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Storia dell'Arte Moderna: il Cinquecento, Sintesi del corso di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche

Sintesi da Itinerario nell'Arte, Cricco-Di Teodoro (Capitoli 15-19)

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 08/06/2020

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Scarica Storia dell'Arte Moderna: il Cinquecento e più Sintesi del corso in PDF di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche solo su Docsity! Sintesi da Itinerario nell’arte, Cricco – Di Teodoro Argomenti: il Cinquecento: Bramante, da Vinci, Raffaello, Michelangelo; l’esperienza veneziana: Giorgione, Tiziano, Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, il Correggio; Verso il Manierismo: Andrea del Sarto, Baldassarre Peruzzi, Pontormo, Rosso Fiorentino, Perino del Vaga, Parmigianino, Giulio Romano, il Sansovino, Benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammannati, Giambologna, il Vignola; Giorgio Vasari; Arte e Controriforma. 17) IL CINQUECENTO Profilo Storico: Due terzi dell’Italia erano controllati da potenze straniere: Ducato di Milano alla Francia di Luigi XII (1499), Regno di Napoli alla Spagna di Ferdinando II il Cattolico. Tentativo di un intervento in funzione antifrancese da parte della lega voluta da papa Giulio II della Rovere nel 1511. Nel 1519 Carlo V viene eletto imperatore: possiede i domini asburgici, quelli spagnoli e le Fiandre. La Francia stretta fra i vasti possedimenti imperiali è costretta alla guerra: il Sacco di Roma del 1527 ne è una conseguenza. Con l’abdicazione di Carlo V nel 1556 l’impero viene spartito. I francesi saranno sconfitti da Emanuele Filiberto di Savoia e dagli spagnoli: la pace di Cateu-Cambresis del 1559 sancisce il predominio spagnolo sulla penisola italiana. Anche gli stati non direttamente dipendenti dalla potenza spagnola ne avvertono il peso della dominazione: Repubblica di Venezia, Stato della Chiesa, Ducato di Toscana, Ducato di Savoia e Repubblica di Genova. Durante il pontificato di Leone X de’ Medici, il 31 ottobre del 1517 le 95 tesi di Martin Lutero -affisse alle porte della chiesa del castello di Wittenberg- battezzano la Riforma Protestante, a cui aderirà buona parte della Germania settentrionale. La conseguente condanna di Leone X e poi di Carlo V e la scissione dalla Chiesa di Roma saranno i punti di partenza per le guerre di religione, che videro la fine solo nel 1555 con la pace di Augusta e la legittimazione della libertà di religione. Il desiderio di rinnovazione spirituale culminò con la fondazione di nuovi ordini religiosi, quali i Gesuiti/Compagnia di Gesù di Ignazio di Loyola (1540), e la Controriforma, di cui ricordiamo i lavori del Concilio di Trento (1545-1563). Il periodo di massima diffusione dell’arte italiana in Europa coincide con quello di declino della situazione politica della Penisola. Profilo artistico: Nel 1550 Giorgio Vasari pubblica a Firenze la prima edizione de le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. La seconda edizione è del 1568. Le tre sezioni dell’opera riflettono le tre età dell’arte secondo Vasari in un progressivo miglioramento che culmina nella bella maniera -che ha il suo acme in Michelangelo, a cui seguirà un inevitabile declino. Infatti, per Vasari lo scopo dell’arte è la mimesi. È Leonardo che dà inizio alla terza maniera, mostrando con la sua arte i limiti degli artisti che lo avevano preceduto. Inoltre, per Vasari il disegno ha importanza basilare nella resa artistica. Da Leonardo, poi con Bramante, Raffaello e Michelangelo, si fa strada l’ideale dell’artista completo: maestro in tutte le discipline in cui si cimenta (superando anche l’ideale di Vitruvio e dell’Alberti). È un periodo di conquiste per l’artista: dalla condizione sociale di umile artigiano, praticante di arti meccaniche (divisione delle arti del Medioevo), passa a quella di intellettuale, elevando la sua disciplina al rango di arte liberale (insieme a grammatica, retorica, poesia, musica, giurisprudenza, astrologia e filosofia). Il cambiamento non avviene naturalmente, ma grazie alla tenace difesa dell’arte messa in pratica dagli stessi artisti. Nel primo ventennio del Cinquecento è Roma, grazie ai suoi pontefici (Giulio II, Leone X), ad avere in Italia il predominio artistico, ostacolato solo dal sacco di Roma delle truppe imperiali di Carlo V, con cui il Vaticano fu costretto a far fronte a grosse perdite. Ma il ruolo di guida artistica della Città Eterna viene anzi rafforzato dalla diffusione della sua arte, successiva al saccheggio: gli allievi dei quattro grandi (Leonardo, Bramante, Raffaello e Michelangelo) in fuga da Roma portano con sé l’eredità dei maestri e diffondono per le corti d’Italia la bella maniera. Ha inizio così un periodo di adesione alla perfezione formale dei grandi maestri, con i conseguenti sviluppi che l’imitazione di questi porterà nell’arte italiana del Cinquecento. Già nel Quattrocento il recupero dell’Antico aveva dato il via al collezionismo. Ma è nel Cinquecento che le collezioni di antichità iniziano ad influenzare le scelte della cultura artistica: sono le collezioni di nobili famiglie e della corte pontificia. Ricordiamo a tal proposito il progetto del Cortile del Belvedere in Vaticano voluto da Giulio II della Rovere: una raccolta di “anticaglie”, accresciuta dai successori Leone X e Clemente VII. Ad accrescersi in continuazione era anche la collezione privata -cominciata per volere di Paolo III Farnese- dei Farnese, che a metà del Cinquecento poteva competere con quella pontificia. Donato Bramante (1444-1514) Donato nasce nei pressi di Urbino e si forma nella scuola del cantiere urbinate. In rapporti strettissimi con Leonardo, fa esperienza alla corte degli Sforza a Milano, per recarsi poi a Roma nel 1499. È proprio a Roma che, durante il pontificato di Giulio II, dà avvio all’architettura del Cinquecento e lì muore nel 1514. Dai suoi disegni, emerge l’influenza della pittura prospettica di Piero della Francesca, della classicità di Leon Battista Alberti e di Andrea Mantegna. Dal Nudo Maschile (ca 1490/1495, Monaco di Baviera) emerge la grande attenzione tanto per le proporzioni quanto per la resa anatomica (come dimostra il rilievo delle articolazioni, dei nervi e dei muscoli). Il Cristo alla colonna (ca 1490, Milano, Pinacoteca di Brera) dipinto per l’Abbazia di Chiaravalle Milanese è un esempio del forte realismo bramantesco. L’interno è classicheggiante, come rivela il pilastro dai motivi vegetali dorati. Oltre la finestra, fonte di luce, si delinea un paesaggio minutamente dipinto. Il corpo (in mezzo busto) di Cristo è trattato alla maniera fiamminga: colorito, muscoli e vene in rilievo, premere della stretta corda sulla carne, sono tutti elementi resi con realismo. Le forme anatomicamente perfette sono aiutate dalle ombre nella modellazione del corpo classico. Documento programmatico dell’architettura bramantesca: Stampa Prevedari (1481, Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe) incisione eseguita da Bernardo Prevedari su disegno di Bramante (come evidenzia il basamento del grande candelabro nella navata centrale). È una veduta prospettica di un tempio in rovina -probabilmente di tre navate con abside poligonale- con figure al suo interno. Numerosi i rinvii alla classicità: fregi, lunette con centauri, girali dei sottarchi, cassettoni con rosette, tondi con teste virili, base dei capitelli corinzi con motivo a intreccio. Ma ci sono anche citazioni più specifiche: l’adesione alla pittura di Piero della Francesca per le similitudini con la Sacra Conversazione (abside preceduta da volta a botte cassettonata e conchiglia rovesciata nel cantino); la conoscenza dei principi architettonici di Leon Battista Alberti (pilastri su piedistalli); l’adesione allo schema di Brunelleschi (arco sostenuto dall’ordine ed inquadrato da un ordine più grande). Le influenze dei maestri di Bramante convivono armoniosamente. Lavora alla ricostruzione della Chiesa di Santa Maria presso San Satiro (1482-1486) a Milano. La pianta della chiesa è composta da un corpo longitudinale a tre navate e un transetto (pianta a T). Citazione dell’Alberti sono la copertura a botte (Sant’Andrea di Mantova) e i pilastri privi di base (Chiesa di San Sebastiano). Ripresa dal Pantheon è la cupola emisferica cassettonata sull’intersezione della navata centrale col invertita da San Giovannino. Leonardo lavora sulla torsione, che ripropone in tutti e quattro i soggetti. Già in questa sperimentazione sono evidenti due elementi della sua poetica artistica: lo sfumato, nei contorni non definiti e nel passaggio non evidenziato tra zone di luce e ombra, ed il contrapposto, bilanciamento delle masse corporee in sensi opposti ai lati di un asse. Agli esordi fiorentini corrisponde il periodo dell’Annunciazione (1472-1475, Uffizi), tavola ancorata agli insegnamenti di bottega del Verrocchio. La tavola è divisa in due piani di profondità: il primo dedicato alla narrazione dell’annuncio, il secondo ad un paesaggio, fluviale a sinistra e marino a destra, divisi da un muretto e dalle varietà arboree oltre quello. La casa della Vergine è rappresentata secondo il gusto tardo quattrocentesco, intonacato e con bugne lungo spigoli ed aperture. Il giardino dell’annunciazione è ricco di molteplici varietà erbose, che denotano l’interesse leonardesco per la botanica. Il leggio marmoreo è realizzato secondo il gusto ornamentale del secondo quattrocento fiorentino: sostenuto da zampe di leone, con foglie lungo gli spigoli, volute a spirale, festoni floreali, girali, conchiglie affiancate da nastri svolazzanti. Il paesaggio lontano riporta anche una montagna, la cui altezza è rivelata dalla nube sull’estremità e ai cui piedi sorge una città portuale. L’angelo è colto nell’atto dell’annuncio, con le ali ancora dispiegate; mentre Maria rivela la sorpresa attraverso il gesto della mano sinistra, pur mantenendo uno sguardo imperturbabile, dolce e sereno. I manti- rosso vivo dell’angelo e azzurro di Maria- mostrano la bravura dell’artista nella tecnica del panneggio, dipinto verosimilmente. Alcune imperfezioni -la lunghezza delle gambe di Maria, il confondersi del cipresso sulla destra con l’angolo dell’edificio, la distanza esagerata del leggio dalla Vergine, il suo braccio destro stranamente articolato- potrebbero essere pensate come correzioni ottiche, legate alla destinazione dell’opera. L’innovativa poetica figurativa portata avanti da Leonardo è mostrata nell’Adorazione dei Magi (1481-1482, Uffizi), incompiuto, che si