggio ritratto, a prescindere se siano una sola o due persone diverse. • La famiglia di Carlo IV Il ritratto della famiglia di Carlo IV segna il definitivo punto di non ritorno del pittore di corte che, partito da una formazione ancora sostanzialmente neoclassica, appare ormai approdato a una visione di disincantato realismo. Questo grande dipinto, infatti, allude fortemente alle analoghe atmosfere di corte magistralmente descritte da Velázquez, anche se vi si riscontra, in aggiunta, un’ironia tagliente, del tutto estranea alla maniera del grande maestro barocco. I tredici personaggi del dipinto sono disposti in tre gruppi, a loro volta collocati in modo da disegnare sul pavimento una sorta di ampia «S», con l’evidente scopo di dare a ciascuno il giusto rilievo fisico ma anche (e forse soprattutto) psicologico e morale. Nel gruppo di centro balza prepotentemente in rilievo la figura della volitiva regina Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV e vera e propria artefice di ogni iniziativa a corte. Nel gruppo di destra, invece, primeggia la figura di re Carlo IV, mentre in fondo, a sinistra, nella semioscurità della vasta e disadorna sala, fa capolino il quattordicesimo personaggio del dipinto. Si tratta dell’enigmatico autoritratto di Goya, nel quale l’artista si rappresenta in atto di dipingere un ipotetico soggetto collocato alle spalle di chi guarda la grande tela. Le sontuose vesti delle dame e le ricche decorazioni di gala degli uomini sono realizzate con l’uso di pennellate estremamente libere, secondo la tecnica dei colori giustapposti, al fine di esaltarsi e accendersi vicendevolmente, come se un ideale raggio di luce percorresse trasversalmente la sala, illuminando i volti di tutti (Goya escluso) e i corpi interi dei regnanti e dei due infanti accanto alla regina, gli unici ai quali l’artista conferisce espressioni di mesta e innocente umanità. L’uso simbolico della luce trova perfetto riscontro sul piano di lettura psicologico dei personaggi del dipinto, messi a punto attraverso una decina di studi particolari, preventivamente sottoposti alla personale approvazione del sovrano. • Le fucilazioni del 3 maggio 1808 sulla montagna del Principe Pio Nel grandioso dipinto storico Le fucilazioni del 3 maggio 1808 sulla montagna del Principe Pio Goya porta sulla tela il dramma della rivolta antinapoleonica, vissuta in prima persona quando, agli inizi di maggio del 1808, assistette alla eroica resistenza del popolo madrileno contro l’invasione delle truppe francesi. La tela, dipinta sei anni dopo quelle luttuose giornate, costituisce una straordinaria novità nel panorama artistico del tempo. In essa, infatti, vengono per la prima volta riprodotti (e in modo assolutamente non idealizzato) avvenimenti contemporanei colti nel vivo del loro cruento svolgersi. Il dipinto raffigura una delle tante esecuzioni sommarie effettuate dalle truppe napoleoniche. A destra, di spalle, è compattamente schierato il drappello del plotone di esecuzione, con alti colbacchi neri e pesanti pastrani. Dei volti dei soldati non solo è impossibile percepire l’espressione, ma anche i lineamenti paiono inghiottiti dalla notte. A sinistra vi sono i patrioti spagnoli. Scompostamente ammassati gli uni contro gli altri, come poveri animali impauriti, essi vengono rappresentati con un realismo carico di tragica pietà. L’uomo con la camicia bianca leva le braccia al cielo in un gesto che, oltre ad affermare la propria giusta causa, è anche di disperazione e di rabbia. Nel suo volto, infatti, si legge con impressionante crudezza il tumultuare dei sentimenti. Questo ritorna con evidenza anche nelle espressioni dei compagni che gli si stringono attorno: in tutti vi è la disperata paura della morte, quella sconosciuta agli impassibili eroi della pittura neoclassica. La tecnica pittorica è un tutt’uno con la volontà espressiva dell’artista. La cupezza dei toni, infatti, ha il duplice significato di rispecchiare sia i valori