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IL 500- Emile passignant Storia della critica d'arte nel Cinquecento, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Gli appunti del primo capitolo del corso di Storia della critica d'arte, incentrato sulla figura di Leon Battista Alberti e l'evoluzione degli scritti d'arte dall'antica Grecia. Si analizzano le fonti di questa storia dell'arte, tra cui Vitruvio e Plinio, e si approfondiscono i dibattiti artistici e le figure di scrittori e critici d'arte. In particolare, si esamina il pensiero di Platone e Aristotele sulla techne e l'arte figurativa, e si studia l'opera di Vitruvio De Architectura e la sua visione dell'architettura come interfaccia tra saperi meccanici e mentali.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 24/09/2023

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Scarica IL 500- Emile passignant Storia della critica d'arte nel Cinquecento e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! STORIA DELLA CRITICA D’ARTE. Appunti IL CINQUECENTO- EMILE PASSIGNANT. CAPITOLO 1 Gli scritti di Leon Battista Alberti costituiscono una parte fondamentale dell’evoluzione dell’artista, così come ebbero un impatto fondamentale gli scritti di Plinio il Vecchio e Vitruvio. Elemento fondamentale di questa materia sono gli scritti d’arte, che iniziano ad evolversi dall’antica Grecia. Vitruvio e Plinio sono le fonti di questa storia dell’arte. Tra le tecne l’architettura è la prima che viene messa per iscritto, considerata differente rispetto alle altre arti. Già nel VI secolo a.C. l’architetto del tempio di Era, Teodoro di Samo, racconta il suo progetto e nel V secolo a.C. l’architetto del Partenone scrive il “Memoriale”. Dall’architettura si evolve il contesto della scenografia, il regno dell’illusionismo, generando problemi di carattere concettuale precedenti alla speculazione. Democrito e Anassagora sono due filosofi che discutono sulla polemica della scenografica, soglia della speculazione di portata metafisica. Il pensiero platonico ha una visione della realtà come ombra di qualcosa di trascendente identificato con le idee Archetipi. Per rompere questa dimensione l’uomo deve attuare un procedimento, un ritorno alle origini attraverso un esercizio filosofico he lo riporta al principio delle cose. Se la realtà è già la copia di qualcosa, l’arte è una pallida imitazione. Per Platone l’arte è imitazione. Platone ha come bersaglio polemico i sofisti che dubitano di ogni cosa. L’arte figurativa è paragonata la sofismo (imita la realtà). Techne, si auto profila la pittura, dibattito sul livello di realtà che una produzione fittizia può raggiungere. Ipoteca negativa mitigata da Aristotele che modificherà la concezione epistemologica del platonismo. Aristotelismo ribalta la visione negativa e polarizzata della realtà. Mondo sublunare, atto di imitazione cerca di imitare il mondo perfetto. Colui che esercita una techne riconosce una sophia, ognuno fa il proprio mestiere. Quando l’arte esce dalle botteghe si generano delle modifiche a livello sociale. Dal III- al IV secolo a.C. si genera il dibattito artistico. Da questo momento nascono le figure moderne di scrittori e critici d’arte. La scultura del Doriforo di Policleto diventa un manifesto, opera canonica Canone di Policleto. Pittura. Panfilo comincia a scrivere Biografie di artisti, inizia ad esserci una tradizione che può essere storicizzata. Duride di Samo, politico e letterato, scrive un trattato sulla pittura. III secolo nasce la figura di un tecnico specializzato, produce delle opere che sono autonome, con una soggettività. Nasce la figura del critico d’arte, che base il suo linguaggio sulla retorica e oratoria portando il loro lessico al nuovo sapere. Iniziano a scrivere anche coloro che non sono artisti, portando alla nascita di una polemica durata fino al 700, su chi potesse scrivere. Nel I secolo a.C. nell’impero romano Pasitele scrive una Storia dell’Arte per scuole e ambiti geografici. L’arte romana crea un suo filone. Gli autori fondamentali sono Plinio e Vitruvio. VITRUVIO. Considerato come ingegnere, vive tra l’84 e il 33 a.C. e partecipa alle campagne di Cesare. Egli scrisse 10 libri “De Architectura” dedicata a Ottaviano, rivolto a un pubblico di committenti. Ogni libro possiede una prefazione in cui riassume quello che dirà. 1. Formazione dell’architetto, uomo completo e trattazione urbanistica. 2. Nascita dell’architettura, funzionalista sui materiali. 3. E 4 edifici sacri e ordini architettonici 5. edifici pubblici, foro, basilica e teatri. 6. e 7 edifici privati. 8. mirabilia. 9. elementi astronomici e astrologici. 10. meccanica. Vitruvio ha una sua visione precisa sull’architettura. Fabrica, sapere tecnico e Rationatio, sapere mentale. L’edifico è l’interfaccia dei saperi meccanici, tra le proporzioni del corpo e del cosmo, come Dio è architetto. Si evolve l’aspetto di catalogazione e distinzione delle parti. Si espande il concetto di Firmitas, solidità e venustas, bellezza. L’edificio deve essere solido, utile e bello. Ci deve essere corrispondenza fra le parti (Simmetria) e Decor, la forma dell’edificio deve essere corrispondente alla sua funzione. L’edificio deve contenere le dimensioni di un uomo che può essere inserito in un cerchio o quadrato.  Leonardo, uomo vitruviano. Questa visione si estende nella cosmologia cristiana per cui, nel medioevo, vi è una schematizzazione della struttura del cosmo, l’uomo vitruviano viene considerato come Cristo. La fortuna di Vitruvio aumenta solo nel medioevo e un riferimento per architetti rinascimentali. Già dall’opera di Vitruvio si capisce la completezza delle conoscenze che dovevano essere dell’architetto.  Geometria, deve conoscere le forme con cui lavora.  Matematica: l’edificio deve stare in piedi, e per questo devono essre fatti dei calcoli.  Anatomia e medicina: proporzioni umane, illuminazione, arieggiamento e salubrità.  Ottica e acustica: teatri.  Legge: norme per la costruzione.  Teologia: templi graditi alle divinità.  Astronomia: per i luoghi di culto. Per Filostrato è importante l’estetica, l’opera d’arte si smaterializza, l’arte si può limitare all’invenzione, concepita nella mente. Alle fine del 500 tale ideologia si rafforza. Nella sua Ekprhasis Filostrato descrive come primo quadro un episodio tratto dall’Iliade, illustrando un passo letterario, la Battaglia tra Achei e troiani, in cui entrano in scena dei schierati da entrambe le parti. Raffigurazione di Efesto che irrompe sulla scena affianco agli Achei, prende di mira la personificazione di Troia. “Fuoco che incendia l’acqua” Immagine letteraria. Retore circondato da giovani li chiede di dare un’occhiata al dipinto e poi di distogliere lo sguardo per avere più vivida la fonte letteraria facendo a meno della materialità dei dipinti. Origine concettuale della raffigurazione. Prologo: chi non ama la pittura si dimostra ingiusto verso la verità e verso la sapienza dei poeti in quanto è uguale il contributo delle due arti. Per la prima volta vengono equiparate pittura, letteraria e sapienza. Scamandro, prima descrizione, capire cosa il quadro significa, distogliere lo sguardo dal dipintpo per collegarsi ad un passo letterario. Il quadro ci parla di Efesto sullo Scamandro (fiume). L’origine letteraria ci spinge nuovamente a guardare il quadro. Nel caso in cui il quadro sia solo una finzione viene simulata anche la scena dalla lettura del testo omerico. Riconoscimento della fonte letteraria. La tradizione ekprhastica ha grande importanza nell’Impero bizantino nelle scuole di retorica. Nel pensiero del periodo la pittura è sempre stata superiore alla scultura, in quanto la pittura può imitare tutto, anche cose che non esistono. Platone distingue tra: imitazione fantastica e icastica, Platone condanna l’arte intesa come mimesia, copia della copia. Sia in Platone che in Seneca si ritrova il pensiero di Cicerone, modifica in maniera sostanziale la concezione della filosofia platonica. L’oratore, come l’artista, quando imita lo fa secondo l’idea, ha in mente un modello astratto che poi porta a una completezza materica, ma prima nella sua testa vi è la concezione intellettuale dell’opera. Apollonio di Tiana: scrive due passi. Uno si svolge in India, affascinato dall’induismo, lui e Domis, nella reggia di un Sovrano, dove ci sono dei rilievi dove ammirano delle opere d’arte che poi si trovano i commentari. L’arte figurativa non ha bisogno di qualcosa di materiale poiché l’arte può essere anche solo un’idea, anche solo immaginaria. Il secondo trattato è ambientato in Egitto. Filostrato, in una delle sue opere ha un dialogo con Apollonio per cui le divinità egizie vengono raffigurate senza decoro, come animali e non come dei, prendendo gioco della divinità. Per Epistotele l’immaginazione ha ancora più valore dell’imitazione in quanto la prima procede impavida lontana dalla paura del vedere le cose per imitarle. Gli egiziani rappresentano le loro divinità in base all’immaginazione apparendo ancora più venerabili. Despesione: ha in se un’estetica di carattere tardo-antico, La divinità non si può raffigurare in frome antropomorfe, impossibilità della raffigurazione. Romanzo Greco: nasce