mostra come disegno a pennello con prime velature di colore stese. Leonardo ha maturato l’esperienza fiorentina: gli insegnamenti di Alberti, Donatello e Ghiberti sono messi a frutto. Ma introduce anche novità, prima fra tutte quella del linguaggio dei gesti e dei volti, ma anche la narrazione spostata all’esterno. La Vergine è in posizione centrale, attorno a lei i magi, due gruppi di pastori (a destra e sinistra) e gli angeli (alle sue spalle): tutte queste figure rivelano nell’espressione stupore, meraviglia. Il movimento vorticoso è dovuto alla presenza divina e alla verità rivelata (epifania): in secondo piano, fanciulle e cavalieri che si azzuffano suggeriscono l’agitazione del mondo pagano di fronte alla rivelazione. La costruzione in prospettiva è evidenziata dai due alberi in primo piano e dal tempio in rovina (simboleggiante la distruzione del tempio di Gerusalemme). La capanna della Natività è decentrata: in secondo piano, appena abbozzata a destra. I due alberi, oltre alla funzione geometrica, sono simboli del futuro di Gesù: l’alloro il trionfo sulla morte, la palma il martirio sulla croce. L’accento sugli scuri, fa risaltare per contrasto le parti in luce. La resa scultorea di forte plasticismo, è sfumata. Rimane incompiuta per la partenza alla volta di Milano: sarà conservata presso il ricco banchiere Amerigo Benci, dove l’ammirerà Raffaelo. Uno schema di fortuna tra quattrocento e cinquecento è quello della pianta centrale. Leonardo ne fa studi e proposte nelle Chiese a pianta centrale, disegni a inchiostro (1484-1488, Parigi). Si tratta di edifici con nucleo centrale, a volte incluso in una struttura a pianta quadrata, con cupole (estradossate, costolonate o con tiburio). A coronare il nucleo centrale è frequente la presenza di corpi di minore dimensione a pianta variabile. Le architetture disegnate sono tutte compatte e resistenti, specialmente quelle più ricche di corpi secondari attorno a quello centrale. Dalla confraternita dell’Immacolata Concezione gli viene commissionata la Vergine delle Rocce (1483-1486, Louvre), tavola destinata ad un altare nella chiesa paleocristiana di San Francesco Grande (ex cimitero cristiano, noto come “grotta”). L’ambientazione è innovativa rispetto a quella tradizionale: l’atmosfera scura dello scenario permette il risalto per contrasto dei volti in luce. Lo spazio è aspro, roccioso, in secondo piano traspare un paesaggio d’acque profondissimo. Specie erbose varie sono distribuite con equilibrio lungo le pareti rocciose, richiamo alla vita esaltato dall’aridità che le circonda. San Giovannino è in adorazione, mentre il Bambino lo benedice. L’angelo con un gesto aggraziato indica allo spettatore San Giovannino. Il paesaggio primordiale, incontaminato potrebbe essere illusione all’Immacolata. Un’altra allusione potrebbe essere quella a San Francesco, indicato sia come altro Cristo che come altro Giovanni. La tavola fu venduta in seguito ad un rifiuto della Confraternita, dovuto o ad un aumento della somma di denaro richiesta o ad una mancata adesione all’iconografia adottata da Leonardo. Introduce la prospettiva aerea -che definisce “dei colori”/ “dei pertinenti”- e rifiuta quella fiorentina. Gli studi di ottica gli permettono di inscenare uno sfondo realistico: via via sgranato all’aumentare della profondità. Una seconda versione di comune soggetto (1493-1506/1508, National Gallery) fu realizzata con la partecipazione dei suoi allievi. La variante è più luminosa, ma di una luce più fredda, scompare il gesto dell’angelo indicante il Santo, ai corpi è resa una maggiore volumetria, oltre che un avanzamento in profondità e l’aggiunta di aureole e la croce di San Giovannino. Uno studio radiografico ha fatto emergere un disegno sottostante raffigurante la Vergine di profilo, volta verso sinistra, con il braccio destro teso e quello sinistro portato al petto. In entrambe le versioni, sia quella francese che quella inglese, Leonardo fa emergere la sua ideologia artistica: usa uno schema piramidale, che avrà fortuna negli artisti successivi, coronamento dello studio geometrico dietro le sue opere; dà la sensazione del rilievo, fondamentale secondo la sua idea d’arte; studia con occhio indagatore non solo le figure umane, ma anche il paesaggio come personaggio del dipinto. Leonardo sperimenta la forma del ritratto con la Dama con l’ermellino (1489-1490, Cracovia), raffigurante Cecilia Gallerani, l’amante di Ludovico Sforza: la giovane fanciulla è in posa contrapposta (testa verso destra, corpo verso sinistra) e in luce solo per la porzione destra. Il corpo sembra annegare nello sfondo scuro. L’abbigliamento è quello in voga al tempo, la moda spagnola appena arrivata a Milano. La dama porta in braccio un ermellino in posizione araldica (zampa destra su Cecilia, zamba sinistra sollevata e piegata): simbolo di castità e allusione a Ludovico, appena investito dell’ordine dell’Ermellino (dal re di Napoli Ferrante I d’Aragona). I capelli sono stretti da un laccio e da un velo leggero fermato sotto il mento. La mano sinistra che regge l’ermellino è appena abbozzata e completamente in ombra. Cecilia è colta in atto d’ascolto. Voluto da Ludovico Sforza per il convento di Santa Maria delle Grazie è il Cenacolo (1495-1497, Milano). Il tema è quello dell’ultima cena, già ampiamente trattato, ma Leonardo ne fa una lettura innovativa, allontanandosi dalla tradizionale iconografia: i dodici apostoli sono tutti dallo stesso lato, disposti ordinatamente attorno a Cristo, Giuda non è isolato; non rappresenta la benedizione di pane e vino, ma l’annuncio del tradimento. Della scena evangelica, rappresenta il momento umano: il tradimento. La scelta del soggetto gli permette l’uso del linguaggio dei gesti e dei volti con cui da voce a angoscia, stupore e incredulità. I personaggi sono raggruppati a tre a tre con isolamento di Cristo. Manca l’aureola perché è la luce del paesaggio oltre l’edificio ad incoronare il Salvatore. La stanza che accoglie la scena riflette la costruzione prospettica e geometrica della scena, con punto di fuga nella testa di Cristo. La diversa gamma di reazioni dei dodici dà dinamismo al dipinto. Per Leonardo “il bono pittore ha a dipingere due cose principali, l’omo e ‘l concetto della mente sua” e quest’ultimo raffigurato “con gesti e movimenti delle membra”, ragione della difficoltà nella resa emotiva. Leonardo lo fa attraverso lo studio sui volti nei disegni preparatori alla tavola. Per la Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, Leonardo fu incaricato dalla repubblica fiorentina di dipingere un episodio della Battaglia di Anghiari nel 1503: combattuta tra fiorentini guidati da Orsini e milanesi guidati da Visconti e vinta da Firenze (29 giugno 1440). Contemporaneamente a Michelangelo veniva chiesta per la stessa sala una tavola della Battaglia di Cascina (Fiorentini vs Pisani, 29 luglio 1346). Due momenti vittoriosi per Firenze per simboleggiarne la virtù -scelti dal gonfaloniere Pier Soderini. Leonardo inizia a lavorare sul dipinto murale (1504-1505) pur non avendo concluso il cartone. Ma abbandonerà per motivi tecnici l’opera, che non venne mai conclusa. Leonardo torna a Milano l’anno successivo (1506). Ci rimangono molti disegni per la scena centrale della Lotta per lo stendardo, di cui molti artisti nel corso del Cinquecento faranno copie: tra queste, ha fortuna quella di un anonimo italiano del XVI, ritoccata da Rubens (Louvre). Esagerata torsione dei corpi, smorfie verosimili, armature zoomorfe, unità tra cavaliere e suo cavallo, tumultuosità della scena: è così che Leonardo esprime la creatività di gusto rinascimentale nella “pazzia bestialissima” -così la definisce- di questa scena. Durante il soggiorno fiorentino (1507-1508), dalle discussioni col collega Rustici matura l’idea dell’opera San Giovanni Battista (1508-1517 ca, Louvre). Il soggetto emerge dallo sfondo scuro in cui è immerso (lezione di ritratti di Bellini e Antonello da Messina), illuminato da una fonte di luce in alto a sinistra. Una pelle di lince gli attraversa diagonalmente il busto, lasciando scoperta la porzione sinistra in luce. La chioma è ricciuta e corona il volto, dallo sguardo ammiccante, dal sorriso misterioso. Con la mano sinistra, portata al petto, regge la croce. Con la mano destra invece indica l’alto, con chiara allusione alla venuta di Gesù. La tecnica dello sfumato è tradita solo nella spalla e nella mano destre, nitidamente delineate, mentre il resto delle forme si confondono tra loro. Il contrapposto regola la posa di San Giovanni: il busto rivolto a destra, il capo a sinistra verso il basso. A Firenze, lavora sul ritratto (1503-1506) della consorte di Francesco del Giocondo, Monna Lisa Gherardini, secondo il Vasari. Del dipinto incompiuto ci restano molti disegni preparatori ed il primo cartone. Fu concluso e modificato negli anni romani per Giuliano de’ Medici con il titolo di Monna Lisa o Gioconda (1513-1515), identificando il soggetto con Isabella Gualandi, gentil donna in rapporto coi Medici. La fanciulla è in posa al di qua di un parapetto, di tre quarti, con la mano destra poggiante sulla sinistra, a sua volta su un bracciolo di sedia. Rivolge un sorriso lieve allo spettatore, osservato da qualsiasi direzione. Leonardo camuffa con lo sfumato gli angoli della bocca e degli occhi, da cui ottiene l’effetto dell’espressione caratteristica: questa mancata definizione dei contorni netti suscita la voglia di indagare in chi guarda. Da qui deriva la vitalità stessa della figura. Soggetto al pari di Monna Lisa è il paesaggio che le sta dietro: deserto e roccioso, con due laghi su diversi livelli di profondità, è un ambiente primordiale. I due personaggi si fondono grazie allo sfumato leonardesco. Raffaello Sanzio (1483-1520) Nasce a Urbino da padre pittore il 28 Marzo 1483. Studia presso la bottega paterna e sulle opere raccolte alla corte dei Montefeltro. Inizialmente più vicino ai modi del Perugino, è affascinato successivamente da Leonardo. Nel 1504 con una lettera di presentazione al gonfaloniere Soderini arriva a Firenze. Lì rimane fino al 1508, quando su invito di papa Giulio II si sposterà a Roma. Attivo alla corte di papa Giulio prima e di Leone X poi, dal confronto con l’arte classica e con quella dei suoi contemporanei maturerà il suo personale stile. Muore prematuramente nel 1520. Molto ammirato dai contemporanei, tanto che la morte fu dolore universale per il mondo dotto. L’amico poeta Tebaldeo scrive “Raffaello, da cui, vivo, la grande Madre Natura temette d’esser vinta e quando morì, temette di morire con