paesaggistici della drammatica scena sia quelli psicologici, messi in rilievo dalla situazione altamente emotiva. In basso, quasi si trattasse di un mucchio di stracci sporchi, si accalcano indistintamente i cadaveri di coloro che sono già stati fucilati. Il corpo in primo piano, in particolare, ha il volto orribilmente sfigurato e giace riverso sul terreno intriso del suo stesso sangue. Le macchie informi si fanno sangue, carne e volume, plasmati dall’incerta luce della grande lanterna ai piedi dei soldati, con sullo sfondo – lontano e pur incombente – il profilo di Madrid, addormentata nella notte della vendetta. La frammentarietà della pennellata, la povertà della tavolozza, con l’uso di colori sporchi e terrosi, l’espressività dei personaggi, la volontà di cogliere e di bloccare l’attimo irripetibile sono altrettanti indizi di una tecnica pittorica che, pur partendo da solidi presupposti neoclassici, sta già decisamente avviandosi verso il gusto romantico. • Saturno divora un figlio Saturno divora un figlio, uno dei dipinti più raccapriccianti di tutta l’arte occidentale, è stato realizzato da Goya nel suo «periodo nero», quando, già malato e disilluso, si era ritirato nella Quinta del Sordo. La scena di Saturno che divora uno dei suoi cinque figli è di grande impatto emotivo. Il personaggio, la cui immonda vecchiezza è sottolineata da un’informe criniera di barba e capelli grigiastri, emerge dalla penombra della notte con disumana violenza. Bagliori sinistri lumeggiano qua e là la selvaggia magrezza del terribile dio che con i suoi artigli ghermisce il corpo straziato del figlio, dilacerandone le membra. Gli occhi iniettati di sangue gettano lampi di follia e le fauci spalancate inghiottono ripugnanti brandelli di carne sanguinolenta. L’orrore e la ferocia che scaturiscono dal dipinto non sono fini a se stessi. Pur nella voluta esagerazione dei toni, il tema è ricco di evidenti allegorie. Con le sue indiscriminate repressioni, infatti, Ferdinando VII – fautore di un rigoroso ritorno all’assolutismo monarchico – sterminava i propri sudditi allo stesso modo di come Saturno divorava i propri figli, entrambi preda della smania di potere e della follia di onnipotenza. La tecnica pittorica si adatta perfettamente alla drammaticità del tema. I colori, anche qui volutamente impastati e terrosi, sono emblematica espressione dell’abbrutimento cannibalesco, mentre i drammatici effetti di chiaroscuro e la composizione geometricamente diagonale delle spalle e della gamba destra conferiscono al personaggio un impeto di inquietante vitalità. ARCHITETTURE NEOCLASSICHE Nel 1786, in pieno Neoclassicismo, il nobile veneziano Andrea Memmo (1729-1793), seguace e ammiratore del letterato e architetto padre Carlo Lodoli (Venezia, 1690-Padova, 1761), dette alle stampe il primo volume degli Elementi d’architettura lodoliana, un insieme delle teorie propugnate dall’ecclesiastico veneziano, legato alla cultura illuminista e che non lasciò alcuno scritto. Il Lodoli fu il primo a rifiutare gli eccessi dell’ornamentazione barocca, spesso fine a se stessa, e a ritenere che l’architettura dovesse essere intesa come espressione della sua funzione. La bellezza di un manufatto edilizio, infatti, stava nella corrispondenza proporzionale fra le strutture, nell’armoniosa distribuzione planimetrica degli ambienti e nella esatta precisazione della loro funzione specifica. La pubblicazione di Andrea Memmo contribuì notevolmente alla diffusione di queste idee, per allora assolutamente rivoluzionarie. Al Lodoli si ispira anche il massimo teorico dell’architettura neoclassica, il pugliese Francesco Milizia (Oria, Brindisi, 1725-Roma, 1798), il quale afferma che in architettura «tutto ciò che è in rappresentazione dev’essere in funzione», cioè tutto quello che viene progettato deve assolvere a una precisa funzione. Autore, nel 1768, delle Vite de’ più celebri architetti – seguendo il collaudato schema delle Vite vasariane –, Milizia tese a valutare