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Storia dell'idea d'Europa, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del libro "Storia dell'idea d'Europa" di Federico Chabod

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 07/09/2015

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Scarica Storia dell'idea d'Europa e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! STORIA DELL’IDEA D’EUROPA FEDERICO CHABOD CAPITOLO 1 Coscienza europea significa differenziazione dell’Europa, come entità politica e morale, da altre entità; il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c’è qualcosa che non è Europa. La prima contrapposizione tra l’Europa e qualcosa che Europa non è (precisamente l’Asia, destinata a rimanere il termine di confronto) è opera del pensiero greco. Tra l’età delle guerre persiane (499-479 a.C.) e l’età di Alessandro Magno (336 a.C.) si forma, per la prima volta, il senso di un’Europa opposta all’Asia per costumi e, soprattutto, per organizzazione politica; una Europa che rappresenta lo spirito di “libertà”, contro il “dispotismo” asiatico. Quest’Europa è ancora assai limitata come ambito geografico: i suoi contorni rimangono assai imprecisi e quando si parla di Europa si pensa al massimo ai popoli e alle regioni in rapporti costanti col mondo greco, e quindi all’Italia e alle coste mediterranee della Gallia e della Spagna. C’è tutta una parte, grandissima, che è già conglobata nell’Europa fisica, ma non affatto nell’Europa “morale; quali sono dunque i criteri di valutazione politici, culturali e morali per definire questa Europa assai più ristretta? Criterio fondamentale di differenziazione è quello della “libertà” politica, ellenica, contrapposta alla “tirannide” asiatica; e la libertà significa partecipazione di tutti alla vita pubblica e vivere “secondo le leggi”, non secondo l’arbitrio di un despota. Teniamo ben presente questa distinzione, destinata ad influire nei secoli: da allora all’idea di Europa si assocerà quella di libertà, all’idea dell’Asia quella di servitù. Certo è dunque che tra V e VI secolo a.C. sorge una coscienza “europea” (od occidentale) contro una “asiatica” (od orientale). Come ha osservato Denys Hay, il termine “christianitas” fa parte, nel XII secolo, del vocabolario abituale; il termine “Europa” non è usato se non in senso geografico, ed “europeo” entra nell’uso solo nel XV secolo, con Enea Silvio Piccolomini. 0 3 3 6 Cristianità occidentale = Europa, sottoposta politicamente a Carlo Magno 0 3 3 6 Cristianità orientale = Bisanzio, sottoposta all’imperatore di Costantinopoli Anche l’Europa menzionata da papa Callisto II all’imperatore Enrico V, nel 1122, all’indomani del Concordato di Worms, è sempre puro concetto geografico. Si potrebbe, a questo punto, chiedersi se e come questa nuova misura di valore (credente, non credente) si associ o sovrapponga alla misura di valore precedente (Romano, barbaro); se e come cioè il criterio religioso accolga in sé quello “civile”. In altri termini, il non credente equivale anche al barbaro, oppure no? Vi sono due tesi in antitesi: 0 3 3 6 Per Sestan il vecchio concetto di barbarie si fonde con il nuovo di fede cristiana, nel senso che il non cristiano è anche il barbaro. 0 3 3 6 Per De Mattei, invece, una simile equivalenza non sussiste: anche dopo il trionfo del cristianesimo, barbaro continua a mantenere l’antico valore di non Romano. Nel complesso, si può ritenere giusta la tesi di quest’ultimo: che cioè anche nell’alto Medioevo (476-1000 ca.) permaneva l’antica contrapposizione Romani-barbari, e che distinta da essa fosse la nuova contrapposizione cristiani-pagani. Dunque, concetto di christianitas e non di Europa; infatti tutto il pensiero politico medievale poggia sull’idea di “cristianità”, dalla quale deriva le sue aspirazioni e tendenze unitarie, dell’unità del genere umano sotto un solo capo, nel temporale l’imperatore, nello spirituale il pontefice. Quali sono i limiti materiali, geografici della christianitas? Teoricamente è ovvio, essi abbracciano