lui”. Nelle Vite, Vasari ne fa un dio in terra, promuovendo la sua mitizzazione. Il disegno da subito rivela elevata capacità tecnica. In San Giorgio e il drago (1505, Uffizi) è evidente il rimando alla leonardiana Adorazione dei Magi nel cavallo impennato, nella torsione del cavaliere. Il chiaroscuro è a tratteggio semicircolare parallelo incrociato o a brevi chiazze (tratto da Leonardo). Lo Studio di due teste di Apostoli e delle loro mani (1519-1520, Oxford) è preparatorio alla Trasfigurazione. È un esempio della pratica del cartone ausiliario, usata da Raffaello per studiare possibili varianti (di teste e mani più frequentemente). L’effetto del chiaroscuro e del rilievo ci fanno parlare di cartone finito. Il tratteggio è lungo e parallelo o breve e curvo e ben suggerisce i volumi. Raffaello dimostra un’insuperabile capacità nella penetrazione psicologica dei suoi personaggi. Il ritratto di Bindo Altoviti (1514-1515, Washington), banchiere fiorentino, amante dell’arte, è studio sulla posa di spalle ma voltato indietro e indagine psicologica al contempo. Il fondo è monocromo, verde scuro. Il soggetto è di spalle, di tre quarti e volge la testa indietro. Con la mano sinistra al petto regge il pesante manto azzurro che gli scopre le spalle. Sul capo porta un berretto, dal quale escono in boccoli i capelli biondi e lunghi. Gli occhi chiari si fanno portavoce di uno sguardo penetrante. Esercizio di questa forma è anche il ritratto di Leone X con due cardinali (1518, Uffizi). Davanti ad uno scrittoio, su cui sono poggiati un campanello da camera e un libro, il papa è affiancato dai cugini Giulio de’ Medici (sinistra) e Luigi de’ Rossi (destra). L’architettura dell’interno che ospita la scena è quasi interamente in ombra, ma collabora con lo scrittoio nella definizione del punto di fuga esterno alla tavola. L’impassibilità delle figure renderebbe statica l’opera, se non fosse per il dinamismo conferitole dallo scrittoio. Le mani curate, il volto e la corporatura rivelano l’agiatezza del papa, mentre lo sguardo indagatore ci fa riconoscer in lui un raffinato uomo di cultura. Il rosso domina incontrastato la scena, seppur variato per la resa di diversi tessuti. La massima capacità espressiva è resa nel velluto della mozzetta e del camauro papale. Nell’ornamentazione del campanello e nel libro sono presenti simboli medicei. Nel pomolo dello schienale della sedia del papa si rispecchia una finestra fuori campo. Il libro è la Bibbia, aperta alla prima pagina del vangelo di Giovanni, ma Leone lo sta sfogliando al rovescio, quindi verso la fine del vangelo di Luca. Il ritratto avrebbe dovuto mostrare solo Leone su uno sfondo verde scuro, gli altri due personaggi sono aggiunte successive. Il progetto inziale si proponeva come ritratto di Stato e Leone si sarebbe presentato come interprete delle Sacre Scritture. Il progetto finale potrebbe essere una risposta alle tesi luterane: alcuni passi del vangelo di Luca potevano essere usati per giustificare i dispendiosi progetti per la nuova basilica e la vendita di indulgenze. Raffaello lavora anche per il ricco banchiere Agostino Chigi da Siena nella Cappella Chigi (1511, Santa Maria del popolo, Roma). È evidente come qui Raffaello trovi ispirazione nell’imitazione degli Antichi. La cappella funeraria ha pianta quadrata con spigoli smussati. Il tamburo e la cupola rimandano al bramantesco San Pietro in Montorio. Variati dal Pantheon sono la policromia nelle incrostazioni marmoree e nei monumenti funerari piramidali, la ricca decorazione e l’arco che introduce alla cappella. Nella cupola, costruzione leggera, con cornici di stucco dorate, riporta in auge il mosaico: realizzato da Luigi da Pace (1516) su disegno di Raffaello, raffigura nel registro inferiore la personificazione dei segni dello zodiaco e nell’oculo l’Eterno che dà l’illusione di un’apertura verso l’esterno. Lo sfarzo della cappella mira al superamento della ricchezza della Roma imperiale. L’adesione alla grandezza degli Antichi è testimoniata nel progetto per Villa Madama (1517) per Giulio de’ Medici. La villa mai conclusa sta alle pendici del monte Mario e fu presa ad esempio come villa suburbana rinascimentale. In essa, Raffaello accoglie le descrizioni delle ville di Plinio il Giovane. Il progetto prevede ambienti su livelli e con destinazioni diverse: dal cortile esterno un’ampia scalinata avrebbe condotto ad un ambiente a tre navate, accesso per il grande cortile circolare, attorno al quale avrebbe articolato vari ambienti, comprendenti un ippodromo, terme ed un teatro. Il progetto è realizzato solo in parte: metà del cortile circolare costituisce oggi la facciata e il fulcro sta nella grande loggia che dà sul giardino chiuso. La loggia di tre campate -quella centrale coperta a cupola, le laterali a crociera- presenta esedre ornate da nicchie, le pareti sono scandite da paraste. La villa presenta una rara unità di architettura, scultura e pittura e l’idea della spazialità degli antichi. Il pontefice Leone X commissiona a Raffaello una pianta di Roma imperiale. Da questa commissione nasce l’idea di un nuovo genere di trattato di architettura, in cui l’artista avrebbe affiancato alla pianta della città i disegni degli edifici esemplari, ciascuno con pianta, sezione e prospetto, disegnate secondo il metodo delle proiezioni ortogonali. Il progetto resterà incompiuto a causa della morte prematura. Nel 1519, con l’aiuto dell’amico letterato Castiglione, scrive una lettera al papa, nella quale riflette sullo stato di abbandono delle rovine dell’Antica Roma -ma coglie anche l’occasione per spiegare la tecnica e definire le regole delle proiezioni ortogonali. Nella lettera, esalta il valore del pontefice, per contrasto con quelli che prima di lui hanno razziato le anticaglie per farne nuove costruzioni. Indignato dall’indifferenza di fronte alle grandiose rovine di Roma imperiale, Raffaello ne promuove la conservazione e la tutela. Sul letto di morte del maestro urbinate fu collocata la Trasfigurazione (1518-1520, Pinacoteca Vaticana), dipinto incompiuto. La tavola è divisa su due livelli narrativi: la parte superiore reca la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni, e l’apparizione di Mosè ed Elia; la porzione inferiore racconta la liberazione di un ragazzino indemoniato -secondo i Vangeli, questo episodio segue quello della Trasfigurazione. Sopra regna la calma, la scena è solare; sotto invece regna la confusione, e la luce è riflessa dalla grazia divina: nella contrapposizione sta il talento raffaellesco. Le lezioni dei contemporanei sono evidenti: il linguaggio dei gesti leonardesco e lo studio michelangiolesco sulla torsione. Michelangelo Buonarroti (1475-1564) Nasce a Caprese (Arezzo), nella città in cui il padre Ludovico era podestà. Studia nella bottega del Ghirlandaio a Firenze, contro volere del padre. Si forma guardando a Giotto e Masaccio (Santa Croce, Carmine), alle sculture degli antichi (collezione medicea), a Pisano e a Donatello. Un primo soggiorno romano comincia nel 1496 e si conclude nel 1501 col ritorno a Firenze. Ma, ormai artista affermato, nel 1505 è invitato a tornare a Roma da papa Giulio II. Seguiranno viaggi a Firenze frequenti fino al 1536, anno in cui si trasferisce stabilmente a Roma, per morire lì nel 1564, ad ottantanove anni. Scopo della sua arte è l’imitazione della Natura, unica via per arrivare alla bellezza. Ma una buona dose di fantasia avrebbe aiutato l’artista a farne una bellezza superiore, sfruttando il suo modello ideale. Come i suoi contemporanei, è abile sfruttatore della prospettiva. La sua attenzione alla perfezione del corpo umano, soggetto dei suoi lavori, è dovuta all’importanza attribuitagli: la bellezza che rappresenta riflette una bellezza interiore, specchio della bellezza divina, in quanto più bella cosa del creato. Con la volontà di riforma interna alla chiesa, in Michelangelo si fa più sentito il credo religioso: sviluppa l’idea di un’artista al servizio della Chiesa. Sfrutta sempre il disegno come resa dell’idea dell’artista. Nei disegni giovanili, il tratto è sottile ed incrociato per dare consistenza scultorea ed è già evidente l’idea del contorno deciso: è il caso del disegno di Due Astanti (1480-90, Louvre) tratto dall’Ascensione di San Giovanni di Giotto. I disegni della fase matura rivelano dei cambiamenti nell’impostazione: il tratteggio è gradualmente abbandonato a favore della resa più pittorica dello sfumato. È evidente nello Studio per Ignudo (1511, Cleveland), preparatorio per la Cappella Sistina; nella Testa Ideale (1525-1528, British Museum, Londra), disegno di presentazione in quanto rifinito in ogni dettaglio; nel Cristo Morto (1534-1535, Louvre), eseguito per aiutare Sebastiano del Piombo in un dipinto a cui stava lavorando. Durante il primo soggiorno romano, realizza il gruppo scultoreo della Pietà (1498-1499, San Pietro, Vaticano). Commissionata del cardinale Jean Bilheres, raffigura un tema poco trattato nell’arte italiana prima d’allora. La fanciulla regge il corpo defunto come una madre fa col suo bambino. L’imponente figura di Maria guarda addolorata il figlio, lo regge con il braccio destro, mentre col sinistro ci invita a partecipare al dolore. Una fascia (con la firma di Michelangelo) le attraversa il busto e ne sottolinea la giovinezza delle forme, mentre il forte panneggio della sua veste evidenzia per contrasto la nudità di Cristo. Questo, dal corpo abbandonato con la testa rovesciata indietro, ha il bacino ruotato in corrispondenza delle gambe della madre, la mano sinistra che segue il corpo, mentre la destra cade verso terra. La perfezione dei loro corpi giovanili è specchio della loro purezza. La scultura di Michelangelo è ottenuta “per via di levare”, eliminando cioè il superfluo, non aggiungendo materia (scultura “per via di porre”, più simile alla pittura nella concezione michelangiolesca). Inoltre, per la sua idea della scultura, il blocco di marmo informe contiene potenzialmente il finito che l’artista ottiene: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio (=superfluo), e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto” (sonetto, 1540-45 ca). Tornato a Firenze, l’Opera del Duomo gli commissiona una statua per Santa Maria del Fiore, sfruttando un blocco di marmo inutilizzato, già sbozzato da Agostino di Duccio: il David (1501-1504, Galleria dell’Accademia, Firenze). Pur partendo svantaggiato, Michelangelo riesce ancora una volta a dare prova del suo talento. David è colto l’attimo prima di sconfiggere Golia con la sola fionda: la fronte è aggrottata, simbolo