negativamente anche artisti del calibro di un Michelangelo e di un Borromini. Nel 1781 pubblicò un trattato di architettura, Principi di architettura civile, attribuendo molta importanza ai materiali impiegati in edilizia e alla loro lavorazione. Il Milizia riteneva che la massima espressione dell’architettura fosse stata quella greca, di cui ammirava lo stile «semplice e grande». Tuttavia il suo forte senso critico lo portò anche a esprimere severi giudizi nei riguardi del De architectura di Vitruvio, nonostante egli riconoscesse l’antico architetto-scrittore quale principe dell’arte edificatoria e lo lodasse come unica fonte dei giusti principi architettonici. È da sottolineare che proprio agli inizi dell’Ottocento, tra il 1829 e il 1830, il “sacro” testo vitruviano – studiato per secoli da intere generazioni di architetti e che aveva già avuto numerose edizioni e traduzioni nelle maggiori lingue europee – venne stampato di nuovo dall’architetto Carlo Amati (Monza, 1776-Milano, 1852) con abbondanza di illustrazioni caratterizzate dal segno distintivo della grafica neoclassica, cioè la semplice e armoniosa linea di contorno. È, quindi, al mondo greco-romano che guarda anche l’architettura neoclassica. ROBERT ADAM (1728-1792) Il maggiore degli architetti d’Oltralpe fu senza dubbio lo scozzese Robert Adam (Kirkcaldy, 1728- Londra, 1792) che in Italia ebbe modo di studiare le antichità di Roma e della Campania. I suoi viaggi lo condussero in seguito anche in Dalmazia, dove rilevò il Palazzo di Diocleziano. Ovunque andasse misurava e disegnava tutto quel che di antico vedeva o che lo incuriosiva. Fu così che si formò un contiene contrastano con i grigi della chiesa suggerendo una visione grandiosa e quasi fiabesca. Due culture architettoniche, quella dell’Oriente mistico ortodosso e quella della lontana classicità romana, sono messe a confronto, ed è la seconda a conferire monumentalità, dignità e “antichità” alla prima: il monastero moscovita, infatti, era appena al suo primo centenario quando Quarenghi lo raffigurò. CANOVA, QUATREMERE DE QUINCY, NAPOLEONE, DUE PAPI Lunghi convogli di carri lasciarono Roma il 10 aprile, l’11 maggio, il 10 giugno e il 4 luglio 1797: erano carichi di opere d’arte provenienti dalle raccolte pubbliche e dalle chiese dello Stato Pontificio. Destinazione: Parigi. Era quel che i Francesi avevano preteso dal pontefice Pio VI Braschi a seguito del Trattato di Tolentino (19 febbraio 1797). In tal modo avrebbero dovuto aver fine sia l’invasione dei territori papali da parte dei Francesi guidati dal generale Napoleone Bonaparte sia le corrispondenti iniziative di difesa dello Stato della Chiesa. Ma appena un anno dopo i Francesi occuparono egualmente Roma, venne proclamata la Repubblica Romana, il papa fu deposto come sovrano temporale, condotto in Francia nel 1799 e considerato prigioniero di Stato. Nel frattempo, nel luglio 1798 per le strade di Parigi erano sfilati trionfalmente carri ricolmi di dipinti, sculture, oggetti preziosi, manoscritti e migliaia di volumi requisiti in Italia (perché non solo Roma e lo Stato Pontificio furono oggetto di spoliazione, ma gran parte dell’Italia e, anzi, ogni nazione occupata dagli eserciti francesi subì la stessa sorte). Le opere d’arte così raccolte furono esposte al Muséum Central des Arts de la République (poi Musée Napoléon) inaugurato appena il 10 agosto 1793, occupando la Grande Galerie e il Salon Carré del Palazzo del Louvre. In conseguenza a questo il museo crebbe notevolmente, arricchendosi di sempre nuovi bottini di guerra degli eserciti francesi, soprattutto per l’interesse di Dominique Vivant Denon (1747-1825), suo direttore a partire dal 1802. La potenza del trionfo e la celebrità dei capolavori giunti a Parigi furono tali da essere eternate persino dai decori delle porcellane della manifattura di Sèvres mentre Benjamin Zix (1772-1811) – uno tra i maggiori disegnatori d’età napoleonica – illustrava in un disegno la visita