in epoca ellenistica, genere di consumo. Gli autori greci creano il “mise en abyme”, espressione usata per indicare un espediente narratologico che prevede la reduplicazione di una sequenza di eventi o la collocazione di una sequenza esemplare. Achille Tazio nella sua opera narra di Leucippe e Clitofante, sono sull’isola di Pharos e stanno per essere separati dall’ennesima avventura. Prima di questa separazione il segno premonitore di Zeus, vede in un tempio dipinto con il carro a lui sacro. Simbolo di uno strupro, esposizione del dramma. Stupro di Tero e Filomena, violentata e tagliata la lingua per non raccontare lo stupro. Filomena denuncia lo stupro perché ricama una plepo in cui raffigura la violenza. Alla fine la sorella, scoprendo lo stupro uccide il figlio e lo presenta a tavola al marito. Nell’Eneide Virgilio imita Omero, quando Enea va a Cartagine piange di fronte ai dipinti che raffigurano la guerra di Troia. Narratio Obliqua: Narrazione al futuro. Questo stile narrativo viene poi ripreso nell’Orlando furioso. Ekprahis che al tempio di Carlo Magno. Una delle eroine entra in un palazzo dove vede delle pitture realizzate dal mago Mariano, che prefigurano le guerre d’Italia del 1530. La Dinastia d’Este ha un ruolo importante in quanto Bradamante e Ruggero sono i progenitori della dinastia. Pausania scrive una periegesi della Grecia, l’opera ha una grandissima fortuna, opera influenzata sotto la filosofia di Marco Aurelio. L’opera ha fortuna nell’impero bizantino. Ha come modello la storiografia di Erodoto, con la differenza che quest’ultimo aveva storie all’infuori della Grecia, descrivendo a beneficio dei greci. Descrive con intento antiquario, in un ottica volta a raccontare tradizioni e miti legati alle opere. M,per le fonti letterarie, ma anche artistiche ci si concentra sui secoli dal V-IV- III. Filippo Baldinucci, unico storiografo e teorico italiano del 600 ad apprezzare i generi minori, dalle “bambocciate” dei personaggi in contesti di degrado. Si torna ad Aristotele o Plutarco, scrittore greco. Aristotele sostiene che quando assistiamo a un fatto tragico, assistiamo a un processo che significa catarsi, purificazione. Quando si vedono elementi tragici si subiscono cambiamenti. La grandezza di un artista e di un letterato non sta nell’oggetto. Se il letterato lo esalta in maniera efficace l’oggetto assuma una nuova nobiltà. Questa riflessione apre  l’Estetica del brutto. Plutarco ammette che anche le cose che provocano disturbo, se ben raffigurate sono comunque ammissibili. Omero parla di Perside, guerriero brutto che va contro i capi. L’impatto del Cristianesimo sulla cultura pagana, basata sull’immagine pittorica sempre più scenografica. Civiltà visionamene vivace su cui piomba il medioevo, influenzata dalla religione. 10 comandamenti legati a non produrre immagini sia della realtà che della divinità. L’iconografia condiziona i primi secoli del cristianesimo. C’è la necessità del cristianesimo di conquistare una dignità tramite una fusione di aspetti platonici legati a una follia dell’immagine. Platonismo  Rifiuto della materialità per la riproduzione di un mondo effimero. Sviluppo critico della religione. 600 Roma, distruttore di idoli pagani. Lettera al vescovo Severo di Marsiglia che aveva distrutto nella sua diocesi le immagini sacre. Iconoclastia occidentale, nella lettera afferma di aver fatto male a distruggere le immagini in quanto fondamentali per gli analfabeti. Nella Lettera di Gregorio Magno nasce la contrapposizione con il III secolo, in cui le immagini venivano studiate per gli intellettuali, mentre nel 600 per gli analfabeti. 787 Concilio di Nicea. Segna la fine della controversia iconoclasta. Nel frattempo, in estremo oriente nel VII secolo esplode la disputa iconoclasta. Leone III distrugge le immagini di Cristo dal Palazzo di Costantinopoli e esplode il conflitto tra iconoclasti e iconduli. Costatino V crea una formula iconoclasta  chi raffigura Cristo non crede nella sua doppia natura perché se ci credesse non lo raffigurerebbe, chi lo fa crede solo nella sua natura umana. Per il teologo siriano Giovanni Damasco, le immagini non devono essere distrutte. Per lui il primo artista è stato Dio stesso con l’uomo e con Cristo. Da questa visione si sviluppa la. Pensiero di pseudo Dionigi Areopagita, seguace della filosofia neoplatonica. Come Plotino, sosteneva una gerarchia di esteri. Di cui l’uno è il principio di tutto, ma non può essere raffigurato concepito dalla mente umana con l’intelletto. L’anima e gli intermediario nel dualismo tra cielo e terra. Google. Pseudo Dionigi areopagita. Tirando in ballo un personaggio del passato, riprende l’Inconoscibile ita dell’uno, sostanza divina che si propaga attraverso la luce nella materia. Si evolve, da qui la teologia dell’icona copia di un prototipo che ha in sé un legame gerarchico dell’essenza divina per cui l’icona viene venerata. Gli atti di nicea vengono inviati al Papa e poi a Carlo Magno, nei dotti carolini. I libri carolini sono la risposta polemica agli atti di Nicea. La reliquia e lo sviluppo teorico della letteratura. Nel XII secolo Bernardo di Chiaravalle denigra in maniera aspra lo stile romanico, che si stava avvicinando a quello gotico. Riteneva che la decorazione capricciosa fosse sviante per gli uomini di chiesa che dovevano dedicarsi solo allo studio. Nel 1125, in una epistola alla famiglia dei Bisona, poetica dell’ars di Orazio, poesia e pittura sono sullo stesso piano “Formosa deformitas” o “deforma formitas”. Bernardo di Chiaravalle, accettazione delle immagini per gli analfabeti, ma non per gli uomini della chiesa. Importante per questo contesto è l’abate Sauger. Abbazia di S’ Denis le reliquie di Dionigi, considerato come colui che aveva convertito al cristianesimo la Gallia ed era stato martirizzato insieme ad altri due. Nell’abazia era conservata anche l’orifiamma, stendardo con cui i francesi si recavano in guerra. Sauger inventa lo stile gotico. Da un’abazia romanica, che dava l’impressione di essere piccola, buia e squallida, modifica l’assetto alzando le mura dell’abazia. 1123 Concilio Vaticano di Roma- ispirazione per le basiliche di Roma. 1144 consacrazione di S.Denis. Nella miniatura su Invenzione di Petrarca si ripetono le immagini della mnemotecnica, i personaggi sono le personificazionI delle tre opere. Pastore, per le bucoliche e contadino per le georgiche. Il personaggio dietro Il paravento è Servio, commentatore tardo antico di Virgilio. Come maestro spirituale Petrarca viene immedesimato in Virgilio, raffigurato semi-sdraiato, ispirato dal laureato, come vengono raffigurati gli evangelisti nell’arte cristiana. Inserito in una dimensione di fama eterna. I poeti dal 400 in poi verranno utilizzati per elogiare gli artisti topos. DISTICI DI PETRARCA: se Mantova deve essere orgogliosa di aver dato a Virgilio i natali, ancor di più deve essere Siena per aver avuto come figlio Simone Martini. Avviene qui un paragone tra un pittore contemporaneo e un poeta dell’antichità. Nella miniatura Petrarca viene paragonato a Virgilio, avendo fama eterna. E allo stesso tempo, nei suoi testi, Petrarca raffigura Simone Martini a livello artistico di Virgilio. La forma di Simone Martini deve. La sua nascita è una situazione fittizia, in quanto Petrarca descrive il pittore come colui che è andato nei cieli a raffigurare l’aura. Avviene un riferimento platonico, in quanto Simone Martini va in cielo per ritrarre la bellezza e allo stesso tempo un riferimento cristologico, in quanto il ritratto viene come una punizione perché l’assenza si rende più forte. Condanna che rende inutile l’arte. BOCCACCIO. inizia un vero discorso sull’arte figurativa. DECAMERONE. Novella in cui gli artisti vengono paragonati alle arti figurative. Boccaccio celebra le donne e gli artisti. Nella stessa giornata che si con Conclude con i matti Conclude con i matti di spirito Giotto delle ha presentato insieme ad altri 2 personaggi. Forese da Ravatta e Giotto si conoscono. Entrambi vengono riempite da una pioggia rientrando a casa e si rifugiano da un contadino che rida 2 mantelli per coprirsi. Nel viaggio forese da dei tu a Giotto mentre quest'ultimo continua a dare del voi punto in 2 essi prendono in giro per il loro sì, giotto si messe allo stesso livello dell’amico è dava un giudizio positivo alle donne è ruolo dell'artista. Nella comparazione tra i letterati artisti boccaccio opera un tema profondità anche sulle donne in quanto fino a quel momento erano viste come inutili per la società donne artisti avevano lo stesso bisogno di rivalsa. Questo simboleggia un processo di Trasformazione In atto. È importante la figura di Figlio Villani, scrive un testo in cui parla di uomini illustri di Firenze, suddivisi in poeti, artisti, medici, pittori. Tra i pittori viene elogiato Giotto e suoi allievi. Stefano Fiorentino: aderenza al reale. Taddeo: sviluppo architettura Maso di Bianco: talento cromatico. Cennino Cennini. È importante la sua vita che lo Che lo porta a Padova alla morte di Giotto tra le sue opere è importante il ricettario. Questa opera ha un carattere pretenzioso una promessa importante è passi in cui vediamo depositata un'estetica elaborata. Il