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Storia dell'Italia repubblicana, Dispense di Storia Contemporanea

Giorgio Vecchio - Paolo Trionfini

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 18/04/2023

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Scarica Storia dell'Italia repubblicana e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA DELL’ITALIA REPUBBLICANA (1946-2014) I CAPITOLO: ANNI COSTRUTTIVI 1. L’Italia alla fine della guerra e la nascita della Repubblica, 1945-1946 I danni materiali Al termine del secondo conflitto mondiale, le condizioni dell’Italia erano catastrofiche. Mettendo insieme vari dati e studi, si può ipotizzare che tra il 1940 e il 1945 circa il 20% della ricchezza privata italiana andò distrutto. Bisogna inoltre tenere presente che proprio le vicende militari e politiche aveva contribuito a diversificare gli effetti distruttivi della guerra. Nel Mezzogiorno, i danni erano stati determinati soprattutto dai bombardamenti alleati tra 1942 e 1943, dal momento che poi lì la guerra si era rapidamente conclusa e i tedeschi si erano ritirati senza procurare distruzioni supplementari; nell’Italia centrale e attorno alle due linee difensive più note, la Gustav e la Gotica, si erano invece assommati i danni da bombardamento, quelli da combattimento e quelli provocati volontariamente dai tedeschi in ritirata; al Nord, infine, i danni più gravi erano stati quasi esclusivamente causati dagli attacchi aerei, proseguiti fino al 1945. Ovunque i disastri maggiori riguardavano le abitazioni e le infrastrutture. Il danno era consistente anche perché il sovraffollamento delle abitazioni nei centri urbani era cronico e quindi la perdita di stanze e case incideva su un numero elevato di persone. Si era perso il 40% delle aule scolastiche e il 20% delle attrezzature ospedaliere. Drammatica era la situazione del sistema delle comunicazioni: distrutti circa 8000 ponti, interrotto il 60% delle strade. La produzione agricola risentì pure gravemente degli eventi bellici. Secondo fonti sindacali del 1947, erano andati distrutti, per esempio, cinque milioni di ulivi, mentre il patrimonio zootecnico, nel caso dei bovini, era sceso da 7,8 milioni a 6,2. Inoltre molti terreni erano stati minati. Per quanto riguarda l’industria, si è già detto che gli impianti del Nord furono in larga misura salvati dalle distruzioni, grazie all’abile gioco degli imprenditori e alla tutela esercitata dalla Resistenza e dalla classe operaia. La ripresa industriale fu invece rallentata da altri elementi negativi: il disastro delle infrastrutture e delle vie di comunicazione, la mancanza di captali da reinvestire nel processo produttivo, la totale assenza di materie prime e di fonti di energia. Insomma, al di là di ogni considerazione politica, sta il fatto che l’Italia dell’immediato dopoguerra aveva assoluto bisogno dell’aiuto americano: farina e carbone dovevano per forza di cose arrivare d’oltreoceano, pena la sopravvivenza stessa del paese. Le condizioni di vita Nel 1945 le condizioni di vita degli italiani erano dunque precarie, seguendo un generale processo di impoverimento iniziato con la decisione di Mussolini di portare il paese in guerra. Il sistema del razionamento aveva previsto che i produttori consegnassero le derrate, sotto il controllo della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, ricevendo regolare pagamento. Dagli ammassi le merci sarebbero poi state ripartite razionalmente tra i commercianti, ai quali i consumatori avrebbero potuto rivolgersi per l’acquisto, a patto di consegnare i tagliandi, da ritagliare da un’apposita tessera distribuita a ogni unità familiare, che comportavano il diritto a comprare le quantità desiderate, in rapporto al numero delle bocche da sfamare. I prezzi ufficiali bloccati non corrispondevano al valore delle merci, così che i produttori furono incentivati a evadere dall’obbligo del conferimento degli ammassi, perché quanto ricevevano risultava insufficiente per le loro necessità. Una quota della produzione sfuggì alle rilevazioni ufficiali e andò ad alimentare un mercato parallelo e clandestino, il mercato nero, a prezzi decisamente superiori e speculativi. Negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra il vertiginoso aumento dei prezzi costrinse molte famiglie a intaccare prima, e a perdere perdere del tutto poi, i propri risparmi; il passo successivo fu quello di vendere i beni di famiglia e, nelle situazioni più disperate, a spingere le donne sulla via della prostituzione. Lo sviluppo del mercato nero produsse conseguenze sociali ed economiche enormi, quali il passaggio da un’economia monetaria a una basata sul baratto. Si attuava anche una sorta di rovesciamento del rapporto città-campagna: era adesso la campagna a offrire maggiore sicurezza e più ampie possibilità di sostentamento. Il 1944, il 1945 e in buona misura anche il 1946 furono dunque gli anni più terribili vissuti dagli italiani e dalle italiane. La fine della guerra permise però un graduale ritorno nelle città sconvolte dai bombardamenti. La frequenza degli attacchi aerei aveva posto già alla fine del 1942 il problema dello sfollamento dai centri urbani in condizioni tragiche. Il ritorno avveniva in città rese spettrali dalle macerie: il ricorso a situazioni di fortuna si accompagnò alla diffusione del fenomeno del sovraffollamento dei vani esistenti. non elettivo e privo di sostanziali poteri, ma esso ebbe rilievo perché era pur sempre rappresentativo di tutte le forze politiche e sociali italiane, con presidente Carlo Sforza. Importanti furono pure le iniziative del governo per attenuare le tensioni esistenti in diverse regioni italiane. Alla Valle d’Aosta furono riconosciuti l’uso ufficiale della lingua francese; per l’Alto Adige si iniziò a cercare di risolvere l’ingarbugliata questione etnico-linguistica, complicata dalle eredità lasciate da fascismo e nazismo; per la Sicilia si posero in atto misure volte a debellare il separatismo, e ci furono misure favorevoli anche all’economia della Sardegna. Tuttavia, di fronte al progressivo deterioramento della situazione e mosso dalla volontà di spostare su basi più moderate gli equilibri politici, il PLI decise di ritirare i propri ministri dal governo e rivolse a Parri l’accusa di non aver saputo ben governare. Il 24 novembre Parri dovette annunciare le proprie dimissioni. L’ascesa di De Gasperi L’ascesa di De Gasperi al vertice della politica italiana costituiva un fatto clamoroso, perché si trattava del primo cattolico ‘militante’ a rivestire tale carica a oltre ottant’anni dall’unificazione nazionale. Egli aveva del resto tutte le carte in regola: una lunga esperienza politica, una biografia indiscutibilmente antifascista (era addirittura stato in carcere sotto l’accusa di espatrio clandestino), un solido legame con il mondo cattolico e con la Santa Sede, testimoniato dal suo rapporto di amicizia con il futuro Paolo VI. Nessuno previde allora che sarebbe rimasto al vertice dell’esecutivo per quasi otto anni. Il 10 dicembre 1945 entrò in carica il primo governo De Gasperi, di cui facevano parte anche Togliatti, Nenni, Scelba. De Gasperi andò verso mosse di tipo moderato, con l’epurazione e con lo scioglimento dell’Alto Commissariato. Le regioni del Nord furono così restituite all’Italia a partire dall’1 gennaio 1946. Furono inoltre negoziati nuovi accordi con gli Stati Uniti per l’attuazione del programma di aiuti posti sotto la sigla dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), che portarono nel nostro paese a titolo gratuito l’80% dei prodotti agricoli, il 70% dei generi alimentari, il 20% dei prodotti industriali e il 100% dei medicinali. Emblematica fu la spinosa questione del cambio della moneta. Già prima della fine della guerra era stata presa in considerazione l’ipotesi di procedere al cambio della lira. Vi era la concreta possibilità che, di fronte a una disponibilità di beni limitata, la quantità di denaro esistente potesse produrre effetti inflazionistici. Le sinistre sollecitavano il cambio della moneta per ragioni di giustizia sociale, proponendo che esso fosse accompagnato da un’imposta straordinaria sul patrimonio. Spinto dal ministro del Tesoro Corbino (liberale) e dalla Banca d’Italia, nel gennaio 1946 il governo stabilì di rinviare la proposta del cambio della moneta. L’episodio si collocava nella tendenza a ridurre il più possibile l’intervento dello Stato nella ricostruzione: del resto la spinta a identificare libertà politica e libertà economica era forte in tanti settori della società, grazie anche all’influsso esercitato da economico come Corbino, Einaudi, Demaria. Era evidente pure la necessità di riavviare gli scambi con il resto del mondo, tanto che nel I governo De Gasperi venne istituito un apposito ministero per il Commercio con l’estero. Verso il referendum istituzionale Sul piano politico arrivò al pettine il nodo della scelta istituzionale tra monarchia e repubblica, la cui soluzione, dopo la “svolta” di Salerno → 1944, prende il nome da una iniziativa di Palmiro Togliatti, su impulso dell'Unione Sovietica, finalizzata a trovare un compromesso tra partiti antifascisti, monarchia e Badoglio, che consentisse la formazione di un governo di unità nazionale al quale partecipassero i rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale, accantonando quindi temporaneamente la questione istituzionale. L'iniziativa si concluse con l'accettazione di una mediazione di Enrico De Nicola concernente il trasferimento di tutte le funzioni ad Umberto di Savoia, quale Luogotenente del Regno e l'indizione di una consultazione elettorale per un'Assemblea Costituente e la scelta della forma dello Stato solo al termine della guerra. Nel secondo dopoguerra la svolta di Salerno creerà non pochi problemi alla tesi unitarista del Fronte popolare. Alcuni tra i socialisti massimalisti del PSI rinfacciavano infatti a Togliatti ed al PCI di essere venuti a patti con la monarchia e con il potere democratic. I monarchici erano consapevoli che la Costituente sarebbe stata dominata dai partiti di orientamento repubblicano e avrebbe portato alla fine della tradizione storica dei Savoia. Nel corso del 1945 e nelle prime settimane del 1946 la discussione si fece vivace, anche per l’urgenza di andare alle urne. Contro l’ipotesi del referendum stavano le sinistre, mentre favorevole era De Gasperi, il quale sapeva che la DC era filorepubblicana, mentre il mondo cattolico era filomonarchico. Vinse De Gasperi, sia per il referendum istituzionale, sia per eleggere con metodo proporzionale i 556 deputati della Costituente, oltre che la data, fissata per il 2 giugno. La campagna elettorale e referendaria fu vivacissima, con un’incredibile diffusione di materiale a stampa e con l’uso del mezzo radiofonico. Importante fu la partecipazione delle donne, chiamate per la prima volta al voto nella storia italiana. Il mondo cattolico insistette più che sulla questione istituzionale, sulla necessità di redigere una Costituzione “cristiana”. Molti vescovi e preti utilizzarono toni apocalittici: per loro una repubblica era foriera di mille pericoli, addirittura un salto nel buio. Il clima complessivo della campagna elettorale risultava comunque incerto: per forzare la situazione a proprio favore, casa Savoia tentò un colpo d’astuzia, con l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III il 9 maggio: la mossa era chiara, si toglieva di mezzo il sovrano anziano e compromesso con il regime fascista e si poneva al suo posto il giovane figlio Umberto che divenne Umberto II, il quarto re dell’Italia unita. Il voto del 2 giugno Il voto politico per la costituente confermò la forza dei partiti di massa e la prevalenza della DC che ottenne la maggioranza con il 35,2%, poi PSIUP con il 20,7% e al terzo posto il PCI con il 18,9%. L’elettorato italiano aveva inteso davvero voltare pagina, dando la gran parte dei suoi consensi proprio a quanti intendevano rompere, non solo con il fascismo, ma anche con il prefascismo. Il Presidente del Consiglio dichiarò ufficialmente di assumere le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. Umberto II preferì abbandonare l’Italia. Il 18 vennero resi noti i risultati definitivi e fu ufficialmente proclamata la Repubblica. Togliatti emanò un decreto che concedeva un’amnistia generale per i reati politici, della quale beneficiarono soprattutto gli ex fascisti e, in misura minore, anche i partigiani. Il 25 iniziarono i lavori dell’Assemblea Costituente che elesse come presidente il socialista Giuseppe Saragat e come Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Lo scarto tra repubblica e monarchia non fu enorme, ma netto, con circa 2 mln di voti. Dopo il voto del 2 giugno De Gasperi si dimise e ricevette subito l’incarico di formare un nuovo governo, che sarebbe stato il primo dell’Italia repubblicana. Esso nacque il 13 luglio 1946 con la partecipazione di DC, PCI, PSIUP, PRI, con fuori gli azionisti e i liberali. La questione siciliana Una delle questioni cruciali che i governi Parri e De Gasperi dovettero affrontare fu quella della Sicilia. In tutto il Sud già nel 1944 si erano intensificate le agitazioni contadine e le occupazioni dei latifondi. L’allora ministro comunista dell’agricoltura, Fausto Gullo, aveva cercato di introdurre delle riforme tramite una serie di decreti, che non contenevano aspetti rivoluzionari o radicali, ma avevano consentito ai contadini di guadagnare fiducia verso lo stato. Ciò era bastato per scatenare la reazione dei proprietari terrieri, che non avevano perso tempo prospettiva la polemica contro le imposte diventava il punto fondamentale. Il successo de "l'uomo qualunque" era stato immediato: nel 1945 era il settimanale più venduto in Italia. Giannini quindi si presentò alle elezioni per la costituente ottenendo più del 5% dei voti. La scissione socialista Alla fine del 1946 De Gasperi si trova di fronte a un passaggio alquanto delicato. Proseguire la collaborazione con le sinistre significava perdere voti, alienarsi le simpatie della Chiesa, dei ceti medi e degli ambienti economici. L'occasione per una clamorosa rottura della DC con le sinistre sembrò presentarsi all'inizio del 1947. De Gasperi andò negli Stati Uniti, intendendo rafforzare i propri legami con i dirigenti americani e portare a casa un prestito di 100 milioni di dollari. Mentre De Gasperi si trovava oltre oceano si verificò la frattura del PSIUP scomponendosi in PSI di Nenni e PSDI di Saragat. Ciò innescò la crisi di governo. Quello che si verificò a Roma in quei giorni ebbe effetti molto importanti per la politica italiana. Il Partito Socialista perse la sua posizione numericamente predominante rispetto al Partito comunista; Saragat si dimise da presidente della Costituente e fu sostituito da Umberto Terracini, in rappresentanza di quel PCI che adesso era, dopo la DC, il partito italiano più forte. De Gasperi presentò le dimissioni, e da più parti si suggerì di approfittare dell’occasione per chiudere definitivamente la collaborazione con comunisti e socialisti, oppure per portare la DC momentaneamente fuori da ogni responsabilità governativa. Contro queste ipotesi si schierò con decisione lo stesso De Gasperi, che formò un nuovo ministero De Gasperi - il terzo - segnato ancora dalla presenza di DC, PCI, PSI. Il trattato di pace (10 febbraio 1947) Nella strategia di De Gasperi la prima questione da chiudere era quella del trattato di pace. La classe politica italiana antifascista si era fino ad allora un pò illusa sulla benevolenza di inglesi e americani. Si sperava poi fosse fatta una distinzione tra Mussolini e l’Italia, in modo da conservare almeno le colonie ottenute in Africa in epoca prefascista (Eritrea, Somalia, Libia). In ogni caso De Gasperi intendeva firmare prima possibile la pace, perché ciò avrebbe rappresentato un passaggio fondamentale al fine di ridare all’Italia la piena sovranità. De Gasperi voleva firmare la pace avendo ancora le sinistre dentro il governo. Il trattato di pace venne infine firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. Il trattato impose all’Italia dolorose amputazioni territoriali. Sul confine occidentale si dovettero cedere alla Francia i territori circostanti i comuni di Briga e di Tenda; la Jugoslavia si impossessò di gran parte della Venezia Giulia, con tutta la penisola istriana e Fiume; l’Italia perse anche Zara in Dalmazia. Tornò indipendente l’Albania, mentre le dodici isole dell’Egeo furono consegnate alla Grecia. L’Etiopia venne persa, e la Somalia fu data per un decennio in amministrazione fiduciaria all’Italia, che avrebbe dovuto avviare il paese verso l’indipendenza. L’Eritrea, unita all’Etiopia, innescò un pluridecennale conflitto per l’indipendenza conquistata solo nel 1993. Piuttosto pesanti furono anche le imposizioni finanziarie e miliari: l’Italia dovette versare 100 milioni di dollari all’URSS e molti altri ad altri paesi a titolo di riparazione per i danni provocati con le proprie aggressioni. Fu fissato inoltre un tetto massimo di 185.000 uomini per l’esercito italiano. Le vicende più gravi riguardarono ancora una volta Trieste e l’Istria. In quell’area di confine esisteva da tempo un clima di altissima tensione, che aveva trovato il suo tragico simbolo nelle foibe. Già a partire del 1945 molte famiglie italiane decisero di fuggire all’occupazione slava e comunista, causando fenomeni di vero e proprio spopolamento di intere aree istriane. Per quanto riguarda Trieste, il trattato di pace dispose la costituzione di un Territorio libero di Trieste, da porre sotto la guida di un governatore designato dall’ONU. Il territorio venne diviso il Zona A e Zona B, nella prima gli angloamericani e nella seconda la Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di pace, De Gasperi riuscì a superare indenne anche un altro pericoloso scoglio, quello costituito dall’art. 5 della bozza di Costituzione (che nella redazione definitiva diverrà il 7): “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.” La Chiesa cattolica non intendeva affatto che i Patti del 1929 fossero messi in discussione, nel timore che quanto concesso allora dal regime fascista potesse essere ridotto nel nuovo clima democratico. Nessuno aveva dimenticato che i Patti erano stati firmati da Mussoluni in persona, che ne aveva fatto uno dei pilastri per il consolidamento del proprio regime. La DC non voleva assolutamente creare una frattura con la Chiesa, perciò non stupì il loro voto in aula, quanto piuttosto il voto favorevole del PCI: Togliatti voleva evitare una “guerra di religione”, nella speranza anche di mantenere in vita un legame con la DC. La rottura con le sinistre e il IV governo De Gasperi La strada per la DC sembrava essere una sola: uscire da quella “coabitazione forzata” con i socialisti e i comunisti, che sembrava controproducente. De Gasperi si dimise il 3 maggio e diede inizio a una crisi governativa di eccezionale rilievo. Da parte democristiana vi fu molta incertezza durante la crisi e fu addirittura considerata l’ipotesi di passare la mano, tanto che il Capo dello Stato De Nicola diede l’incarico di formare un nuovo governo a Nitti, che tuttavia fallì. Si arrivò pertanto alla nascita del IV governo De Gasperi, composto esclusivamente da democristiani, liberali e indipendenti. Con la costituzione di questo governo De Gasperi finiva una fase della storia d’Italia, quella scaturita dalla guerra e dalla Resistenza e contrassegnata dalla collaborazione tra i grandi partiti di massa di sinistra e di centro. Con il maggio 1947 terminava la presenza diretta di socialisti e comunisti al governo: si sarebbe dovuto attendere la fine del 1963 e la nascita del I governo Moro di centro-sinistra per vedere di nuovo ministri del PSI, mentre al contrario non ci sarebbero mai più stati ministri appartenenti al PCI. De Gasperi poneva quindi le premesse per quella formula centrista che sarebbe divenuta tipica della politica italiana degli anni Cinquanta. Costituente e Costituzione La rottura tra DC e sinistre non impedì la conclusione dei lavori dell’Assemblea Costituente, i cui 556 membri riuniti avevano votato il socialista Saragat presidente. Per procedere speditamente nell’elaborazione della nuova carta costituzionale, 75 membri ebbero il compito di presentare un proprio progetto entro il 20 ottobre 1946, incarico prorogato due volte fino ad arrivare al 31 dicembre 197. Il voto finale si ebbe il 22 dicembre 1947: la nuova Costituzione, che sarebbe entrata in vigore il 1 gennaio 1948, fu scritta dal meglio che l’Italia potesse allora offrire in uomini politici e giuristi. Presidente ne fu Meuccio Ruini, il quale lavorò accanto a Togliatti, Fanfani, Moro, De Gasperi. Per scrivere la Costituzione era chiaro che si sarebbe dovuto arrivare a diversi compromessi, dei quali i protagonisti erano la DC e il PCI. La nuova Costituzione si caratterizzava per il suo carattere rigido e non flessibile (nel senso che stabiliva complesse procedure per ogni pur piccola modifica del testo). La paura di ricadere in un sistema come il fascismo portò alla ricerca di soluzioni istituzionali che limitassero il primato dell’esecutivo e valorizzassero al massimo l’istituto parlamentare. 