notturna, al suggestivo lume delle fiaccole, di Napoleone e della consorte, l’imperatrice Maria Luisa, alla sala del Louvre che esponeva uno dei trofei più preziosi, il Laocoonte delle raccolte vaticane. Morto in esilio Pio VI – che, quando gran parte delle collezioni di statue classiche lasciava l’Urbe forse per sempre, aveva comunque provveduto a farne trarre dei calchi – nel 1800 a Venezia fu eletto papa Pio VII Chiaramonti (1800-1823) che subito prese possesso di Roma. Le ruberie e le spoliazioni francesi continuarono ancora e aumentarono soprattutto quando, nel 1809, Napoleone, nel frattempo divenuto imperatore, decretò la fine del potere temporale dei papi e incarcerò lo stesso Pio VII nel castello di Fontainebleau. Il 24 maggio 1814, però, Pio VII poté rientrare a Roma grazie all’appoggio degli oppositori di Napoleone. L’ultima parte della sua vita fu spesa in grandi azioni riformatrici. Tra queste è senz’altro da includere la promulgazione di leggi sulla salvaguardia dei beni storico-artistici dello Stato, importantissime e fondamentali anche per l’influenza che ebbero sugli sviluppi dell’organizzazione della tutela del Regno d’Italia prima e della Repubblica Italiana poi. Già nel 1802, del resto, Pio VII aveva avuto l’avvedutezza strategica di nominare «l’incomparabile scultore Canova, emolo dei Fidia e dei Prassiteli» Ispettore Generale alle Belle Arti. L’artista, in occasione del suo primo viaggio a Parigi, approfittando delle lunghe sedute di posa per ritrarre Napoleone, ebbe modo di lamentarsi direttamente con lui per le dolorose spoliazioni di Roma e nel 1810, durante il suo secondo soggiorno parigino, riuscì anche a convincerlo a fornire aiuti economici all’Accademia di San Luca e all’Accademia di Firenze. Inoltre, all’invito di Napoleone a restare a Parigi poiché lì erano ormai raccolti tutti i principali capolavori, accompagnato da «ora abbiamo tutto, non ci manca che l’Ercole Farnese!», Canova rispondeva: «Per carità, Vostra Maestà lasci queste cose in Italia giacché formano collezione con tant’altre che non si possono portar via né da Napoli né da Roma». Secondo la lucida visione di Canova, dunque, i monumenti artistici d’Italia formano tutti assieme una “catena”, cioè sono legati l’uno all’altro da vincoli storici e risultano connessi ai luoghi per i quali vennero pensati o dove erano stati rintracciati oppure conservati. E formano tutti assieme una collezione che ha una sua omogeneità e una propria storia. Privare la raccolta di alcuni “pezzi” avrebbe voluto dire spezzare la catena, escludendo anelli importanti che fungevano da collegamento tra la storia artistica precedente e quella successiva. Disgregandola di fatto, il significato stesso della “collezione” sarebbe venuto meno perché incompleta e non più leggibile nel suo sviluppo. Inoltre, isolato dal resto, al singolo pezzo veniva a mancare la propria storia e il suo valore di testimonianza del passato; esso, sottratto dal contesto, sarebbe stato, dunque, considerato solo dal punto di vista del pregio artistico. Dopo la caduta di Napoleone, Pio VII inviò a Parigi quale suo ambasciatore proprio Antonio Canova per chiedere la restituzione delle opere d’arte trafugate. Il re Luigi XVIII – fratello del ghigliottinato Luigi XVI – che era succeduto a Napoleone nella ricostituita monarchia francese e il suo ministro degli Esteri, Talleyrand, rifiutarono risolutamente. Assieme a un ulteriore, ennesimo rifiuto, una risposta sferzante venne data a Canova anche dall’allora direttore del Museo del Louvre, dove l’artista si era recato per il ritiro dei capolavori pontifici. Infatti, a lui che si presentava come ambasciatore papale il direttore replicò con sarcasmo: «Ambasciatore! Suvvia, lei vuol forse dire imballatore». Scortato dagli Austriaci e dai Prussiani e aiutato dagli Inglesi, Canova riuscì comunque nel suo intento. La maggior parte delle opere precedentemente trafugate percorse allora a ritroso il lungo e difficoltoso viaggio che