l’universo, tutto quanto il genere umano, senza eccezioni; ma in concreto fin dove si estendono? L’ecumene romana aveva abbracciato, di suolo europeo, il Mezzogiorno e l’Occidente, quest’ultimo ormai fortemente collegato con il centro della civiltà, Italia e Grecia, dopo la conquista romana della Gallia; fuori dall’orbita civile era rimasta tutta l’Europa centrale, abitata da “barbare” nazioni. Il termine Europa appare più di una volta in Dante; quale ne sia l’esatta estensione geografica, non è chiaro: una precisa individuazione c’è solo per il settore Mediterraneo – Egeo – Mar Nero, con l’accenno a Costantinopoli. Le regioni nordiche sembrerebbero comprese nel continente, nel senso che anche ad esse si volge il pensiero del poeta, come sembra dimostrare il passo del De Vulgari Eloquentia in cui si parla dei principali idiomi dell’Europa. Del tutto incerti, invece, i limiti verso est; nella mente di Dante l’Europa è, almeno verso Oriente, assai più limitata di quello che noi siamo soliti raffigurarci e sostanzialmente è il gran blocco delle nazioni centro-occidentali, blocco nel cui centro sta l’Italia. Escludiamo la penisola balcanica, seppure sia compresa da Dante nell’Europa geografica, perché l’Europa fisica non è più una unità morale-religiosa, nonché politica; perché dunque il concetto “civile” non corrisponde a quello “geografico”. E i Greci? E tutto l’Oriente europeo, già culla della civiltà, poi trapassata in Occidente, poi romana e ora cristiana-medievale? I Greci attuali, l’Oriente europeo dei tempi di Dante, geograficamente compreso nell’Europa, stanno uscendo dalla sfera morale dell’Europa; mentre Germania e Inghilterra sono gli acquisti recenti, dal mondo cristiano romano si stacca quello che era stato il primo nucleo. L’inizio di questo processo di separazione risale già al Basso Impero romano; è dal IV secolo che le sorti cominciano a divergere: politicamente il fatto è palese, e documentato dalla rivalità tra gli imperatori dell’una e dell’altra parte. Alla rivalità politica si aggiunge anche quella religiosa, la contesa riguardo la primizia di Roma. Vescovi occidentali e papi lamentano le tendenze “eretiche” degli orientali, che costituiscono infatti la parte più irrequieta e dogmaticamente instabile del mondo cristiano. Non solo, ma l’Occidente ha uno dei suoi piloni d’appoggio, culturalmente e moralmente, ancor sempre nella tradizione di Roma: il ricordo di Roma, e non solo della Roma cristiana di Pietro e Paolo, ma anche della Roma dei Cesari e di Virgilio e Cicerone, è assai vivo nell’alto Medioevo e continua ad essere un punto di riferimento obbligato per pensatori e scrittori, come per le dottrine politiche. Niente di tutto questo a Bisanzio, che si scorda sempre più della tradizione romana e sempre più si afferma quella greca, quasi rivendicando la grecità preesistente alla conquista romana del mondo mediterraneo; col tempo il contrasto viene sempre più nettamente sentito. Tutto è dunque diverso, tra Occidente e Oriente; ma se in tale contrasto riappaiono alcuni dei motivi già emersi nel V-IV secolo a.C., c’è una differenza fondamentale tra quel lontano periodo e il Medioevo: allora l’Oriente voleva dire Asia e l’Occidente la Grecia, cioè l’Europa civile; ora l’Occidente significa regioni ad ovest dell’Adriatico e il disprezzato Oriente comprende la Grecia. 0 3 3 6 1) sullo spostamento del centro del commercio internazionale dal Mediterraneo, il punto di convergenza maggiore del traffico medievale, all’Atlantico e con ciò al decadere della fortuna economica delle grandi repubbliche italiane (Venezia, Genova) e al sorgere o meglio consolidarsi della floridezza economica e della potenza marittima degli Stati situati sull’Atlantico. 