di riflessione e concentrazione, i muscoli sono in tensione, le mani hanno le vene in rilevo. La postura è in contrapposto. La superficie del marmo è perfettamente levigata. Questo nudo virile diventa simbolo della libertà e dell’indipendenza dei Fiorentini e delle proprie istituzioni, ragion per cui sarà collocato davanti a Palazzo Vecchio, sede del potere cittadino. La Vergine e il Bambino con San Giovannino ed angeli/Madonna di Manchester (1497 ca, National Gallery) è una tavola non finita. Mancano molte stesure di colore, ma è delineato un intenso chiaroscuro che definisce i volumi. Due coppie di angeli a fianco della Vergine, San Giovannino nel gruppo di destra e il Bambino poggiato alle gambe della madre formano tre gruppi delineati verticalmente. Il Bambino, appena allattato come suggerisce il seno scoperto della Vergine, raggiunge con il braccio destro il libro tenuto dalla madre (lungo la diagonale della tela). La Madonna siede su una roccia col busto frontale; gambe e capo verso destra e braccia verso sinistra regolano il contrapposto. Attraverso una catena di contatti, la Vergine ed i due bambini sono legati: l’allusione è all’influenza che i due hanno nella storia di Gesù e alla venuta dello stesso. Probabile che pertanto il libro sia aperto su un passo che profetizza la venuta del Messia. Incompiuto è anche il dipinto della Deposizione (1500-1501, National Gallery), destinato alla devozione privata. In occasione del matrimonio di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, realizza una Sacra Famiglia: il Tondo Doni (1504, Uffizi). In primo piano, Gesù, Giuseppe e Maria si dispongono secondo uno schema elicoidale con avvitamento verso l’alto. Procedendo per profondità, oltre la figura di San Giovannino al di là di un muretto, si dispongono lungo un semicerchio su un rilievo roccioso dei giovani ignudi. I colori sono vivaci e cangianti; i corpi hanno una voluta resa scultorea e i contorni sono ben definiti. L’interesse per il paesaggio è minimo se paragonato a quello per il corpo umano, vero protagonista della sua arte. Il valore simbolico dei personaggi è chiaro: ad un estremo il mondo cristiano, all’altro il mondo pagano, mediati da San Giovannino, colui che è chiamato a preparare la strada alla mediazione di Cristo. L’idea che la pittura ben riuscita fosse il più vicina possibile alla plasticità scultorea è opposta a quella leonardesca degli stessi anni. Il Progetto per il monumento funebre di Giulio II (1505, New York) è il disegno che raffigura l’idea iniziale di Michelangelo, quando riceve la commissione dallo stesso papa per la chiesa di San Pietro: un monumento a quattro facce, articolato anche lateralmente, diviso in tre registri, con una grande nicchia sommitale coperta a catino. L’esecuzione fu rinviata a lungo e il progetto iniziale molto ridimensionato: Giulio II non arrivò a vedere il monumento eseguito. La Tomba (1533-1544) nella Chiesa di San Pietro in Vincoli è ridotta a monumento a parete; la nicchia che accoglie la Vergine in gloria col Bambino è notevolmente ridotta, il Mosè pensato per una collocazione su livello elevato occupa la porzione centrale del registro più basso. L’attenzione di Michelangelo verte sulla figura distesa al centro del monumento, separata tramite paraste dalla sibilla e dal profeta che la affiancano. Sono del secondo progetto le statue di Mosè (1513-1515), Schiavo Morente (1513, Louvre) e Schiavo Ribelle (1513, Louvre). Gli schiavi sono due sculture cha danno forma all’idea dell’anima prigioniera del corpo (pietra informe) e anelante alla libertà (pietra scolpita), oltre ad essere esercizio stilistico per rappresentare corpi perfetti (quale teso nello sforzo, quale abbandonato allo sfinimento). In tutte e tre le statue la postura è regolata dal contrapposto. Il Mosè ha proporzioni Anche Michelangelo, come i suoi contemporanei di pari fama, lavora al cantiere di San Pietro su incarico di Paolo III (1547-1564). La sua proposta prevede una pianta centrale dagli interni luminosi. Inoltre, modifica gli interventi proposti da Sangallo il Giovane, eliminando i deambulatori. Interviene nella zona absidale: usa paraste di ordine gigante, alle quali sovrappone un’alta cornice, il cui schema prosegue idealmente nel tamburo anulare e nei costoloni della cupola. Quando muore, la costruzione è arrivata all’imposta della cupola. Ma la cupola -costruita i 22 mesi da Giacomo della Porta e Domenico Fontana (1588-1590) sembra rispettare le linee direttive del progetto michelangiolesco: tamburo ritmato da colonne binate a culmine di contrafforti a fianco ad immensi finestroni alternativamente centinati o timpanati, motivo ripetuto nella lanterna a culmine della cupola. Negli ultimi anni, Michelangelo lavora sulle Pietà. Nella Pietà (1550-1555, Opera del Duomo, Firenze) aumentano i personaggi con l’aggiunta di maddalena e Nicodemo. Il corpo di Cristo è sorretto dai tre personaggi in posizione quasi verticale e rivela tutta la pesantezza di un defunto. La Pietà Rondanini (1552- 1564, Castello Sforzesco) è un abbozzo a cui lavora prima di morire. Il non finito ci informa del ritorno alle due figure cardine di Maria e Gesù, con la Vergine che sorregge e lega amorevolmente a sé il defunto. 18) Dopo la caduta della repubblica di Firenze del 1530 causata dai Lanzichenecchi di Carlo V, l’unica potenza che riesce a mantenere la propria autonomia è la repubblica di Venezia. Basando la propria fortuna sull’attività marittima, che le permette di vantare un rapporto privilegiato con l’Oriente Bizantino e le risparmia l’obbligo di una politica aggressiva nell’entroterra continentale, la Serenissima manterrà una certa agiatezza fino a quando non verranno limitate le sue rotte dalla scoperta dell’America. Agli inizi del Cinquecento, è nel massimo del suo splendore economico e politico: l’edilizia conosce un periodo di intensa attività, il ricco ceto borghese di mercanti, armatori e banchieri, e ancor di più il patriziato, conducono una raffinata vita culturale, favorita da vivaci ambienti intellettuali. Nei salotti veneziani convergono opere di gusto e tradizione classica, ma anche della cultura bizantina: il collezionismo di stampo umanistico è al suo apice. Questa vivacità culturale ci fa parlare di cosmopolitismo artistico veneto. Dalla rielaborata tradizione coloristica di Bellini nascono le personalità che permetteranno questo fervore artistico: Giorgione, Tiziano, Lorenzo Lotto e Sebastiano del Piombo. È il colore con ogni sua possibile combinazione il marchio distintivo della “scuola veneta”. Giorgione da Castelfranco (1477/78-1510) Ancora giovanissimo, Giorgione -nato a Castelfranco Veneto- si trasferisce a Venezia (1487 ca), dove studia nella bottega di Bellini. L’influenza del maestro è evidente nell’attenzione tutta rivolta ai colori e ai paesaggi. In breve riesce ad aprire una sua bottega -dove si formerà anche Tiziano- e a diventare un punto di riferimento per l’ambiente artistico veneto. La committenza giorgionesca è selezionata: dipinge per gli ambienti patrizi, di cui condivide il gusto per il soggetto mitologico-fantastico, più che religioso. Muore di peste nel 1510. Dai suoi dipinti, come segnala Vasari stesso, emerge una personalità enigmatica, tanto che spesso si fa difficoltà a leggere univocamente le sue opere, ricche di allegorie e simboli, come la sua cerchia di committenti amava. Infatti, la maggiore espressività nelle sue opere spetta al colore. Del disegno, pur non considerato come base nella sua poetica, ci restano testimonianze. Il Cupido che piega l’arco (1508, Metropolitan Museum of Art, New York) rivela uno studio anatomico sommario -attestato dai pentimenti e dalle proporzioni a tratti imprecise- e un tratto veloce: è una conferma della mancata attenzione allo studio attento e preciso del corpo adottato dalla scuola romana e fiorentina. Dal disegno Paesaggio con fiume invece apprendiamo la padronanza giorgionesca della tecnica del chiaroscuro : il tratto usato denota un voluto effetto pittorico. Problematica nel suo caso è l’attribuzione delle opere, da molti non condivisa. Il condottiero Tuzio Costanzo gli commissiona la Pala di Castelfranco (1504-1505, Cappella Costanzo) per la propria cappella di famiglia nel Duomo della città natale di Giorgione. La sacra conversazione è interpretata in maniera innovativa: la scena è ambientata all’aperto, alla caratterizzazione architettonica si sostituisce un meno studiato accostamento di volumi geometrici, la visione è scenografica, come fosse un allestimento teatrale. La Vergine con il Bambino siede su un trono rialzato tramite predella; la affiancano San Francesco (destra) e San Nicasio (sinistra). La parte pavimentata in primo piano è separata dal retrostante paesaggio da un alto parapetto. Il paesaggio dolce è caratterizzato a sinistra da una torre diroccata su una collina e a destra da monti lontani avvolti nella nebbia. Il paesaggio non è accessorio, ma personaggio del dipinto. La vergine è simbolicamente vestita dei colori delle tre virtù teologali: verde Speranza, bianco Fede e rosso Carità. Usa una prospettiva dipinta, non disegnata: la profondità è resa attraverso tonalità di colore, più calde o più fredde, giustapposte. Questa tecnica di illusione prospettica è il tonalismo/pittura tonale (nasce dalla rielaborazione della tradizione veneta del colore di Mantegna e Bellini e di quella fiorentina del disegno leonardesco). La fonte di luce è quella natura del paesaggio in secondo piano. Il massimo punto di realismo è attenuto nell’espressione del Bambino. Il punto di fuga è nel grembo di Maria (valore simbolico). Particolarmente enigmatico è il soggetto della Tempesta (1502/1503, Venezia). Sullo sfondo di un paesaggio agreste, oltre un ponticello di legno, sorge un borgo fortificato che sta per essere colpito da un temporale, come segnalano un fulmine e il cielo annuvolato. In primo piano, una donna semi-nuda allatta un bambino (destra) e un uomo vestito secondo la moda veneziana del tempo si appoggia su una lunga asta (sinistra) davanti a delle rovine nascoste tra gli alberi; tra i due personaggi non sembra esserci né rapporto né dialogo. Le interpretazioni sono diverse: Eva allatta il piccolo Caino, Adamo la osserva, il ruscello potrebbe essere il mitico Tigri, uno dei rami del fiume del Paradiso, le rovine simboleggerebbero la morte e il borgo lontano l’Eden, su cui incombe la “tempesta” del Creatore; Venere nei costumi di zingara e Marte in quelli di soldato, mentre il fulmine sarebbe Giove; il ritrovamento del piccolo Mosè, salvato dalla figlia del