mio ricettario è completo di tecniche pittoriche delinea un estetica che tende a contestualizzare il sapere Pratico Importante per creare una cifra stilistica o seguire una maniera. Iniziano ad essere create squadre che sanno Rappresentare una maniera specifica Giotto est del primo a mettere delle differenze in una cifra stilistica. Inizia svilupparsi l’importanza del disegno considerato la quintessenza dell’arte idea che dopo vasari Crescerà. Con l'arte del disegno s'intende sottolineare l'aspetto della mentalità importante con giotto per una componente più astratta. A Padova cennino con il suo libro del arte Arrivò ad affermazioni pittoresche. Ogni rt una coscienza tra le più importanti la pittura ha bisogno di fantasia e novità. CAP 2. Come alcuno vengono all’arte per piacere altri si avvicinano per guadagno. L’intelletto si designa solo nel disegno fondamento di una nuova estetica, peculiare della scuola Toscana, canonizzato da Vasari. A Firenze nasce l’accademia del disegno. Distinzione fra ingegnum (poesia) e ars (perfezionamento tecnico). Cap 22; Per Cennino prima, bisogna imparare dagli altri, alla natura non i arriva subito. La natura è il banco di prova e ai arriva tramite la mediazione di esempi. Bisogna scegliere una maniera o stile personale. In queste parole si percepisce l’eco dei dibattiti padovani tra Boccaccio e Petrarca che si chiedevano se si dovessero imitare una serie di maestri o solo uno; canone unico o canone misto. Petrarca affermava che a furia di imitare i maestri si sarebbe trovata la propria strada. Cap28 dopo aver trovato la propria maniera attraverso il processo di assimilazione di un pittore xi arriva all’assimilazione della natura. La vita vuole essere sempre ordinata, disciplina. Le arti per avere una loro disciplina perdono la loro autonomia. Nell'800 si arriva all’unità delle arti: arti congeneri. L’ARTISTA DIVINO. Gli artisti godettero sempre di certi privilegi e furono collocati all’apice della struttura gerarchica dei mestieri. Ma la vera forza consisteva nella vocazione mimetica delle loro opere d’arte a rimettere in questione il confine tra finzione e realtà. Nel Rinascimento, il concetto del miracolo legato al culto dell’arte, prerogativa del culto delle icone, subì una traslazione, associato non solo al contenuto, ma anche al suo creatore. L’opera viene considerata un miracolo che conferisce all’artista un’aura divina perché autore di un miracolo. Un esempio sul tema dell’icona è quello che riguarda il Parmigianino; mentre i lanzichenecchi stanno saccheggiando Roma nel 1527 il Parmigianino ha salva la vita poiché a lavoro sulla “Visione di San Gerolamo”, legato alla dimensione miracolosa dell’opera, con allusione all’intercessione protettiva della Vergine. L’artista è aiutato dal proprio talento. Giorgio Vasari attinge al resoconto Pliniano su Protogene durante l’assedio di Rodi, risparmiato e difeso dal nemico, Demetrio I re di Macedonia, secondo Plinio, distrazione che ha causato il fallimento della presa dell’isola. L’episodio romano si carica per Vasari di un messaggio di superiorità dell’arte nei confronti della guerra e della libertà dell’artista di fronte al potere. Per quanto riguarda la cultura un aneddoto vasariano è riferito al Bacco di Jacopo Sansovino. Sull’atteggiamento del modello dice che durante la realizzazione dell’opera il garzone abbandona la condizione umana fino a perdere il senno: immobile e muto è assorbito da tale condizione che desidera tramutarsi a sua volta in statua. Come se lo scultore, da vero e proprio stregone, avesse posto in essere una sorta di scambio, risucchiando l’energia vitale del giovane per infonderla nel suo Bacco, ormai “simile alla carne”. L’atto di creazione del Perseo di Benvenuto Cellini viene descritta: la fusione dell’opera, compromessa dai collaboratori, ma tratta in salvo in extremis dall’artefice è assimilata a una vera e propria risurrezione. Riferimento al mito di Prometeo con la presenza della saetta che infiamma il forno, recando spavento agli astanti e alludendo al fuoco celeste che da vita a tutto. Attraverso queste righe Cellini si prospetta come nuovo Prometeo. Il “topos” della resurrezione di un’opera d’arte è significativo delle facoltà acquisite dall’artista. Paradigma di ciò fu il David di Michelangelo scolpito in un marmo “morto”. Questo genere di episodi illustra le conseguenze delle riflessioni elaborate dall’Accademia neoplatonica fiorentina in merito all’atto creativo e alla dimensione divina del poeta e dello scrittore, provocando una revisione della nozione d’arte. Si indagò la figura dell’artefice che assunse sempre più spessore, mentre si verificò con un certo ritardo nel contesto lavorativo. Si formò una nuova coscienza dell’essere artista. Alcune osservazioni lasciate da Leonardo da Vinci attestano un’evoluzione di una figura che da artifex stava mutando in alter deus, analogia formatasi tra dio-artista e artista- creatore, avrebbe avuto delle conseguenze in campo teorico sull’evoluzione delle nozioni di disegno, di immaginazione e di Idea. Di Leonardo è noto il passo in cui definisce la pittura come “legittima figlia della natura”. E’ direttamente la figura del pittore a rivestirsi di un’aurea divina. Così Leonardo schizza un’immagine dell’artista demiurgo definito “signore e creatore” di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo. Al pittore appartiene uno sguardo privilegiato sul mondo e l’immenso potere di ricreare il tutto tramite il pennello. Egli tocca la questione dell’oggetto della pittura riconoscendo all’artista la facoltà di restituire ciò che è già nell’universo. Fu nella stessa ottica che Erasmo da Rotterdam, per dimostrare la superiorità di Durer su Apelle, fornì un elenco di tutti quegli elementi o quegli stati d’animo tradotti con successo dal bulino del tedesco: dal fuoco alle differenti sensazioni, dai suoni fin quasi alla voce umana. La posizione di Pomponio Gaurico presenta simili ambizioni intellettualizzanti per quanto riguarda lo scultore, ma senza attribuirli una natura divina. Integrando in parte la concezione platonica sull’arte e appoggiandosi su autorità quali Quintiliano e Orazio, egli considera lo scultore alla pari del poeta e dell’oratore, capace di immaginare e di riprodurre un’infinità di situazioni, tutte però avendo come soggetto principale la rappresentazione dell’uomo; all’immaginazione e alla creazione dell’artista, egli pone anche il vincolo della realtà, criticando quell’usanza di rappresentare fantasiose figure. Per Francisco Holanda, la questione della divinità era un tassello primordiale della figura dell’artista ideale. Il termine divino come con due accezioni diverse. Nelle vite di Michelangelo, solo nel caso di Michelangelo Buonarroti e di Raffaelo Sanzio “divino” diventa epiteto: per il primo, l’autore precisa fin dal proemio che “ben possiamo certo affermare che è non errano punto coloro che lo chiamano divino”. L’uso di questo epiteto diventa uno dei più chiari segnali dell’attuazione di un vero e proprio culto dell’artista. L’accademia del disegno, secondo gli statui del 1563, era nata come una ristretta cerchia, elite di artisti sotto la protezione del duca, un comitato di consulenza artistica in posizione superiore rispetto alla Compagnia, l’Accademia permetteva di acquisire un titolo di nobiltà culturale. In questo contesto era comunque presente una certe tensione causata dalla coabitazione di diverse specializzazioni, soprattutto tra pittori e scultori. E’ nota la disputa sul primato delle arti. Dai carteggi tra il duca di Firenze, i suoi segretari e Vincenzo Borghini, si evince che le elezioni di nuovi membri erano soggette a contestazioni e che il luogotenente, figura super partes la quale doveva “mantenere con più governo” l’Accademia, non sempre era in grado di placare le discussioni. Borghini chiese dopo appena un anno di essere sostituito. L’Accademia del disegno era un’Accademia del fare. Il luogotenente invitava gli artisti a non avventurarsi in un campo a loro non consono, come quello delle conversazioni e delle dispute, caratteristiche delle accademie umanistiche, a non prendersi per dei veri accademici e a concentrarsi sulla realizzazione delle opere. L’importanza del fare era un’idea basilare di stampo aristotelico. Ciò era chiaro al Duca che scriveva, “fare con le opere non con le parole”. In un passo della vita del Cellini riemergono queste riflessioni, insieme al problema della distinzione delle competenze tra erudito e artista. Tra gli altri equivoci dei primi anni dell’Accademia del Disegno bisogna sottolineare come malgrado la creazione di un nuovo magistrato, i membri della Compagnia fossero tenuti a pagare la tassa per le vecchie corporazioni. In seguito a una petizione Cosimo I li liberò da tale vincolo nel 1571. Con il distacco dell’architettura, la scultura e la pittura delle gilde dove erano affiancate da discipline connesse, l’Accademia promosse tra le arti del disegno, ma contribuì a formare una nuova gerarchia del sistema delle arti. Molte attività vennero lasciate in secondo piano come “arti minori”. Vediamo il caso genovese tra pittori e doratori del 1590 in cui Giovanni Battista Paggi illustra la gerarchizzazione