0 3 3 6 2) sul grande afflusso di metalli preziosi (oro e argento) dall’America in Europa. Queste considerazioni sono certamente giustissime, ma non bastano; le grandi scoperte geografiche, e in particolare la scoperta dell’America, incidono sì profondamente sulla vita economica, ma non meno profondamente sulla vita spirituale europea. È questo un problema assai poco studiato e pur di decisiva importanza per la formazione dello spirito moderno. Il Rinascimento, infatti, con tutta la modernità di molte sue affermazioni, era come mentalità, rimasto all’idea del momento-modello del passato, visto in Roma e nella Grecia antiche. Per gli uomini del Rinascimento c’è nella storia passata un periodo in cui arte, lettere, pensiero filosofico e politico hanno raggiunto la perfezione, il summum possibile all’ingegno umano; al di là, impossibile andare. Questa concezione spiega l’imitazione, principio cardine ad artisti e letterati del Rinascimento: imitazione della cultura, dell’arte classica, in quanto in esse si rispecchiano la sapienza e la bellezza stesse; imitare per cercare di avvicinarsi a quella perfezione. Questa forma mentis è la perfetta prosecuzione di quella cristiano-medievale; per il cristiano c’è infatti un momento nella storia dell’umanità in cui tutto è racchiuso, che è principio e fine allo stesso tempo: è il momento della Rivelazione, il momento della discesa del figlio di Dio in terra. Identica la mentalità del Rinascimento: ci si volge alle discussioni dell’età platonica e aristotelica o al discorrere di Cicerone o al poetare di Orazio: ma ci si volge sempre indietro, perché dietro a noi sta la verità. Mentalità completamente opposta a quella moderna che, muovendo dal concetto di progresso, afferma che la vita moderna è più ricca, complessa e quindi più alta di quella delle età passate, che essa ha accolto tutte le “conquiste” di quelle età, ma vi ha pure aggiunto qualcosa che mancava. È una rivoluzione completa nel modo di pensare, che sbocca nella querelle des anciens et des modernes e conduce, tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700, a ripudiare il mito del momento-verità nel passato, e all’affermarsi della mentalità illuministica. Nel determinare una siffatta rivoluzione, le scoperte geografiche, con l’ampliarsi del mondo fisico ebbero senza dubbio peso decisivo. La letteratura geografica si infittisce a dismisura nel ‘500, si moltiplicarono le relazioni di viaggi e le descrizioni di paesi extra-europei; e questa letteratura agisce in profondità, nel senso che determina mutamenti di giudizi e di modi di pensare. La conoscenza di nuovi mondi induce per naturale tendenza gli Europei a cercare di delineare più chiaramente i propri caratteri in “contrapposizione” a quelli altrui. Ci si sentirà, ora, sempre più Europei e non cristiani, e si insisterà sulle differenze culturali, politiche, morali, di costumi, a preferenza di quelle religiose. L’ideale della cristianità svanisce rapidamente, perde il suo potere sugli uomini, e vi contribuisce certamente la Riforma con la profonda divisione degli uomini sul terreno religioso. Vi contribuisce anche il progressivo “laicizzamento” del pensiero, lo staccarsi dall’ideologia della grande idea di “cristianità”, uno staccarsi certo progressivo, lento, ma continuo e infrenabile: e in questo processo di dissolvimento del vecchio ideale, viene fuori, più chiara e netta, l’idea d’Europa. A partire dal Cinquecento si manifesta una corrente polemica antieuropea: cioè l’insofferenza di certe forme di vita europee, e soprattutto l’insofferenza dei sistemi politici e delle guerre continue eccita un certo numero scrittori a creare il mito dei felici mondi lontani, dove non si conoscono guerre, dove gli uomini non sono ancora corrotti. Nasce così il mito del buon selvaggio, che continuerà fino al Settecento. L’Europa viene contrapposta alla non-Europa, non come civile a barbaro, ma anzi come sanguinario depredatore inumano a mite pacifico umano: le parti si sono invertite. Risuonano due motivi contrastanti: quello della pace, della tranquillità delle terre lontane, quello della lotta continua che strazia l’Europa. Questo spirito polemico non si accontenta quasi mai della pura discussione teorica, ma cerca di appoggiarsi su una “documentazione” mediante l’appello a qualche esempio, che può essere di due specie: o puramente fittizio, inventato; o storicamente