3. Il 1948 e la scelta occidentale La situazione economica e la ‘linea Einaudi’ Di fronte al nuovo governo De Gasperi stava l’immane problema di stabilizzare il sistema economico. Il simbolo concreto del marasma di quei mesi era fornito da processo inflattivo: nei primi mesi del 1947 l’indice generale dei prezzi all’ingrosso risultava di 40 volte superiore a quello del 1938, mentre il costo della vita lo era di 34 volte. La fiducia degli investitori, dei risparmiatori e dei ceti medi nella nuova Italia democratica non poteva che essere vicina allo zero. La spesa pubblica andava frenata; il crescente deficit statale favoriva l’emissione di carta moneta e di conseguenza l’inasprirsi dell’inflazione. battaglia elettorale, svolgendo propaganda contro l’astensionismo, contro il comunismo e in favore della DC. Anche il governo sfruttò bene tutte le leve a disposizione, usando parecchio i cinegiornali. Il ministro degli Interni Mario Scelba diede il suo contributo reclutando migliaia di poliziotti e dispose che in tutte le principali città si svolgessero parate militari e sfilate per mostrare il nuovo equipaggiamento delle forze dell’ordine, a cominciare dalle jeep americane. Determinanti furono la propaganda e il sostegno diretto degli Stati Uniti. Particolarmente attivo fu l’ambasciatore a Roma James Dunn, pronto a inaugurare nelle tante città italiane le opere pubbliche ricostruite grazie ai dollari americani. Pesanti furono infine le dichiarazioni ufficiali del governo americano, che minacciò di “prendere atto” che con una scelta per la sinistra l’Italia avrebbe inteso dissociarsi dagli aiuti del piano Marshall. Anche il Fronte ricorse all’aiuto straniero, rivolgendosi ovviamente a Mosca. Il voto del 18 aprile La giornata del 18 aprile si svolse tranquilla. I risultati elettorali apparvero clamorosi. La DC ottenne il 48,5% dei consensi, mentre il Fronte Popolare si fermò al 31%. In sostanza l’elettorato aveva individuato nella DC l’unica possibile diga anticomunista e aveva concentrato le proprie energia su di essa. La DC strappò la maggioranza assoluta alla Camera (305 seggi su 574), ma non al Senato, dove furono insediati be 107 senatori di diritto in base alla III norma transitoria della Costituzione, che prescriveva che tutti i membri della Costituente in possesso di determinati requisiti avrebbero goduto di tale privilegio per la sola prima legislatura repubblicana. Gli esiti del voto risultarono anche imbarazzanti per la dirigenza del Fronte Popolare. Nel PSI ci si preparò ad un regolamento di conti che sarebbe poi sfociato nell’aspro dibattito svoltosi dal 27 al 30 giugno a Genova durante il XXVII congresso del partito, che avrebbe portato al prevalere della componente di centro, con Jacometti nuovo segretario. Nel panorama dei partiti presenti nel nuovo Parlamento spiccarono un’assenza e una presenza nuove: l’assenza del Partito d’Azione e la presenza nuova del Movimento Sociale Italiano, espressione della destra estrema legata ai ricordi della Repubblica Sociale Italiana. Il partito era stato fondato a Roma nel 1946 nella casa di Arturo Michelini. Fino a quel momento gli ambienti nostalgici del fascismo erano riusciti solo a produrre confuse iniziative di carattere rivoluzionario e terroristico. Il nuovo partito si affidò alla segreteria di Giorgio Almirante e fece propria l’ideologia antiborghese e anticapitalistica, volta alla socializzazione delle imprese, che aveva caratterizzato l’estremo tentativo del fascismo di Salò. Per quanto riguarda il nuovo Presidente della Repubblica, la carica fu affidata a Luigi Einaudi nel 1949. Il nuovo Capo dello Stato accolse le dimissioni di cortesia presentato da De Gasperi e lo incaricò subito di formare un nuovo governo, con la partecipazione di PSLI, PLI e PRI. L’attentato a Togliatti e la scissione sindacale Non erano ancora passati tre mesi dal voto del 18 aprile e dalla conclusione pacifica di quell’evento, che l’Italia rischiò di venire trascinata in un conflitto dalle proporzioni imprevedibili: la mattina del 14 luglio 1949, mentre usciva da Montecitorio con la sua compagna Nilde Iotti, Togliatti fu fatto oggetto di diversi colpi di rivoltella e gravemente ferito. L’attentatore era un estremista di destra, Antonio Pallante, che fu subito arrestato. La notizia dell’attentato provocò uno sciopero spontaneo di dimensioni mai viste prima: in tutta Italia i lavoratori passarono all’occupazione delle fabbriche e delle piazze, mentre si registravano diversi episodi di violenza. Quello più clamoroso si registrò nel paese di Abbadia S. Salvatore, nella zona del Monte Amiata (Toscana), dove furono uccisi due agenti e un maresciallo di polizia. Alla guida delle manifestazioni di protesta si trovarono spesso dirigenti dei partiti di sinistra o sindacalisti della CGIL, anche se la linea ufficialmente presa dal PCI fu quella di frenare e moderare la situazione. L’esito più importante dell’attentato a Togliatti fu però la spaccatura definitiva del sindacato unitario, la CGIL. Fin dal Patto di Roma del 3 giugno 1944, la situazione individuata per consentire la convivenza delle tre principali componenti (la comunista, la socialista e la cattolica) conteneva in sé un inevitabile carattere di provvisorietà. Era insomma sempre più difficile tenere insieme un organismo entro il quale si muovevano coloro che, secondo una prospettiva marxista e leninista, tendevano a concepire il sindacato come “cinghia di trasmissione” rispetto al partito, e quanti invece esaltavano il ruolo autonomo del sindacato e il suo riferimento ai valori della dottrina sociale della Chiesa. Anche di fronte alla proposta americana del piano Marshall le componenti della CGIL si trovarono divise. Il voto del 18 aprile e l’attentato a Togliatti rappresentarono in questa situazione la goccia che fece traboccare il vaso: la componente cristiana della CGIL dichiarò che lo sciopero generale di protesta indetto dal Comitato direttivo era in contrasto con le finalità e le funzioni del sindacato. Il 22 il Consiglio nazionale della ACLI affermò che la CGIL non esisteva più. Nel corso del 1949 il nuovo sindacato attraversò una fase di consolidamento destinata sfociare il I maggio del 1950 nella fondazione della CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori). 4. Il centrismo di De Gasperi, 1949-1953 Il dibattito della DC Nel corso della prima legislatura repubblicana, dal 1948 al 1953, Alcide De Gasperi diresse tre diversi governi centristi, con alleanze variabili tra democristiani, repubblicani, socialdemocratici e liberali. In politica economica ci si mantisse sostanzialmente fedeli alla linea liberistica già tracciata da Einaudi. In politica estera la scelta occidentale dominò e fu integrata dall’impegno in senso europeistico che lo stesso De Gasperi perseguì. In politica interna si assistette alla crescente contrapposizione con le sinistre che assunse toni di fuoco soprattutto dopo lo scoppio della guerra di Corea e sfociò infine nel progetto di “democrazia protetta” voluto da De Gasperi e Scelba. Una polemica particolarmente vivace si manifestò nella DC, dove a partire dalla fine del 1948 divenne sempre più acuta la contrapposizione tra la maggioranza degasperiana e le componenti della sinistra del partito, sia quella riunita attorno a Gronchi e quella vicina a Dossetti. Per quanto riguardava il partito i dossettiani contestavano l’idea di De Gasperi, secondo cui il partito era essenzialmente uno strumento di raccolta del consenso e di sostegno a un’azione di governo ritenuta predominante. Per Dossetti occorreva rilanciare la DC anche come sede di elaborazione di un progetto originale di riforme, capace poi di vigilare perché il governo le traducesse in pratica. Il partito doveva quindi avere un ruolo innovativo di elaborazione culturale finalizzato alla costruzione di un nuovo modello di stato. Quindi mentre De Gasperi tendeva ad appoggiarsi al vecchio notabilato prefascista e ai funzionari dello Stato, Dossetti insisteva sulla necessità di valorizzare energie giovani. I dossettiani si rifacevano al pensiero di economisti come Keynes e proponevano quindi un maggiore intervento dello stato nelle questioni sociali. Rossetti parlò si una “terza fase sociale” da inaugurare e di una “democrazia sostanziale” da costruire in Italia, invitando a uscire dalla mera contrapposizione con il comunismo. Nessuna novità significativa venne però per il momento tanto che nel 1950 nacque il VI ministero De Gasperi, perché i dossettiani preferirono rimanere ancora fuori da un impegno diretto nell’esecutivo. La scelta occidentale: il piano Marshall Si andò intanto chiarendo la collocazione internazionale dell’Italia. Fin dal 1943 era chiaro che i destini del nostro paese erano strettamente congiunti con quelli americani e inglesi. Il primo passo concreto per l’Italia fu l’inserimento nel piano Marshall. Era evidente l’interesse americano in gioco: solo riavviando l’economia europea si sarebbero potuti trovare i mercati necessari per collocare i prodotti statunitensi. In caso contrario, dopo l’enorme sviluppo avuto nel corso della guerra, l’industria d’oltreoceano sarebbe andata incontro a una crisi di richiesta. L’intervento del governo fu anche alle origini di un solido rapporto creatosi tra la DC e i nuovi piccoli proprietari. Attraverso il controllo di appalti e rilanciando la tradizionale visione cattolica della famiglia rurale, Bonomi (presidente della Coldiretti) creò una vasta rete di controllo sociale. Egli divenne così uomo di enorme potere entro la DC e si assicurò il controllo dell’intera politica agricola italiana. L’intreccio tra riforma agraria, Coldiretti e Federconsorzi venne pertanto a costituire uno dei pilastri del consenso attorno alla DC. Con la legge 10 agosto 1950 fu istituita la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale, chiamata Cassa per il Mezzogiorno. Il nuovo ente mirava a creare una rete di infrastrutture per avviare la modernizzazione delle regioni meridionali, creando di conseguenza i presupposti per lo sviluppo economico. Un’ultima riforma di rilievo di infine approvata nel gennaio 1951 con le nuove Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario, volute dal ministro della Finanze Vanoni. Si puntata a ridurre l’elevata evasione fiscale: non esisteva infatti ancora l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi, così che gli uffici del fisco ritenevano che il reddito del singolo cittadino rimanesse stabile. La riforma rese invece obbligatorio per tutti comunicare ogni anno il proprio reddito, in modo da permettere un immediato adeguamento delle tasse. Il Piano per la rinascita economica e sociale del paese non ebbe effetti immediati ma costituì la prima proposta organica da parte sindacale di un progetto riformistico, che prevedeva la nazionalizzazione delle aziende elettriche, la costituzione di un ente nazionale per la bonifica delle terre. Tuttavia il “sussulto riformare” del 1950 incontrò sempre più ostacoli: in quel periodo si verificò nel Nord dell’Italia una enorme tragedia, vale a dire l’alluvione delle Polesine. Il dibattito nei partiti In questo contesto, Dossetti abbandonò la vicesegretaria del partito nell’aprile 1951. De Gasperi si dimise ma dieci giorni dopo costituì il suo VII esecutivo, destinato a durare fino alle elezioni del 1953. Una crisi significativa attraversò il PCI, che nel 1949 era stato colpito, dopo la sconfitta elettorale, dal trauma della rottura tra Stalin e Tito, per cui la Jugoslavia di colpa era diventa un paese nemico. Tra il 1959 e il 1951 il vertice del Partito Comunista si trovò poi ad affrontare difficili emergenze. Togliatti fu coinvolto nell’agosto del 1950 in un grave incidente stradale e costretto a ripetuti ricevere ospedalieri. La convalescenza fu trascorsa da Togliatti in URSS, dove Stalin lo ricevette con onori solenni e gli fece la proposta di lasciare la guida del PCI per assumere quella del Cominform. Il leader italiano si trovò in una difficile situazione ma alla fine respinse la proposta di Stalin. In casa socialista i due Congressi nazionali di Firenze e di Bologna videro l’affermazione della sinistra interna, con cenni segretario di partito. Alquanto complicate furono le vicende dei socialdemocratici, il cui partito, il PSLI, era invece uscito in modo più che soddisfacente dal voto del 1948. Nel 1949, in seguito alla vittoria della sinistra al congresso del PSI di Firenze, Romita fondò un nuovo organismo che prese il nome di Partito Socialista Unitario (PSU). Nel marzo del 1951 si strinsero gli accordi per l’unificazione tra PSLI e PSU, che portarono alla nascita di un unico partito: il Partito Socialista, in sigla PS(SIIS), che poi diventò Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). A destra era in pieno sviluppo il Movimento Sociale Italiano, nel quale continuavano a convivere faticosamente l’anima legata al ricordo di Salò e quella costituita dai notabili meridionali. La non risolta dialettica interna provocò infine nel gennaio 1950 le dimissioni di Almirante dalla segreteria, che fu assunta da De Marsanich. La politica europeista Il crescente legame dell’Italia con gli Stati Uniti non fece perdere di vista a De Gasperi la prospettiva europea, essendo il leader democristiano convinto che atlantismo e europeismo fossero due facce della stessa medaglia. A partire dal 1950 il cammino europeo prese vigore, dopo che il 9 maggio il ministro degli Esteri francese Shuman propose di mettere in comune le risorse di carbone e di acciaio di Francia e Germania. Si intendeva in tal modo favorire la riconciliazione tra le due nazioni e compiere una prima tappa verso una federazione europea. Nello stesso anno il governo francese diffuse un piano per istituire una Comunità Europea di Difesa, la quale avrebbe dovuto integrare anche i soldati tedeschi, consentendo di rafforzare le difese dell’Occidente contro l’Oriente. Il cammino verso la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) vide la partecipazione di Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Di fronte a questi sviluppi la politica estera italiana seguì una linea convita. Nella costruzione dell’Europa De Gasperi vide la possibilità di equilibrare il rapporto con gli Usa e di consolidare la sicurezza interna e l’aggancio dell’Italia con il mondo occidentale. Il leader democristiano si fece portatore della richiesta di dotare la CED di un’assemblea federale e di muoversi poi sulla strada del federalismo europeo. Contro le prospettive di integrazione europea si pose il PCI, in quanto Togliatti era convinto che il federalismo europeo non era altro che un modo per favorire la rinascita del militarismo tedesco e la costituzione di un blocco di forze aggressive al servizio dell’imperialismo americano. La “democrazia perfetta” e la fine del centrismo degasperiano Avvicinandosi il termine della legislatura esistevano parecchi motivi di preoccupazione per la DC: da una parte non era venuta meno la capacità di mobilitazione di PCI e PSI, dall’altra andava crescendo la forza delle destre. Ciò che appariva insidioso per De Gasperi era tuttavia l’atteggiamento della gerarchia e di ampi settori del mondo cattolico. Il regime di Francisco Franco in Spagna costituiva un modello per questi cattolici. La DC era ritenuta troppo debole nella lotta al comunismo. Da più parti si chiedevano con insistenza misure sempre più dure verso le sinistre, senza escludere la possibilità di mettere fuori legge il PCI. Tutto ciò sembrò subire un’ulteriore accelerazione nel 1952, in vista di un nuovo turno di elezioni amministrative. Il timore di una vittoria comunista proprio a Roma fu usato per caldeggiare la nascita di un forte raggruppamento anticomunista e lo stesso Pio XII fu coinvolto in quella che passò alla storia come “operazione Sturzo”. Il vecchio fondatore del Partito Popolare sembrava essere per personalità e per prestigio l’uomo giusto per comporre una lista civica aperta, mentre Gedda, divenuto presidente dell’Azione Cattolica, minacciava di mettere in campo una lista cattolica pura. De Gasperi si trovò in una situazione imbarazzante, non potendo andare contro il Papa. Alla fine il progetto non si realizzò, le elezioni si svolsero con le liste e le alleanze ormai tradizionali, e le sinistre non riuscirono egualmente a conquistare il Campidoglio. Nel maggio del 1952 fu presentato il progetto della cosiddetta legge “polivalente”, che prevedeva misure contro i partiti contrari alle istituzioni, contro l’apologia della violenza come strumento di lotta politica, contro i sabotaggi militare ed economico; il 18 giugno 1952 passò definitivamente la “legge Scelba” che vietava la riorganizzazione di partiti e gruppi neofascisti. De Gasperi doveva garantire da una parte il sistema democratico, ma dall’altro doveva riuscire a contenere le pressioni di una destra sempre più aggressiva. Ponendosi su questa strada il governo e la DC consegnavano nelle mani dei propri avversari una carta importantissima, quella di potersi presentare come difensori della Costituzione e quindi della libertà di tutti i cittadini. coniò per definirlo una terribile definizione: “il governo SS” (giocando sulle iniziali di Scelba e Saragat). Già il 18 marzo annunciò misure contro l’infiltrazione nell’amministrazione di persone legate a forze totalitarie di cui è provata la dipendenza da paesi stranieri; l’8 maggio fece vietare l’ingresso dei giornalisti comunisti nelle sale della Presidenza del Consiglio; il 4 dicembre mise in cantiere misure discriminatorie contro gli appartenenti alla sinistra. Si pensò anche all’esclusione dei comunisti dalle commissioni di concorsi universitari a cattedra e si sollecitarono indagini delle questure sugli insegnanti schierati politicamente a sinistra. Era in atto una pesante offensiva contro la Resistenza, con la riesumazione di fatti e processi e con il ricorso alla carcerazione preventiva di molti partigiani oltre all’abitudine all’uso della forza di fronte ad ogni tipo di dissenso e di manifestazione in piazza. Alla metà degli anni Cinquanta, insomma, l’anticomunismo sembrava addirittura essere più vivace e più rigido di quanto non fosse negli anni di Stalin. Esso si collegava all’ondata maccartista negli Usa e alle prese di posizione di Eisenhower. Nell’aprile del 1952, il Psichological Strategy Board del Dipartimento della Difesa americano aveva preparato il Piano Demagnetize per ridurre il potere comunista in Italia e Francia e quell’anno la CIA si dedicò alle cosiddette cover actions che finirono per superare le risorse finanziarie e umane quelle riservate allo spionaggio vero e proprio. Le strutture stay-behind avrebbero dovuto far capo a uomini, basi e mezzi pronti a intervenire nel cosa di un colpo di mano comunista. Nel novembre 1956 avvenne la firma di un accordo tra la CIA e il nostro Servizio Informazioni Forze Armate: si ufficializzava così il “doppio stato” o “stato parallelo”. Il clima politico fu surriscaldato anche a causa delle polemiche sull’Unione Europea Occidentale, Los strumento individuo dopo il fallimento della CED con la finalità di assicurare ugualmente il riarmo tedesco all’interno di un organismo difensivo europea. L’UEO, approvata nell’ottobre 1954, consisteva in sostanza nel recupero del vecchio trattato di Bruxelles del 1948, ampliato con la partecipazione dell’Italia e della Germania, che contestualmente veniva accolto dalla NATO. Cronaca nera, clientele e interessi mafiosi Era in pieno svolgimento l’azione del nuovo segretario della DC, Amintore Fanfani. Egli si era dato l’obiettivo di rafforzare il partito per svincolarlo dalla pressione delle vecchie