delle arti e la diffusione del modello fiorentino. Con un “accademia del fare” si formava una concezione di accademia fondata sulla politica culturale di Cosimo I, formando una nuova generazione di artisti in grado di far prosperare le arti nella Firenze medicea. Diventava fondamentale la trasmissione dei saperi tramite un nuovo tipo di insegnamento, bisognava accorciare i tempi di insegnamento rispetto ai metodi che venivano tramandati nelle botteghe, ma tale scopo non trovò applicazione. Pochi anni prima Federico Zuccari aveva proposto un programma di studio lasciato senza seguito. Spostatosi a Roma i suoi sforzi si concentrarono sulla fondazione di un’accademia privata all’interno della propria dimora. La vecchia universitas dei pittori e miniatori era già trasformata in Accademia. Il suo intento di rifondare l’istituzione ebbe come portavoce Romano Alberti, che esaltò l’operato di Zuccari introducendo una dimensione più intellettualizzante. L’accademia, posta sotto la protezione del pontefice era tenuta a mantenersi a debita distanza da alcuni sviluppi teorici. Intanto l’istituzione romana era diventata n breve tempo il massimo punto di riferimento italiano ed europeo, tanto sul piano teorico, quanto per l’organizzazione della didattica, un modello al quale si adeguarono per primi i Carracci per la creazione della loro accademia bolognese. In queste prime accademie d’arte, rispetto a una maturata collegialità sembravano prevalere gli interessi personali nonché il problema di stabilire le nuove metodologie da adottare e facendo passare in secondo piano lo scopo primario della componente pedagogica a favore della causa sociale. A frenare l’intesa tra gli accademici, dovette contribuire la questione dell’insanabilità dell’arte reputata da molti un dono del cielo. Per Paolo Lomazzo lo studio si rivela vano per chi non è “nato pittore”, ma resta indispensabile per il “furioso naturale”, poiché la forza dello studio permette di canalizzare al meglio la “furia naturale”. Mantenere lo stato d’eccellenza raggiunto era la principale preoccupazione e motivazione dei fondatori delle accademie. Da tempo si avvertiva il dovere per i grandi maestri di trasmettere le proprie conoscenze. L’ARTISTA, LA MALINCONIA E IL CAPRICCIO. Opposto all’accademia, che promuove un’immagine dell’artista inserito a corte o in società, era la figura dell’artista isolato ed eccentrico, comparsa durante il rinascimento, spesso in difficoltà con se stesso e gli altri. Nonostante Leonardo raccomandasse di designare in compagnia, la questione della solitudine sembrava lasciarlo combattuto. La ricerca di momenti di raccoglimento individuale era una condizione propizia allo studio e alla creazione, alla “speculazione de l’arte”. Il pittore era abbastanza giudizioso per non compromettere con un isolamento eccessivo la propria vita sociale. Il giusto compromesso tra l’isolamento e l’emarginazione. Per Baccio Bandinelli la malinconia era un vano pretesto per raggiungere egoisticamente la fama, in un contesto di continua conflittualità e concorrenza, accusando Michelangelo. Michelangelo definiva il suo isolamento come “malinconia” e ponendolo sotto il segno di pazzia. Per i sintomi della malinconia e il suo rapporto con la follia non si può fare a meno di ricorrere alle osservazioni di Torquato Tasso, il poeta malinconico per eccellenza che dovette subirne i peggiori tormenti. Fu il primo a darne una descrizione nitida, su una rilettura della tradizione classica del “furor poetico” e del suo contributo nell’Accademia platonica fiorentina, con un approccio simile a una autoanalisi psicanalitica. Questo spiega quando l’effetto dell’“infermità di pazzia” o del “divino furore” appaiono simili inducendo una alienazione della mente, la malinconia, la quale tiene distratta la mente con pensieri, visioni, un continuo flusso di immagini astratte. Da prerogativa dei poeti venne considerata anche appannaggio degli artisti. E molti di loro furono giudicati pazzi dall’opinione pubblica. Negli stessi anni sulla malinconia si espresse Romano Alberti riadattando all’arte della pittura questo contributo, sulla questione dell’atto creativo. Ma contrariamente a Tasso, il quale disturbato dai fantasmi dell’immaginazione giocava sulla confusione tra reale e finzione, Alberti riuscì a formulare una visione della malinconia ancorata ancora al mondo reale: restrinse il campo degli oggetti della pittura a “ciascheduna cosa che si possi vedere”, eliminando il ruolo dell’immaginazione, discostandosi in questo modo dal concetto di furor poetico platonico. Non è più l’immaginazione, ma lo sforzo di memoria a occupare la mente del pittore intento a imitare la natura. Allacciando la malinconia alle immagini reali e allo studio della natura, reinterpretava l’umor malinconico in chiave cristiana e allontanava il rischio di perdere di vista la realtà durante la follia creatrice. La malinconia fu anche molto forzata o ironicamente coinvolta in problemi di altro genere. E’ il caso della lettera del segretario del duca di Ferrara, a prescindere dallo stato d’animo che poteva caratterizzare il genio raffaellesco. Pare evidente che qui la malinconia diventi una scusante a giustificazione di un Raffaello indaffarato in Vaticano e incurante dei richiami di Alfonso d’Este. Per i committenti l’artista (Michelangelo) era da tempo considerato poco affidabile e intrattabile. Vittima della malinconia fu anche Federico Barocci, la cui lentezza fece disperare i suoi committenti. La malinconia divenne sinonimo di irrisolutezza, soprattutto per i teorici come Vasari. La galleria dei ritratti letterari che forniscono le Vite vasariane ha il compito di elaborare una norma comportamentale in reazione all’ondata d’umor malinconico allora in costante espansione. Il modello michelangiolesco venne ridimensionato nella seconda edizione per incoraggiare il modello di artista accademico. Imprevedibilità ed esuberanze vennero registrate sotto forma di ritratti grotteschi e caricaturali eretti a contro modelli. E’ il caso del Sodoma, condannabile sia per la sua dissolutezza sia per vivere in una dimora piena di animali. In entrambi i casi la derisione pubblica agli occhi di un Vasari strenuo difensore della nobiltà d’arte doveva essere la peggior disgrazia che potesse colpire un artista. Quel modello di artista, nell’ombra di follia, suscitava troppi problemi comportamentali incoraggiando un’ideale di artista indipendente. Raffaello apparve come la figura ideale, diventando il primo rappresentante dell’altro ideale d’0artista, ossia un gentiluomo virtuoso, socievole e dinamico. Alla fine del 500 Giovan Battista Armenini condannava l’umor malinconico. Nascita di dibattiti. L’ARTISTA E IL LAVORO. Al di la dei miti, l’artista del 500 non poteva svincolarsi dalla realtà quotidiana del suo lavoro, impegnato a giostrarsi tra i rapporti con i suoi committenti e le questioni di ordine pratico. Nella ricerca di incarichi di lavoro era importante la rete di conoscenza fra artisti. Resta simbolica la richiesta d’aiuto di Sebastiano del Piombo all’amico Michelangelo, agognando i cantieri dei Palazzi Vaticani. Interessante la lettera di Lorenzo Lotto in cui si raccomandano al Consorzio della Misericordia di Bergamo due scultori: Jacopo Sansovino e Bartolomeo Ammanati. Tale missiva attesta il mutuo soccorso tra artisti, evidenziando quanto il nome di Michelangelo fungesse da garante. In questo genere di documenti emergono anche ritratti che mostrano il carattere degli artisti, come si verifica nella lettera di Paolo Giovio a Vasari: qui ritroviamo l’immagine del pittore aretino all’inizio della sua carriera, avido di successo e pronto ai servigi del richiedente, ingegnoso e estremamente rapido:  I rapporti con i committenti erano complessi. L’artista doveva mostrarsi diplomatico se intendeva ambire a lavori prestigiosi. CAP 2. SCRIVERE D’ARTE NEL 500. Le nuove forme di trasmissione e di ricezione delle informazioni e delle idee si sviluppano nel 500, portando a una gerarchizzazione dei generi letterari. Soffermandoci sulle problematiche del rapporto tra arte e scrittura, arte e stampa: CHI SCRIVE D’ARTE. La rigida compartimentazione dei saperi e delle discipline costituì la radice di un dilemma: decidere se fosse lecito per il letterato trattare di una materia, l’arte, di cui non possedeva l’esperienza della pratica e consentire all’artista di esprimersi utilizzando dei segni grafici, le lettere, non attinenti alla propria disciplina. La protesta di Leonardo è indicativa della resistenza incontrata dal maestro di fronte alla comunità scientifica, della quale egli criticò la metodologia investigativa, teorica e basata sullo studio dei testi. A ciò egli oppose il suo pioneristico approccio empirico. Per Leonardo è chiaro che il procedimento di nobilitazione dell’arte doveva implicare anche l’elaborazione di un’articolata teoria, necessitando di conseguenza il ricorso alla scrittura. La lunga tradizione di bottega, in cui prevaleva la trasmissione teorica orale, non rimetteva in causa la facoltà di poter associare la pratica al pensiero, ma il fare e lo scrivere risultavano spesso due azioni al limite dell’incompatibilità. Benvenuto