precisato. Nel primo caso abbiamo l’utopia: cioè lo scrittore crea uno Stato immaginario, che modella secondo i propri ideali; è il procedimento di Tommaso Moro, di Campanella, ecc. Nel secondo caso, invece, lo scrittore cerca il modello in qualcosa di già esistente, che egli idealizza e stilizza. Naturalmente, per poter attuare questo procedimento polemico occorre creare il mito; il mito del buon selvaggio, della Cina saggissima, ecc; nonostante questi miti non possano essere compresi come quadri storici, essi hanno una forza, un’efficacia morale enorme. Il vagheggiamento di felici terre lontane e il vagheggiamento politico di una società europea ideale e unitaria, tendono ad uno stesso scopo. La polemica anti-europea non viene condotta perché poi veramente si voglia la fine dell’Europa, ma anzi perché se ne vuole una più alta vita. È proprio per salvaguardare valori civili, umani, che questi filosofi e letterati, da Montaigne a Voltaire, deprecando le consuetudini europee, deprecano cioè le guerre continue e gli odi tra Stato e Stato e partito e partito. L’espressione più alta della polemica anti-europea è offerta da due capitoli degli Essais di Montaigne: il capitolo sui cannibali è, sostanzialmente l’esaltazione della vita dei selvaggi e del loro vivere nello stato di natura, uno stato di grande purezza. Vi è in esso già un avvertimento fosco: attenti a voi, poveri selvaggi e poveri indigeni dell’America, perché il “commercio” con noi sarà la vostra rovina. Questo motivo viene ripreso e svolto nel capitolo des coches, dove Montaigne parla della conquista spagnola del Messico e del Perù; qui, alla descrizione dello stato idillico degli indigeni, succede la descrizione della crudeltà dei conquistatori. Se tiriamo le somme e ci chiediamo quali siano i risultati di tutte le descrizioni, discussioni e polemiche del ‘500, giungiamo alla costatazione che, in opposizione al barbaro e al selvaggio, viene ampiamente elaborato il concetto di civiltà. Era l’italiano Botero a tratteggiare, nelle Relazioni universali, il processo dell’incivilimento: processo che richiedeva non solo lo sviluppo della coscienza religiosa, ma anche il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura, il sorgere dell’attività industriale e commerciale, la formazione di governi stabili e la promulgazione di leggi certe. Momento essenziale della civiltà, della politia, era la città; essa significa appunto trionfo dell’agricoltura, inizio del commercio e dell’industria, stabile assetto politico, cultura e arti, palazzi e chiese, studi e costumi ingentiliti e raffinati. Vita economica basata sull’agricoltura, sull’industria e sul commercio, cioè su una sistematica e ben regolata coltura della terra, sulla produzione di strumenti di lavoro e oggetti necessari o utili o semplicemente comodi alla vita dell’uomo, e sullo scambio di derrate e manufatti. Vita politica basata su un’organizzazione stabile di poteri pubblici, ai quali spetta il decidere le cose della collettività, ai fini del bene comune. Vita morale e culturale fondata sulle norme della religione cristiana, sulle norme della morale tradizionale, passata e arricchita attraverso il Medioevo e il Rinascimento. Altro fattore di civiltà legato strettamente all’esperienza europea è il fattore costumi, vita sociale. A questo proposito è interessante osservare l’insistenza con cui gli scrittori francesi battono sul tasto nudità indiana – vestiti europei, semplicità indiana – raffinatezza europea: è la vita di società, insomma, che diventa fattore di civiltà non meno importante della salda organizzazione politica. Ma questa civiltà di cui si parla è propria soltanto dell’Europa o è concessa anche ad altre terre? Per quel che riguarda lo stesso Nuovo Mondo, alle descrizioni dei “selvaggi” sono frammischiate le descrizioni delle meraviglie del Messico e del Perù; in certi momenti, dunque, il Nuovo Mondo pare essere tutt’altro che selvaggio e barbaro, ma anch’esso civile, anche se la sua civiltà ha caratteri diversi dalla nostra, per religione, per tenore di vita, modo