le aveva condotte a Parigi. Nell’agosto del 1816 Roma aveva di nuovo molti dei suoi più illustri capolavori. Contemporaneamente alla nomina di Canova quale Ispettore Generale alle Belle Arti, Pio VII aveva voluto emanare una serie di norme riguardanti la tutela delle opere d’arte con un significativo editto datato 2 ottobre 1802. In considerazione della perdita di molti pezzi notevoli a seguito del Trattato di Tolentino, il pontefice proibì ogni ulteriore esportazione delle antichità dal suo Stato. Ogni vendita poteva pertanto avvenire liberamente solo all’interno di Roma e, comunque, entro i confini statali. Questo perché le opere d’arte dovevano «rimanere perennemente a ornamento insieme della Città e per servire allo studio e alla istruzione degli artisti e degli eruditi». Si proibiva inoltre di danneggiare le «preziose memorie dell’antichità», di demolire gli edifici dell’antichità romana e di servirsi dei loro materiali per nuove costruzioni. Allo stesso tempo si sollecitavano i Conservatori di Roma, l’Ispettore Generale alle Belle Arti e il Commissario delle Antichità a vigilare, a restaurare, ripulire e conservare le antiche fabbriche. Infine, chiunque avesse posseduto collezioni di antichità o anche solo dei pezzi antichi doveva farne denuncia alle autorità in modo da poter giungere a un vero e proprio censimento delle opere d’arte, passaggio necessario e indispensabile per la loro tutela. È ovvio che soltanto se si conosce l’esistenza di un qualche oggetto d’arte è poi possibile impedirne la vendita all’estero e quindi mantenerlo all’interno dello Stato a perenne memoria del passato che costituisce la storia comune di tutto un popolo. Infine non sfuggiva al pontefice il grande richiamo esercitato dalle antichità di Roma sui viaggiatori e, quindi, il vantaggio economico che molti cittadini avrebbero potuto trarre anche dalle attività turistiche. Il 7 aprile 1820 le norme dell’editto del 1802 vennero rinnovate, precisate e accresciute. LE LETTRES À MIRANDA La legislazione pontificia inerente alla tutela aveva due fonti di ispirazione: la cosiddetta Lettera a Leone X di Raffaello e il molto più recente Lettres à Miranda. Infatti solo pochi anni prima, nel 1796, Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, come si è visto amico e ammiratore di Canova, aveva pubblicato un testo in forma epistolare – noto, appunto, come Lettres à Miranda (Lettere a Miranda) in quanto indirizzate al generale napoleonico, Francisco de Miranda nativo di Caracas – riguardante proprio la spoliazione dell’Italia. In queste lettere Quatremère parte dalla seguente constatazione di fondo:«[…] il propagarsi dei lumi ha reso questo grande servizio all’Europa, che non esiste più nazione che possa ricevere da un’altra l’umiliazione del nome di barbara: in tutte le sue contrade si osserva una comunanza di istruzione e di conoscenze, un’uguaglianza di gusto, di sapere e di industria». Quanto conduce al vivere civile, al perfezionamento dei mezzi della felicità, al progresso «appartiene a tutti i popoli». E così prosegue:«[…] nessuno ha il diritto di appropriarsene o di disporne arbitrariamente. Colui che volesse attribuirsi una sorta di diritto o di privilegio esclusivo sull’istruzione e sui mezzi di istruzione sarebbe ben presto punito per questa violazione della proprietà comune, dalla barbarie e dall’ignoranza». Barbarie e ignoranza che colpirebbero in primo luogo proprio quei popoli privati dei loro manoscritti, dei loro libri, delle loro opere d’arte, ma anche la nazione che si fosse resa colpevole di tale crimine poiché finirebbe per trovarsi a sua volta circondata da popolazioni incivili. Scrive Quatremère all’indirizzo di Miranda:>«Per il momento, se voi convenite sulla sola possibilità del pregiudizio che porterebbe all’istruzione generale dell’Europa il dislocamento dei modelli e delle lezioni che la natura, per sua volontà onnipotente, ha posto in Italia, e soprattutto a Roma, voi converrete anche sul fatto che