Cellini si impegnò a esaltare il “bel fare” a scapito del “ben dire”, non avendo dubbio che dovessero essere gli artisti a scrivere della loro arte. Di rado si possono leggere osservazioni come quelle di Francesco Albertini, che pur essendo un antiquario e uno studioso appassionato di arte, ben si guardò dal fare un giudizio scritto sulle stesse opere d’arte, riconoscendone di non esserne all’altezza. Anton Francesco Dori, avanza una scusa, nel pubblicare il suo Disegno del 1549, testimonia una disputa in corso tra artisti e letterati, avvertita dall’ambiente fiorentino, sulla legittimità per questi ultimi di esprimersi sulle arti. Il Doni assicurava di essersi informato presso i massimi esperti in materia, quasi che fosse indispensabile un avallo per poter parlare d’arte e avanzare le proprie ipotesi. Nel suo Dialogo, Ludovico Dolce tende a legittimare dimostrava quanto la pittura stesse diventando un tema degno di essere trattato anche dai letterati, capace di giovare al perfetto gentiluomo. Una pittura intesa come dilettevole argomento di conversazione, i protagonisti del Dialogo di Dolce sono due uomini di lettere. La necessità di produrre un discorso sulle arti per un pubblico crescente di lettori appare in evidenza in campo architettonico, come attesta Alvise Cornaro. Quest’ultimo, mecenate impegnato a Firenze, si discosta dai studi vitruviani per fare opera di divulgazione con un trattato rivolto a un pubblico di architetti dilettanti. Molti artisti e letterati si misero a scrivere d’arte, importante alle fine del secolo sono le opere di Lomazzo: Trattato e L’Idea del tempio della pittura, in cui non mancavano capitoli dedicati a “gli scrittori d’arte”. Permetteva all’autore di rivendicare un ruolo pioneristico, in campo teorico, dell’ambiente lombardo. Preziose sono le sue indicazioni sulla produzione di scritti e disegni a mano, che mettono l’accento sulla relazione di complementarità tra testo e immagine nella trattatistica artistica. Il pittore Paolo Pino aveva adottato un approccio più letterario utilizzando la forma dialogica. Più adatta alla sua polemica contro l’eccesso di scientismo nota che Leon Battista Alberti fece un trattato di pittura in lingua latina, contenente molta matematica. Ma agli occhi di Lomazzo, i dialoghi di stampo cortigiano e le dispute accademiche lasciavano troppo spazio alle figure esterne e non pratiche d’arte. Dietro alla questione relativa agli scrittori d’arte stava emergendo la discussione sul COME scrivere d’arte. Nell’elenco di Lomazzo si avverte una gerarchia tra i due canali di diffusione dei testi elencati. In un primo momento egli tratta della produzione manoscritta con una mappatura di raggio poco più che regionale, sottolineando il fenomeno di dispersione che colpisce questa letteratura e rammaricandosi del fatto che gli scritti leonardeschi non si trovano in stampa. L’accesso alla stampa comportava una selezione, per l’editore necessaria per garantire la stabilità dell’azienda. La chiesa stabilì presto il suo controllo imponendo agli editori la necessità di ottenere il suo “imprimatur”, provvedimenti di carattere censorio, divampati dopo le tesi luterane. Da ricordare sono le edizioni della “Libraria” di Anton Francesco Doni. accanto ai libri stampati egli cataloga gli scritti di una letteratura non ufficiale, realizzata da scrittori di ogni condizione e rango sociale, costruendo una propria libreria e distinguendo dai libri utili e pericolosi. Nell’ambito degli obiettivi del programma educativo fissato dalla Compagnia di Gesù, occorre sottolineare quanto l’utilità dei volumi vasariani venisse a mancare. Relativamente al grande interesse dei principi nei confronti della stampa, vale la pena ricordare che le concessioni di privilegi e di licenze a scopo tutelare subirono, a partire dal 1547, una notevole mutazione in seguito alla stipula del contratto tra Cosimo I de Medici e Lorenzo Torrentino, al quale fu conferito il peculiare statuto sulla dissidenza politica, il duca di Firenze intese conferire alla stampa un ruolo chiave all’interno del meccanismo di propaganda medicea. E’ in questo frangente che videro la luce le Vite vasariane. L’impresa di Vasari fu condotta nella spinosa questione della lingua, egli contribuì alla diffusione del volgare, imponendo il primato toscano in campo artistico. Non è causale l’inserimento nella Giuntina della letteratura dell’umanista fiammingo Domenico Lampsonio, il quale dichiara di aver imparato l’italiano leggendo le Vite. Vasari venne elogiato nella rassegna del Lomazzo. Sottolineiamo che le qualità e le competenze di Vasari furono riconosciute ben presto, in particolare da Pietro Aretino, una figura paterina per il giovane pittore. Vasari fu inserito all’interno dell’importante rete di relazioni del letterato, resa nota con Il primo libro delle lettere stampato nel 1538. Qui Vasari compare quale destinatario di due missive. Per l’Aretino queste pagine rappresentarono l’occasione per sottolineare le doti scrittorie del giovane esaltando come un vero e proprio maestro dell’Ekphasis, capace di porre sotto gli occhi del lettore luoghi, persone e opere. QUESTIONI DI GENERE. COME SCRIVERE D’ARTE? I TRATTATI D’ARTE: LUNGHI STUDI E GRANDI PROGETTI. Paolo Pino e Lomazzo mettono in contrapposizione i trattati monologici e quelli dialogici: i primi criticati per trasmettere una teorica troppo scientifica e tecnica, i secondi tassati per una teorizzazione troppo letteraria. Il più importante progetto d’inizio Cinquecento resta quello di Leonardo. Nella rassegna bibliografica di Lomazzo spiccano gli scritti leonardeschi. Testimonianza del genio rinascimentale, risultano un grave caso di dispersione dell opere scritte. Alcuni appunti di sintesi con la compilazione di codici provvisori e miscellanei. Il lascito leonardesco ebbe una travagliata fortuna. Uno dei più famosi tentativi di rielaborazione, avviato sotto la guida di Leonardo, è il Libro di Pittura, un codice del fondo Urbinate della Biblioteca Vaticana, forse già completo negli anni 1540 da Francesco Melzi, collaboratore di Leonardo. Deceduto il Melzi nel 1570 ebbe inizio la storia della dispersione dei manoscritti. Riuscire a fornire una sintesi che rendesse conto dei lunghi studi compiuti fu anche una delle preoccupazioni di Albrecht Durer. Arricchito dall’esperienza italiana, dopo il 1507 si era lanciato in un’opera di teorizzazione della pittura, come ci indicano alcune informazioni dell’abbozzo di un trattato. Segno di una nuova coscienza della figura del pittore, un posto di prim’ordine spettava alla questione della formazione del giovane pittore costruita sui severi precetti morali. La scelta ricadde su un approccio incentrato su argomenti specialistici, in primis la matematica. Così nel 1525 uscì il suo primo volume di geometrica euclidea che intendeva illustrare i metodi di misurazione sottomettendo la costruzione delle differenti figure, una preoccupazione rinascimentale, a saldi principi matematici. Seguì nel 1528 un volume sulle proporzioni del corpo stampato post mortem. Probabilmente Michelangelo non apprezzava le parole del tedesco in quanto da tali istruzioni si ottenevano delle figure ritte come pali. A tal proposito il Condivi svela al suo lettore il progetto michelangiolesco di un trattato incentrato sull’anatomia e il movimento. Il maestro mostrò sempre una riluttanza nei confronti di una trasmissione scritta del proprio sapere. Francisco de Holanda decise di farne un personaggio dei suoi Dialoghi romani, con l’intento di trasmettere il pensiero del grande artista approfittando della forma dialogica del testo. Pare evidente un’ingerenza dell’autore il quale all’occorrenza, inserisce le proprie idee e le personali ambizioni. Anche Vasari aveva pensato a dei Dialoghi romani, incoraggiato dall’esito della Torrentiniana, iniziò a stendere un dialogo dopo aver compiuto il giro delle sette chiese assieme a Michelangelo durante l’anno giubilare del 1550. Il progetto, composto di sette ragionamenti culminati con la Fabbrica di San Pietro, non fu mai concretizzato. Un altro tentativo di elaborazione di una teoria affiliata ai precetti michelangioleschi si deve a Vincenzo Danti, incentrata allo studio delle opere del maestro fiorentino. Gli aspetti di questa impresa sono l’ampiezza del progetto editoriale e della materia studiata: l’anatomia e il movimento del corpo umano, in linea con l’impulso dato da Leonardo, Durer e Michelangelo. La forma prescelta era quella monologico insistendo sullo stretto rapporto tra testo e immagine. Per Ghiberti è necessario che l’artista sia ammaestrato nelle arti liberali, geometrica, grammatica, astronomia, aritmetica, teoria e disegno. Ghiberti, nella realizzazione delle formelle, medita sul suo artista preferito, Ambrogio Lorenzetti, prospettico sviluppa consapevolmente la lezione giottesca. Lorenzetti è un’interprete datore di Ekphasis, come nel Vasari, diceva di Raffaello. Le capacità compositive di Ambrogio sono facilmente trasformabili in Ekphasis. Nei Commentari la storia era restituita dall’autore in chiave personale. Pare che Vasari non avesse ancora scelto il titolo del suo libro e fu proprio Giovio a suggerirgli “Le vite degli eccellenti