clientele meridionali e dalle continue ingerenze della Chiesa. La grande attenzione data al Sud favorì una sorta di mutazione strutturale e perfino genetica del partito. Già nel 1955 nel Meridione e delle isole era concentrato ormai il 45% degli iscritti democristiani, ma tale percentuale raggiunse nel 1960 il 60%. Si era insomma avviato un irreversibile processo di meridionalizzazione della DC. Un esempio particolare della nuova capacità di radicamento in ogni direzione della DC fu offerta in quel periodo proprio dalla situazione siciliana. Le cosche mafiose pensavano a riorganizzarsi per il futuro e nell’ottobre 1957 tennero persino un convengo internazionale a Palermo, presenti i massimi esponenti di Cosa Nostra, come Lucky Luciano, Genco Russo. Nel frattempo si andavano spingendo i legami tra il principale partito di governo e le cosche, malgrado la resistenza di alcuni democristiani come il sindaco di Camporeale (Palermo) Pasquale Almerico, ucciso nel 1957. Sotto la regia di Antonino Gullotti salirono così rapidamente in alto Giovanni Gioia e Salvo Lima, e anche Vito Ciancimino, uomini che avrebbero poi abbandonato Fanfani per passare alla corte di Giulio Andreotti. Attorno alla DC vennero consolidandosi veri e propri comitati d’affari, con costruttori come Francesco Vassallo, Arturo Cassina. Il mafioso non appariva più un rozzo notabile legato alla terra e all’agricoltura, bensì un uomo d’affari legato ai circoli politici, ai salotti borghesi. Proprio l’entità della ricchezza da controllare e suddividere fece scoppiare conflitti sanguinosi, come la cosiddetta “prima guerra di mafia”, esplosa agli inizi degli anni Sessanta, che finì con la strage di Ciaculli. In Sicilia Dolci attuò subito clamorose azioni in favore dei poveri abitanti della zona. Dopo un primo sciopero della fame per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso di una famiglia dove un bambino era morto di stenti, Dolci organizzò un analogo sciopero con mille persone per protestare contro la pesca fuorilegge; in seguito si pose al lavoro volontario con centinaia di disoccupati per rendere transitabile una vecchia trazzera. Fu in questa circostanza che venne arrestato per oltraggio e resistenza alla forza pubblica e abusiva conduzione di lavori sul suolo pubblico. L’attivismo di Fanfani e i governi Segni e Zoli Bisogna chiarire che Fanfani guidò la DC anche su altri percorsi, volti ad attuare quelle istante di giustizia sociale che erano presenti nella tradizione della sinistra democristiana. Ciò comportò una forte spinta favorevole al crescente intervento dello Stato nell’economia, cosa che si materializzò soprattutto attorno ai due colossi dell’IRI e dell’ENI, quest’ultimo legato al nome di Enrico Mattei. Nel giro di breve tempo Fanfani mostrò a tutti di essere capace di grande attivismo e interventismo: un primo vittorioso episodio di rivolta si ebbe al momento dell’elezione del nuovo Presidente della repubblica, visto che nell’aprile 1955 scadeva il settennato Einaudi. In quella circostanza il candidato ufficiale della DC era Merzagora, che fu battuto da Gronchi, uomo della sinistra democristiana. Il nuovo Presidente della Repubblica si impegnò per la piena attuazione del dettato costituzionale. Nel giugno 1955 il governo Scelta si dimise in seguito a contrasti interni ai partiti della maggioranza, e il 6 luglio entrò in carica il nuovo governo affidato a Segni. Il governo Segni del 1955-1957 va ricordato soprattutto per gli avvenimenti di politica estera. Il 14 dicembre 1955 anche l’Italia potè fare ingresso nell’ONU. Missini, monarchici e liberali Sulla destra dello schieramento politico, il MSI di De Marsanich proseguì la sua marcia di avvicinamento all’area di governo, finendo per accettare anche l’inserimento dell’Italia nell’Alleanza Atlantica. La sua linea politica era adesso quella di assumere un atteggiamento autonomo rispetto ai monarchici e di tentare di condizionare la DC. All’interno del partito permaneva tuttavia insanabile la contesa tra la componente propriamente neofascista e settentrionale e quella più vicina ai notabili del Sud, provocando dissidenze, distacchi e una certa continua confusione. Quanto ai monarchici, nel corso di questi anni il loro leader più rappresentativo continuò a essere Achille Lauro, sindaco di Napoli. Lauro non esitò a patteggiare con la DC e favorì una scissione nel partito monarchico, facendo nascere nel 1954 un Partito Monarchico Popolare rivale del Partito Nazionale Monarchico. Il Partito Liberare era affidato nell’aprile 1954 a Giovanni Malagodi, sorretto da una maggioranza di centro-destra. Malagodi era persona di profonda cultura e di solidi legami con il mondo dell’imprenditoria privata lombarda ed era sostenitore di una visione rigida del liberalismo. Si collocava pertanto tra i più accaniti avversari dell’intervento dello Stato in economia. Così nel dicembre 1955 un folto gruppo di prestigiosi esponenti decise di abbandonare il partito e di fondare nel 1956 il nuovo Partito Radicale. Si trattava di un gruppo che trovava una sua unità in uno stile di vita e un riferimento continuo alla laicità e alla tradizione risorgimentale, identificandosi con l’eredità della Rivoluzione francese. Socialisti e comunisti di fronte alla crisi del 1956 Movimenti significativi si andavano svolgendo anche in casa del PSI. Dopo le elezioni del 1953 Nenni si era dedicato con crescente impegno a riflettere sulle prospettive del socialismo italiano. Il problema di fondo restava ovviamente quello costituito dai rapporti con i comunisti, rapporti ritenuti indissolubili ma pure spesso causa di diffidenze. L’esistenza entro il PSI di una forte componente ostile a ogni differenziazione rispetto al PCI non faceva che complicare le cose. Nenni cercò di aprire ai cattolici e alla DC, proponendo una politica delle cose su cui fosse possibile dialogare e dichiarandosi disposto anche ad accettare il Patto Atlantico. Nenni riprese altresì i contatti con il PSDI, per una collaborazione che avrebbe dovuto alla fine fece una solida fama di benefattore e divenne una celebrità con notevoli legami entro l'istituzione ecclesiastica. Tutto aveva però basi fragilissime: gli alti interessi promessi potevano essere pagati ai risparmiatori solo facendo entrare nel sistema sempre nuovi capitali e quindi ampliando a dismisura la rete degli ingenui. Giuffrè nel giugno 1958 dovete annunciare la forzata liquidazione della propria organizzazione e risultò debitore di almeno 3 miliardi e mezzo di lire di allora. “L’Espresso” pubblicò un documento prefabbricato che accusava personalità della DC di aver protetto coperto le truffe del Giuffrè. Segni al governo, Moro alla guida della DC Deciso a non farsi bruciare a fuoco lento, Fanfani preferì giocare d’anticipo: il 26 gennaio 1959 si dimise e provocò la crisi di governo. Pochi giorni dopo, il 31 gennaio, egli lasciò clamorosamente anche la segreteria della DC. Il risultato fu che si cambiò completamente linea politica, in quanto si passò dal governo riformista di Fanfani orientato a sinistra a un monocolore democristiano guidato da Segni e orientato a destra. Il 14 marzo 1959 si aprirono infatti a Roma i lavori del Consiglio Nazionale delle DC con il compito di discutere le dimissioni del segretario Fanfani e di eleggere il suo successore. I lavori del Consiglio Nazionale del partito risultarono predeterminati e il 16 marzo il gruppone doroteo portò alla segreteria del partito il 42 enne pugliese Aldo Moro, il quale aveva già alle sue spalle un brillante curriculum politico. Qualche mese dopo la sua elezione a segretario, Moro dimostrò di poter gestire con efficacia un partito tanto complesso. Al settimo congresso nazionale della DC nel 1959 egli fece una lunga relazione, spiegando che l'area democratica non coincideva necessariamente con quella del governo, essendo invece più ampio e comprendendo di fatto anche il PCI. Moro chiese dunque esplicitamente al PSI riprendere con coraggio chiarezza il suo posto nello schieramento politico democratico. Il giovane segretario democristiano sottolineò con decisione la sua concezione dello Stato, istituzione chiamata ad eliminare ogni zona d'ombra o di emarginazione, capace di conciliarsi con le masse, di cui andava garantita la piena in missione nello Stato stesso affinché questo potesse essere non lo stato di alcuni ma lo stato di tutti. Governo Tambroni e la crisi del 1960 Mentre Moro cercava gradualmente di convincere l'intera DC dell'ineluttabilità della scelta di collaborare con i socialisti, all'inizio del 1960 la politica italiana si avviò invece su una strada del tutto opposta. Tutto nacque a causa del crescente disagio dei liberali, critici verso diverse iniziative del governo Segni, ma ancora più restii ad atti di politica estera che sembravano voler portare l'Italia verso rapporti nuovi con l'Unione Sovietica. Il 16 febbraio i liberali decisero di togliere il proprio appoggio al governo Segni che nei giorni successivi si dimise. La crisi si sbloccò solo il 21 marzo con l'incarico direttamente attribuito da Gronchi a un suo uomo di fiducia, Ferdinando Tambroni. Il 4 aprile 1960 il nuovo governo, un monocolore composto solo da ministri democristiani, si presentò alla camera per chiederne la fiducia. Tambroni tenne però un discorso velleitario e ambizioso, che suscitò cattive reazioni anche in quei partiti che in qualche modo erano disposti a consentire il passaggio del governo. Tambroni dovette quindi dimettersi e Gronchi diede l'incarico di costituire il governo a Fanfani, che lavorò per riproporre la sua tesi di centro-sinistra, ma contro di lui si scatenò una furibonda campagna di stampa. Il nuovo capo del governo Tambroni si mosse con uno stile del tutto personale e diede l'impressione di voler consolidare la propria posizione rispetto di tutti. Annunciò misure di sapore populistico (diminuzione del prezzo di benzina, zucchero banane, aumento dello stipendio dipendenti delle poste, promesse sul serio riduzioni di prezzo classe). Tambroni forse intendeva provocare una spaccatura tra i partiti in nome dell'antifascismo, spingendo il PSI di nuovo nelle braccia di comunisti e bloccando così ogni apertura della DC. Il 28 giugno 1960 si ebbe a Genova un’imponente manifestazione di protesta, organizzato dei partiti della sinistra; due giorni dopo fu proclamato lo sciopero generale e si verificarono scontri tra polizia e manifestanti. Scontri ed episodi di violenza iniziarono a diffondersi in tutta Italia: il 5 luglio a Ravenna fu colpita la casa di Arrigo Boldrini, senatore comunista presidente dell'ANPI, mentre delle bombe venivano lanciate contro sedi di organizzazioni di sinistra a Milano e Roma. Il giorno dopo a Roma i carabinieri a cavallo attaccarono un corteo pacifico che si dirigeva verso PortaSan Paolo in cui diversi parlamentari furono picchiati. I fatti dell'estate 1960 mostrarono con chiarezza che un governo appoggiato dall'estrema destra non poteva politicamente stare in piedi, se non a prezzo di gravissime conseguenze. Le "convergenze parallele" Chiusa la parentesi Tambroni, la politica italiana tornò nuovamente a volgersi verso Fanfani che ebbe il sostegno dei partiti centristi e l'astensione dei socialisti e monarchici. La simultanea presa di posizione di queste due forze politiche fece parlare "di convergenze parallele”. La paternità era di Aldo Moro che, anche in questa circostanza, diede prova delle proprie capacità di inventiva e di paziente mediazione. Nel governo entrarono tutti i big democristiani. Si entrò quasi subito in campagna elettorale. Fu allora che fu diffusa per la prima volta la trasmissione televisiva Tribuna Politica che consentì anche leader dell'opposizione di comparire alla tv. Il voto amministrativo evidenziò la tenuta della DC con il 40,3% e la rialzata del PCI con il 24,5%. I socialisti decisero di contribuire alla formazione di giunte di sinistra con il PCI solo laddove non fossero possibili soluzioni diverse. Così nel gennaio 1961 fu inaugurato il primo governo locale organico di centro-sinistra a Milano, seguirono Genova, Firenze, Venezia, Sicilia. Nel frattempo, Giovanni XXIII, eletto Papa il 28 ottobre 1958, stava accentuando la sua spinta innovativa, tanto che in varie occasioni furono gli stessi vescovi a intervenire per indurre alla disciplina tutti quegli esponenti democristiani che non intendevano saperne di collaborare con i socialisti. La Chiesa tendeva a adeguarsi all’ineluttabile, tuttavia non intendeva rinunciare al suo ruolo di vigile garante dell'unità politica della DC. Il “Papa buono” ricevete Fanfani l'11 aprile 1961 in occasione delle celebrazioni per il centenario dell'Unità d’Italia, dove pronunciò un celebre discorso nel quale sostenne che i rapporti tra Stato e Chiesa dovevano supporre una distinzione di un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto. L'esplosiva questione dell'Alto Adige Si andava intanto facendo gravissima la questione dell'Alto Adige-Sudtirol. Gli accordi De Gasperi- Gruber del 1946 avevano garantito il rispetto della minoranza etnica di lingua tedesca e dell'autonomia regionale. Era stato quindi adottato lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, se non che negli anni successivi gli altoatesini manifestarono un crescente malcontento giudicando troppo limitata l'autonomia concessa. Si intensificarono pertanto le proteste da parte austriaca, mentre si svolgevano movimenti a carattere estremistico che iniziavano a diffondere manifesti e volantini antitaliani. Nel 1956 si ebbe un primo gesto terroristico, facendo saltare un palo di sostegno della linea ferroviaria Bolzano-Merano. Seguiranno nuovi attentati nel 1957, con la distruzione di un traliccio dell'alta tensione e la linea del Brennero. Si parlava apertamente di "autodecisione” di uscire dall'Italia, tanto che nel 1960 l'Austria portò la questione all'Onu. La discussione fu chiaramente respinta. Nel 1961 si ebbe una lunga serie di attentati, che culminarono nella “notte dei fuochi” del 11/12 giugno, quando si ebbero contemporaneamente ben 47 attentati a tralicci, complessi idroelettrici, impianti di vario genere. Governo Fanfani e le riforme del 1962 Dal 26 gennaio al 1° febbraio 1962 la DC celebrò a Napoli il suo VIII congresso. Aldo Moro vi tenne una decisiva relazione durata ben sette ore, volta a convincere definitivamente il partito dell'inevitabilità della svolta a sinistra. La maggioranza, a eccezione di Scelba, si fece persuadere. Anche Andreotti diede il suo assenso e Moro fu rieletto segretario del partito. Nella sua relazione Moro affrontò numerosi temi di grande rilievo, tre quali la descrizione della Quali furono le cause di tanto sviluppo? Bisogna tenere conto che l’affermazione dell’economia italiana si inseriva in un contesto più ampio e tutto positivo, almeno a livello europeo occidentale e più in generale entro il mondo industrializzato. Già con la CECA il nostro paese potè avere accesso l’acquisto del carbone allo stesso prezzo dei suoi concorrenti, ricevendo inoltre finanziamenti per le miniere sarde del Sulcis. Malgrado le ricorrenti crisi di governo, il quadro politico interno appariva relativamente stabile e assicurava una certa continuità di indirizzi, dal momento che si sapeva già in partenza che i comunisti non sarebbero entrati al governo e che quindi tutto si sarebbe imperniato sulla DC. Almeno per una buona parte degli anni Cinquanta l’intervento pubblico si mosse nella direzione giusta, sia varando provvedimenti atti a creare occupazione e a rimettere in circolo energie e ricchezze, sia utilizzando in senso propulsivo le stesse industrie dello Stato. L’IRI entrò con forza nel settore della produzione di acciaio, delle telecomunicazioni e delle opere pubbliche (si pensi al treno Settebello o ai transatlantici Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo). Un tentativo di mettere ordine nelle politiche di sviluppo era stato già compiuto pochi anni prima, con la proposta del cosiddetto schema Vanoni: esso nasceva dalla constatazione degli enormi problemi strutturali ancora da risolvere entro la compagine nazionale: il ritardo del Sud, il dramma della disoccupazione, le arretratezze del sistema scolastico e di quello sanitario e così via. Enrico Mattei e l’ENI Del tutto originale fu in quegli anni la vicenda dell’ENI, l’Ente Nazionale Idrocarburi, istituito nel 1953. Esso fu la creatura di Enrico Mattei, che fece riprendere le trivellazioni nella zona tra Lodi e Piacenza e, pur tra insuccessi, ebbe alla fine ragione, scoprendo, più che l’atteso petrolio, consistenti giacimenti di metano. Mattei dovette combattere numerose battaglie per conservare all’AGIP il monopolio delle ricerche e delle estrazioni nella pianura padana, riuscendo a farsi alleati sia Raffaele Mattioli (Banca Commerciale), sia De Gasperi e Vanoni. Notevoli apparivano i timori e le pressioni degli americani, fortemente interessati a mantenere intatto il potere delle “sette sorelle”, cioè delle sette più grandi compagnie petrolifere. Mattei usò l’ENI per allargare il proprio raggio d’azione: diffuse in tutta Italia la catena di distributori di benzina AGIP, entrò nel campo della raffinazione degli oli minerali, della produzione di gomma sistemica e fertilizzanti azotati, entrando anche nel settore del gas da cucina. La sua attività contribuì a diffondere la corruzione e soprattutto a creare perversi intrecci tra potere economico, potere politico e sottobosco governativo. Ciò che caratterizzò ulteriormente la figura di Mattei fu poi la politica estera indipendente e i crescenti legami stretti con i paesi arabi produttori di petrolio. Ciò non faceva altro che accentuare l’ostilità delle grandi compagnie americane. Dopo un primo accordo con l’Egitto, l’ENI stipulò nel 1957 un contratto con l’Iran per la ricerca di nuovi pozzi petroliferi, introducendo una clausola rivoluzionaria, secondo la quali gli Stati produttori venivano da una parte associati ai rischi della ricerca e alle incognite del mercato, ma ricevevano in cambio il 75% dei profitti, lasciando all’ENI solo il 25%. Fino a quel momento le “sette sorelle” avevano imposto la divisione al 50% ma, spiegava Mattei, “l’economia in crescita vuole energia a basso prezzo e l’Italia non può pagare alti profitti agli intermediari. Per fare questo bisogna stabilire un contatto tra i paesi consumatori e i paesi produttori”. Nel 1960, l’ENI firmò un accordo persino con l’URSS, che avrebbe fornito in un quadriennio 12 miliardi di tonnellate di greggio e avrebbe acquistato prodotti italiani delle industrie di Stato. Anche in Sicilia Mattei e l’ENI avevano avviato consistenti iniziative ed erano forzatamente entrati in rapporto con ambienti politici e affaristici di dubbia moralità. La sera del 27 ottobre 1962 il piccolo aereo che riportava Mattei a Milano proprio dalla Sicilia si disintegrò. Si parlò ufficialmente di incidente, ma il mistero est fitto e i dubbi sulla reale natura dell’”incidente” furono moltissimi. Il 16 settembre 1970, a Palermo, scomparve il giornalista Mauro De Mauro: egli stava indagando proprio sulla morte di Mattei e forse aveva scoperto elementi atti a identificare i mandati e gli esecutori dell’”incidente”. Il giallo sulla morte di Mattei resta tuttora insoluto. Un mercato a disposizione Altro elemento chiave dello sviluppo italiano fu la presenza di un folto gruppo di imprenditori privati. Parecchi sei erano “fatti da soli” cogliendo con acume le possibilità offerte dal caos italiano del dopoguerra, fiutando le potenziali prospettive di un mercato bisognoso di tutto. Oltre alle indubbie capacità personali (e a una certa “filosofia” del lavoro) tutti si giovarono di ulteriori fattori facilitanti, tra cui la presenza di un mercato interno per molti aspetti ancora “vergine”. Condizioni di lavoro e sindacati Altro fattore determinante fu offerto dalle condizioni del mercato del lavoro e dai Regini di forte sfruttamento della manodopera e di compressione delle attività sindacali. Secondo dati raccolti dalle ACLI di Milano nel 1957, nel periodo 1948-1955 la produzione industriale risultava salita del 95%, il rendimento del lavoro dell’89%, gli utili distribuiti dell’86%, ma il potere d’acquisto dei salariati solo del 6%. Lo scontro con il comunismo e il clima poliziesco della guerra fredda spinsero inoltre a mantenere in vigore norme e abitudini antisindacali. Si è calcolato che tra il gennaio del 1948 e il settembre 1954 vi furono