di pensare, ecc. Però, nel complesso, il quadro che viene tracciato dell’America è pur sempre quello di una società primitiva venuta bruscamente a contatto con una società assai più evoluta e civile, quella europea. E il vecchio continente africano? E, soprattutto, il vecchio continente asiatico? C’è tra l’altro la Cina, nei cui riguardi tutti gli scrittori, da Guicciardini a Montaigne e Botero, si esprimono come si potrebbero esprimere nei riguardi di un grande Stato europeo. C’è quindi almeno un altro paese pienamente civile; la civiltà europea in che cosa differisce da quella cinese? Questa risposta non ci viene ancora data nel ‘500; quello della Cina pacifica e saggia e dell’Europa guerriera e folle sarà il motivo svolto a piena orchestra dall’Illuminismo settecentesco. Perché si giunga a chiare e precise distinzioni tra civiltà europea e civiltà cinese, e in generale tra civiltà europea e civiltà non europea, occorre attendere proprio il Settecento. CAPITOLO 4 Se infatti il mito del “buon selvaggio” americano, già elaborato da Las Casas e da Montaigne, non è più perso di vista dalla pubblicistica europea, a scopo polemico, per opporlo alla “corruzione” e alla “malvagità” dell’Europa, lo sguardo viene tuttavia attratto, tra Seicento e Settecento, soprattutto su altri, più vecchi paesi. La Cina non è più sola a suscitare ammirazione; appare anche l’Egitto, che è stato l’iniziatore della civiltà umana e che ora trova i suoi esaltatori: Bousset ne esalta l’antica gloria nel campo delle leggi, della morale, dell’economia e della monumentalità. religione dominante, perché tenuti lontani dagli onori e dalle cariche pubbliche, sono riusciti a crearsi una fortuna con l’attività ed il lavoro. Se dalle Lettres persanes passiamo all’opera maggiore di Montesquieu, l’Esprit des lois (1748), il quadro dell’Europa acquista ancora maggior rilievo, forza e profondità. La libertà politica, che resta sempre il nucleo del pensiero dell’autore, l’orrore del despota, che è sempre la caratteristica dell’uomo europeo, sono storicamente spiegati. A chi è dovuta la libertà europea? Senza dubbio le antiche repubbliche greche e Roma repubblicana rimangono sempre il lontano primo esempio di libertà europea; ma poi con il Basso Impero questo senso della libertà si era perduto. Gli imperatori romani all’inizio si tenevano ben lontani dal dispotismo e dal fasto asiatico, ma col tempo il loro divenne un potere dispotico e militare, simile a quello degli Orientali. Il punto di partenza nella storia è quello del crollo totale della civiltà antica tra il IV ed il V secolo d.C.; la nuova civiltà si fonda sulle istituzioni dei nuovi venuti, i Germani, che sono basate sulla libertà. Infatti nemmeno gli antichi conoscevano quella forma di governo che è tipica dell’Europa: la monarchia temperata, moderata o, com’è in Inghilterra e com’è l’ideale di Montesquieu, la monarchia costituzionale, dove i tre i poteri sono separati e proprio con ciò garantiscono la libertà politica; questo tipo di organizzazione statale è una creazione nuova nella storia ed è dovuta precisamente ai Germani. L’esaltazione della libertà germanica nell’Esprit des lois è la conclusione, lo sbocco di uno sviluppo di idee affiorate già nei polemisti tedeschi dell’età della Riforma, negli Ugonotti francesi dopo la Notte di S. Bartolomeo, negli scrittori inglesi del ‘500 e del ‘600. Montesquieu fonde tutti questi motivi in uno solo e parla di libertà generale, comune a tutti i popoli germanici. Nell’opera si registra anche un importante mutamento di atteggiamento nei riguardi della religione. Nelle Lettres persanes il cristianesimo e il cattolicesimo erano stati violentemente aggrediti, mentre il Montesquieu della piena maturità attenua molto il suo anticlericalismo: nell’Esprit des lois il cristianesimo appare la religione che meglio si accorda con il governo temperato, mentre la religione musulmana e i riti cinesi si accordano col dispotismo. Ecco dunque quali conseguenze ha avuto il mito della libertà germanica nel Montesquieu; esso ha reso