artefici”. Le intenzioni di Vasari sono esposte nel Proemio della seconda parte delle Vite, nel quale presenta il suo approccio metodologico stabilendo la biografia quale genere storico a tutti gli effetti, considerando la storia come specchio della vita umana. Gli stessi poemi evidenziano il valore diacronico e progressivo della struttura tripartita dell’opera. Era nata la prima storia dell’arte. Fu un monumento agli artisti, clamoroso per la scelta di voler conferire agli artisti toscani il primato. Il successo delle Vite si deve anche ad uno stile non troppo ricercato. Dopo le Vite si avviò ad altri cantieri di scrittura, tra cui un dialogo con Michelangelo seguendo il filone ecfrastico di Filostrato, un dialogo descrittivo ed esegetico sul ciclo decorativo eseguito in palazzo Vecchio. Alle nuove biografie di chi morto egli aggiunse le “vite dei vivi”. L’operazione poneva problemi attorno alla figura di Michelangelo, costituendone il punto culminante del percorso. L’unico artista vivente della Torrentiniana si spende nel 1564 e la nuova edizione stampata nel 1568 si fece testimone di una revisione in corso del mito michelangiolesco sia dei rapidi e notevoli mutamenti del contesto politico e spirituale dell’epoca. Alcune aggiunte furono sostanziali. Il biografo non solo conferì una dimensione più italiana all’opera, oltre i confini toscani, ma si interessò anche ai territori al di fuori della penisola, Francia e Fiandre, espansione dell’impero culturale di Cosimo I. Fu l’orientamento metodologico di base a esserne rettificato, Vincenzo Borghini, con il quale si era rafforzata l’amicizia e la collaborazione era tutt’altro che favorevole a considerare gli artisti come degli uomini illustri e, in vista di ridurre l’assetto biografico d’insieme tentò di far emergere con più forza la componente storiografica e topografica dell’opera. Assimilò le indicazioni del Borghini. Borghini spronava Vasari a compiere nuovi studi per documentare con più precisione le opere o ancora le scoperte tecniche, come la questione dell’invenzione della pittura a olio. Borghini fu il curatore delle tavole e in questa seconda versione furono così ampliate da essere segnalate fin dal titolo dell’opera. Con un approccio globale alle arti, essa combinava storia, teoria, topografia, biografie ampi spunti sulle tecniche e i materiali, offrendo angolature e percorsi di lettura multipli. Vasari racconta come alcuni amici fiamminghi gli avessero chiesto di completare le Vite con dei trattati illustri. Non si dipartì dalla funzione storiografica dell’impresa, il cui scopo non era quello d’insegnare la pratica d’arte, bensì la storia dell’arte. Le Vite fu un monumento unico nel suo genere e non mancarono di li a poco le reazioni. Guglielmo della Porta, rivale di Michelangelo elaborò un tentativo di risposta rimasto allo stato di progetto. Raffaello Borghini con “Il Riposo” privilegiò la forma dialogica, monologhi ricchi di biografie di artisti. Si dovette aspettare lo Schilderboek di Karel Van Mander stampato nel 1604, per avere un’opera paragonabile alle Vite, andando a colmare le lacune fiamminghe e tedesche, per quanto riguarda le Vite sono importanti le annotazioni lasciate in margine ai testi, presenti nella Giuntina. Le risposte presero anche la forma di biografie o autobiografie autonome. Nota è la Vita di Michelangelo scritta da Ascanio Condivi con l’intento di fornire una sua versione dei fatti in opposizione alla biografia vasariana. La più celebre autobiografia del 500 fu scritta da Benvenuto Cellini. Interessanti le riflessioni iniziali che dimostrano ambizioni diverse dai diari e memorie. Il fine ultimo doveva coincidere con la “cognizione del vero e l’uso per la felicità” attraverso il racconto delle gesta altrui in quanto modelli da seguire e imitare. Nel caso di Cellini prevale l’autoreferenzialità e la pratica del mestiere. CAPITOLO 3. TEORIE E MODELLI. DEFINIZIONI E DISPUTE. IL SISTEMA DELLE ARTI E ALTRI FONDAMENTI TEORICI. Durante il medioevo le arti erano definite a seconda del loro valore e della loro collocazione all’interno del sistema di classificazione delle varie discipline, distinguendo le attività intellettuali, non finalizzate al guadagno, da quelle manuali o legate all’attività fisica. La concezione del sapere che risultava inquadrata in un sistema filosofico rigido basato sulla divisione in sette parti, ossia le arti liberali, secondo la formula del trivium e quadrivium, proposta da Boezio e sancita da Isidoro di Siviglia, venne ripensata e discussa dagli umanisti del Rinascimento. Al centro del dibattito vi erano i casi del diritto e della medicina, grandi vittime di quella scissione tra mente e copro. Anche la pittura, la scultura e l’architettura, a causa del loro carattere più pratico che teorico, facevano parte delle arti meccaniche e non conveniente all’uomo libero e nobile. Se del resto l’architettura era già considerata quale un’arte liberale, la volontà di nobilitare le altre discipline venne ribadita per la prima volta da Leon Battista Alberti. All’alba del 500 la questione era ancora lontana dal risolversi. Il testo di Luca Pacioli è esemplificativo della messa in discussione della tradizionale classificazione delle arti liberali, in particolare del quadrivium. Il veneto Jacopo de Barbari poneva la pittura in un’inedita ottava posizione tra le arti liberali, promuovendola al rango più alto dello schema gerarchico, dopo l’astronomia. La sua testimonianza porta all’aspirazione di un riconoscimento sociale, sia perché contribuì a diffondere tale problematica. Nel riflettere sulla collocazione delle arti visive, ognuno venne guidato dai propri personali interessi; per il matematico toscano, la pittura risultava una sotto disciplina delle proporzioni, quest’ultima promossa a nuova branca del sapere. Anche negli scritti di Leonardo ritroviamo la volontà di esprimere un proprio giudizio a riguardo del posizionamento e del valore della pittura. Egli intendeva dimostrare quanto la pittura fosse da considerare come una scienza, un “discorso mentale”. Proclamava la necessità di ricorrere all’esperienza, madre di ogni certezza, anticipando la nascita delle scienze sperimentali. Ciò serviva a promuovere la fase di studio della pittura e a evidenziarne una dimensione intellettuale. Interrogarsi sui procedimenti di trasposizione del mondo visivo implicava uno studio approfondito della percezione visiva e della genesi delle forme, rintracciandone la costruzione matematica e i teoremi fondamentali, i quali dovevano essere messi alla prova dalla realtà osservata. Restava da definire l’arte in sé, ossia le diverse parti e il suo fine. Paolo Pino preferì imbastire la sua definizione a livello ontologico, in funzione delle tre cause primitive dell’essere (Dio, natura, uomo), spostando l’attenzione sul valore dell’oggetto realizzato: egli poneva la pittura in cima alla gerarchai delle realizzazioni umane. Lodovico Dolce evoca la nozione di mimesis, la quale permetteva di accomunare la pittura e la poesia. Nella forma epistolare Varchi decise di dar voce agli artisti. Fu anche l’occasione di far circolare a stampa due scritti michelangioleschi, un sonetto e una lettera, dando forma scritta al pensiero teorico del maestro. Stava iniziando un processo di mitizzazione del maestro nella Firenze di Cosimo de Medici. Il modello epistolare metteva in evidenza una rete di relazioni selezionata, rivelatrice degli schieramenti e del clima fiorentino. Il parere di Baccio Bandinelli, escluso dallo scambio epistolare, venne fatto comunque sentire tramite Doni, scegliendolo come personaggio difensore della scultura all’interno del dialogo il Disegno. Il dibattito si riaccese a Firenze nel 1564, alla morte di Michelangelo. Anche Vincenzo Borghini trattò l’argomento. La questione del paragone ebbe una lunga fortuna, discussa nel dettaglio anche nelle Vite vasariane. Tornò alla ribalta, all’inizio del secolo successivo, grazie al contributo originale di Galileo, in aiuto all’amico pittore Ludovico Cigoli, in lotta contro i fautori della scultura. Galileo rispose di non mettersi nella faccenda lasciando parlare chi non professava tali arti. All’alba del Novecento, Edmond Claris volle ripetere l’indagine di Varchi ottenendo lo stesso genere di risposta da parte di Monet il quale affermava che tali questioni dovevano essere lasciate a chi scriveva per mestiere. EVOLUZIONE DEGLI ASPETTI TEORICI. IL DISEGNO TRA SEGNO GRAFICO E OPERAZIONE MENTALE. Il dibattito sul paragone stimolò la teorizzazione delle arti per la loro ridefinizione alla luce dei nuovi obiettivi e delle nuove sfide che si stavano presentando. La nozione di disegno fu uno dei cardini fondamentali attorno a cui ruotò tutta la discussione, permettendo di riunire sotto un’unica bandiera quelle arti che prima erano separate dal sistema corporativo. Ritenuto come fondamento di entrambe, il disegno richiamava all’idea delle arti sorelle la pittura e la scultura, poste sullo stesso gradino. Petrarca aveva già fornito un contributo nell’impostare il dibattito intorno alla pittura e alla scultura, da lui considerate artes cognatae, riconoscendo il disegno quale fonte delle arti. Baldassarre Castiglione