faraone e sullo sfondo Gerusalemme (cupola del tempio). Attraverso la modulazione delle tonalità di colore, Giorgione riesce a creare un’illusione prospettica che sfonda la tela. Anche qui, il paesaggio non fa da sfondo, ma è esso stesso personaggio. Emerge da questa tela la forte visione naturalistica dell’artista. Altrettanto enigmatico è il dipinto di Tre filosofi (1506-1508, Vienna). Il committente è il ricco mercante Taddeo Contarini. Le figure non seguono un disegno, ma la giustapposizione di colori caldi-freddi. La prospettiva non geometrica è resa invece dalle tonalità di colore sempre più chiare, fino a perdersi all’orizzonte. In primo piano a sinistra si apre una caverna oscura. Dietro, al centro, da un paesaggio emerge un mulino e -più in profondità- un monte. Il cielo chiaro sembra quello delle luci dell’alba. I tre personaggi potrebbero essere Pitagora (il più giovane, seduto) e i suoi maestri Ferecide di Siro e Talete di Mileto (il più vecchio) e la caverna sarebbe il buio dell’ignoranza che si combatte con la scienza; oppure le tre età della vita, giovinezza, maturità e vecchiaia. Con la collaborazione dell’alunno Tiziano (cielo) è dipinta la Venere Dormiente (1508-1510, Dresda). La dea è ritratta nel dolce abbandono, adagiata su di un lenzuolo dal forte panneggio naturalistico; il volto ruotato frontalmente e le membra rilassate sono umanissime. La sua nudità non è ostentata, ma innocente ed inconsapevole (per questo, il volto è sereno). Il prato fiorito ed il cespuglio fanno da contorno al riposo; in secondo piano, la dolce immobilità di un villaggio deserto suggerisce la possibilità che si tratti di un pomeriggio estivo. Ancora più in profondità, si delinea un altro borgo, alle spalle del quale sorge un monte. Tiziano Vecellio (1488-1576) Nasce da una famiglia agiata. A soli nove anni si trasferisce a Venezia, sua patria di adozione. Entra nella cerchia di Bellini e studia alla bottega di Tiziano, di cui apprende il tonalismo. Inizialmente assimilate al suo maestro, in un secondo momento le sue opere iniziano a sviluppare uno stile più personale. Il suo uso del colore è rapido, a volte impreciso, e non attento ai contorni: la resa è quella di una pittura immediata. Le forme non sono vincolate dal disegno ed appaiono più libere e appena accennate. Questo permette il realismo e la vitalità attribuite ai suoi lavori. Lo stesso maestro Giorgione gli riconosce una naturalezza col pennello propria di un talento quasi innato. Tiziano amava invecchiarsi per sbalordire i suoi interlocutori. Morti Bellini e Giorgione, è lui il primo pittore della Serenissima. È in particolare nella ritrattistica che eccelle, come dimostrato dalla grande richiesta anche a livello europeo. È l’amico Pietro Aretino, letterato di fama, che lo introduce alle altre corti italiane e a molte corti europee, tanto che Tiziano diventa “pittor primero” (ufficiale) di Carlo V. Nel 1552, ricco e famoso, apre la sua bottega, in cui i suoi allievi collaboreranno attivamente alle commesse a lui richieste, mentre si dedicherà da solo alla ricerca di un nuovo stile, per approdare negli ultimi anni di vita all’uso della pittura stesa con le stesse dita. Tiziano esercita anche il disegno. Il suo tratto è espressivo e sicuro. Testimonianza ne è il Ritratto di giovane donna (1510-1515, Uffizi). L’attenzione ai vari elementi del disegno è fortemente selettiva: è solo la testa ad essere minutamente caratterizzata, mentre il resto del disegno appare più abbozzato. L’uso del tratto bianco permette di dare al volto luminosità. La resa pittorica avvicina il suo disegno al gusto fiorentino, più che a quello veneto. Il Cavaliere (1538, Monaco) è un disegno preparatorio -infatti, c’è la quadratura utile per il rapporto in scala- per una tavola perduta. Il personaggio è colto durante la battaglia, su un cavallo impennato col nemico a terra di cui si vedono solo le gambe. Il cavaliere impugna la spada con la destra e si china verso il basso nel senso opposto. La composizione risulta quindi equilibrata dal contrapposto delle masse. Nello sfumato e con l’ombreggiatura Tiziano riesce a darci l’idea di movimento. La resa è ancora una volta pittorica. Di carattere mitologico è Amor Sacro e Amor Profano (1514-1515, Galleria Borghese). Il committente è il cancelliere del Consiglio dei Dieci della Serenissima, Niccolò Aurelio. Due figure femminili sono appoggiate ad un ornatissimo sarcofago riadattato a fontana, a questo si affaccia il piccolo Cupido. La donna di sinistra, abbigliata sontuosamente in bianco, è verosimilmente la sposa del committente, Laura Bagarotto, il cui stemma è sul bacile dorato che regge; porta una coroncina di mirto tra i capelli ed ha il vestito riccamente panneggiato. La donna di destra invece è seminuda, col mantello rosso che le ricala sul braccio sinistro, solleva al cielo una lampada accesa, simbolo di spiritualità ardente. Potrebbero rappresentare l’una l’amore profano, qui inteso come quello coniugale, e l’altra quello sacro, suprema ricerca della perfezione spirituale. Ma la figura seminuda potrebbe alludere anche a Venere, che introduce la novella sposa ai segreti del matrimonio. L’ambientazione naturalistica è quella di un paesaggio veneto, caratterizzato a sinistra da un castello bianco e a destra da un borgo con campanile. Il cielo ha i colori del tramonto. Tiziano riesce con il solo uso del colore a dare naturalismo alla composizione, oltre che panneggi scultorei e riflessi cangianti alle vesti. Il priore del convento veneziano dei Frari gli commissiona la Pala d’altare dell’Assunta. Il dipinto di imponenti dimensioni rappresenta su tre livelli narrativi l’assunzione in cielo della Santa: dall’agitato mondo terreno in cui -increduli di fronte all’evento- gli Apostoli tendono le braccia verso Maria, che li sovrasta su una nube attorniata da cherubini, mentre sta per essere assunta in cielo dal Padre Eterno. Il passaggio dal mondo umano a quello divino è graduale. La Vergine, esattamente al centro della composizione, simbolicamente equidistante dagli uomini e da Dio, ha il volto in estasi. Il piede destro già sollevato e le mani protese al cielo indicano che il miracolo sta avvenendo. Il rosso delle vesti crea un triangolo con vertici la vergine e due apostoli, che dà stabilità alla composizione. Con estremo realismo, Tiziano riesce a dare l’idea del vento ascensionale nelle vesti della Vergine. Ai due estremi della pala sono raffigurati due sentimenti contrapposti: il tumulto degli apostoli e la calma della grazia divina. Il Creatore appare in controluce, così che lo splendore della sua figura lascia abbagliati. L’espressione di Maria ci rimanda alla Trasfigurazione di Raffaello. senza distinzione di importanza. La Madonna -inscrivibile in un triangolo, delineato dalla veste ampia e fortemente panneggiata- regge il Bambino, poggiando il gomito sinistro su un tronco tagliato alla base; traspare dolcezza dal volto, evidenziato per contrasto dalla luminosità del velo e lo sguardo penetrante in ombra. Santa Caterina ruota il volto a destra in direzione di Giacomo, senza rivolgergli lo sguardo. L’angelo è colto nell’atto di incoronare la Vergine. Pur nella sua singolarità, c’è un evidente richiamo all’esperienza veneta nel paesaggio e nei colori. Lo stile molto personale di Lotto emerge soprattutto nel genere della ritrattistica, grazie alla penetrazione psicologica di cui è capace. Secondo il gusto del tempo incline alle simbologie enigmatiche, dipinge il Ritratto di Gentildonna in veste di Lucrezia (1530-1532, National Gallery). La donna potrebbe essere Lucrezia Valier, moglie fresca dell’ammiraglio veneziano Benedetto Pesaro, possibile committente. Il soggetto ha una posa sinuosa, col corpo inarcato, il busto ruotato verso destra, spalle e fianchi inclinati verso sinistra in senso opposto. Lo sguardo serio, il naso pronunciato, le labbra sottili, la parrucca infiocchettata, un monile in oro con pietre e perle ricadente dal decolleté, l’abito sontuoso in velluto: nulla è lasciato al caso, tutto segue un’attenta cura per i dettagli di scuola fiamminga. Il colorismo veneto suggerisce con grande realismo l’incarnato e il colore cangiante del tessuto del vestito. Queste influenze permetto una resa fortemente naturalistica. L’allusione all’eroina romana è suggerita anche dal disegno che la raffigura e dalla citazione riportata su un foglio sul tavolo “Nec ulla impudica Lucretia exemplo vivet” tratta dall’Ab Urbe Condita di Livio e di buon auspicio per la vita coniugale. Sebastiano del Piombo (1485-1547) Sebastiano Luciani nasce a Venezia. La formazione veneziana è vicina alla maniera di Bellini e Giorgione. Nel 1511, il ricco banchiere senese Agostino Chigi lo chiama alle sue dipendenze a Roma. Nella capitale entra in contatto con Raffaello e poi Michelangelo (dalla cui arte vigorosa sarà affascinato, tanto che secondo il Vasari c’era collaborazione amichevole tra i due). Nel 1531 gli viene affidato il titolo di piombatore pontificio (sigillatura dei documenti), a cui deve il nome con cui sarà noto, da papa Clemente VII, del quale fu ritrattista. La conoscenza del papa Medici, il prestigio dell’ufficio pontificio, la protezione michelangiolesca, insieme al suo talento, gli rendono fama e numerose commesse. Pochi sono i disegni di certa attribuzione che ci sono rimasti e tutti successivi al trasferimento a Roma. Il Cristo alla Colonna (1516-1520, Louvre) è preparatorio alla tavola della Flagellazione di Cristo (1521-1524, San Pietro in Montorio) -tema a cui lavora svariate volte. Il modellato è di tradizione fiorentina, per Vasari potrebbe essere uno di quelli che trasse da schizzi di Michelangelo. Cristo è legato ad una colonna, di cui si vede solo la porzione inferiore, con la gamba destra arretrata e quella sinistra in posizione avanzata. Il busto e le spalle seguono questo movimento, infatti sono piegate verso destra. Il capo è ritratto di profilo. Le linee sono decise, non ci sono pentimenti, il chiaroscuro usa tratteggi differenti (incrociato, parallelo, più o meno fitto). Il debito al tonalismo di Venezia è evidente nel Cristo Portacroce (1515, Museo del Prado, Madrid). Gesù regge sulla spalla sinistra la Croce, impugnandola con entrambe le mani, aiutato dal Cireno alle sue spalle, che ne regge un braccio: così la croce rivela la sua pesantezza. In terzo piano, un soldato romano dal volto ghignante -con l’elmo su cui la luce genera riflessi- emerge dall’ombra. Sullo sfondo si stagliano il Calvario e -sul profilo del cielo- Gerusalemme. La prospettiva non è geometrica, disegnata, ma cromatica: la profondità spaziale si dilata dal candido azzurro della veste di Gesù ai toni tenui del cielo. I personaggi raffigurati come se incombessero su di noi sono una scelta voluta per renderci partecipi della scena e del dolore che ne segue. L’esperienza romana e l’insegnamento michelangiolesco approdano alla Pietà (1515-1516, Viterbo). La pala gli viene commissionata da Giovanni Botonti, prelato di Viterbo. Secondo Vasari, l’artista la realizza su cartone di Michelangelo, ma la sensibilità cromatica ci fa dire che di Michelangelo ci sia solo l’influsso, nella costruzione piramidale e nell’uso del disegno. Sul corpo statuario e immobile di Cristo la luce mette in rilievo l’anatomia perfetta, con il bianco candido del sudario e del perizoma. La Vergine con un distacco palpabile rivolge un gesto di speranza al cielo, con le mani giunte. Il colore della sua veste gonfiata dal vento trova una corrispondenza in alto nell’unico sprazzo di cielo libero dalla nebbia che avvolge la scena. La luna fredda si intravede appena. La natura è partecipe del dolore: la scena è in penombra e il tramonto sta volgendo a termine (simbolo della fine del viaggio terreno di Cristo). Differentemente rispetto alla tradizionale iconografia, la Madonna non regge amorevolmente il figlio tra le sue braccia (resa pittorica e simbolica della solitudine della morte). Assistiamo al superamento del modello di Giorgione e della scuola veneta: la natura non è più serena. L’influenza della scuola veneziana e di Lotto invece è viva nel Ritratto di Clemente VII (1526, Napoli), di cui Sebastiano del Piombo fu il pittore preferito. Il papa dai tratti somatici regolari, il naso dritto, la fronte larga, gli occhi grandi, qui sbarbato, si staglia contro uno sfondo verde scuro. La sedia, in direzione obliqua rispetto all’inquadratura, è presentata solo nel bracciolo di destra, a cui è poggiato il braccio del pontefice, che regge un foglio ripiegato. La testa è lievemente ruotata a sinistra, forse per nascondere il leggero strabismo. La luce si insinua nelle pieghe del camauro e della mozzetta rosso intenso, rendendo l’idea del tessuto. L’andamento orizzontale delle pieghe della mozzetta si contrappone a quello verticale dell’abito bianco sottostante. Evidente la dipendenza dal Ritratto di Giulio II raffaellesco e dal tonalismo veneto. Il Correggio (1489-1534) Antonio Allegri nasce a Correggio, nella piana di Reggio Emilia. La città natale gli dà il nome con cui avrà fama, sintomo del debito alla patria per la sua formazione. La corte di Correggio, aperta al mecenatismo grazie a Veronica Gambara, nobildonna colta, è geograficamente esclusa dalle nuove tendenze del colorismo veneto e del Rinascimento fiorentino-romano. Quindi, la maturità artistica dell’artista nasce da un’inventiva tutta personale. Ma possiamo supporre che dei brevi soggiorni a Roma e Mantova l’abbiano messo a conoscenza delle novità nel resto d’Italia. Pur non considerandolo come forma d’arte autonoma, Correggio è abile anche nel disegno, che usa in funzione preparatoria. Il nudo maschile seduto con putto (1503/1524, British Museum) è preparatorio per uno dei personaggi della cappella di San Giovanni Evangelista: un uomo anziano nudo seduto su una nuvola evanescente e un putto sulla nuvola sottostante, proteso verso i piedi del vecchio. Il tratto è veloce, non troppo sottile, non ci sono segni di pentimento. Il tratteggio è parallelo. L’effetto è quello pittorico, reso grazie al chiaroscuro. Anche il riposo nella fuga in Egitto (1530, Uffizi) è disegno preparatorio, come evidenzia la quadrettatura. La sua attività, come la formazione, è legata all’ambiente in cui nasce. A Parma, è chiamato per lavorare nel Convento di San Paolo all’affresco del soffitto della Camera della Badessa (1518-1520, Parma). Correggio pensa per la volta un finto pergolato di legno, ricco di vegetazione, nel quale si aprono ovati su ogni spicchio da cui emergono dei putti che giocano sullo sfondo di un cielo. Alla base di ogni spicchio, entro una lunetta concava, dipinge in monocromia figure allegoriche dalla mitologia classica, dando l’illusione del rilievo di una scultura. Tutta la decorazione è ispirata dalla badessa Giovanna Piacenza, grande conoscitrice della classicità. Nei sedici ovati, il tema è giocoso e legato alla dea Diana: gioiosa ed innocente vitalità resa dai vari movimenti dei bambini. I putti, dalle membra rosate e grassocce rimandano ad un’idea della natura incontaminata, priva di idealizzazioni. Attraverso dei putti che sembrano muoversi da un ovato all’altro, Correggio crea l’illusione di una continuità al di là del pergolato. Nelle lunette, la scultura dipinta in monocromo ha un riferimento più dotto: raffigurazioni di divinità mitologiche e loro simbologie entro nicchioni semicircolari. L’Antico è fonte d’ispirazione, non c’è adesione: le figure non presentano la severa compostezza delle divinità classiche, ma un aspetto più umano; l’atteggiamento naturalistico contrasta la pretesa classicità del soggetto. Sulla grande cappa del camino, è raffigurata Diana col suo Carro (1518-1520, Parma): dea della selva e della caccia, simbolo della natura incontaminata e della castità. Il soggetto è un omaggio alla committente Giovanna Piacenza. La dea porta una semplice tunica bianca, con la mano destra indica la direzione del carro e con la sinistra regge un manto azzurro gonfiato dal vento; i capelli biondi, coronati da un falcetto di luna d’argento (simbolo di purezza), le scendono sulle spalle e sulla faretra. La postura né in piedi né seduta è usata per descrivere un attimo improvviso. Il carro è trainato da due cerve, di cui si vedono solo le zampe posteriori. Classicità e mitologia sono solo pretesti per collocare figure in libertà entro uno spazio di suggestione prospettica e cromatica. Il risultato della Camera della Badessa fa sì che gli venga commissionato l’affresco della cupola di San Giovanni Evangelista (1520-1524, Parma). Il soggetto che Correggio sceglie è la visione di San Giovanni. La struttura prospettica che immagina per la cupola gli causa non pochi problemi di realizzazione, per cui è costretto a lavorare su più bozzetti per studiare forme e proporzioni delle figure. Al bordo inferiore della cupola, affacciati da un letto di nuvole, si sporgono gli Apostoli, che in atteggiamento solenne conversano tra loro. Procedendo verso il centro della cupola le nuvole vanno rarefacendosi, illuminate dalla grazia divina, che inonda i cherubini festanti attorno a Cristo, sospeso nel vuoto, luminosissimo, la cui figura è percepita solo da Giovanni, che emerge a mezzo busto dal limite di imposta della cupola, rapito dalla luce sfolgorante. Il senso di profondità spaziale è accresciuto dalle scelte cromatiche: toni più freddi e chiaroscuro accentuato per gli Apostoli, toni più caldi e chiaroscuro quasi assente dai cherubini a Cristo. Più che sul significato della scena, l’attenzione si focalizza sul forte effetto scenografico che Correggio ottiene con la sua inventiva. Lo spazio dipinto prescinde da quello architettonico, infatti Correggio riesce a darci l’illusione di una dilatazione spaziale, di uno sfondamento verso l’esterno, che in realtà non c’è: in questo alternarsi tra realtà ed illusione, spazio effettivo e spazio dipinto, l’artista è anticipatore dell’ideale barocco. L’acme della sua arte è raggiunto nella Cupola del Duomo di Parma con l’affresco dell’Assunzione di Maria (1526-1530, Parma): la Vergine col volto e le mani levate al cielo sta per essere assunta dalla grazia divina in cielo. Rimane l’idea della corona di nubi in primo piano e della dilatazione spaziale per anelli concentrici, ma aumenta il numero di personaggi e con questo l’idea di movimento concitato, come se i personaggi roteassero in questo cielo dipinto. Troppo rivoluzionario per i canoni classici del tempo, l’affresco non fu accolto dai contemporanei: Correggio non si attiene più alla mimesi della natura per la ricerca del bello, ma trasgredisce la stessa, creando una scenografia che abbandoni la razionalità a favore della stravaganza. Federico Gonzaga, figlio di Isabella d’Este, dama colta e raffinata, e signore di Mantova, commissiona al Correggio quattro oli che hanno come tema gli amori di Giove secondo la mitologia classica. L’artista quindi torna alle ispirazioni classiche e mitologiche giovanili. Tratto dalla narrazione delle Metamorfosi ovidiane è il dipinto Danae (1530-1531, Galleria Borghese): la bella figlia del re Argo, rinchiusa in una torre inespugnabile, è sorpresa nell’unione con Giove, sotto forma di pioggia d’oro, aiutato da Cupido. Ignari in basso a destra sono gli amorini che giocano con le frecce di Cupido, testando che siano d’oro. Dalla finestra a sinistra l’ambiente dà su un paesaggio coperto da un cielo azzurro intenso di cui si vede solo una torre lontana, chiara allusione all’isolamento della fanciulla. Il candore di Danae è esaltato dal lenzuolo bianco puro, in forte contrasto con lo sfondo scuro. 19) Andrea del Sarto (1486-1530) Figlio di un sarto, a cui deve il soprannome, Andrea nasce a Firenze. È allievo di Piero di Cosimo e inizia l’attività artistica come frescante. Vasari gli riconosce un gran talento “nel dar rilievo, et nel mostrar le cose, né più né meno, come da Dio sono state fatte”. La sua fama crescerà in breve, tanto da essere richiesto a Venezia, Roma e in Francia alla corte di Francesco I. Muore a Firenze per un’epidemia di peste seguita all’assedio imperiale di Carlo V del 1529-1530. Dalla maniera dei maestri conia la ricerca volumetrica (Michelangelo) e l’effetto luministico (Leonardo). Nello studio di Donna seduta (1535/43, Uffizi) assistiamo all’abbandono delle proporzioni: il busto è allungato e la testa piccola. Non manca invece il corpo scultoreo di tradizione michelangiolesca. L’alabardiere (1530, Malibu) è anch’esso caratterizzato da proporzioni “ad occhio”: il busto è esageratamente allungato, il volto troppo piccolo rispetto al resto del corpo, la vita esageratamente stretta, le mani grandi, le spalle spioventi. Verosimilmente il soggetto ritratto è Francesco Guardi, figlio di ricco possidente fiorentino. Sullo sfondo di una fortificazione, si staglia l’adolescente dallo sguardo spavaldo, una spada dall’impugnatura ornata pende a sinistra, la cinghia che la regge gli stringe la vita e gli attraversa il basso ventre. Il busto è di tre quarti, ma il volto è frontale. Col braccio destro piegato ed in ombra regge un’alabarda, mentre la mano sinistra è sul fianco. La giubba è rigonfia e il suo colore neutro esalta per contrasto il