addirittura 75 uccisi, 5104 feriti, 148.269 arrestati e 61.243 condannati in relazione a manifestazioni sindacali e di piazza. L’amministrazione del presidente Eisenhower, attraverso la nuova ambasciatrice a Roma, la fanatica Claire Boothe Luce, intervenne più volte nei confronti di Vittorio Valletta (presidente della FIAT), minacciando che gli USA avrebbero troncato i rapporti con l’azienda torinese se questa non fosse riuscita a ridurre la presenza degli operai comunisti della CGIL al proprio interno. Il clima alla FIAT divenne sempre più pesante e colmo di discriminazioni e atti di forza. Con la fine del 1953 partì un’operazione di licenziamento di circa diecimila lavoratori, selezionati in base a criteri politici; tutto ciò portò anche alla creazione di veri e proprio reparti-confino, dove concentrare gli operai e i sindacalisti più impegnati politicamente. Fu potenziato il corpo di sorveglianza intorno e fu raccolto un imponente schedario informativo su ciascuno dipendente, che riguardava notizie private anche di carattere sessuale. La FIAT costituì l’esempio più clamoroso di tutti gli strumenti posti in essere per ridurre ogni forma di contestazione da parte dei lavoratori. Ancora più pesanti furono le misure prese contro le lavoratrici: nel 1958 si coprì che le 400 operaie della Piaggio dovevano impegnarsi a dimettersi dal lavoro in caso di matrimonio, in modo da non costringere l’azienda a spendere soldi supplementari nel caso di una loro messa in maternità. La situazione nelle fabbriche provocò forti disagi sia salariali che personali, che solo dal 1970 cominciarono a essere limitati in seguito all'approvazione dello Statuto dei Lavoratori. Per quanto riguarda in modo specifico i sindacati, la loro attività in quegli anni fu alquanto travagliata. Di Vittorio cercò di rilanciare la CGIL e si fece portatore della proposta di un Piano economico ricostruttivo, che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’avvio di opere di bonifica, costruzioni di edilizia popolare, con l’obiettivo di riassorbire 600.000 disoccupati. Il piano cadde nel vuoto, anche perché lo stesso PCI si mostrò freddo, ritenendo che il sindacato dovesse occuparsi solo di lottare contro il governo. Il 3 novembre 1957 Di Vittorio morì e la CGIL passò sotto la guida di Agostino Novella. La profonda divisione tra i sindacati emerse ancora in occasione della più importante vertenza sindacale di quel periodo (1953), quella sul “conglobamento”, che fu provocata dalla richiesta dei sindacati di concedere aumenti salariali e di semplificare la busta paga appunto “conglobando” nella paga base l’indennità di carovita e altre indennità minori. Una conclusione parziale della vertenza si ebbe solo 12 giugno 1954 con la firma di un accordo tra CISL, UIL e Confindustria. Malgrado la questione del “conglobamento”, il numero di lavoratori coinvolti negli scoperti e delle aveva davvero vinto e aveva instaurato un regime di reale uguaglianza sociale; verso i compagni russi si doveva pertanto avere la massima fiducia. Forza e debolezza della Chiesa cattolica Apparentemente monolitico il mondo cattolico era in realtà percorso da numerose fratture interne. Un primo motivo di discrimine era fornito dalle differenti valutazioni che si davano riguardo allo stato religioso dell’Italia. Il nostro paese manteneva integra la sua “naturale” connotazione cristiana cementatasi nel corso dei secoli. Nel corso degli anni Cinquanta erano ancora pochi coloro che si rendevano invece conto che i problemi erano molto più complessi e che i segnali di scristianizzazione andavano spiegati con la profonda trasformazione sociale e culturale in atto. Giovanni Battista Montini, divenuto arcivescovo di Milano, propose una speciale “Missione” cittadina; come don Primo Mazzolari, parroco del paese di Bozzolo, che con i suoi scritti suggerì un’originale rilettura del messaggio evangelico, della vita di parrocchia e del dialogo con i “lontani”. Ai fedeli la Chiesa continuava a proporre una spiritualità di battaglia, connotata in senso fortemente intransigente verso il mondo e volta a sottolineare i valori della totale disciplina e della perfetta continenza e purezza. A questi modelli si ispirarono ovviamente le innumerevoli associazioni cattoliche, come l’Azione Cattolica, la Gioventù Maschile, quella Femminile etc. La battaglia anticomunista caratterizzò la vita della Chiesa per tutto il periodo che stiamo analizzando. Dopo la “crociata” del 1948, essa trova il suo culmine nel decreto di scomunica emesso dalla Suprema Sacra Congregazione del S. Uffizio in data 1 luglio 1949. Il testo stabiliva che non era lecito per i cristiani iscriversi ai partiti comunisti o appoggiarli. I fedeli che avessero difeso o propagandato la dottrina comunista andavano considerati come apostati dalla fede cattolica e incorrevano di conseguenza nella scomunica. I popolarissimi personaggi guareschiani di don Camillo e Peppone non inventarono quindi molto rispetto alla realtà e ciò anche perché entrambi provenivano dallo stesso mondo rurale e tradizionale in cui ancora milioni e milioni di italiani si riconoscevano. L’arrivo della televisione Il 3 gennaio 1954 la RAI trasmise per la prima volta regolari trasmissioni televisive rivolte ai propri 24.000 abbonati: cominciava davvero una nuova epoca della storia italiana. Si trattava della conclusione di un cammino non facile, iniziato in via sperimentale prima della guerra dell’EIAR e proseguito poi dalla RAI. Nel 1952 era stata firmata una convenzione tra lo Stato e la RAI che assegnava a quest’ultima l’esclusiva del servizio televisivo. La novità del mezzo, l’alto costo dell’apparecchio e la diffidenza di molti limitarono nei primi tempi la possibilità di molte famiglie di acquistare un televisore. Si diffuse così una sorta di ascolto collettivo. Cominciarono a cambiare i costumi: in molti paesi, la sera, poteva capitare di vedere la gente uscire dalle proprie povere case, portando con sé una sedia, per trasferirsi in questo o quel locale dove era stata installata la televisione. Le due trasmissioni simbolo furono senz’altro “Lascia o raddoppia?” E “Carosello. La televisione impose battute, espressioni, gusti e prodotti uguali per piemontesi e siciliani, veneti e sardi, lombardi e pugliesi. Furono introdotte dinamiche del tutto nuove nel modo di vedere la vita, l’amore, il sesso. La televisione mise così in discussione molte abitudini tradizionali e cominciò a modificare l'uso del tempo libero di italiane e italiani, dando un colpo decisivo alla preminenza delle contrapposizioni politiche e ideologiche. La Chiesa e il PCI si trovarono alquanto spiazzati e incapaci di una risposta efficace e pronta. In ogni caso i cattolici riuscirono a condizionare fortemente la RAI di quegli anni, come testimoniano le Norme di autodisciplina improntate da un rigido moralismo. Dalla TV furono escluse opere teatrali, anche di autori classici, che non garantivano le saltavano dei vincoli matrimoniali; vennero anche escluse delle parole come “amante”, che venivano chiamate “proibite”. La grande stagione della carta stampata Anche la comunicazione su carta stampata stava rapidamente cambiando, adeguandosi alle esigenze di un pubblico di massa. Con il dopoguerra era iniziata l’epoca che sarebbe stata definita dei “rotocalchi”, dal nome delle nuove tecniche di stampa adottate. La pubblicità si faceva dirompente e i riferimenti alle cucine, agli elettrodomestici, agli scooter non facevano altro che cullare i nuovi sogni consumistici degli italiani. Importanti furono “L’Europeo” di Arrigo Benedetti, “Oggi” edito da Rizzoli, “Epoca” di Mondadori”, “Famiglia Cristiana”. Motorizzazione e americanizzazione Il mondo dei rotocalchi, la televisione era radio andavano incontro all’universo di attese e di speranze degli italiani protesi verso il miracolo economico, presentando costumi, stili di vita, modelli culturali che ora apparivano non più sogni irrealizzabili, ma aspirazioni a portata di mano. Le case cominciarono a essere dotate in maggioranza di acqua corrente e di bagno, la ghiacciaia cedette il posto al frigorifero. Le donne impararono a familiarizzare con la lucidatrice elettrica, con il frullatore, il macinacaffè, il tritacarne, e crebbe il numero delle case dotate di telefono. Lo sviluppo economico condusse gradualmente insomma milioni di italiani e italiane a cambiare radicalmente il proprio modo di vivere, nonché i rapporti tra i due sessi. Per le donne la diffusione di questi strumenti rese possibile l’affrancamento da lavori faticosissimi e la scoperta di almeno un pò di tempo libero. Per la popolazione femminile quindi si aprirono spazi di libertà fino ad allora sconosciuti, proprio mentre la pubblicità tendeva a indirizzarsi sempre più verso la donna come figura centrale sia per le scelte di consumo dell’intera famiglia sia in quanto potenza consumatrice in proprio. Cambiarono anche le modalità del trasporto e dello spostamento delle persone. Nel 1946 la Piaggio di Pontedera lanciò sul mercato la Vespa; l’anno successivo la Innocenti di Milano risposte con la Lambretta. L’acquisto della motocicletta divenne simbolo di un acquisito benessere, della voglia di libertà delle nuove generazioni. Intanto stava prendendo corpo il grande progetto di Vittorio Valletta, dal 1946 presidente e amministratore delegato della FIAT, quello cioè di produrre una vettura ultraeconomica, con l’intento di renderne possibile l’acquisto a un crescente numero di appartenenti alle classi popolari e agli stessi operai. Nel 1955 fu presentata la Seicento, che divenne presto l’auto più diffusa nel nostro paese, e fu seguita dalla Cinquecento. Censure e discriminazioni Queste imponenti trasformazioni in atto non furono accompagnate da un analogo cambiamento delle norme scritte e non scritte, perché l’Italia restava un paese nel quale l’idea di libertà del cittadino non era penetrata completamente: censure, divieti, soprusi erano all’ordine del giorno. La Costituzione veniva continuamente rinviata nella sua applicazione sostanziale, le autorità pubbliche erano abituate considerare i cittadini come sudditi. Esemplare fu nel settembre 1053 il caso del giornalista Guido Aristarco, direttore della rivista “Cinema Nuovo” e di Renzo Renzi, autore di una possibile sceneggiatura di un film sull’esercito italiano in Grecia, L’armata S’agapò. I due furono arrestati e tradotti nel carcere militare di Peschiera sono l’imputazione di vilipendio delle forze armate. Il caso suscitò scalpore, sia per l’intervento diretto delle autorità militari, sia per la lesione fatta alla libertà di espressione e di stampa. Nell’Italia degli anni Cinquanta permanevano inoltre molte forme giuridiche di discriminazione tra i due sessi. Moltissimi limiti erano posti alle donne per l’esercizio di tutte le professioni. Gravi erano pure le discriminazioni verso le donne in campo di codici: solo nel 1968 la Corte costituzionale proclamò l’incostituzionalità delle norme che sancivano un diverso trattamento penale per l’uomo e la donna in caso di adulterio. 3. La prima legislatura del centro-sinistra, 1964-1968 l’esecutivo decise alcuni provvedimenti per fronteggiare le difficoltà economiche: venne così aumentato il prezzo della benzina, istituita una tassa sull’acquisto di automobili. Per rivitalizzare la borsa e per arginare la fuga di capitali all’estero, si decide di porre un’imposta cedolare sui titoli azionari. Il governo fu poi costretto a ricorrere al prestito di un miliardo e 225 milioni di dollari dal Tesoro americano e dal Fondo monetario. Nello stesso periodo Moro lanciò un piano per aumentare le esportazioni, piano che nell’arco di pochi mesi riuscì in effetti a capovolgere i dati della bilancia dei pagamenti. La crisi dell’estate 1964 La situazione dei socialisti entro il governo si fece sempre più delicata: entrati al governo per attuare le riforme, si trovavano ora nella condizione di non poterle fare e dovevano anzi fronteggiare le forti pressioni provenienti dal centro e dalla destra. Il 25 giugno 1964 la Camera bocca l’assegnazione, voluta dal ministro democristiano Gui, di 149 milioni alle scuole private. Nella circostanza Moro non fece nulla per salvare il provvedimento, preferendo puntare sulla crisi e quindi sul chiarimento politico. Il giorno dopo Moro si dimise, ma ricevette nuovamente l’incarico di Segni per formare il nuovo esecutivo, per quanto il Presidente della Repubblica pensasse piuttosto a come mettere fine alla formula di centro-sinistra. Nel braccio di ferro tra Dorotea e socialisti si inserì così il generale Di Lorenzo, comandante generale dei carabinieri. Egli aveva organizzato un gigantesco sistema di schedatura di politici, parlamentari, sindacalisti; si trattava di 175.000 fascicoli le cui informazioni erano state utilizzate nel 1962 per favorire l’elezione di Segni contro Leone. Forti erano pure i legami di De Lorenzo con la CIA, visto che comune ai servizi di sicurezza dei due paesi era il fine, cioè quello di impedire che il PCI riuscisse a raggiungere il governo. Nel pieno della tensione tra i due principali partiti di governo si ebbero diversi accordi tra Segni e Di Lorenzo, ma i motivi di questi colloqui si ebbero chiari solo anni dopo in seguito a una campagna giornalistica intrapresa dal settimanale l'espresso: nel maggio del 1967 i giornalisti Scalfari e Giannuzzi scritto di un piano di emergenza predisposto fin dai tempi di De Gasperi e finalizzato ad arginare il radicamento delle sinistre in Italia, sostenendo poiché de Lorenzo era era stato protagonista di un tentativo di colpo di stato. A seguito di tale scoop giornalistico, fu nominata una commissione parlamentare di inchiesta. Nel 1964 te Lorenzo aveva dunque predisposto il cosiddetto piano solo che prevedeva l'impiego soltanto dei carabinieri e al momento delle dimissioni di Moro, gli sembra che fossero maturate le condizioni per far scattare l'operazione. Convocati a Roma i comandanti delle tre divisioni dei carabinieri, il generale consegno loro gli estremi del piano che prevedeva il resto di una serie di persone politicamente su posizioni progressiste con il relativo trasferimento in Sardegna, l'occupazione del quale città e di diversi luoghi strategici e la repressione di eventuali reazioni del paese. Alla fine, si arriva la costituzione, il 22 luglio 1964, del secondo governo moro di centro sinistra con un indirizzo per un grammatico ancora più cauto del precedente. Quanto A the Lorenzo, nel 1965 diventò capo di Stato maggiore dell'esercito, ma nel 1967 fu rimosso dall'incarico a seguito dello scoppio dello scandalo. Il secondo governo Moro e l'uscita di scena di Segni e Togliatti Moro formò il suo secondo governo con i voti, oltre che della democrazia cristiana, anche del PRG, del PSI, e del PSDI. Il partito socialista rinunciava in buona parte alle proprie istanze proposte, per aderire a un programma quasi completamente finalizzato a risolvere il problema della recessione economica. Uno dei pochi obiettivi realizzati fu, nel 1964, la nascita della SIP (Società Italiana per l'Esercizio Telefonico), facente parte del gruppo IRI. Durante il II governo Moro si vedranno anche completati alcuni importanti progetti pubblici, tra cui l'impianto dell'Italcedar a Taranto che costituì allora uno dei poli più rilevanti in Europa nella produzione siderurgica, e anche il traforo del Monte Bianco. Il 7 agosto Segni fu colpito da trombosi cerebrale e si dovette nominare un collegio di medici che verifichi l'impossibilità del presidente di continuare nel suo incarico. Il 6 dicembre Segni, ristabilitosi solo parzialmente, si dimise dalla carica e si procedette all'elezione del suo successore. Il candidato ufficiale della DC era Giovanni Leone, ma già al primo scrutinio risulta chiaro che difficilmente l'avvocato napoletano avrebbe potuto raggiungere i voti sufficienti a causa dell'opposizione alla sua elezione da parte di Fanfani e della sinistra del partito. Saragat invece era sostenuto dai partiti laici, pertanto venne eletto presidente con 646 voti, della DC, del PSI, del PCI. Il PCI aveva alla fine sostenuto l'esponente del PSDI, ma questi aveva dovuto chiedere ufficialmente i voti di tutti i partiti democratici e antifascisti: senza i voti del PCI Saragat non avrebbe raggiunto il quorum. Nel mese di agosto del 1964, il giorno 21, uscì di scena Togliatti, colpito da emorragia cerebrale mentre si trovava a Jalta, sul Mar Nero, meta turistica classica per la Nomenklatura sovietica. Il leader del PCI non era lì in vacanza, ma perché doveva incontrare i massimi dirigenti sovietici, tra cui anche Krusciov, per discutere della difficile situazione del comunismo internazionale, scosso dalla rottura tra l'Urss e la Cina di Mao. Togliatti stilò un documento che passò poi alla storia con il nome di “Memoriale di Jalta”. In quel testo Togliatti condannava i moti della contrapposizione sovietica al comunismo cinese, e affrontava con franchezza anche alcuni punti delicati del sistema del paese comunista, invitando Krusciov a dire più frequentemente la verità sulle difficoltà che esistevano nella sua patria, e a superare quel regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche personali che era stato instaurato da Stalin. Togliatti, dunque, rivendicava una maggiore autonomia da parte del comunismo italiano nei confronti dell'Urss. I funerali del segretario comunista si svolsero Roma il 25 agosto 1964 e richiamarono centinaia di migliaia di persone, forse un milione. Nuovo segretario del PCI fu eletto Luigi Longo. Tutti, però, nell'organizzazione sapevano che Longo rappresentava una esclusione transitoria: ne era consapevole lui stesso, così quando si trattò di eleggere il presidente del gruppo parlamentare, carica precedentemente coperta da Togliatti, Longo propose Pietro Ingrao. Chiari e scuri nell'economia Dal 1965 l'economia italiana iniziò a migliorare, perché si verificò un aumento della produzione industriale; il tasso medio di crescita della produzione tra il 1964 il 1969 fu del 6,8%, in media con il saggio di sviluppo degli anni 50, anche se inferiore a quello del periodo del boom. Ciò fu determinato da un aumento delle esportazioni. A questo nuovo impulso, però, non corrispose un aumento degli investimenti, che continuarono a calare per tutto il 1966. Il grande aumento della produttività che si era intanto verificato non fu accompagnato da una parallela crescita dei salari, tanto che questi a malapena riuscivano a bilanciare l'incremento del costo della vita. La crisi vissuta dal sindacato negli anni 50, solo parzialmente superata nell'ultimo periodo del miracolo economico, rendeva di fatto difficile per le confederazioni, vista anche la diminuzione dei lavoratori occupati e il surplus di offerta di manodopera rispetto alla domanda. Tanti erano i motivi di malcontento dei lavoratori dipendenti e in tal modo nella prima metà degli anni 60 si ponevano alcune delle premesse per la successiva esplosione rivendicativa scoppiata alla fine del decennio. Sul piano politico, la navigazione del secondo governo Moro proseguiva intanto tra numerosi scogli e il 21 gennaio 1966 Moro presentò nuovamente le dimissioni dopo la bocciatura di un progetto di istituzione delle scuole materne statali. L'alluvione del 1966 e i progetti di riforma del terzo governo moro Proprio gli avvenimenti di quel periodo costrinsero il governo ad affrontare finalmente la questione di una regolamentazione dell'utilizzo del territorio, perché nel 1966 alcune zone del nostro paese furono sconvolte da sciagure provocate ancora una volta dall’imprevidenza umana e della speculazione sul suolo. Nel 1966 alcuni palazzi nuovi costruiti ad Agrigento cominciarono a crollare a causa di una gigantesca frana. Ai primi di novembre si verificò poi una disastrosa alluvione che colpì anzitutto Venezia e Firenze. A Firenze giunsero centinaia di giovani a presentare la propria opera di soccorso, lavorando duramente per salvare le opere d'arte e i volumi della Biblioteca Nazionale. La convinzione che cominciò a radicarsi negli ebbero luogo molto meno spesso. Insomma, il centro-sinistra non riuscì a guidare, ma neppure ostacolò, il vivace cammino di modernizzazione che l'Italia stava percorrendo. I tanti nodi irrisolti, tuttavia, stavano ormai per venire al pettine. 