fece circolare tale opinione. Nel Proemio di tutta l’opera Vasari sancì che la pittura e la scultura sono sorelle, date dal disegno. Disegno come origine universale di tutte le arti. Benvenuto Cellini difese anche il primato del bozzetto. All’origine del disegno universale vi era Dio, il primo creatore. Il disegno è definito come la componente elementare generatrice e costituente della forma di tutte le cose create, all’origine anche della bellezza esteriore. Federico Zuccari, cinquant’anni dopo, a conclusione del suo trattato, paragonava il nome di Dio, a Di,segn,o. Una versione laica è quella di Lomazzo. Si rifece alla nozione di euritmia, madre della grazie e del diletto. L’essenza astratta del disegno, che per alcuni autori andava a sovrapporsi con quella di Idea, specialmente in Vasari, acquisendo spessore intellettuale. Più pragmatico è Alessandro Allori, limitò la sua definizione del disegno alla semplice linea di contorno. Un riferimento all’aneddoto pliniano dell’origine della pittura è la gara tra Protogene e Apelle nel tracciare la linea più sottile. Dal momento che in natura la linea non esiste in quanto tale, la sottigliezza della linea, o dei lineamenti nella terminologia leonardesca, serviva a cancellare la dimensione materica del disegno per meglio costruire l’illusione ottica della realtà. In un processo di intellettualizzazione del disegno, emergeva una tensione tra l’astrazione del concetto e la manualità dell’azione, con il rischio di svalutare la dimensione pratica dell’arte, ovvero l’aspetto esecutivo. Per colmare una tale discrepanza, alcuni tentarono di innalzare la pratica del disegno al rango di esercizio mentale, reputando nobile l’esercitazione della mano. Giovan Battista Armenini riuscì a ribaltare la problematica, esaltando il valore del lavoro manuale che doveva servire a tenere sveglia la mente e la memoria, imitazione su scala umana del gesto divino. Anche per le misurazioni egli aborriva il ricorso agli strumenti, mettendo in dubbio il sistema di codificazione delle proporzioni. Solo attraverso il disegno a mano libera, il gesto poteva mantenere la sua spontaneità e promanare direttamente dal cervello, rendendo la mano una pura estensione della mente. A Roma, a fine del secolo, All’accademia di San Luca, Federico Zuccari non riuscì a stimolare un vero e proprio dibattito teorico. Egli avrebbe poi sviluppato la distinzione tra disegno interno e disegno esterno nei primi capitoli di: “L’idea de Pittori, scultori e architetti”, costruendo le basi della sua teoria artistica, imponendo il termine “disegno” inteso come trait d’union tra intelletto e manualità. IL COLORE E LA LUCE. Specialmente nell’ambiente fiorentino il colore fu giudicato come la terza e ultima parte dell’arte. Nell’ambito del paragone con la poesia, il colore era associato all’elocuzione, la terza parte della poesia, come qualcosa di necessario alla conclusione dei lavori. Le osservazioni di Vasari in merito alla Cappella Sistina sono importanti perchè permettono di illustrare quel dibattito in corso tra disegno e varietà di tinte e ombre di colori. Vasari, sempre nel nome del disegno, criticava quel Raffaello. Nei trattati di Benvenuto Cellini, l’attenzione rivolta al colore resta marginale, tranne nella sezione dedicata alla smaltatura, equiparata alla pittura. Per l’autore una delle principali ragioni dell’inferiorità della pittura sulla scultura è da attribuire al colore e considera l’eccellenza di Michelangelo proprio per il livello ottenuto in scultura. Il tema della vaghezza dei colori ingannatori o quello del volgo incapace di riconoscere la buona pittura sono delle costanti che si riscontrano negli appunti di Leonardo e in Ludovico Dolce, prendendo la distanza dallo sfarzo dei colori preziosi. Ludovico Dolce ricorda l’aneddoto del giudizio di papa Sisto IV in merito alle pitture della Cappella Sistina, rivelatosi poco intendente d’arte per aver apprezzato più la preziosità dei colori che la maestranza dei pittori. Oltre al valore degli ori e degli azzurri, venne non di meno discusso l’impiego del colore puro: “i colori che sono anco belli nelle scatole a se stessi”, rendendo merito al fabbricante di pigmenti. La formulazione della teoria del colore fu penalizzata sia da questi pregiudizi sia dal primato del disegno. Il pensiero leonardesco superò tutti questi ragionamenti, assegnando un posto di primaria importanza al colore con un’inedita attenzione al fenomeno delle ombre. Interessato qual era allo studio della percezione visiva, fu ben conscio di quanto la luce fosse essenziale per far emergere i volumi e il rilievo. L’attenta osservazione della natura lo aveva portato a indagare la variabilità del colore in funzione delle ombre. Colore e luce erano per Leonardo dei fenomeni interdipendenti. Fondamentale lo sviluppo che diede al pensiero dell’Alberti sulla questione del chiaroscuro o dello “sfumato”, quale sapiente combinazione di luce e ombre che egli applicò in particolare ai lineamenti: pratica che conduceva alla dissoluzione del disegno. Sulle orme di Alberti, Vasari puntò l’attenzione sul concetto di amicizia dei colori, subordinando la variazione del colore locale alla nozione di “unione nella pittura”, alla ricerca di una “discordanza accordatissima”. In contrasto con questo approccio e con l’intento di imporre il colore quale peculiarità della scuola veneta Paolo Pino e Ludovico Dolce furono autori di decisive descrizioni al riguardo della pittura tonale. Se Dolce sottolineò il connubio tra disegno e colore nelle opere di Tiziano, Vasari volle realizzare il primato del disegno. Nella contesa fra i difensori del disegno e quelli del colore è interessante notare come tutti sostenessero la necessità di entrambi. L’approccio simbolico del colore ereditato dai secoli precedenti trovò in Lomazzo una sua originale formulazione. Lomazzo separa il colore dalla luce, rifacendosi alla sua definizione aristotelica in quanto proprietà intrinseca della superficie dell’oggetto. Quale testimone del clima controriformistico, il colore diventa un vettore emotivo, con una valenza astrologica ispirata alle associazioni di Agrippa tra i colori e i pianeti. L’ESPRESSIONE DEL MOVIMENTO DELLE PASSIONI. Tra le preoccupazioni più ricorrenti della teoria cinquecentesca vi fu la sfida dell’arrecare alle figure l’illusione della vita, restituendo l’impressione del movimento. E’ a questo aspetto che deve essere ricondotta la figura serpentinata che Lomazzo enunciò come una formula magica, ritenendola il segreto della pittura. Il precetto risultava modificato in confronto al pensiero del maestro fiorentino. Si trattava di un modello di postura e proporzioni adatto a imprimere la “furia della figura”, considerato la combinazione di bellezza ideale e di grazia. Ma se da un lato l’imitazione del moto ondulatorio della fiamma poteva generare degli accessi di virtuosismo anatomico o delle pose contorte contro i quali già Leon Battista Alberti aveva messo in guardia il pittore, dall’altro il ricorso troppo frequente a tale modello era contrario al principio della varietà delle espressioni. Le approfondite indagini anatomiche condotte da Leonardo sulla meccanica del corpo umano costituiscono un lascito per il problema della rappresentazione del movimento. In parallelo allo studio della “teoria dell’espressione delle passioni”, definiti affetti o moti dell’anima, conobbe nel corso del 500 uno straordinario sviluppo, avvalorando l’idea che i movimenti esterni del corpo, compresi i muscoli facciali, fossero causati dai movimenti della mente. Ludovico Dolce si concentrò sui moti disinteressandosi alla loro applicazione teorico-artistica, mentre nei trattati di Lomazzo il modo divenne una delle cinque parti fondamentali della pittura. L’ARTE E LA NATURA: QUESTIONE DELL’IMITAZIONE. Che l’arte fosse a imitazione della natura era uno dei capisaldi più longevi, legato alla nozione di mimesis. in corso sul diritto del ritratto, animati dalle problematiche sociali e morali che riguardavano il diritto alla biografia. L’argomento fu centrale anche per Francisco de Holanda nel suo trattato “Do tirar polo natural”. Ebbero impatto le osservazioni di Pietro Aretino a difesa di una ritrattistica elitaria. A emulazione di Erasmo da Rotterdam, uomo di lettere più effigiato del suo tempo. E’ proprio perché conscio del potere dell’immagine, volendo imporre la propria autorità, Tolomei s’interrogava dello statuto divino del pittore e della pittura, conferendo al suo ritratto, poiché catalizzatore delle virtù, superiore al modello effigiato, un ruolo di saggio ammonimento. Le parole dell’erudito senese già contenevano in sé quelle preoccupazioni legate al farsi ritrarre che si trasformarono in rimprovero quattro decenni più tardi nel Discorso di Gabriele Paleotti. Per il cardinale, questa categoria di ritratto era da considerarsi manifesto di peccato di vanità. Il discorso attorno al ritratto proseguì anche in seno alle corti europee: in Inghilterra il ritrattista della regina Elisabetta, Nicholas Hilliard, scrisse il primo contributo britannico sulle arti: “A treatise concerning the Arte of Limning”, mentre nella Praga di Rodolfo II fece parlare di se Arcimboldo