rosso vivo del berretto e dei pantaloni. Per la Cappella Capponi di Santa Felicita a Firenze dipinge la Deposizione (1526-28), emblematica dell’arte manierista. L’ambientazione è innaturale. La composizione è teatrale nella disposizione delle figure, i cui corpi sono esili e allungati e le teste rimpicciolite, a favore di una resa di forte slancio. L’equilibrio compositivo è raggiunto con la nuvola in alto a sinistra; quello statico col drappo verde in basso a destra (non segue la logica: la figura che regge le gambe di Cristo dovrebbe poggiare le ginocchia sul drappo). Tutte le figure rivolgono lo sguardo ad un punto differente all’esterno della tela, bloccate in un gesto sospeso, ma il nostro occhio cade sul groviglio di mani al centro della tavola. I volti descrivono un cerchio che segue l’andamento del corpo defunto. Le vesti sono inconsistenti, sembrano incollate ai corpi. La scelta dei colori -novità della tavola- è quella dei toni tenui. Le ombre sono perlopiù inesistenti, tanto che le zone appena in ombra non sono distinguibili da quelle in luce né quelle in ombra sono totalmente distinguibili da quelle a mezz’ombra. Rosso Fiorentino (1495-1540) Giovan Battista di Jacopo, noto come Rosso Fiorentino, nasce a Firenze. Si forma nella bottega di Andrea del Sarto. È attivo in Toscana fino al 1523, quando si sposta a Roma, per restarci fino al 1527. Nel 1531, dopo soggiorni in diverse corti d’Italia, è al servizio di Francesco I in Francia. Lavora nella reggia di Fointainbleau, insieme ad altri artisti: l’ambiente di scambio artistico che si crea è noto come Scuola di Fointainbleau. Muore proprio a Fointainbleau nel 1540 -secondo il Vasari, suicida. Fu disegnatore esperto e raffinato. Un esempio è Marte disarmato da Cupido e Venere denudata dalle ninfe (1530, Louvre): con le armi di Marte giocano gli amorini in primo piano, mentre si prepara l’alcova per le divinità. La funzione più importante del disegno è affidata alla biacca, che definisce i volumi. Per la chiesa di San Francesco riceve la commessa della Deposizione (1521, Pinacoteca di Volterra). Evidente è il debito, almeno nella trattazione del soggetto, a Lippi e Perugino nella tavola omonima; ma altrettanto evidente lo scarto rispetto al modello. La tavola è attraversata verticalmente e trasversalmente dalla croce, sulla quale poggiano tre scale in tre diverse posizioni e direzioni. I personaggi sono disposti su due registri sovrapposti: nella porzione superiore, tre uomini coordinati da Nicodemo stanno deponendo il corpo di Cristo; al livello inferiore, la Vergine è affiancata dalle pie donne in un dolore composto, mentre Maddalena è inginocchiata e protesa verso di lei e San Giovanni, coprendosi il volto, piange. Al dolore del registro inferiore si contrappone il movimento concitato di quello superiore. Al paesaggio retrostante è dato poco rilievo. Le pieghe delle vesti sono spigolose, quasi metalline (vd Maddalena). Attraverso una continuità di contatti, gli uomini sulle scale e il corpo defunto descrivono un cerchio, su cui cade lo sguardo dell’osservatore. Al periodo francese risale la Pietà (1535-1540, Louvre) su committenza della famiglia Montmorency. Cinque figure sono inquadrate entro un sepolcro scavato nella pietra: Cristo segue la diagonale della tela, nella quale è compresso il suo lungo corpo, sostenuto da San Giovanni, inginocchiato a destra; il braccio destro del Salvatore è abbandonato sulle gambe della Madre, sostenuta da una pia donna; le gambe sono sollevate da Maddalena, piegata a sinistra. Quello di San Giovanni è un complesso moto contrapposto: il piede sinistro fa da perno, il busto verso destra comporta l’abbassamento della spalla sinistra e il sollevamento di quella destra, la testa ruota da destra verso sinistra. Il gesto della Vergine è al contempo di abbandono e di abbraccio. Lo spazio è angusto e i personaggi risultano schiacciati al suo interno. Il fondo scuro risalta ulteriormente i corpi in luce, rivelando la nudità del defunto e della schiena di Giovanni. Le pieghe degli abiti sono taglienti. Allusione ai simboli araldici dei committenti sono gli aquilotti stilizzati sui cuscini su cui poggia Gesù. Bronzino (1503-1572) Agnolo di Cosimo di Mariano Tori, noto come Bronzino, fu allievo del Pontormo, per il quale fece anche da modello e dal quale venne adottato. Lavorò soprattutto per i Medici, fino a diventare pittore ufficiale della corte medicea. Fu tra i fondatori dell’Accademia del Disegno. Nel San Giovanni Battista (1560-61, Galleria Borghese) l’interesse più che al soggetto in sé è rivolto alla difficoltà nella rappresentazione del corpo umano, in posa contrapposta: seduto, ruota il volto verso sinistra, nel senso opposto delle spalle; porta indietro il braccio destro con la cui mano regge una ciotola, mentre il braccio sinistro preme per terra; la gamba destra è piegata e portata sotto la sinistra, che avanza e fa da perno col tallone. La luce proviene da sinistra e illumina il volto. I contorni sono definiti e lo studio anatomico è attento. Il Ritratto di Eleonora Toledo con figlio (1545, Uffizi) è il più noto tra i ritratti della moglie del duca di Firenze, Cosimo I. Bronzino riprende la Gioconda leonardesca -paesaggio di sfondo, posa del soggetto, balaustra- per farne un’opera tutta sua. Lo sfondo però torna ad essere semplice sfondo. La duchessa ha uno sguardo mite, il volto è illuminato dalle perle che le cingono l’acconciatura, le pendono dal volto e le incorniciano il collo e il decolleté. La sontuosa veste di raso con decorazioni in velluto, dalle cui aperture fuoriesce una camicia di seta, ulteriore fonte di luminosità, è resa con impressionante realismo. Il complesso disegno di melagrane dorate è simbolo di fertilità. Enigmatico è il soggetto di Allegoria con Venere e Cupido (1540-1550, National Gallery). Venere e Cupido occupano la metà sinistra della tavola: l’una seduta su un drappo azzurro porta in mano il pomo aureo della Discordia -suo attributo, come la colomba che le sta davanti-, l’altro piegato su un cuscino bacia e abbraccia la madre, che allontana da sé una delle frecce del dio. A destra, lo Scherzo o la Follia danza, spargendo rose e scuotendo i sonagli della cavigliera. Dietro, la Frode, essere ibrido e mostruoso, con la testa di bambina, ma il corpo squamoso e zampe di leone, porge un dolcissimo favo di miele con una mano, mentre nasconde nell’altra un pungiglione mortale. Ai piedi di Venere, all’estrema destra, sono poggiate per terra due maschere. In alto, il Tempo, che porta sulle spalle una clessidra, vincendo l’Oblio, la figura in alto a sinistra senza cranio, svela la Gelosia, figura femminile livida, che si strappa i capelli. Il disegno è preciso e nitido; le posture sono varie; i colori sono smaglianti; gli incarnati nudi rendono al dipinto luminosità. Il tema potrebbe essere l’amore carnale, ma altrettanto probabilmente la bellezza. Commissionato da Cosimo I per farne dono al re di Francia, potrebbe anche essere un’allegoria dell’agire del regnante, che deve guardarsi dalle false lusinghe. Perino del Vaga (1501-1547) Nasce a Firenze. Studia nella bottega del Ghirlandaio. Al seguito del pittore Vaga, a cui deve il patronimico, si sposta a Roma. Qui, Piero Bonaccorsi fu vicino a Raffaello e operò nel suo ambiente fino al Sacco di Roma. Dopo il 1527, è al servizio dell’ammiraglio Andrea Doria a Genova. Torna a Roma nel 1538 al servizio di papa Paolo III Farnese. Vasari gli riconosce grande capacità disegnativa. In Vertumno e Pomona (1527, British Museum) si delineano i caratteri del suo disegno: linea continua e marcata e fitto tratteggio incrociato. I personaggi sono rappresentati in complessi moti torsionali, mentre la dea cerca di attirare su di sé gli interessi del dio. La scena è tratta da una serie inerente agli Amori degli dei. Una resa di forte plasticismo spetta al San Matteo (1539, Louvre). Il Santo ha il piede sinistro proteso in avanti e le braccia articolate ad arco, mentre lo avvolge un drappo morbido. Le zone in luce sono distinte lasciando in vista il bianco della carta preparata. L’influenza raffaellesca è evidente nella Sacra Famiglia (1545-46, Melbourne), realizzata quando l’artista aveva già avuto modo di studiare anche il michelangiolesco Giudizio Universale. La Vergine, di tre quarti, col volto quasi di profilo, regge il Bambino, proteso verso di lei. Tra i due corre uno sguardo dolcissimo. San Giuseppe, su un piano arretrato ed in ombra, si appoggia ad un bastone. Il busto del bambino ed il capo della madre seguono la diagonale della tela, che divide la parte in ombra da quella in luce. Inediti sono i colori di cui veste Maria, pretesto per sperimentare giustapposizioni cromatiche. Il Parmigianino (1503-1540) Francesco Mazzola nasce a Parma, da cui prende il nome con cui farà la fama. Lavora nel duomo di Parma quando vi è attivo Correggio. Dopo un soggiorno romano durato fino al sacco del 1527, si sposta a Bologna, per tornare definitivamente nella città natale nel 1531. Conduce una vita tormentata dall’inquietudine e si spegne a Casalmaggiore nei pressi di Cremona. Grazia, monumentalità, bellezza: questi i tratti della sua arte, appresi da Correggio, Michelangelo, Raffaello, ma anche da Giulio Romano e Rosso Fiorentino. La sua pennellata si fa svelta e concisa nella fase matura. La Madonna dal collo lungo (1534-40, Uffizi) è un non finito, ma tra i più singolari dipinti della sua produzione. La Vergine ha un collo esile ed allungato -caratteristica più appariscente-. Il capo è piccolo rispetto al corpo monumentale -dai fianchi larghi e dalle gambe lunghe- messo in risalto dalla veste, che lascia trasparire l’ombelico e la cui fascia evidenzia il seno. La testa è acconciata e ricca di gioielli. Il mantello vaporoso azzurro freddo cade e le scopre la spalla. II Bambino è abbandonato sulle sue gambe. Nella posizione di Maria e Gesù c’è un evidente rimando alla Pietà michelangiolesca di San Pietro: basti pensare alla fascia che attraversa diagonalmente il busto di Maria e al braccio abbandonato del Bambino. Già nella posa c’è un richiamo alla morte del Salvatore, ulteriormente alluso nel riflesso di una croce sull’anfora tenuta dall’angelo a sinistra. In basso a destra, San Girolamo mostra i suoi scritti e alle sue spalle sorge un lontano e solenne tempio, preceduto da un colonnato, lasciato incompleto. Giulio Romano (1499-1546) Giulio Pippi, detto Romano per le sue origini, fu allievo, collaboratore e continuatore di Raffaello. Nasce come pittore, decoratore ed architetto. Nel 1524 è chiamato a Mantova al servizio di