attuabile il concetto di libertà che nelle Lettres persanes era ancora un principio indeterminato. L’enorme influsso che Montesquieu esercitò sul pensiero europeo del XVIII e del XIX secolo, fece sì che il mito dell’originaria libertà germanica dominasse incontrastato nel pensiero politico sin quasi alla fine del XIX secolo. Molto diversa la figura di Voltaire; ma anche in lui ecco un altro esaltatore dell’Europa. Nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756) critica Bousset, che ha trattato troppo sdegnosamente gli Arabi e ha dimenticato completamente gli antichi popoli d’Oriente, come Indiani e Cinesi. All’India dobbiamo tante invenzioni e in essa i Greci si recavano per cercarvi la scienza; la loro religione fu altamente morale: essi hanno un orrore per l’omicidio e per ogni violenza, e sono perciò i più miti tra tutti gli uomini. Quanto ai Cinesi che dire di questo potentissimo e antichissimo impero che sussiste da più di 4000 anni senza che le leggi, i costumi, la lingua, il modo stesso di vestire abbiano sofferto alterazioni. Come vediamo, siamo anche qui nello stesso orientamento di Montesquieu: superiorità religiosa, morale dei popoli d’Oriente; è identico lo spirito polemico anticattolico e l’avversione a ogni forma di fanatismo. Anche politicamente sono evidenti le frecciate antiassolutistiche: che in Cina più che altrove il bene pubblico sia considerato il primo dei doveri equivale a dire che altrove (Francia, Stati europei), il bene pubblico non è sempre perseguito, anzi sottostà spesso al bene particolare. Mentre l’avversione al cattolicesimo, al papismo, ed in generale al cristianesimo è avversione di principio, l’avversione alla politica, la diffidenza verso lo Stato così forti nel Settecento, sono più nei confronti dei modi di applicazioni, che verso il principio stesso, che contro lo Stato in sé. “Ponete a capo di uno Stato un re illuminato, un re filosofo, tollerante in materia religiosa, protettore delle arti e delle lettere, che incrementi la vita economica del paese, e vedrete che l’ostilità degli illuministi alla politica scomparirà”. L’ostilità, insomma, del Settecento è contro lo Stato assolutistico alla Luigi XIV. Tuttavia la medaglia ha il suo rovescio: inferiore moralmente alla Cina, l’Europa si prende la sua rivincita nel campo delle scienze e delle lettere, cioè culturalmente e spiritualmente. Scienza e progresso: questo è Europa e solo Europa; è la ripresa e lo sviluppo dell’identico pensiero già abbozzato da Montesquieu. Questa è l’Europa che Voltaire sente: l’Europa degli artisti e dei letterati, degli scienziati e delle accademie, l’Europa di Newton e Locke, di Leibniz e Galileo; ed a questa Europa egli impone un corpus solo, un’unità culturale e spirituale ben distinta dal resto del mondo. CAPITOLO 5 Proprio mentre il senso “europeo” si afferma così fortemente e con tanta chiarezza, ecco sorgere voci contrastanti. Nella seconda metà del XVIII secolo, contro l’europeismo ecco affermarsi l’idea di nazione: il particolare contro il generale, l’individualità contro l’universalità. Se prendiamo Rousseau ci troveremo in un mondo profondamente diverso da quello di Montesquieu e di Voltaire: le nazioni, queste “individualità”, sono diverse l’una dall’altra, e guai a voler applicare ovunque le stesse regole, a pretendere di imporre leggi uniformi. Contrario a tutto ciò che sminuisce o soffoca la “personalità” di ognuno, Rousseau è perciò avverso all’europeismo propugnato da Montesquieu e Voltaire. Rousseau non può negare la realtà, non può misconoscere che l’Europa sia un’unità civile: “Tutte le potenze dell’Europa costituiscono tra di loro una specie di sistema che le unisce con una stessa religione, con un identico diritto delle genti, con i costumi, con le lettere, con il commercio e con una sorta di equilibrio che è l’effetto necessario di tutto ciò”. In campo politico Rousseau non si accontenta dell’attuale “sistema” dell’Europa (il sistema dell’equilibrio), che gli appare sufficiente soltanto per potersi mantenere tra le continue agitazioni, ma