4. La Chiesa tra Concilio e post-Concilio Il pontificato di Giovanni XXIII Dopo la morte di Pio XII, nel 1958, fu eletto Papa Angelo Giuseppe Roncalli, che prese il nome di Giovanni XXIII. Lontano dalla concezione autoritaria e accentratrice di Pio XII, il nuovo Papa volle fondamentalmente presentarsi come un “buon pastore” e il suo comportamento si ispirò al rispetto e alla misericordia piuttosto che ai fulmini delle condanne. Giovanni XXIII faceva riferimento alla promozione economico-sociale delle classi lavoratrici, al positivo ingresso della donna nella vita pubblica, allo sforzo culturale politico per superare i retaggi del colonialismo e della discriminazione razziale. Il Papa compì gesti distensivi persino verso il comunismo. Giovanni XXIII conquistò così un posto nel cuore degli uomini e delle donne del suo tempo grazie a questi suoi modi affabili e semplici, accoglienti e paterni. Nel gennaio del 1959 Giovanni XXIII annunciò clamorosamente di voler promuovere un Concilio ecumenico, avviandosi così a diventare una delle figure più significative della chiesa del 900. Il consiglio si aprì solennemente l'11 ottobre 1962 e in quell'occasione Giovanni XXIII ribadì che l'assemblea, lungi dal voler ritoccare i punti fondamentali della dottrina cattolica, doveva semplicemente far sì che questa dottrina fosse insegnata in modo più efficace. Il Papa criticò quei “profeti di sventura” “che nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pure è maestra di vita.” Il consiglio si articola in quattro sezioni e fu chiuso solennemente l'8 dicembre. Giovanni XXIII morì il terzo giugno 1963, così che potesse guidare, già malato, solo la prima di queste quattro sezioni. Il protagonista principale del concilio divenne così il suo successore, Giovanni Battista Montini, Paolo VI, eletto Papa il 21 giugno. Paolo VI e il Concilio Vaticano II Le vicende del concilio furono tutt'altro che tranquille. I vescovi erano divisi tra una componente che si muoveva nella prospettiva di una riforma della Chiesa e un'altra estremamente agguerrita e con forti entrature nella curia romana. Mentre i primi avevano l'idea della Chiesa come popolo di Dio, comprendente sia laici che ecclesiastici, muovendosi in una direzione pastorale ed ecumenica, gli altri dipendevano da una visione giuridico autoritaria, fondata sul primato del Papa. Le questioni più dibattute furono quelle sulla liturgia e sul ruolo della Chiesa: gli innovatori intendevano aprire le funzioni alla partecipazione dei fedeli, spingevano per l'introduzione della lingua volgare e si rifiutavano di accettare il trionfalismo della Chiesa. Nel 1969 Paolo VI pubblicò il nuovo rito della messa, che venne addirittura accusato di essere eretico. Il Concilio riscoprì il ruolo del laicato entro il popolo di Dio e ciò favorì la diffusione di un'inedita voglia di partecipazione e di rinnovamento che interessò anzi tutte le realtà locali della chiesa, le parrocchie e le associazioni. Ovunque ci si impegnò nella costituzione di consigli pastorali in grado di raccogliere le istanze del laicato e di chiamare uomini e donne a un'effettiva corresponsabilità con il clero. In tutte queste vicende l'episcopato italiano non ebbe un ruolo trainante e semmai i suoi esponenti più significativi ne svolsero una frenante nelle discussioni e nella successiva attuazione delle disposizioni conciliari. Paolo VI si sforzò di promuovere un rinnovamento della Chiesa italiana, attraverso una graduale ricambio degli uomini e delle strutture. Il Papa era molto preoccupato di mantenere l'unità della Chiesa e non intendeva abbandonare la sua linea di prudenza e di mediazione. Rinnovamento e crisi delle associazioni cattoliche Paolo VI favorì anche il rinnovamento dell'associazionismo cattolico, a cominciare dall'Azione Cattolica, che nel 1962 poteva vantare ancora ben 3.600.000 iscritti. Soprattutto sancì la fine del collateralismo con la DC e la rinuncia a tutte quelle forme di ingerenza nella vita politica. Si parlò allora di “scelta religiosa”, per indicare questo recupero di funzioni anzitutto educative e spirituali. Anche il movimento scoutistico cattolico si adeguò ai nuovi tempi. Quanto alle ACLI che pure avevano mantenuto uno stretto rapporto con la DC, fornendo al partito uomini e voti, le crescenti delusioni provocate dalla politica democristiana favorirono l'insorgere di simpatie per il partito socialista. I nuovi movimenti e il dissenso cattolico Mentre, per un motivo per un altro, l'associazionismo tradizionale si trovava in crisi, gli anni del post Concilio conobbero l'affermarsi dei modi nuovi di vivere e manifestare la propria fede cattolica. Vi fu anzitutto una nuova attenzione per la situazione del cosiddetto Terzo Mondo, oppure per le situazioni di disagio sociale esistenti anche in Italia. Si trattava di esperienze che operavano in un rapporto di fedeltà con la gerarchia ed esprimevano un'intensificazione della religiosità dei credenti, ma anche una trasformazione del modo di concepire la religiosità stessa. Su questa strada si incamminarono anche coloro che erano orientati in senso più radicale. Molti credenti guardavano infatti con crescente interesse a quei preti e laici dell'America latina che avevano fatto una scelta di impegno a difesa dei diritti dei diseredati e accettando di fatto il marxismo come strumento per analizzare e comprendere le contraddizioni indotte dal sistema capitalistico. Queste nuove sensibilità furono all'origine di clamorosi episodi, proprio mentre un po' dappertutto proliferavano gruppi spontanei di cristiani, che volevano dare spazio alle nuove esigenze di incarnare la fede. Nel settembre 1968 un gruppo di cattolici di Parma occupò il duomo della città per manifestare la propria contrarietà alla costruzione di nuove chiese con fondi donati dalle banche locali. È chiaro che tutti questi fermenti rappresentavano un fenomeno minoritario nel panorama ecclesiale. Senza dubbio erano più numerose le parrocchie tradizionali che quelle in cui si portava avanti una pratica di fede radicale. 5. I giovani protagonisti Una nuova generazione All'inizio degli anni 60 la gioventù italiana intraprese un viaggio verso un profondo cambiamento di gusti, modi di vita e di ideali. Le generazioni dei quindicenni e dei sedicenni di vedere un nuovo soggetto sociale che, pur caratterizzato dalla transitorietà della propria situazione, si esprimeva con un'autonomia culturale, sociale e politica che era maggiore rispetto a quella dell'epoca e precedenti. L'avvento della televisione e lo sviluppo degli altri mezzi di comunicazione di massa contribuirono a determinare il modo di essere dei teenagers, perché questi ragazzi costituirono la prima generazione della storia italiana che possedeva tratti di omogeneità nelle espressioni verbali, nei gusti e negli atteggiamenti. Si verificò un fenomeno di esterofilia ben espresso dal già citato film “Un americano a Roma" o dalla canzone “Tu vuò fa l’americano". Sul finire degli anni 50 l'esperienza dei Teddy-boys portò alla luce il disagio delle nuove generazioni. La moda d’Inghilterra, anche nel nostro paese, spaventava i genitori per la carica di violenza che la caratterizzava: questi ragazzi, con blue jeans e camicia provocatoriamente aperta furono protagonisti di risse, furti e altri episodi. Questi nuovi atteggiamenti di sfida nei confronti del mondo adulto dovevano preoccupare non poco l'opinione pubblica del nostro paese. Quanto questi giudizi fossero sbagliati però fu dimostrato nel 1960: tra lo stupore di molti, migliaia di ragazzi delle magliette a strisce scesero in piazza in difesa della democrazia scandendo slogan antifascisti contro il governo tambroniano. Nei primi anni 60 i giovani diventarono oggetto di interesse e di attenzione anche progetto di riforma di Gui, la rivolta si estese alla maggior parte della penisola, con un susseguirsi di occupazioni, sgomberi, di occupazioni, assemblee, sit-in e manifestazioni. Dalle rivendicazioni specifiche su aule, esami o lezioni si passò alla messa in discussione, da parte degli studenti, dell’intera struttura universitaria e dei suoi assetti autoritari. Nel mese di febbraio si mosse la più popolosa università italiana, la Sapienza di Roma. Fu Lettere la prima ad essere occupata, ma presto tutte le altre vennero coinvolte nella protesta. Alcuni docenti dimostrandosi comprensivi nei confronti delle richieste studentesche, desidero di fare regolamentare l’appello d'esame di febbraio, seguendo le indicazioni fornite dagli studenti: le richieste erano di avere il diritto di respingere il voto, di discutere pubblicamente il giudizio sull’interrogazione e di poter sostenere l’esame anche su argomenti della materia non inseriti nel programma. Il rettore Pietro Agostino D’Avack chiese l’intervento della polizia; proprio per protestare contro lo sgombero di Architettura, il I marzo circa tremila studenti si diressero in corteo da piazza di Spagna a Valle Giulia, dove si accese una durissima battaglia alla fine della quale si contarono 47 feriti tra gli studenti e 148 fra i poliziotti. Proprio il mese di marzo vide l’estendersi delle occupazioni in tutta Italia, mentre tendevano a diventare sempre più frequenti gli scontri fisici con le forze dell’ordine. Il movimento tendeva intanto a espandersi in direzione degli studenti medi e soprattutto verso il mondo del lavoro: fu in questo clima che si svolsero il 19 e il 10 maggio le elezioni per il rinnovo del Parlamento. La contestazione proseguì violenta per tutta la primavera e si riaccese in autunno, coinvolgente sempre più le università e gli istituti scolastici superiori. L’imponente sciopero generale di maggio in Francia, che aveva visto fianco a fianco studenti e lavoratori, aveva suscitato profonda impressione nel nostro paese, e le manifestazioni degli operai in quei mesi facevano sperare nella possibilità anche per i giovani italiani di trovare alleati nelle fabbriche. Forti di questo obiettivo, gli universitari cominciarono a unirsi ai lavoratori nei picchettaggi davanti ai cancelli delle industrie. La cultura della contestazione Gli episodi di contestazione studentesca trovavano le proprie ragioni anche in una più generale critica nei confronti della società. Il mito dei consumi, la sacralizzazione della famiglia, a cui si attribuivano ruoli affettivi ma anche economici, e l’esaltazione di quegli anni fu senz’altro la lettura da parte di migliaia di giovani degli scritti classici del marxismo, come Kant, Fichte e Hegel, anche Feuerbach, in particolare i suoi Manoscritti economici filosofici del 1844, grazie ai quali nasceva la convinzione della necessità, sottolineata dai contestatori, di una rivoluzione globale contro il sistema capitalistico. Il ’68 fu anche l'avviamento ispirato dalla realtà e dei miti di quello che allora si chiamava Terzo Mondo. L'attenzione per l'esperienza in corso nella Cina di Mao e per la cosiddetta rivoluzione culturale coinvolse tutti gli studenti protagonisti delle mobilitazioni di quegli anni; molti giovani credevano fosse in corso una lotta di classe nel paese asiatico e che le masse stessero realmente eliminando i rappresentanti della borghesia che si erano insinuati nel partito. Il mito di Maio e delle sue guardie rosse entrò prepotente nei documenti e negli slogan di quegli anni. L'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'esercito dei paesi del patto di Varsavia, avvenuta tra il 20 e il 21 agosto 1968, e la fine del tentativo di Dubcek di creare un socialismo “dal volto umano" e più vicino alle tradizioni democratiche del paese, aveva profondamente colpito i giovani dei paesi occidentali. L'infrangersi delle speranze dei giovani di Praga, che tanto si erano spesi per questo rinnovamento, fu ben espresso nel gesto estremo di Ian Palach, lo studente che, nel gennaio del 1979, per attirare l'attenzione del mondo sul dramma del suo paese, si era dato fuoco in piazza San Venceslao, prendendo a prestito la protesta utilizzata in Vietnam del sud dei bonzi per opporsi alla presenza americana. Molto meno attraenti risultavano invece altri potenziali miti, quelli espressi dalle vicende politiche nordamericane. Proprio nel 1968 si verificarono le uccisioni di Kennedy e di Martin Luther King, ma ormai la contestazione si era radicalizzata e indirizzata in modo diverso, guardando semmai con simpatia alla rivolta dei neri americani, a Malcolm X e alle Pantere Nere. Insomma, una miscela di marxismo, rivoluzionarismo e terzomondismo sembrava poter ispirare anche la rivolta dei giovani italiani. La contestazione nella cultura Aperte l’interesse per i film americani la crisi giovanile fu interpretata in Italia da pellicole come I pugni in tasca di Marco Bellocchio e Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Si affermava intanto una nuova generazione di registi italiani nelle quali spiccavano i nomi di Bertolucci, Olmi, Ferreri, Cavani, Taviani. Particolarmente creativa fu la produzione di Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Federico Fellini, e Pierpaolo Pasolini. La contestazione approdò anche nelle maggiori sedi di produzione del mondo artistico: nel giugno 1968, nelle sale della Biennale di Venezia il pittore Gastone Novelli tracciò ai bordi di una sua tela la scritta "la Biennale e fascista”. Non si può infine dimenticare l'impatto che la contestazione ebbe in mondi lontani dall'università. Sensibilità verso le più diverse forme di repressione indusse tra l'altro a considerare i problemi della salute e della malattia, specialmente quella mentale. Furono gli studenti di medicina a portare all'attenzione di tutti la situazione dei manicomi. 6. Novità politiche e sindacali Il PCI, la contestazione e il “Manifesto" I sessantottini criticavano le posizioni ritenute troppo moderate e revisioniste del PCI, e anche le varie anime del PCI esprimevano valutazioni differenti di fronte all'affermarsi del movimento degli studenti. L'intensità e la novità della protesta costrinse il partito a discutere, rispondere e interpretare il nuovo protagonismo dei giovani. Il dirigente comunista più duro nei confronti degli studenti fu Giorgio Amendola che accusò i giovani contestatori di “rigurgito di infantilismo estremista”, e di post tenere vecchie posizioni anarchiche. Il segretario del partito Luigi Longo invece non mancava di incontrare gli studenti e di riconoscerne i meriti: infatti ammetteva che i giovani non ponevano problemi corporativi o di categoria bensì si occupavano di aspetti più generali della società, per costruirne una nuova. Longo parlò anche di difetti e carenze del PCI che non aveva capito le potenzialità e le istanze del movimento studentesco. L'8 febbraio 1969 a Bologna si aprì il XXII congresso del PCI segnato da un confronto aperto e aspro, che fu anche pubblico. La recente invasione della Cecoslovacchia e i rapporti con l'Urss, il giudizio sulla contestazione, furono i temi principali del dibattito. Il congresso elesse come vicesegretario del partito Enrico Berlinguer. Berlinguer era di fatto già il numero uno del PCI, in quanto il segretario Longo era gravemente ammalato. Fu lo stesso Berlinguer a adoperarsi perché all'interno del comitato centrale fossero elette esponenti della minoranza critica del partito. Quando nel giugno del 1969 la sinistra fondò la rivista “Il Manifesto”, i rapporti tra le varie anime si deteriorarono in modo definitivo. Il periodico proponeva tesi critiche estranee alla cultura tradizionale del partito: è vero che Longo aveva espresso un grave dissenso nei confronti dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia dell'estate del 1968, ma il PCI non era ancora giunto a una reale rottura con la patria del comunismo, mentre il gruppo de Il Manifesto era assai radicale nelle critiche all’Urss. La sinistra extraparlamentare Il gruppo del Manifesto si poneva a sinistra del PCI. Bisogna infatti ricordare che nel 1961 era stata fondata la rivista “Quaderni Rossi”. Intorno al periodico venne formandosi una nuova sinistra operaista che si mostrava restia all'accettazione delle conseguenze dello sviluppo tecnologico. Quaderni Rossi non si poneva l'obiettivo di organizzare il movimento operaio, riconosciute, vietando ogni forma di discriminazione da parte del datore di lavoro, oltre che ogni sovvenzione a sindacati di comodo. III CAPITOLO: GLI ANNI DI PIOMBO 1. La strage di Piazza Fontana e le sue conseguenze Un nuovo governo "balneare" e due governi Rumor Dopo le elezioni del 19-20 maggio 1968 risultò difficile tornare a una maggioranza di centro-sinistra: il ridimensionamento elettorale del PSU rese ancora più problematico il percorso di unificazione intrapreso dai due partiti socialisti. La maggioranza del partito ritenne che prima di riprendere la collaborazione governativa con la DC fosse necessario un congresso nazionale che dibattesse problemi interni al partito. La conseguenza di questo disimpegno fu la costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Giovanni Leone. In novembre Leone si dimise e il 13 dicembre nacque il primo governo Rumor, sostenuto da DC, PRI e appunto PSI. Nel pieno della crisi provocata dalla contestazione studentesca e di quella operaia, l'Italia si trovava con dei governi deboli e incapaci di darle delle risposte incisive. Mentre nella DC Moro cominciava con lucidità a interrogarsi sul significato della contestazione e a riflettere sull'opportunità di creare un rapporto diverso con i comunisti, tra i socialisti la componente proveniente dal PSI, uscita in minoranza dal congresso di pochi mesi prima, si riorganizzò riuscendo a coagulare una nuova maggioranza composta da De Martino, Mancini e Giolitti sulla base di un programma di dialogo con il PCI. Nel luglio 1969 falli così l'unificazione e la conseguenza di questa nuova spaccatura fu la fine del governo Rumor. Egli però fu incaricato di formare un nuovo governo, ma dovette constatare l'impossibilità di tornare alla situazione precedente. Rumor formò pertanto il suo secondo governo con i soli democristiani e in agosto ottenne la fiducia del parlamento. Milano, 12 dicembre 1969 Il 25 aprile 1969, anniversario della Liberazione esplose una bomba Milano nello stand della Fiat alla fiera campionaria, provocando cinque feriti; nello stesso giorno fu trovato un altro ordigno, sempre a Milano, alla stazione centrale. Il 9 agosto successivo si registrarono ben otto attentati con esplosivi sotto tanti treni in varie regioni italiane. La giornata più drammatica di quel periodo fu il 19 novembre 1969, giorno di uno sciopero generale indetto da CGIL, CISL e UIL. A Milano si ebbe una vera e propria guerriglia tra polizia e manifestanti di estrema sinistra e un agente, Antonio Annarumma, colpito alla testa da una spranga lanciatagli addosso, perse la vita. In questo contesto, il 12 dicembre 1969 alle ore 16.37, nel salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, a due passi dal Duomo, scoppiò una bomba mentre gli sportelli erano aperti. I morti furono 17 e i feriti 88. Nello stesso giorno venne ritrovata una borsa contenente un ordigno anche nella sede centrale della Banca Commerciale Italiana a Milano che fortunatamente non scoppiò. La polizia diresse subito le proprie indagini verso gli ambienti dell'estrema sinistra. Le conseguenze della strage La tragedia del 12 dicembre 1969 ebbe conseguenze devastanti per l'Italia. Essa mostrò tutta la fragilità dello Stato e del governo, incapaci di difendere i cittadini e di ricercare i colpevoli. La strage segnò uno spartiacque nella storia italiana, inaugurando quella che viene definita "strategia della tensione”. Almeno due episodi di sangue furono poi direttamente provocati dalla bomba di piazza fontana. Il 17 maggio 1972 il commissario Calabresi venne ucciso da sconosciuti sotto casa sua a Milano. Dopo indagini prive sostanzialmente di risultati, solo nel luglio 1988 le rivelazioni di un pentito portarono all'arresto di tre ex appartenenti al movimento e la conclusione definitiva fu la condanna a 22 anni di reclusione dei tre imputati. Esattamente un anno dopo avvenne l'uccisione di Calabresi sempre a Milano il 17 maggio 1973 da parte un sedicente anarchico lanciando una bomba all'esterno della questura di Milano. 