Federico II Gonzaga. Nel 1526 è nominato prefetto generale delle fabbriche. Per la corte mantovana disegna cartoni per arazzi di soggetto mitologico o allegorico. Commissionata da Federico II è la serie di Giochi di putti. Di questa fa parte il disegno di Allegoria della reggenza del cardinale Ercole Gonzaga (1540-1545, New York): infatti, quando Giulio finisce la serie, a Federico II era subentrato il fratello Ercole. Sullo sfondo di un paesaggio identificato con Mantova, un putto guida un carro trainato da quattro aquile imperiali, simbolo araldico dei Gonzaga. Sopra di lui, altri due putti reggono in volo un cappello cardinalizio (del cardinal Ercole) e uno stemma dei Gonzaga, coi due leoni rampanti. La scena è inquadrata da due alberi, i cui rami si legano, formando un arco a sesto acuto. archi, di cui il centrale più grande. Ogni pila ha rostri allungati a protezione della stessa. In corrispondenza della mezzeria dell’arco posiziona un cartiglio in marmo, nascondendo la congiunzione tra le due porzioni di ellisse. Il parapetto è molto basso. Il ponte è parte del percorso che porta da Palazzo Pitti al Duomo. Il ponte attuale è una ricostruzione, infatti nel 1944 fu distrutto dall’esercito tedesco. Giambologna (1529-1608) Di origine fiamminga, nel 1550 era già in Italia, a Roma, per un viaggio di studio. Sulla via di ritorno, sosta a Firenze, dove resta fino alla morte. Lavora per la corte medicea. Su commissione del granduca Ferdinando, realizza il gruppo scultoreo con Ercole ed il centauro (1594, Loggia dei Lanzi, Firenze) ispirato al tema delle Fatiche di Ercole: il centauro, a terra, è vincolato da Ercole, che gli sta in groppa e gli piega il busto indietro, mentre sta per colpirlo con la clava. L’essere cerca di liberarsi premendo contro il petto dell’eroe. I corpi intrecciati sembrano confondersi. Lo schema è tale che il centauro è racchiuso in un ovale e gli arti di Ercole formano due curve convergenti nella testa (sede dell’intelligenza, ragione della sua vittoria). Il successo del ratto della Sabina (1583, Loggia dei Lanzi, Firenze) gli costa un gran numero di repliche in bronzo per collezionisti. Il gruppo marmoreo nasce come lavoro sull’esecuzione dei nudi, il soggetto gli viene suggerito in un secondo momento: l’episodio allude al rapimento delle sabine da parte dei romani. Lo schema segue l’avvitamento verso l’alto di tre corpi intrecciati a mo’ di colonna: il vecchio sabino in basso è sconfitto, mentre il romano afferra la sabina, che si divincola inarcando il busto. Al giovane romano spetta il ruolo unificante dell’insieme. È significativo come l’interesse sia più rivolto allo studio che al soggetto: è un’opera manierista nella scelta del soggetto di difficile realizzazione, difficoltà non denunciata dall’opera finita, che risulta eseguita con facilità. Sacro Bosco di Bomarzo (Viterbo) Il gusto manierista si riflette anche sui giardini. Nel Cinquecento, il giardino perde il ruolo di completamento di ville e palazzi, per assumerne uno autonomo. Vengono introdotti giochi d’acqua, pescherie, fontane, grotte artificiali, orti botanici, gruppi statuari, labirinti. Tutte queste novità erano funzionali ad una costruzione scenografica. Un esempio è il Sacro Bosco di Bomarzo presso Viterbo (Lazio). L’attribuzione è incerta, sono stati fatti molti nomi a riguardo (es. il Vignola). Era destinato a Pier Francesco Orsini, colto e ricco aristocratico romano. È stato realizzato tra il 1550 ed il 1563. Il progetto è tale da proiettarci in un mondo fantastico, tanto che lo stesso Orsini lo chiamava “Villa delle Maraviglie”. Intento dell’autore è proprio quello di destare meraviglia, stupore, nei visitatori. Giorgio Vasari (1511-1574) Nasce ad Arezzo. Inizialmente, lavora come pittore a Roma e a Firenze. I suoi interessi si ampliano con le frequentazioni romane: si interessa anche a scultura, architettura, ma soprattutto alla trattatistica d’arte. Deve la fama a le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (I edizione: 1550, Venezia; II edizione: 1568). Quando scrive quest’opera è al servizio di Cosimo I. Muore a Firenze lo stesso anno del suo mecenate, il duca Medici. Il disegno è definito come padre delle tre arti (pittura, scultura, architetture) proprio da lui. A Firenze, per suo merito sorge l’Accademia delle Arti del Disegno (1562). È proprio nel Cinquecento -non a caso- che il disegno assume un ruolo autonomo, oltre al preesistente uso preparatorio: questo comporta un elevato grado di rifinitura. Collezionava anche disegni dei suoi contemporanei nel Libro dei Disegni, tanto ne fu cultore. Nella Scena di Baccanale (1550, Louvre), Bacco occupa la posizione centrale, alla sua destra un piccolo satiro gli offre del vino, mentre a sinistra una vecchia baccante gli porge dell’uva. Tre ninfe, a sinistra, ballano, assumendo tre pose diverse tra loro. La porzione inferiore del disegno è occupata dal Sileno ubriaco (istitutore del dio) e dalla sua asina ragliante. Satirelli suonano e accompagnano le ninfe danzanti. I corpi si susseguono, non lasciando spazi vuoti. Il segno è sottile e leggero. Il chiaroscuro è morbido. L’Abbondanza (1544, British Museum, Londra) invece ha un segno più duro e incisivo. Il disegno rivela dei pentimenti nel braccio destro. La figura segue un andamento sinuoso. I panneggi sono morbidi. Il corpo è illuminato con l’uso della biacca. In linea con gli esiti del Concilio Tridentino (1545-1563), Vasari è chiamato ad affrescare la cupola di Santa Maria del Fiore, che Brunelleschi avrebbe voluto mosaicata. Il Giudizio Universale (1572-1579, Firenze), completato con l’aiuto di Zuccari, è il soggetto del dipinto della cupola. La narrazione è organizzata per anelli concentrici distribuiti lungo le otto vele con storie tratte dall’Antico e Nuovo Testamento e dall’Apocalisse di San Giovanni con influenze dantesche. La narrazione è interrotta dalla lanterna, sotto la quale un’architettura dipinta in prospettiva poggia su una cornice sostenuta da angeli in volo. Dalle aperture della loggia si affacciano i “Seniori” o Vegliardi dell’Apocalisse. L’architettura dipinta si proponeva come appoggio visivo per la lanterna, ma l’effetto ottenuto è di schiacciamento, tale da non rendere giustizia allo slancio verticale voluto da Brunelleschi. Non tenendo conto della distanza dello spettatore, Vasari dedica particolare cura al dipinto, la cui qualità pittorica è uguale a quella dei rispettivi di dimensioni notevolmente minori: i colori sono cangianti e ricchi di varietà tonali. Questa cura del dettaglio non è apprezzabile nel complesso, ma solo guardando al particolare. Tra Palazzo Vecchio e l’Arno, la costruzione degli Uffizi (1560) è attribuita a lui. L’edificio nasceva per accogliere gli uffici amministrativi e giudiziari del Ducato, gli archivi di Stato e le opere della collezione medicea. Per avere lo spazio necessario furono abbattute ed espropriate le case che sorgevano lì e nessuno venne mai risarcito. La struttura consta di due blocchi -uno dei quali più breve- paralleli e di uno a questi perpendicolare, che formano una piazza stretta e lunga. Nel lato breve, una serliana dà sull’Arno, contribuendo ad una visione dell’insieme scenografica. Il materiale usato è la pietra di fossato, dello stesso colore della pietra serena, ma più resistente, parzialmente intonacata. La costruzione è su più livelli: quello inferiore porticato, su cui poggia un mezzanino, base per gli altri due piani. Il piano più alto, inizialmente loggiato, fu murato. Le campate sono divise da paraste, che inquadrano le tre aperture trabeate. Nel mezzanino le aperture sono semplici e rettangolari, mentre il livello a cui fa da base ospita finestroni con parapetto alternativamente centinati e timpanati. Le paraste del loggiato al pian terreno ospitano entro nicchie delle sculture. Nel 1565, si stabilì la costruzione di corridoi di collegamento con Palazzo Pitti e con Palazzo Vecchio. La funzione era quella di protezione del duca da eventuali sommosse popolari. Gli interventi di Vasari sono classificabili come operazione urbana: i corpi degli Uffizi condizionano l’aspetto non solo nelle immediate vicinanze, ma dell’intera città. Arte e Controriforma Il Concilio (1545-1563) ribadisce l’importanza di sacramenti e opere buono, contro la convinzione protestante che l’uomo si salvi sola gratia et sola fide: la salvezza è un dono di Dio che va conquistato e meritato. Stabilisce delle regole rigide per il clero: i parroci devono risiedere nella propria parrocchia e i vescovi nella propria diocesi; i vescovi devono controllare le parrocchie con visite regolari ed sono a loro volta controllati da inviati papali; a Roma il papa deve ricevere periodicamente rendiconti dai vescovi; ogni diocesi deve avere un seminario. Viene istituito l’Indice dei libri proibiti, organo di controllo sull’attività degli artisti (scrittori, pittori, scultori, etc.) così che si rispettassero i voleri dell’autorità ecclesiastica, pena il processo dal Tribunale dell’Inquisizione (istituito da papa Paolo III nel 1542). Per gli artisti si fece necessario rivolgere le proprie opere ad una funzione predicativa e di influenza sui fedeli. Jacopo Barozzi (1507-1573), detto il Vignola, nasce appunto nella cittadina emiliana di Vignola. Si forma a Bologna. Lavora a Bologna, in Francia (1541-1543), a Roma (dal 1550), dove prende il posto di Michelangelo nel cantiere di San Pietro. Opera prevalentemente per i Farnese. Lavora alla Chiesa del Gesù, che incarna i principi della Controriforma. Edificata per i Gesuiti (dal 1568) è ad unica navata (esemplare per la predicazione), coperta con volta a botte, concludente in abside semicircolare e affiancata da cappelle (tre per lato, non nel presbiterio). Il presbiterio è coperto da una cupola su un alto tamburo finestrato. Vignola vi lavora dal 1568 al 1571. Suo successore nella Chiesa del Gesù è Giacomo della Porta (1533-1602), che modifica il progetto per la facciata. L’effetto ottenuto con le modifiche è di appiattimento della facciata e di mancata corrispondenza tra registro inferiore e superiore. Della porta elimina le controparaste che inquadrano la porzione centrale sul secondo livello, ma le mantiene al piano terra; le paraste estreme del registro inferiore non hanno più corrispondenza al piano superiore (per Vignola, proseguivano in piedistalli coronati da sculture); l’aggetto della navata rispetto alle cappelle esternamente e di conseguenza anche la composizione gerarchica dei piani voluta dal progetto di Vignola sono annullati.
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