la nazione che se ne rendesse colpevole verso l’Europa, che contribuirebbe a rendere ignorante, sarebbe anche la prima a essere punita dall’ignoranza stessa dell’Europa, che ricadrebbe su di lei».Roma è significativamente considerata un vero e proprio museo:«Cosa farebbe la Potenza che scegliesse per esportarli e per appropriarsene alcuni di quei monumenti interessantissimi? Precisamente ciò che farebbe un ignorante che strappasse da un libro i fogli in cui trova delle vignette […]. Non convenite sul fatto […] che ogni progetto di smembramento del museo di Roma, sia un attentato contro la scienza, un crimine di lesa istruzione pubblica?».Infine Roma costituisce «un intero mondo da percorrere»:«una sorta di mappamondo in rilievo, dove si possono vedere in compendio l’Egitto e l’Asia, la Grecia e l’Impero Romano, il mondo antico e moderno; e che aver visto Roma è aver fatto in un solo viaggio numerosissimi viaggi; e che, di conseguenza, disperdere i modelli di Roma è allontanare da coloro che studiano gli strumenti della scienza e gli oggetti delle loro ricerche».Il 16 agosto 1796 anche cinquanta importanti artisti indirizzarono, purtroppo inutilmente, una petizione al Direttorio (il massimo organo del governo rivoluzionario francese) per appoggiare le tesi di Quatremère de Quincy: anche il grande David era fra loro. NEOCLASSICISMO E ROMANTICISMO Neoclassicismo e Romanticismo costituiscono due importanti fasi di uno stesso processo storico che, pur sembrando a prima vista assolutamente opposte, risultano in realtà tra loro profondamente connesse sul piano artistico e culturale, oltre che spesso sovrapponibili anche temporalmente. Mentre il Neoclassicismo si fa promotore di un generalizzato ritorno all’equilibrio e alla disciplina, ispirandosi soprattutto ai modelli classici, il Romanticismo esalta la fantasia, la sensibilità personale e la malinconia, esasperando il sentimento e rifiutando tutto ciò che si poteva in qualche modo ricollegare al razionalismo illuminista che del Neoclassicismo aveva costituito la base teorica. Gli artisti e gli intellettuali romantici, pur contrapponendosi in modo vivace (e talvolta addirittura violento) a quelli neoclassici, hanno comunque una formazione culturale assai simile. Sia gli uni sia gli altri, infatti, vivono alla costante ricerca di forme espressive che si dimostrino in grado di far evadere dall’insoddisfazione di un oggi in sempre continua e spesso troppo rapida evoluzione. Il modo di vedere e di sentire la natura, ad esempio, rende perfettamente l’idea della contrapposizione ideologica fra i due movimenti. L’artista romantico si sente parte integrante della natura e vi si immerge profondamente, personalizzandola e spesso anche modificandola in funzione dei propri stati d’animo e delle proprie necessità di espressione. L’artista neoclassico, al contrario, si sforza di rimanerne estraneo e di indagarne razionalmente le caratteristiche al fine di padroneggiarla, negandole volutamente qualsiasi valore poetico ed espressivo e utilizzandola al massimo come scenografico elemento di contorno. Nella Veduta di Roma che il paesaggista russo Fëdor Michajlovič Matveev (1758-1826) realizza nel 1816, per esempio, la vegetazione in primo piano è trattata, con ogni evidenza, come una pura e semplice cornice, adatta al solo scopo di meglio valorizzare l’immagine centrale del Colosseo, unico vero punto d’interesse del dipinto. L’arte neoclassica, infatti, vuole essere imitatrice non della natura, ma dei modelli ideali che di essa hanno elaborato i classici. Ne consegue, però, che mitizzando l’età classica come età dell’oro, alla quale fare sempre riferimento, anche il Neoclassicismo compie di fatto un’operazione assolutamente irrazionale, contraddicendo le sue stesse premesse illuministe e preludendo in modo chiaro a quella che sarà l’evasione romantica verso le dimensioni della soggettività, della natura e del sentimento.
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