2. La "strategia della tensione" e la destra eversiva Il MSI e l'eversione di destra La definizione di “strategia della tensione” fu utilizzata per riferirsi a quell'insieme di trame, di attentati e di stragi il cui scopo appariva quello di creare nel paese un clima di insicurezza e di paura. Tre protagonisti della drammatica stagione che ebbe inizio con il 12 dicembre 69 furono certamente gli aderenti ai gruppi estremisti di destra e allo stesso Msi. Nel 1956 Pino Rauti con il suo gruppo di ordine nuovo era uscito dall'MSI; una successiva sessione portò nel 1963 alla nascita di Avanguardia Nazionale che era un gruppo organizzato su due livelli dei quali uno ufficiale, che operava nella legalità, e uno clandestino, del quale facevano parte commandos terroristici. Nel 1969 Michelini morì e la segreteria dell'MSI fu assunta da Giorgio Almirante, rappresentante di quell'aria propriamente fascista “di Salò” che fino a quel momento Michelini aveva tenuto al margine del partito. Almirante intese dunque recuperare la tradizione social rivoluzionaria del fascismo. Tra il 1969 e il 1975 vengono compiuti in Italia bene 4384 atti di violenza contro persone o cose, l'83% dei quali era da considerare come opera dell'estremismo neofascista della destra radicale. Eversione di destra, attentati, stragismo: da Peteano a Bologna La preoccupazione per la forza eversiva della destra fu alimentata da altri episodi di estrema gravità, oltre che dalla scoperta di vari campi di addestramento paramilitare in diverse località italiane. Il 31 maggio 1972 a Peteano, in provincia di Gorizia, tre carabinieri rimasero uccisi in seguito all'esplosione di un'auto trappola. Il 12 aprile 1973, durante scontri tra la polizia e i neofascisti a Milano, uno di questi lanciò una bomba mano che uccise l’agente Antonio Marino e ferì 12 persone. I timori per un colpo di mano preparato della strategia della tensione si fecero sempre più palpabili, cosicché anche il governo democristiano cercò di prendere provvedimenti più decisi. Il 1974 può essere interpretato come anno di svolta nel comportamento dello Stato, così che il succedersi delle stragi fasciste di quell'anno sarebbero non il culmine bensì l'epilogo della strategia della tensione. Il 28 maggio di quell'anno una bomba esplose a Piazza della Loggia a Brescia proprio mentre si stava svolgendo una manifestazione indetta dai sindacati. Il 4 agosto successivo un altro ordigno collocato sul treno Italicus provocò sulla linea tra Firenze e Bologna la morte 12 persone e il ferimento di altre 48. Poi si ebbe il 2 agosto 1980 il gravissimo attentato alla stazione di Bologna dove una bomba collocata nella sala d'attesa provocò la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200. Si trattò del più grave atto terroristico mai avvenuto in Italia, almeno per numero di vittime, e pure in questo caso l'accertamento dei mandanti e degli esecutori si protrasse nel tempo. Trame e intrighi: la loggia P2 William Colby, che fu responsabile della CIA nel nostro paese, ha scritto nelle sue memorie che “l’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni organizzate dalla CIA si sono ispirate all’esperienza accumulata in questo paese, e sono state utilizzate anche per l’intervento in Cile”. Non fu dunque un caso che in quegli anni il l'illuminazione pubblica fosse ridotta del 40%, e le insegne pubblicitarie durante il periodo notturno fossero spente, che gli spettacoli teatrali, cinematografici e televisivi terminassero alle 23:00. Gli industriali radicalizzarono la polemica contro il movimento sindacale. Un escamotage praticato dagli imprenditori per ottenere profitti in questo momento di crisi fu, sfruttando la tendenza inflattiva internazionale, quello di scaricare i costi degli aumenti salariali sui prezzi. Gli anni 70 furono anche caratterizzati da un forte incremento della spesa pubblica, fenomeno che non interessò solo il nostro paese, ma che in Italia assunse caratteri patologici a causa delle spese per la cassa integrazione, per i settori dell'educazione, della sanità e dell'assistenza. Dal 1960 al 1983 la spesa pubblica passa così dal 31,2% al 62,5% del prodotto interno lordo. La copertura non venne attuata usando la leva fiscale, bensì incrementando il deficit pubblico: il governo italiano iniziò l'infausta prassi di indebitarsi contraendo una serie di prestiti internazionali. Governi fragili ed elezioni anticipate Nell'estate del 1969 Mariano Rumor diede vita al suo II ministero, un debole monocolore democristiano che dovette affrontare la tragedia di Piazza Fontana. Nel 1970 Rumor si dimise e si aprì l'ennesima lunga e complicata crisi che fu risolta solo il 29 marzo con la nascita del III governo Rumor. Il 6 luglio 1970, di fronte all'annuncio di uno sciopero generale indetto dalle confederazioni sindacali CGIL, CISL, UIL per sollecitare interventi utili a migliorare la vita dei lavoratori, Rumor si dimise nuovamente. Peraltro, in quei pochi mesi di vita del II e del III governo si ebbe l'entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori e la votazione della legge istitutiva sulle consultazioni referendarie. Si arrivò pertanto a un nuovo esecutivo sotto la presenza dell'altro democristiano Emilio Colombo. Fu questo governo che dovette fare i conti con la rivolta di Reggio Calabria e con quella successiva e analoga scoppiata a L'Aquila, motivata ugualmente da ragioni di prestigio e di clientelismo regionale, e cioè dalla decisione di designare la città capoluogo regionale, ma di collocare parte degli assessorati a Pescara. Il presidente del consiglio non fu in grado di affrontare i nodi più importanti che venivano al pettine e soprattutto il problema della recessione economica in cui era caduto il nostro paese. Il PCI, preoccupato dalla violenza politica della destra e della possibilità di soluzioni eversive, intendendo rinsaldare il legame tra i partiti antifascisti, decise comunque di assumere un atteggiamento meno intransigente nei confronti del governo, adottando una politica di opposizione morbida. Dopo che in giugno un turno di elezioni amministrative confermò la prepotente ascesa del MSI, e di conseguenza le preoccupazioni per la tenuta della democrazia, le tensioni tra i partiti esplosero in occasione dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nel gennaio 1972 Colombo presentò le proprie dimissioni da Presidente del Consiglio e l'unica strada possibile, anche per allontanare lo scontro frontale sul divorzio, fu quella dello scioglimento anticipato delle Camere. Nel frattempo, il Capo dello Stato Leone diede l'incarico a Giulio Andreotti perché costituisse un governo-ponte e composto solo da esponenti democristiani. La fine del governo Colombo rappresentava dunque un segnale inequivocabile della profonda crisi in cui era caduto il centro-sinistra. La DC, guidata da Arnaldo Forlani, si presentò alla consultazione del 1972 chiedendo agli elettori il voto per una formula centrista, il nome della lotta agli opposti estremismi, rosso e nero. A supporto di questo orientamento arrivarono di nuovo tragiche notizie di cronaca: il 14 marzo fu ritrovato a Segrate, vicino a Milano, il corpo dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, mentre un paio di settimane prima vi era stato l'arresto di Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, accusato di responsabilità negli attentati del 1969. La DC riuscì a ottenere discreti risultati, presentandosi come la diga contro gli opposti estremismi mentre l'MSI non riuscì a sfondare. Confermò questo fatto il nuovo governo, guidato ancora ad Andreotti, che si rese sulla partecipazione di DC, PSDI e PLI. Il pendolo della politica tornò a spostarsi verso sinistra in seguito alla decisione del PSI di aprire la strada della collaborazione con la DC, mentre anche tra democristiani si arrivò a un'analoga decisione con il ritorno alla segreteria del partito di Amintore Fanfani. Così nel giugno 1973 Andreotti si dimise e un mese dopo Rumor varò il suo IV governo, quindi con il ritorno alla formula classica del centro-sinistra. Nei primi mesi il nuovo governo riuscì in effetti con inusuale determinazione a portare a termine molti dei suoi propositi di rinnovamento: attraverso un serrato controllo dei prezzi si ridimensionò la spirale inflazionistica, mentre la forte ripresa industriale rinforzò la lira sui mercati esteri. Ben presto lo slancio fu frenato però dallo scontro tra il repubblicano La Malfa, che riteneva indispensabile un contenimento della spesa pubblica, e il socialista Giolitti, che invece giudicava prioritarie le riforme. Si trattava di due linee profondamente diverse: i socialisti si prefiggevano lo scopo di difendere il livello di vita delle classi meno agiate, mentre i repubblicani esprimevano la preoccupazione delle classi medie per la perdita di potere d'acquisto. Alle tensioni tra i ministri economici si aggiunse lo scandalo dei petroli: vennero infatti alla luce finanziamenti occulti ai partiti di governo e ad alcuni ministri in carica da parte dell'Unione Petrolifera Italiana che non voleva che il nostro paese procedesse alla costruzione di centrali nucleari. Il compromesso storico In questi anni il partito comunista stava duramente confrontandosi su molteplici e complessi temi: quale giudizio dare sui movimenti esplosi nel 68, quali rapporti intrattenere con le sempre più numerose formazioni politiche sorte sulla propria sinistra, come interpretare gli sviluppi del sistema capitalistico italiano, come muoversi nella situazione internazionale, anche alla luce della critica mossa all'Urss in seguito all'invasione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968. Un nuovo durissimo avvertimento ai comunisti del colpo di Stato in Cile dell'11 settembre 1973 vide il rovesciamento violento del governo di Allende da parte del generale Pinochet, con il pieno appoggio degli Stati Uniti. In Italia l'episodio segnò un profondo sdegno e viva preoccupazione. Tali preoccupazioni furono ben espresse negli articoli che furono di pubblicati sul settimanale del PCI “Rinascita”: Enrico Berlinguer faceva un confronto tra la scelta moderata compiuta da Togliatti dopo la guerra di liberazione, quando, essendo l'Italia nella condizione di paese occupato dagli eserciti delle potenze capitaliste, era impossibile fare una scelta rivoluzionaria, e la situazione dei primi anni 70. Come nel 1945 il nostro paese aveva rischiato che il movimento operaio comunista andasse incontro all'avventura, in quella condizione di clandestinità dalla quale era appena uscito, analogamente ora poteva risultare rischioso impuntarsi su un governo di sinistra. Neanche il fatto che partiti e le forze di sinistra fossero riusciti democraticamente a raggiungere il 51% dei voti e della rappresentanza parlamentare, garantiva la sopravvivenza di un governo che ne fosse stata espressione. Il segretario del PCI accantonava l'alternativa di sinistra e proponeva un’alternativa democratica, il “compromesso storico”. Era insomma necessario abbandonare il preconcetto secondo cui la DC era solo un partito che vedeva l'interesse del grande capitale e delle forze conservatrici del nostro paese, perché in realtà attorno a essa si raccoglievano consistenti settori di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne e anche di operai. All'interno della DC Fanfani accolse con scarso interesse la proposta comunista e lo interpretò come il segnale delle difficoltà in cui si dibatteva il partito. Le riflessioni del leader sardo trovarono invece ascolto da parte di Moro, il quale iniziò infatti a riflettere sul senso profondo dei cambiamenti in atto e prese a parlare di “terza fase” da avviare nella politica italiana. L'espressione era piuttosto generica, ma rinviava alla convinzione di Moro che, dopo la contrapposizione della guerra fredda e dopo quella in corso di faticose lotte tra cattolici e comunisti, si dovesse giungere a una fase di democrazia compiuta, nella quale la DC e la sinistra potessero competere in alternanza alla guida del governo. Duri furono i commenti dei vari gruppi pubblico, che introdusse il fermo di polizia e permise un più ampio utilizzo delle armi da parte di poliziotti e carabinieri. Le elezioni amministrative del 1975 L'episodio politicamente più significativo del 1975 furono le elezioni amministrative che sancirono una nuova importante svolta. Già il voto sul divorzio aveva evidenziato che la società italiana era profondamente mutata e che non tutta la classe politica aveva percepito le sollecitazioni che le provenivano dalla società civile. La consultazione amministrativa, che si tenne il 15-16 giugno, e nella quale per la prima volta votarono i diciottenni, confermò, con un consistente spostamento di voti dai partiti di governo al maggior partito di opposizione, i grandi cambiamenti in atto nell'elettorato italiano: il PCI raggiunse il 33,4%, DC al 35,3%, mentre il PSI si fermò intorno al 12%. Il risultato rappresentò un duro colpo per il partito di maggioranza relativa che aveva così subito una seconda cocente sconfitta dopo quella nel referendum. Fanfani fu ritenuto responsabile delle difficoltà in cui si dibatteva la DC e venne messo in minoranza: fu così che si arrivò alle elezioni di Benigno Zaccagnini a segretario. Il neosegretario riuscì presto a ottenere un grande consenso non solo della DC, ma anche dell'opinione pubblica, diventando l'emblema di una nuova stagione di tensione morale. Egli propose il ritorno all'originale ispirazione cristiana della DC, fondata sull'esigenza di una profonda moralizzazione della politica. La scommessa era ardua, anche perché dentro la chiesa si agitavano forze nuove che ambivano a rifondare la presenza politica dei cattolici. Furono però i socialisti, nel gennaio 1976, ad aprire la crisi di governo decidendo l'uscita del partito dalla maggioranza: il PSI aveva ottenuto un discreto successo, ma il notevole incremento di consensi al PCI toglieva spazio a ipotesi di riedizione di un centro-sinistra e rendeva possibile la prospettiva di equilibri più avanzati che in qualche modo consistessero nell'avvicinamento del PCI all'area di governo. Scandali politici: l'affare Lockheed e il caso Sindona Ad acutizzare i motivi di polemica tra socialisti e democristiani si erano intanto aggiunti l'infiammarsi del dibattito sulla legalizzazione dell'aborto e l'emergere dello scandalo Lockheed. Nei primi mesi del 1976 la grande azienda americana venne accusata di aver corrotto uomini politici in vari paesi d'Europa per fare approvare l'acquisto dei suoi aerei da trasporto. In Italia i sospetti si concentrarono su Mario Tanassi (PSDI) e Luigi Gui (DC). Contro la messa sotto accusa della DC si schierò con fermezza Moro, che fece una strenua e decisa difesa del collega e alla fine venne assolto anche Gui. Anche il presidente Leone fu coinvolto in questo scandalo e fu sospettato, insieme a Mariano Rumor, di essere Antelope Cobbler", lo pseudonimo sotto il quale si celava l'identità dell'ex Primo Ministro a cui sarebbero state pagate tangenti dall'industria americana. Un altro scandalo fu quello legato a Michele Sindona, un finanziere che poteva vantare forti legami con la DC e particolare con Giulio Andreotti. Già nel 1971 la Banca d'Italia aveva messo in luce le irregolarità della Banca Unione e della Banca Privata Finanziaria controllate da Sindona. Nel 1974 la situazione per Sindona precipitò, a causa della messa sotto inchiesta da parte delle autorità statunitensi della Franklin National Bank, anch'essa controllata dall'uomo d’affari italiano. I buoni rapporti con l'amministrazione Nixon gli permisero inizialmente di non far precipitare la situazione, ma la crisi del governo a seguito dell'inchiesta Watergate mandò a monte i tentativi di ripianare la situazione. Anche in Italia i referenti del finanziere si trovarono in un momento di difficoltà e la condanna per bancarotta sarebbe poi arrivata nel giugno del 1976. Il seguito degli avvenimenti fu decisamente a tinte gialle e criminali: l'11 luglio 1979 l'integerrimo avvocato Ambrosoli, nominato proprio nel 1974 liquidatore della Banca Privata, venne assassinato da un killer che risultò essere stato assoldato proprio da Sindona. Il mese successivo il banchiere siciliano inscenò un proprio finto rapimento. Sindona poi venne condannato a 25 anni di carcere per i suoi reati finanziari e all’ergastolo in quanto mandante dell'omicidio Ambrosoli. Il 22 marzo 1986 Sindona fu trovato morto nella sua cella del supercarcere di Voghera dopo aver bevuto un caffè corretto al cianuro. Le elezioni anticipate del 1976 e il "governo della non sfiducia" L'avvento alla segreteria della DC di un uomo pulito come Zaccagnini sembrò tuttavia far dimenticare agli elettori i rapporti tra gli esponenti del partito di maggioranza relativa ed equivoci personaggi della politica e della finanza, tant'è vero che si interruppe la fase di declino nella quale era precipitato il partito. Nelle elezioni del 76, il paese si divise in due blocchi come non era più accaduto dopo il 1948. A seguito del voto la situazione politica risultò più difficile da gestire a causa dell'indisponibilità del PSI, che era invece uscito penalizzato dalla consultazione ad allearsi con la DC. La sconfitta impose un cambio al vertice e al posto di De Martino viene eletto Craxi. Craxi dimostrò subito determinazione e coraggio, pensando anzitutto a salvare il proprio partito dalla morsa in cui le elezioni lo avevano costretto, tra i due giganti democristiano e comunista. Si arrivò, in quella circostanza, all'ennesimo colpo di fantasia della classe politica italiana, che inventò il "governo della non sfiducia”. Infatti, il nuovo esecutivo guidato da Andreotti fu composto solamente da ministri democristiani. Il partito comunista era diventato troppo forte per poter essere ancora emarginato come nei due decenni precedenti. In più la crisi economica e quella dell'ordine pubblico erano tanto gravi da richiedere di ricostruire con il massimo consenso possibile le misure da prendere. Si apriva in tal modo una fase politica nuova e particolare, definita della “solidarietà nazionale”, nella quale si avviava di fatto una collaborazione tra PCI e DC. Nel gennaio del 1978 Andreotti rassegnò le dimissioni ottenendo da Leone l'incarico di formare un nuovo governo e costituì quindi il suo quarto governo, un monocolore DC, che avrebbe dovuto ottenere questa volta la fiducia anche dei comunisti. Tuttavia, la struttura del governo lasciò profondamente insoddisfatti i comunisti, che minacciarono di non votare in parlamento la fiducia. Tutto era ancora in sospeso e quella stessa mattina il regista principale dell'accordo tra la DC e il PCI, Aldo moro, venne rapito dalle Brigate Rosse. Sull'onda emotiva dell'attentato entrambi i rami del parlamento, per la prima e unica volta nella storia della Repubblica, votarono immediatamente la fiducia consentendo al nuovo esecutivo di gestire con pieni poteri la nuova, imprevista, tragica, situazione. 5. Il terrorismo "rosso" Le origini e le matrici culturali L'attacco al cuore dello Stato compiuto il 16 marzo 1978 dalle BR rappresentò il momento culminante di un processo storico iniziato ormai da qualche anno, e destinato a proseguire ancora con intensità fino ai primi anni 80. È bene dunque ripercorrere per intero la parabola del terrorismo di sinistra o rosso, segnalando innanzitutto le discusse radici nel movimento contestativo del ’68. Le proteste e le manifestazioni che si svilupparono alla fine degli anni 60 costituirono il retroterra culturale di molti che poi si sarebbero dati alla lotta armata. Le domande sui legami tra 68 e terrorismo sono accompagnate da quelle sui legami tra formazione cattolica e lotta armata, muovendo dalla contestazione che diversi terroristi avevano fatto parte di gruppi o di associazioni confessionali, acquisendo la convinzione delle enormi ingiustizie sociali esistenti e seguendo con attenzione l’esperienza condotta in America latina. Alcuni punti non possono però essere dimenticati. Anzitutto che gruppi come “potere operaio”, per le loro posizioni estreme, rappresentarono di fatto gli incubatori delle organizzazioni terroristiche. In secondo luogo, che, seppur ancora a livello teorico, la lotta armata come via principale della lotta di classe cominciò essere discussa prima del 12 dicembre 1969, ovvero il giorno di Piazza Fontana. In terzo luogo, che lo spartiacque fu La contrapposizione del movimento del 77 fu vissuta contro il PCI, in quanto questi giovani accusavano il principale partito della sinistra di aver abbandonato la propria tradizione rivoluzionaria e di rappresentare l'interesse di quella classe operaia inserita nel mondo del lavoro che i giovani non vedevano più come mito, ma come anello della catena del sistema. La conferma della distanza tra il PCI e questi giovani si ebbe già nel gennaio 1977, allorché Berlinguer propose la scelta dell’austerità, motivandola non come un mero strumento di politica congiunturale rivolto a superare difficoltà economiche transitorie, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali, bensì come il mezzo per contrastare alla radice un sistema che era entrato in una crisi strutturale. Si trattava di creare una società più austera, nell'idea di Berlinguer, avrebbe dovuto essere anche più giusta, più libera, più democratica e più umana. Un mese dopo, il 17 febbraio 1977, si verificò la clamorosa contestazione nei confronti del segretario della CGIL Luciano lama, recatosi all'università di Roma per tenervi un comizio proprio mentre era in atto un'occupazione di collettivi universitari in lotta contro la legge Malfatti che intendeva introdurre il numero chiuso nelle università. Con la primavera gli scontri in piazza e le polemiche tra movimenti e PCI si intensificarono. L'11 marzo un giovane, Francesco Lorusso, morì a Bologna durante degli scontri con la polizia chiamati dal rottore dell'università. Nuovi incidenti tra giovani autonomi e forze dell'ordine si verificarono nelle settimane nei mesi seguenti. In altrettanti scontri in piazza furono uccisi due poliziotti. Il PCI replicò con ulteriore durezza e fece scalpore un intervento di Giorgio Amendola per il quale bisognava adesso fare una scelta netta in difesa della democrazia. L'anziano leader comunista chiamò all'appello per opporsi all'offensiva aggregatrice che si svolgeva a diversi livelli, con l'uso del terrore, con la violenza armata contro lo Stato. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro Il 1978 si aprì con una nuova serie di omicidi, con cadenza quasi settimanale. Il 16 marzo 1978, mentre si recava alla Camera per la discussione sulla fiducia al governo presieduto da Andreotti, con una spettacolare e tragica azione organizzata dalle Brigate Rosse, in via Fani a Roma fu rapito il presidente della DC Aldo Moro. Le notizie lasciarono il paese nello sgomento. La domanda che ci si pose si riferiva ai motivi reali per cui le BR avevano rapito proprio Moro: lo statista pugliese era infatti la personalità di collegamento e coesione tra la DC e il PCI, nonché lo stratega della collaborazione tra i due principali partiti italiani. La mossa delle BR fu pertanto interpretata come volta a colpire questa collaborazione e quindi la prospettiva del graduale inserimento dei comunisti nell'area di governo. Molti degli organismi investigativi erano infiltrati e condizionati da appartenenti alla loggia massonica P2. Le divisioni tra i vertici istituzionali delle forze dell’ordine, l'approssimazione con cui si cercò in quei giorni di scoprire covi delle BR e il luogo dov'era segregato Moro, giocarono a favore dei terroristi. Così durante i 55 giorni del sequestro si verificarono numerosi episodi che confermarono l’impotenza e l'incapacità dello Stato. Basti qui ricordare che solo due giorni dopo il rapimento, su segnalazione anonima, la polizia si recò in un appartamento di via Gradoli a Roma, desistendo della perquisizione solo perché nessuno rispose. Un altro episodio ambiguo emerse in quello stesso giorno, quando fu diffuso il comunicato numero 7 delle BR in cui si diceva che Moro era stato giustiziato e che il suo cadavere si trovava presso il Lago della Duchessa, al confine tra Lazio e Abruzzo. Il ministero degli Interni dispose un dispiegamento di forze spropositato senza approdare ad alcun risultato, in quanto il comunicato si rivelò poi falso. Durante i 55 giorni di prigionia, sulla vicenda Moro si aprì una complessa dialettica politica. Pochi giorni dopo il sequestro, Moro cominciò a ipotizzare nelle lettere recapitate sia alla famiglia che a esponenti della DC una sua possibile liberazione raggiungibile anche attraverso uno scambio di prigionieri. Soltanto con i comunicati del 20 e del 24 aprile le BR appoggiarono questa richiesta, chiedendo, in cambio della liberazione dell'ostaggio, la scarcerazione di 13 terroristi detenuti. Le forze politiche si spaccarono tra i sostenitori della “linea della fermezza”, che ritenevano che non si potesse un alcun modo patteggiare con le BR, senza con ciò offrire loro un riconoscimento politico e manifestare la resa dello Stato al terrorismo, e i fautori della “linea della trattativa”, che sostenevano invece il dovere delle istituzioni di salvare la vita a Moro. Dalla sua prigione, Moro percepì il dibattito politico che si era creato attorno al suo dramma, e scrisse lettere con accenti particolarmente duri nei confronti del suo partito che non sembrava accedere alla prospettiva della trattativa umanitaria. Moro arrivò a identificare il responsabile dell’irrimediabilità della sua condizione in Andreotti che agiva con il proposito di sacrificare senza scrupolo colui che fu il patrono e il realizzatore degli attuali accordi di governo. Moro cercò di sollecitare altre iniziative parallele, cercando una mediazione del Vaticano. Il leader democristiano scrisse così una lettera al Papa, perché si adoperasse per intercedere presso le competenti autorità governative italiane. Tuttavia anche ai vertici dell'episcopato italiano del Vaticano l'ipotesi di un intervento umanitario per salvare la vita a Moro non incontrò molti favori. Alla fine i brigatisti fecero ritrovare la salma di Moro nel bagagliaio di una Renault rossa posteggiata in pieno centro di Roma e precisamente in via Caetani, non distante da Piazza di Gesù, sede della DC e da via Delle Botteghe Oscure, sede del PCI. Le conseguenze della morte di Moro Con l'assassinio dello statista democristiano, gli attentati di matrice terroristica non si arrestarono, ma la risposta dell'opinione pubblica a sostegno delle istituzioni manifestata in questa tormentata vicenda crearono progressivamente il vuoto intorno alle frange della lotta armata. La tragica morte di Moro segnò anche simbolicamente la fine di un ciclo politico che si era affermato nel corso degli anni 70 con la solidarietà nazionale. Ogni ipotesi di collaborazione tra DC e PCI venne meno. Però il delitto Moro e la constatazione dell'insufficienza dell'azione repressiva spinsero a un generale ripensamento da parte dello Stato, tanto che si potrà arrivare a uno smantellamento delle BR e delle altre organizzazioni della lotta armata. Proprio il clamore della vicenda della primavera 1978 aiutò tra l'altro a far prendere coscienza della gravità dell'attacco terroristico e riproporre in secondo piano slogan che si erano andati affermando fino a quel momento come quello "né con lo Stato, né con le Brigate Rosse". 6. La liquidazione della politica della solidarietà nazionale, 1978-1981 Il 1978: due Presidenti e tre Papi Sull'onda emotiva suscitata dall'uccisione di Aldo Moro, il 14-15 maggio 1978 si tenne un turno di elezioni amministrative che interessò oltre 3 milioni di italiani. I risultati, fortemente punitivi per il PCI, premiarono la DC, che divenne la grande protagonista nella gestione della solidarietà nazionale. Intanto nel PSI Bettino Craxi andava forzando i tempi per sganciare sempre più il partito da ogni tipo di subordinazione verso il PCI. Nel corso del 1978 la campagna, alimentata dalle voci di un suo coinvolgimento nello scandalo Lockheed, il presidente della Repubblica Giovanni Leone rassegnò anticipatamente le dimissioni e venne eletto alla massima carica dello Stato l'anziano socialista Sandro Pertini. Il nuovo presidente finì così per incarnare il crescente disagio verso un sistema politico sempre più arroccato nelle logiche di potere e sempre più incapace di offrire risposte significative alle aspettative dei cittadini. Il 1978 fu anche l'anno dei tre papi: dopo la morte di Paolo VI e il breve pontificato di Giovanni Paolo I, salì al soglio pontificio l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, che volle assumere il nome di Giovanni Paolo II. L'elezione di un Papa polacco contribuì a porre su un 1. I governi Spadolini, 1981-1983 Un laico alla guida del governo L’intreccio tra vicende internazionali e problemi interni costituì la trama entro cui si mosse il governo presieduto dal repubblicano Giovanni Spadolini, che nel 1981 diede vita ad un esecutivo con DC, PSI, PRI, PSDI e PLI. L’esecutivo mostrò la volontà di portare a compimento il processo di consolidamento del Pentapartito. Non mancarono alcuni segnali di novità. La collaborazione governativa veniva rivendicata su basi diverse dai partner della DC, che cominciano a definire una strategia per la formazione di un polo laico, al momento ancorato alla valutazione della fine della centralità democristiana e della conseguente gravitazione dei partiti attorno alla DC. Gli eventi che avevano fatto precipitare la crisi del precedente esecutivo indussero Spadolini a presentare un programma essenziale, incentrato su quattro priorità: “l’emergenza morale, l’emergenza economica, l’emergenza civile e le tensioni che investono la collocazione internazionale dell’Italia”. Il governo riuscì a conseguire la riduzione dell’inflazione, che, al momento della sua costituzione, oscillava attorno al 20%. Meno incisiva risulta l’azione per la riduzione della spesa pubblica. Spadolini poi si incaricò, dopo il terremoto della P2, di rinnovare radicalmente i vertici militari e dei servizi segreti, cercando di favorire la trasparenza nelle nomine, che vennero concordate insieme al Presidente della Repubblica Pertini. In politica estera, egli si preoccupò di rafforzare i vincoli di solidarietà europeistica e atlantica. La scelta più significativa in questa direzione venne adottata nell’estate del 1981 quando la base siciliana di Comiso fu scelta per gli euromissili, che la NATO aveva deciso di installare in Europa. Il “governo fotocopia” Nell’agosto del 1982, il governo cadde in seguito alle dimissioni della delegazione socialista per protesta contro la mancata approvazione da parte della Camera di un decreto del ministro Formica, che prevedeva agevolazioni fiscali ai petrolieri. La crisi che seguì si concluse rapidamente con l’incarico accordato ancora a Spadolini, il quale formò un esecutivo che ricalcava il precedente nella composizione, tanto da essere definito “governo fotocopia”. Il leader repubblicano, nonostante i propositi espressi per la formazione di un esecutivo sganciato dalle segreterie dei partiti per rispettare il dettato costituzionale, che lasciava al Presidente del Consiglio la responsabilità della scelta dei collaboratori, dovette ripiegare sulla riconferma della precedente compagine. Spadolini stese un “decalogo” sulle riforme istituzionali che aveva come punti cardine il rafforzamento della Presidenza del Consiglio e la valorizzazione delle autonomie locali. Durante questo suo secondo mandato a Palazzo Chigi, Spadolini si impegnò per l’invio di nuovi contingenti della forza multinazionale di pace in Libano con una delega più ampia, ottenendo il consenso francese e statunitense. Di nuovo elezioni anticipate Dopo le dimissioni di Spadolini, Pertini affidò l’incarico di formare un nuovo governo a Fanfani che riuscì a far nascere un quadripartito con l’esclusione dei repubblicani. Si ritenne opportuno che la responsabilità di governo in vista delle ormai imminenti consultazioni fosse condivisa da un più ampio schieramento di forze. Fanfani faticò ad impostare un’azione credibile: all’interno della compagine pesava più la voglia di contrarsi che non la volto di rivitalizzare una formula che produceva tensioni. Alla fine il Comitato centrale del Partito Socialista decise di ritirare la delegazione e Pertini procedette allo scioglimento delle Camere. Il 26 giugno 1983 gli italiani furono chiamati alle urne: la DC crollò al 32,9%, il PCI arretrò al 29,9%, mentre il PSI aumentò all’11,4%. Il “partito nuovo” di De Mita e il “nuovo PSI” di Craxi Alla tornata elettorale i principali partiti erano giunti dopo aver affrontato alcuni appuntamenti interni strategici. La DC aveva celebrato nel 1982 a Roma il XV congresso che vide in corsa per la segreteria Forlani e De Mita: mentre il primo puntava a una collaborazione più organica con il PSI, il secondo intendeva contrastarne le ambizioni egemoniche. La successione di De Mita al timone della DC non segnò una netta discontinuità con la precedente gestione. I margini per una strategia diversa anche per il paese, dopo il “preambolo”, si erano ridotti. De Mita insistette per una gestione unitaria della DC per rafforzare il processo innescato con la cosiddetta “Assemblea degli esterni”. All’inizio degli anni Ottanta da più parti si erano accresciute le preoccupazioni per la cristallizzazione che stava subendo il partito, sempre più incapace di collegarsi alla società civile. Un gruppo di intellettuali cattolici aveva così sollecitato la DC ad aprire un processo costituente. Quando raccolse il testimone alla guida del partito, De Mita cerca di gestire questa eredità all’interno di un progetto che prevedeva dinamismi propri. L’opinione pubblica colse nella “scommessa” di De Mita soprattutto la sfida al rinnovato ruolo che intendeva giocare il PSI di Craxi. Ciò venne declinato con maggiore puntualità durante la Conferenza programmatica socialista tenuta a Rimini nella primavera del 1982 all’insegna dello slogan “governare il cambiamento”. Sulle questioni istituzionali si trattava di dare slancio alla proposta della “grande riforma”, lanciata nel 1979 sulle colonne dell’”Avanti!” da Craxi, che auspicava il passaggio a un modello presidenziale come approdo di una serie di riforme più limitate. L’aspetto che maggiormente interessò i partecipanti fu la “rifondazione” ideologica e culturale del partito, che vide protagonisti il gruppo dirigente del PSI accanto ad “esterni” provenienti dall’area intellettuale. La conferenza era stata preceduta da forti attriti culminati nel 1981 con l’intervento della Commissione centrale di controllo, che aveva proceduto all’espulsione di un gruppo di prestigiosi intellettuali “d’area”, critici sulla conduzione personalistica del partito da parte di Craxi. Al “partito nuovo” di De Mita fece da contrappunto il “nuovo PSI” di Craxi, che doveva abbracciare “un metodo riformista, realistico, razionale e moderno, con concretezza di problemi e con chiarezza di linguaggio”. 2. Il potere di Craxi, 1983-1987 Al centro del sistema politico Il sensibile smacco subito dalla DC nelle elezioni anticipate del giugno 1983 spianò la strada a Craxi, che formò un governo di Pentapartito comprendente anche i segretari del PRI Spadolini e del PSDI Longo e il presidente della DC Forlani. Si registrava, insomma, una maggiore convergenza tra partiti e governo. La duplice clausola di esclusione dall’area di governo tra DC e PCI aveva finito per favorire i partiti intermedi. Negli anni di guida socialista del governo, questo fattore assunse un rilievo crescente per gli equilibri interni alle forze della maggioranza governative. Ogni lieve spostamento percentuale del consenso elettorale produceva un riassestamento del sistema. Dopo le elezioni europee del 1984, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, si era viso, sull’onda emotiva della morte di Berlinguer, il sorpasso del Partito Comunista con il 33,3% nei confronti della DC, ferma al 33%. Queste oscillazioni continuarono anche in occasione delle elezioni amministrative del 1985, che videro la contemporanea avanzata di DC e PSI a scapito del PCI. Alla richiesta di De Mita, che intimava in termini perentori l’uniformità politica delle amministrazioni locali alla composizione del governo nazionale, Craxi replicò con una strategia delle alleanze elastica, che vedeva il PSI in giunta con la DC in quasi tutti i capoluoghi della provincia dove ciò era numericamente possibile e con PCI in molti comuni delle regioni rosse. Il segretario democristiano si prese una parziale rivincita nel giugno del 1985, quando la proposta di candidare alla Presidenza della Repubblica Francesco Cossiga riuscì a coagulare una maggioranza larghissima in Parlamento. In tutti questi casi il sistema di aggregazione verso il centro finiva paradossalmente per produrre una conflittualità esasperata, attraverso la logica del “potere di coalizione”. Nell’ottobre del 1985, in risposta al bombardamento israeliano su Tunisi, un commando palestinese sequestrò la nave da crociera italiana Achille Lauro, uccidendo un anziano cittadino statunitense di religione ebraica. Grazie al ponte diplomatico instauratosi tra l’Italia, l’Egitto e la stessa OLP, i prigionieri furono rilasciati. L’aereo dellEgyptair che trasportava Mohammed Abu Abbas, uno dei capi dell’OLP, e i quattro dirottatori dell’Achille Lauro fu intercettato dall’aviazione statunitense che ne impose l’atterraggio nella base della NATO di Sigonella, in Sicilia. I prigionieri furono presi in consegna dalle autorità italiane. La gestione della crisi di Sigonella aprì crepe nella maggioranza: il PRI uscì dall’esecutivo. Dopo che i rapporti italo- americani vennero ricuciti in margine a una riunione dei paesi più industrializzati, il governo ottenne la fiducia. Craxi pronunciò un discorso sostenendo di non poter censurare il ricorso alla lotta armata dei palestinesi, la cui battaglia poteva essere paragonata a quella di Mazzini durante il Risorgimento. Il mese successivo il gruppo estremistico palestinese di Abu Nidal effettuò un sanguinoso attentato all’aeroporto di Fiumicino contro i banchi della compagnia israeliana El Al e di quella statunitense TWA, uccidendo 13 persone e ferendone 70. Il Presidente degli USA Reagan accusò la Libia di fornire sostegno e protezione al terrorismo palestinese. La crisi esplose nella primavera del 1986, quando l’amministrazione statunitense ordinò un violento bombardamento aereo su Tripoli e Bengasi, come rappresaglia per una serie di attentati compiuti ai danni di obiettivi americani. Il leader libico Muammar Gheddafi fece lasciare due missili verso l’isola di Lampedusa, dove era installata una stazione radio americana, che non raggiunsero l’obiettivo. Gli sviluppi delle vicende evidenziarono la ricerca di un filo conduttore unitario nella politica estera di Craxi in alternativa al neutralismo e all’atlantismo “oltranzista”. A livello “culturale” tale approccio veniva ricondotto alla riscoperta della dimensione nazionale italiana, che nella versione mazziniana- garibaldina della tradizione risorgimentale trovava una “copertura” ideologica. Se le modalità d’intervento misero ancora una volta in luce il decisionismo di Craxi, le motivazioni di fondo rimandavano al sostegno degli interessi specifici italiani in aree cruciali dello scacchiere internazionali, dove il perdurare di condizioni di tensione ed incertezza avrebbero esposto il paese a situazioni di rischio. 