incapace di impedirle, e vagheggia invece un’organizzazione internazionale, su basi federali, che trasformi l’Europa in un “vero corpo politico” solido ed efficiente. Su tali basi, dunque, alla vigilia della Rivoluzione francese la coscienza europea entra in crisi. Ideali di vita comuni, un solo programma, un solo modo di vivere; oppure un ideale per ogni patria, programmi diversi, modi di vivere diversi? La “nazione” si affaccia in primo piano, nella storia; si intende la nazione come “coscienza”, volontà di essere nazione, come programma, non la nazione come fatto etnico - linguistico, già da secoli operante. Ha inizio allora il grande problema, dominante poi in tutta la storia contemporanea, dei rapporti tra il tutto, cioè l’unità civile d’Europa che tutti ammettono, e il singolo, cioè la patria singola. Tuttavia, anche nel divampare della passione nazionale, allora equivalente anche a senso di libertà, che è l’elemento caratteristico del venticinquennio 1790-1815, il senso dell’unità europea non si annulla. Soprattutto all’inizio, esso si esprime sotto forma di rimpianto di un passato bello e nobile, che sta crollando sotto i colpi pazzi dei rivoluzionari. Ma un simile stato d’animo viene superato abbastanza rapidamente, non ci si limita più a rimpiangere, ma si fanno proposte, si escogitano programmi per ridare forza ad un principio unitario comune; si cercano cioè i rimedi. 0 3 3 6 Federico Novalis è ostilissimo all’europeismo degli illuministi: l’Europa vagheggiata da Voltaire è per lui già decadenza, rovina; l’animo si volge nostalgicamente verso quei “belli, splendidi tempi in cui l’Europa era una terra cristiana, in cui un’unica Cristianità abitava codesta parte del mondo unicamente configurata”. Che cosa successe, invece, dalla Riforma protestante in poi? Venne separato l’inseparabile, divisa la Chiesa indivisibile; con la Riforma finisce la cristianità e comincia l’Europa dei filosofi. Il risultato è quello che si è visto: guerre terribili e distruzioni. Quel che importa notare è la rivalutazione del Medioevo; siamo qui al polo opposto di Voltaire. Il “gotico” non merita più disprezzo, bensì ammirazione, e questa sarà una delle caratteristiche fondamentali che distinguono l’idea di Europa dell’età romantica dall’idea dell’Illuminismo. 0 3 3 6 A Novalis segue Federico Schlegel, con cui il cristianesimo, che trionfa proprio con il Medioevo, diviene elemento fondamentale della civiltà europea che poggia spiritualmente su di esso, come politicamente sulla libertà germanica e culturalmente sull’eredità del mondo classico. Una seconda sostanziale diversità tra la coscienza europea degli illuministi e la coscienza europea dei romantici si deve ricercare proprio nel rapporto che si istituisce tra l’Europa e le nazioni, cioè tra il tutto e le singole parti. La fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento avevano visto insorgere la nazione contro l’Europa. Come si pongono ora i successivi rapporti tra queste due identità? Qui le vie possono essere divergenti. Da una parte si può cercare di reagire contro la strapotenza della Francia napoleonica; è la via dei conservatori, che si rifanno ai principi settecenteschi del “sistema di Stati” europeo, basato sul principio dell’equilibrio politico. Tale idea costituisce la base dottrinale degli uomini di Stato della Restaurazione, e innanzitutto del principe di Metternich. Sennonché l’europeismo di Metternich significa ripudio del principio di nazionalità. Egli rifiuta di accettare la nazione, la patria così come rifiuta di accettare l’idea di libertà: queste due potenti forze spirituali non solo le ignora, ma le vuole combattere. Per questa via non si sarebbe dunque mai venuti a conciliare nazione ed Europa: le due idee sarebbero rimaste ciascuna chiusa in se stessa e contrapposta all’altra. Ciò infatti avvenne, sul terreno politico, tra il 1815 e il 1848. La conciliazione doveva invece avvenire per tutt’altra via, e ad opera soprattutto dell’uomo che fu l’anti-Metternich: Giuseppe Mazzini. Quanto alla Spagna, essa è