3. La competizione al centro e la destabilizzazione del sistema dei partiti, 1987-1989 Il secondo governo Craxi L’insofferenza di una parte della DC nei confronti del “movimentismo” di Craxi mise diverse volte in difficoltà il governo, che a più riprese fu battuto in Parlamento: l’esecutivo fu messo in minoranza in 24 occasioni su 26 sedute; il dato rimandava anche al problematico assestamento nell’equilibrio tra i poteri, messo in discussione dalla perdita di centralità, a favore dell’esecutivo, del Parlamento che faticava ad accettare la compressione di ruolo. Quando il 26 giugno 1986, su un procedimento di finanza locale, il governo fu messo in minoranza per l’ennesima volta dal voto di una settantina di franchi tiratori, Craxi si dimise. Al suo attivo, il leader socialista poteva vantare il record di longevità tra gli esecutivi dell’Italia repubblicana: 1060 giorni. L’appello della governabilità del sistema costituiva una credenziale forte agli occhi dell’opinione pubblica. Nel corso della crisi, la crescente rivalità tra De Mita e Craxi fu ammorbidita con il cosiddetto “patto della staffetta”, che prevedeva il reincarico al segretario socialista secondo un programma di governo della durata di venti mesi, a metà dei quali la guida dell’esecutivo sarebbe passata ad un democristiano. Sul “patto della staffetta” sorsero fin da subito interpretazioni divergenti tra i socialisti, che lo prefiguravano come una semplice disponibilità, e i democristiani, che lo leggevano in forme vincolanti. Il secondo governo Craxi tornava, insomma, al punto dove si era incagliato il precedente esecutivo. Nel paese si andava estendendo la diffusione di giunge “anomale” sostenute da DC e PCI. Agli inizi del 1987 le forza della maggioranza si trovarono nuovamente divise sull’atteggiamento da tenere di fronte ai referendum giudicati ammissibili dalle Corte Costituzionale. L’ipotesi demitiana di offrire respiro strategico al Pentapartito anche per la successiva legislatura fu definitivamente liquidata da Craxi, che il questi termini si sarebbe visto ridurre il potere di condizionamento. Il dibattito sulla fiducia al nuovo governo fu probabilmente la più grande sceneggiata che la vita politico-parlamentare della Repubblica avesse visto ad allora mai vissuto: il Partito Socialista e il Partito Radicale, con intenti polemici, annunciarono il proprio voto favorevole, mentre la DC, come contromisura, decise di astenersi sul governo che essa stessa esprimeva. Le elezioni del 1987 e gli effetti sui partiti La campagna elettorale si svolse in un clima ad alta conflittualità: la DC, che accusava i socialisti di lavorare per l’alternativa di sinistra, e il PSI che rinfacciava ai democristiani di cercare una nuova edizione del compromesso storico. La polemica giovò più al partito di Craxi che riuscì a far emergere le incrinature presenti all’interno della DC. Sul piano strettamente numerico, i risultati delle elezioni del 14 giugno 1987 videro due vincitori, il PSI e la DC, e molti vinti, il PCI e i partiti laici minori. I contraccolpi del voto ebbero un riverbero più sensibile sulle forze di opposizione. Il calo del MSI accelerò il processo di ricambio della leadership interna, con l’elezione alla segreteria di Gianfranco Fini, il delfino del segretario uscente Giorgio Almirante. Più intenso fu lo scossone dentro al PCI, dove Natta favorì l’ascesa alla vicesegretaria di Occhetto, nonostante l’opposizione interna dell’ala “migliorista” che faceva capo a Giorgio Napolitano. Se convinta appariva la volontà di accelerare il corso del rinnovamento anche alla luce dei cambiamenti che stavano intervenendo con Gorbačëv in URSS, più incerta risultava la direzione di marcia tratteggiata. La rapida evoluzione del quadro internazionale rendeva però oltremodo necessario liberare le incertezze residuali. Sul momento il PCI, che, dopo le dimissioni di Natta, trovò nel 1988 in Occhetto la nuova guida, faticò a dare compiutezza al cammino di pieno inserimento nell’orizzonte del socialismo europeo. Da Goria a De Mita L’avanzata socialista servì per fare pesare il veto di Craxi sulla candidatura di De Mita, che dovette rassegnarsi a lasciare la Presidenza del Consiglio al compagno di partito e di corrente Giovanni Goria in attesa che si chiarissero i rapporti tra i due partiti. A nemmeno un anno dall’insediamento, Goria dovette rassegnare le dimissioni aprendo la strada a De Mita secondo un copione che sembrava scontato all’indomani delle elezioni del 1987, ma che ora si materializzava in condizioni diverse. Gli equilibri interni andavano spostandosi verso un inedito asse Craxi-Andreotti Forlani attraverso una serie di lievi ma percepibili smottamenti che minavano l’impalcatura del disegno demitiano. Il tema istituzionale, a cui il leader democristiano attribuiva una certa importanza, fu sacrificato sull’altare della stabilità della maggioranza governativa. Dopo il fallimento della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Aldo Bozzi, De Mita, attraverso il suo “consulente” in materia Roberto Ruffilli, delineò un percorso che mirava a coinvolgere anche il PCI sul tavolo delle riforme istituzionali. L’uccisone ad opera delle BR di Ruffilli, proprio alla vigilia del voto di fiducia del nuovo governo, segnò anche simbolicamente la chiusura di questa prospettiva. Il governo De Mita fu condizionato in misura ancora più sensibile dall’estenuante dialettica precongressuale della DC. Fin da subito si pose la questione della doppia leadership esercitata da De Mita sull’esecutivo e sul partito come ai tempi di Fanfani tra 1958 e 1959. In questo clima si giunse al XVIII congresso, celebratosi a Roma nel febbraio del 1989, che portò alla segreteria del partito proprio Forlani; seguì l’accordo tra questi e Craxi, che ebbe come l’Union Valdôtaine, il Partito Sardo d’Azione, la Südtiroler Volkspartei, si svilupparono formazioni contraddistinte da un’accentuata carica antisistema. Anche in questo caso i motivi di protesta si legavano a contraddizioni di lungo periodo esistenti nel rapporto centro-periferia, riconducibili alle modalità con cui si era realizzata l’unità italiana. In questo periodo era fiorita in alcune aree del paese una voglia di “mettersi in proprio”: nel Veneto la corsa verso il mercato aveva trovato espressione nella costruzione di una fitta rete di piccole e medie imprese. Al riguardo si parlò di “Terza Italia”, distinta da quella del Nord e del Sud, che comprendeva regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna, la Toscana e le Marche, segnate dalla simultanea presenza di “grandi partiti e piccole imprese”. Le leghe regionali si insinuarono lentamente ma inesorabilmente nelle fenditure che si aprivano progressivamente nella rappresentanza politica. Nelle elezioni politiche del 1983 la Liga Veneta ottenne nella regione un significativo 4,2%, portando a casa un senatore e un deputato, a fronte di una DC che scendeva dal 50% al 42,5%. A cogliere un risultato significativo fu la Lega Lombarda, un movimento nato agli inizi degli anni 80 attorno a Umberto Bossi, che riuscì eletto dal Senato, mentre Leoni entrò alla Camera. Alle successive elezioni europee del 1989 il movimento, che si presentò con la nuova denominazione di Lega Lombarda-Alleanza Nord, vide incrementare i voti all’1,8% su scala nazionale. Nel novembre dello stesso anno si costituì ufficialmente l’Alleanza Nord comprendente la Lega Lombarda, la Liga Veneta e altre formazioni a base regionale. Nella tornata amministrativa del 1990 la Lega divenne il secondo partito di Lombardia. La sfida che la Lega lanciava era contro il centralismo romano. I toni via via più corrosivi assunti nei confronti dello stato, di cui si denunciavano l’inefficienza e la corruzione, si contrapponevano all’esaltazione incondizionata dei valori “nordisti” improntati alla laboriosità e all’imprenditorialità. Lo sfondo era imperniato di altri veicoli culturali, come l’opposizione alla Legge Martelli, approvata nel 1990, che prevedeva una sanatoria e la fissazione di nuovi criteri di accesso rispetto all’immigrazione straniera. Il referendum del 1991 Di fronte alla pigrizia dei ceti dirigenti, fu Maro Segni, un esponente della DC figlio dell’ex Presidente della Repubblica, a promuovere il Movimento per la Riforma Elettorale che intendeva aggredire il problema ricorrendo a un referendum abrogativo. Nel 1990 partì la raccolta firme per chiedere la riduzione dell’incidenza del sistema proporzionale nelle elezioni per il Senato e i comuni e l’eliminazione della preferenza multipla in quelle per la Camera. La campagna incontrò l’adesione di strati significativi della “società civile”, che andavano dalla Confindustria all’associazionismo cattolico, mentre i partiti si mostravano incerti ad eccezione del PCI in via di trasformazione di nome e identità. Agli inizi del 1991, la Corte Costituzionale decise l’inammissibilità dei primi due quesiti relativi alla proporzionale, che oggettivamente rivestivano per gli effetti auspicati sul sistema una valenza decisamente più importante rispetto al solo rimasto in piedi inerente alla preferenza unica. Se fosse passato tale referendum, gli elettori, nella scheda per la Camera, avrebbero potuto esprimere una sola preferenza per i candidati proposti nelle liste, secondo un sistema ritenuto da molti in grado di depotenziare il voto di scambio. La DC lasciò ai propri elettori libertà di voto; il PSI invitò gli italiani ad andare al mare; la Lega si pronunciò per la diserzione delle urne. Il 9 giugno 1991 l’affluenza alle urne risultò pari al 62,5% con oltre il 95% di preferenze a favore dell’abrogazione. Al di là della valenza tecnica del quesito, era il suo significato politico ad essere rilevante per la domanda di cambiamento che saliva dai cittadini. La fine del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra Il PCI, dopo il congresso del marzo 1989, fu coinvolto nel vortice dei cambiamenti in atto nell’Europa orientale, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Per segnare il distacco da un mondo che si stava sgretolando, si ricorse ad un’affrettata revisione storica. Di fronte alla caduta del muro di Berlino, il segretario comunista sembrò abbandonare la prudenza. La svolta fu annunciata precipitosamente da Occhetto il 12 novembre del 1989 durante un incontro presso la sezione bolognese della Bolognina, in cui il leader comunista sollecitò il partito a battere strade nuove. Il XIX congresso del PCI, celebrato nel marzo del 1990 a Bologna, vide la mozione di Occhetto raccogliere il 67% dei voti dei delegati, contro quella della sinistra Ingrao-Natta, contraria a cambiare nome e simbolo per abbracciare la tradizione riformista, che si attestò al 30%, mentre quella di Cossutta, decisa a rimanere nell’alveo del comunismo sovietico, non superò il 3%. A ottobre Occhetto presentò la dichiarazione di intenti del Partito Democratico della Sinistra che avrebbe sostituito il Partito Comunista con un nuovo simbolo, che raffigurava una quercia, alla cui base era posto il vecchio emblema con la falce e il martello. A gennaio del 1991 si aprì a Rimini il XX e ultimo congresso del PCI: la maggioranza del partito approvò ufficialmente la nascita del Partito Democratico della Sinistra (PDS). Le resistenze dei partiti al cambiamento Per quanto riguarda il Partito Socialista, il periodo a cavallo del decennio fu trascorso nell’immobile attesa di poter intercettare i voti in uscita dal PCI, per potersi poi ricandidare alla guida del governo da posizioni di forza. L’ultima occasione di recuperare più ampi margini di manovra fu provocata con la crisi del governo Andreotti. Il PSI si fece interprete delle critiche che da più parti salivano verso il programma di corto respiro del Presidente del Consiglio. La verifica si tenne nel marzo del 1991, prendendo spunto dai contrasti insorti tra Andreotti e Cossiga in merito al rimpasto del governo. La difficoltà a trovare soluzioni alternative condusse alla soluzione più scontata: nell’aprile successivo si formò il settimo governo Andreotti, che vide l’uscita dall’esecutivo del Partito Repubblicano. La crisi rappresentò per Craxi l’ultima possibilità di condurre il gioco politico, che dopo non gli ritornò più in mano. Il PSI contribuì a porsi dinanzi all’opinione pubblica come la forza politica più ostile al cambiamento. Anche per la DC il referendum elettorale costituì una significativa cartina al tornasole di una crescente difficoltà ad armonizzarsi con il proprio elettorato cattolico. Nello stesso anno la corrente andreottiana e il “grande centro” presentarono un documento critico contro Rino La Placa, segretario della DC palermitana, provocando la fine del “laboratorio” siciliano di Orlando, che era riuscito a ristabilire un clima di fiducia tra partito ed elettorato. Orlando uscì clamorosamente dalla DC. La polarizzazione interna al mondo cattolico tra unità partitica e pluralismo culturale e politico subì un’ulteriore scossa in occasione della crisi del Golfo e del referendum elettorale. Nel primo caso, la mobilitazione in risposta ai numerosi interventi a favore della pace lanciati da Giovanni Paolo II coinvolse l’intero arcipelago cattolico, su un fronte che andava da Comunione e Liberazione ai gruppi del volontariato. La DC si trovò in forte imbarazzo nel difendere la posizione del governo, richiamandosi all’atlantismo che strideva ancora di più con l’attivismo di segno rovesciato del tessuto ecclesiale. 5. La transizione alla “seconda” Repubblica, 1992-1994 Sotto il peso della corruzione Agli inizi degli anni Novanta i nodi intricati della vita politica italiana dell’ultimo decennio vennero pressoché contemporaneamente al pettine. Da due decenni almeno l’opinione pubblica era scossa da scandali a sfondo politico: nel 1980 il ministro della Marina Mercantile Franco Evengelisti aveva confessato di aver preso soldi dal costruttore Gaetano Caltagirone per finanziare la corrente andreottiana a cui apparteneva e le campagne elettorali del partito. Si creò un clima di “complicità” tra opinione pubblica e magistratura che favorì sensibilmente le indagini. Ad alimentarlo, contribuirono alcuni risvolti clamorosi delle inchieste come lo scandalo che travolse la sanità in seguito agli arresti dell’ex ministro Francesco Di Lorenzo e di Duilio Poggiolini, per anni presidente della Commissione unica dei farmaci, nella cui abitazione furono trovati beni per un valore di oltre trecento miliardi. Fu soprattutto il Partito Socialista a lanciare le critiche più severe nei confronti dei giudici. Furono in particolare alcuni casi tragici collegati alle inchieste, come i suicidi del deputato socialista Moroni e dell’ex presidente dell’ENI Cagliari o la morte per infarto di Bolzano a rinfocolare le polemiche. Cagliari, quando era ancora presidente dell’ENI, fu arrestato nel febbraio 1993 con l’accusa di corruzione. Anche il capitalismo privato entrò nel mirino dei giudici milanesi che misero sotto inchiesta praticamente l’intero estabilishment finanziario ed economico. Fu arrestato Salvatore Ligresti, il principale costruttore milanese, poi indagati i vertici della FIAT, del gruppo Ferruzzi e della Fininvest, compreso il presidente di quest’ultima, Silvio Berlusconi. Il referendum del 1993 Un altro colpo alla credibilità dei partiti venne dagli sviluppi del dibattito sulle riforme istituzionali. All’interno dell’organismo si creò una maggioranza favorevole a introdurre correttivi in senso maggioritario della legge elettorale, salvaguardando una quota del sistema proporzionale. I lavori della commissione si intrecciarono con la campagna referendaria per l’abrogazione del proporzionale al Senato. Segni, che era il leader del Comitato promotore del referendum, annunciò le proprie dimissioni dalla DC. L’esito del voto fu interpretato come il passaggio a un nuovo sistema politico di tipo bipolare, che la legge elettorale maggioritaria avrebbe favorito, semplificando il quadro politico a sfavore dei partiti minori, che sarebbero così stati costretti ad aggregarsi attorno ad un polo di destra e ad uno di sinistra. In molti evocarono nel nuovo “18 aprile” la nascita di una seconda Repubblica. Dopo il referendum, Amato rassegnò le dimissioni: al suo posto Scalfaro incaricò Ciampi. Tra gli obiettivi prioritari su cui lavorò con alacrità l’esecutivo vi fu il rafforzamento dell’azione di risanamento dei conti pubblici. In continuità con il presidente esecutivo, Ciampi proseguì sulla strada del riallineamento con i parametri del Trattato di Maastricht. La riduzione dell’inflazione e il calo dei tassi di interesse permisero il varo di una manovra finanziaria più “leggera” in due tranche da 9.000 e 38.000 miliardi. Le elezioni politiche del 1994 Nel gennaio del 1994 Ciampi si dimise, inducendo Scalfaro allo scioglimento anticipato delle Camere. Iniziò una lunga campagna elettorale con una geografia politica che in due mesi murò come non era mai avvenuto nell’intera parabola repubblicana. Sempre a gennaio, la DC si dissolse: in coincidenza dell’anniversario del giorno nel quale don Luigi Sturzo nel 1919 aveva lanciato l’appello per la fondazione del Partito Popolare Italiano, fu fondato un nuovo soggetto politico che ne raccolse il nome. Alla guida del partito fu eletto Mino Martinazzoli. Il PPI nacque con una “vocazione centrista”. In contrasto con questa ipotesi, un gruppo di esponenti guidati da Pierferdinando Casini, Francesco D’Onofrio e Clemente Mastella dette vita al Centro Cristiano Democratico (CCD), che si rese disponibile per un’alleanza a destra. Nello stesso giorno in cui nascevano PPI e CCD, Gianfranco Fini presentò il progetto di Alleanza Nazionale, a cui aderirono il MSI. Contemporaneamente Fausto Bertinotti fu eletto alla segreteria di Rifondazione Comunista. Anche la Lega cercò di adeguarsi alle trasformazioni in corso. Nel maggio nel 1992, in singolare coincidenza con l’avvio dell’inchiesta su “Mani pulite”, Bossi aveva proclamato la “repubblica del Nord”, invitando i militanti alla lotta per sostenere una costituzione federalista. Con l’estendersi della “rivoluzione” di “Mani pulite”, il senatur avviò una faticosa revisione degli indirizzi politici e ideologici leghisti, che lo spingeva a presentare la Lega come partito nazionale. La novità più rilevante fu costituita dall’”ingresso in campo” di Berlusconi in politica con la nuova formazione di Forza Italia. Il nucleo ideologico di Forza Italia si fondò quasi esclusivamente su un documento, elaborato dal politologo Giuliano Urbani, dal titolo Alla ricerca del Buongoverno. Appello per la costruzione di un’Italia vincente, che si riallacciava alla tradizione liberale di stampo europeo. Più che sui contenuti, fu sui sentimenti che Berlusconi giocò gran parte delle proprie possibilità di successo, presentandosi agli elettori con un messaggio che evocava “un nuovo miracolo italiano”. A sinistra fu costruita l’alleanza progressista con PDS, PRC, Verdi, Rete, Alleanza Democratica, Cristiano Sociali e quanto rimaneva del PSI riformato da Ottaviano Del Turco, uomo proveniente dal sindacato. Al centro si registrò la convergenza tra PPI, PRI e Patto Segni. A destra si formò una duplice alleanza con il Polo della Libertà, che si presentava al Nord co Forza Italia, la Lega e la Lista Panella. Dopo la più televisiva campagna elettorale a cui si era assistito nella storia della Repubblica, culminata nel sospirato confronto all’”americana” tra Occhetto e Berlusconi, i due poli di centro- destra incassarono una vittoria netta alla Camera (366 deputati su 630). Forza Italia risultò il primo partito con il 21%, seguito dal PDS con il 20,3% AN con il 13,5% e il PPI con l’11,1%. Gli osservatori furono attirati soprattutto dalla vittoria di Forza Italia, che parve ai più inaspettata. Berlusconi riuscì nel primo “miracolo” italiano di usare Forza Italia come collante dei due cartelli elettorali di destra, candidandosi alla guida di un governo dove potevano convivere l’anima “stalinista” di AN con il nuovo volto liberista ed efficientismo della Lega. V CAPITOLO: ANNI DI ACCELERAZIONE 1. La rivoluzione femminile Una nuova autocoscienza Gli anni Settanta non furono soltanto anni di piombo. La principale rivoluzione positiva riguardò il ruolo delle donne nella società. Ancora nei primi anni Sessanta i giornali femminili trattavano del desiderio delle donne di avere figli, prendevano come modello attrici come Audrey Hepburn che nonostante il successo non rinunciava alla maternità. Non era previsto che una donna compisse scelte autonome e che potesse pensare alla propria realizzazione al di fuori di una struttura familiare; anche chi aveva lavorato in gioventù, una volta coniugata e con figli abbandonava il lavoro fuori casa. In realtà mutamenti erano in atto già da anni. Nelle grandi città, le donne avevano avuto l’opportunità di trovare un lavoro anche fuori casa, mentre le ragazze più giovani, in una condizione economica generale più florida, avevano potuto proseguire gli studi. L’attenzione che veniva poi rivolta al mondo americano, dove le donne da decenni avevano assunto un ruolo importante nella produzione e nella società, provocarono significativi cambiamenti anche nei costumi delle italiane. Già negli anni Cinquanta avevano cominciato ad affermarsi nel nostro paese i grandi stilisti che cercavano di creare un’immagine di donna lontana da quella della casalinga. Dopo il baby boom della prima metà degli anni Sessanta, con l’eccezionale aumento della natalità fino al record del 19,7 per mille nel 1964, si verificò una discesa della natalità italiana, fino all’11 per mille del 1981. Nel giro di sette anni, dal 1971 al 1978, il tasso di natalità nazionale di contrasse dunque del 25% circa, colpendo anzitutto le regioni a indice più basso. L’universo femminile cominciava lentamente a cambiare e cominciava a farsi strada la ricerca di forme diverse in cui vivere e costruire il rapporto fra i due sessi, si contestavano i moduli familiari dei genitori, si rifiutava ogni forma di autorità, e si assumevano atteggiamenti di libertà individuale e sessuale fino ad
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