stata una società immobile, nella cui storia non mancano certo né grandi ingegni né grandi fatti, ma sono isolati, buttati qua e là senza continuità. Inghilterra, Germania, Italia, Spagna, nessuna di queste nazioni offre l’immagine completa. In Francia invece lo sviluppo intellettuale e sociale hanno sempre cominciato di pari passo; a lato dei grandi eventi, di rivoluzioni politiche, di miglioramenti nelle condizioni della società, si scorgono sempre idee generali, dottrine che corrispondono a quei fatti. Da qualunque punto di vista si consideri la Francia, si troverà in essa questo doppio carattere; i due fattori essenziali della civiltà vi si sono sviluppati in stretta correlazione. Tale è dunque l’inquadramento generale della civiltà europea in Guizot. Vi scorgiamo rimanere ben fermo il principio, posto dal Settecento, dell’unità civile europea; ma vi scorgiamo anche gli ulteriori sviluppi e arricchimenti di quel principio attraverso il pensiero dell’età romantica. L’unità non annulla la varietà: con ciò il senso della nazione può accordarsi perfettamente con la coscienza unitaria e l’amore della patria non ha più bisogno di atteggiarsi ad antieuropeo. Si perviene cioè ad una situazione di equilibrio tra senso dell’unità generale e senso del particolare. Nell’insieme, la storia della civiltà europea può riassumersi in 3 periodi: 0 3 3 6 Periodo delle origini, della formazione: è il periodo che va dal V al VII secolo. 0 3 3 6 Secondo periodo, fino al XVI secolo. 0 3 3 6 Terzo periodo, che comincia col XVI secolo e continua ancora: è il periodo dello sviluppo propriamente detto, quando la società umana assume in Europa una forma definitiva, segue una direzione determinata, cammina rapidamente ed insieme verso uno scopo chiaro e preciso. La differenza dal Settecento sta qui: per Montesquieu la tirannide, nel suo significato classico di dominio violento o illegale di uno solo, è “causa” dell’immobilità della società; per Guizot la tirannide, nel suo significato nuovo di dominio “esclusivo” è effetto di quel prevalere assoluto, totale di un solo principio, che genera contemporaneamente la tirannide politica e l’immobilità della società. Altra e maggiore novità rispetto alla libertà del Settecento è il congiungimento operato da Guizot tra la libertà politica e quella religiosa. La società cristiana ha cominciato con l’essere perfettamente libera, costituita in nome di una fede comune, senza istituzioni, senza governo vero e proprio, grazie all’azione di bande di barbari. All’uscire da questa condizione di cose, che non poteva conciliarsi con un grande sviluppo sociale, la società religiosa si pone sotto un governo essenzialmente aristocratico: è il corpo del clero, i vescovi, i concili, l’aristocrazia ecclesiastica. Un fatto di uguale natura avviene nella società civile, all’uscire dalle barbarie: è ugualmente l’aristocrazia, la feudalità laica che si impadronisce del potere. La società religiosa esce dalla forma aristocratica per entrare in quella della monarchia pura: tale è il significato del trionfo della curia di Roma sui concili e sull’aristocrazia ecclesiastica europea. La stessa rivoluzione si compie nella società civile: la monarchia prevale e prende possesso del mondo europeo per mezzo di analoga distruzione del potere aristocratico. Le due società hanno attraversato le stesse vicissitudini, hanno subito le stesse rivoluzioni; soltanto che la società religiosa ha sempre marciato per prima in questa via. Nessun illuminista avrebbe mai potuto pensare ad un simile accostamento, che conclude addirittura con il riconoscere che la chiesa ha sempre marciato per prima segnando la via su cui si è incamminata la società civile. Negli uomini del Settecento, come in quelli della prima metà dell’Ottocento, rimane in ogni caso identica la conclusione: il senso della superiorità della civiltà europea su tutte le altre, passate e presenti, e la fiducia piena nell’avvenire, che dovrà vedere ulteriori progressi e nuovi splendori dell’Europa.
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