con i suoi ritratti capricciosi scombinando l’equilibrio precario tra natura e invenzione. L’EMERGENZA DEI NUOVI GENERI. Nella gerarchia dei generi, per molto tempo il primato della figura umana relegò a un ruolo di secondo piano sia la pittura di paesaggio che la natura morta. E’ nel corso del 500 che si devono rintracciare le prime avvisaglie di tali tipologie di pittura in quanto generi autonomi. L’importanza del paesaggio è già evidente negli scritti di Leonardo quando egli critica Botticelli. Sia la pittura di paesaggio che quella di natura morta assumono un ruolo non trascurabile in quanto criteri valutativi per distinguere le differenti scuole pittoriche: così si disprezzava la pittura dei fiamminghi, a causa di quella loro tendenza a voler insistere troppo sulla rappresentazione degli oggetti o del paesaggio stesso, invece di confrontarsi con la storia e con l’invenzione. Paolo Pino, sicuro al contrario della difficoltà di simili raffigurazioni, spostava l’attenzione sulla differenza dei paesaggi, senz’altro attratto dal fascino di quelli nordici per la loro “selvatichezza”, ma anche difensore delle bellezze italiane e di quelle delle terre venete. Il paesaggio sarebbe diventato la prerogativa dei pittori veneziani. Pietro Aretino contribuì a rafforzare quest’idea, descrivendo a Tiziano una veduta del Canal Grande in un giorno di regata: Ekphasis di un paesaggio storico, primo inno alla natura, paesaggio, pittura e colore. La natura morta era relegata ai margini dell’opera, associata alla nozione di parergon. L’origine antica di questo tipo di pittura è rilevabile nell’innovativa nomenclatura dei generi iconografici elaborata da Lomazzo, in cui le composizioni di frutti, foglie e fiori rientravano nella categoria dei trofei indicati come “trofei satirici e allegri”, appartenendo al registro dei grandi cicli decorativi. IL BELL, LA GRAZIA, LA SPREZZATURA. Le riflessioni cinquecentesche sull’idea del bello ruotarono intorno alla teoria dell’electio, rifacendosi alla classica definizione aristotelica di armonia delle forme fondata sull’ordine e le proporzioni, ricordata ad esempio da Armenini. La questione della bellezza fu per lo più dibattuta in ambito accademico assieme alla tematica dell’amore, intendendo indagate la componente fisica del corpo umano. Molte furono le ripercussioni in ambito artistico, come nel caso della nozione di grazia. La grazia è qui intesa quale bellezza interiore, la “bellezza d’animo” visibile dagli effetti indotti sull’atteggiamento di un individuo, piacente anche in assenza di una bellezza fisica. Contrariamente alla bellezza corporale, riconosciuta invariabile, dogmatica e ottenuta tramite misurazioni e regole matematiche, la grazia era difficilmente rappresentabile. Delle due bellezze, platonica e aristotelica, Varchi stimò superiore la prima alla seconda perché di origine divina. Anche per Vincenzo Danti la grazia non ha “fermezza di luogo”. A difesa della sua teoria delle proporzioni doveva obbedire ai precetti aristotelici ed essere riconducibile alla materia. Così, solo da una bellezza delle parti interiori si sarebbe originata la bellezza dell’animo. Tutte queste considerazioni da un lato, aprirono la strada a un’interpretazione più arbitraria delle proporzioni delle figure, lasciando maggiore libertà d’invenzione all’artista, volto a respingere ogni eccesso di regola, nel tentativo di ricerca della perfezione. Si tratta della licensa degli artisti della maniera. Dall’altro lato il discorso sulla grazia fu decisivo financo a livello del processo creativo e della bellezza complessiva dell’opera. Che la bellezza non dovesse risultare troppo lavorata, era già chiaro ad Alberti e Leonardo, come testimonia l’osservazione leonardesca sull’eccessiva ricercatezza delle acconciature; ma fu essenziale il concetto da Baldassarre da Castiglione per cui la grazia doveva essere trasmessa soltanto attraverso un’apparente spontaneità dei gesti. Tali idee furono accolte dai teorici dell’arte, in particolare Vasari intese rafforzare la tesi secondo la quale ben poco giovasse il lungo studio e la troppa diligenza in assenza di una predisposizione naturale dell’artista. La nuova attenzione nei confronti della qualità del gesto, fondamentale nella teoria del disegno e dell’idea, si evince dalla sprezzatura enunciata da Castiglione, ovvero l’altro ornamento per cui il talento dell’artista è rivelato da un sol colpo di pennello tirato facilmente. Alla personale interpretazione della sprezzatura, Francisco de Holanda aggiunse il fattore della velocità d’esecuzione delle opere, fatte quasi in fretta, era evidente che nell’effettiva facilità e prestezza si celasse il vero talento. Le parole, poi, dell’Aretino attestano quanto tutto ciò avesse contribuito a esaltare la peculiare e progressiva attrazione nei confronti dell’abbozzo, dello schizzo, del non-finito, tracce più concrete della bellezza e del genio. L’ANTICO; UN MODELLO, UNA PASSIONE. L’ALBA DELLA ARCHEOLOGIA, SCAVI, SCOPERTE, SMANIE. La cultura antiquaria, sviluppata nel 400, limitatamente nei centri culturali, raggiunse nel corso del Cinquecento una dimensione senza precedenti, scatenando una vera e propria passione per l’Antico. Si rese necessario compiere il viaggio dell’Antica Grecia. Nel frattempo dal sottosuolo di Roma continuava a emergere una gran quantità di materiale. Gli appassionati, come Isabella d’Este vennero a conoscenza in tempo reale, nel 1506, del ritrovamento del gruppo del Laocoonte. Del “cortile delle statue” del Belvedere dove venne collocato, resta celebre la descrizione dei visitatori veneziani. Nel 1532, il nuovo Papa Adriano VI aveva fatto murare tutte le porte di accesso tranne una, rimasta sotto il suo controllo. In quel clima di austerità nulla rallentò la frenesia che aveva coinvolto molti cardinali. Pietro Bembo venne colpito da questa passione. Dietro a tale fenomeno si era sviluppato un fiorente mercato alimentato da incessanti scavi. A questo proposito il più celebre falso fu il Cupido di Michelangelo Non mancarono neppure i furti, fino al giungere del Sacco di Roma. Nel tentativo di arginare o controllare la questione del traffico dei reperti antichi, fu promulgato un breve da Papa Paolo III appena eletto. Con la nomina di un commissario generale, proibendo l’uscita di materiale antico dalla città senza autorizzazione. Il rilascio delle diverse tipologie di permessi divenne in realtà uno strumento politico utile per gestire le relazioni diplomatiche. Il duca di Baviera fu tra i beneficiari di questo tipo di licenze nel 1570. L’ANTICO: STUDIO, CONSERVAZIONE E RESTAURO. Il saccheggio della città romana diede luogo a numerose testimonianze: la lettera di Raffaello a Leone X, scritta insieme a Castiglione. Accanto alla constatazione generale del degrado dell’Urbe, denunciato anche da Pietro Aretino, venivano attaccate alcune personalità come Bartolomeo delle Rovere, nipote di Sisto IV, nella lettera a Leone x. Altre testimonianze esprimevano l’attenzione nei confronti del patrimonio che stava emergendo, dall’altro quella sfrenata passione per lo studio dell’Antico, caratterizzata da nuovi interessi topografici e storici affrontati con una nuova metodologia. Si avviarono i primi confronti e riscontri tra fonti scritte e indagini sul campo. Lo stesso Raffaello, confidando le sue preoccupazioni in merito ala Fabbrica di San Pietro, sottolineava i limiti dei testi. La volontà di una ricostruzione filologicamente corretta della topografia antica non riguardò soltanto Roma, ma si fece sentire persino A Firenze. Vincenzo Borghini si adoperò molto per rintracciare tutti quei reperti antichi ancora presenti in città e attestarne l’origine romana. L’ottima conoscenza antiquaria divenne un requisito indispensabile per tutti gli artisti. L’antico era diventato il modello assoluto di riferimento, ovvero il secondo modello dopo la natura. Sul piano artistico, le opere rinvenute fornivano l’occasione di un confronto non solo con il modello antico, ma anche fra artisti. Nella storia della ricezione del Laocoonte, è ben nota la sfida lanciata da Papa Giulio II a chi eseguisse la copia più perfetta. Non mancarono neppure degli interventi diretti sulle opere antiche, nel tentativo di restaurare, integrare, e a volte reinterpretare le opere stesse, come nel caso del Ganemide di Cellini, pretesto per un litigio con Bandinelli. L’attività di restauro occupò molti scultori, continuamente sollecitati da antiquari e collezionisti per risistemare le opere. Al di fuori delle grandi raccolte principesche, la maggior parte delle collezioni private abbondavano più di frammenti di opere che di opere frammentarie. Anton Francesco Doni derideva un collezionista. Sul tema del frammento Enea Vico ricordava il caso di una statua bronzea ammirata all’epoca, posseduta da Andrea de Martini, rivenuta sull’isola di Rodi e condotta a Venezia alla fine del Quattrocento, ovvero l’Adorante dell’Atles Museum di Berlino. Attingendolo alla propria raccolta, Pietro Bembo avrebbe fornito un frammento di piede combaciante, rimediando una lacuna del bronzo. Un caso sintomatico sia della politica dei doni tra collezionisti che di ricerca volta a ricostruire l’integrità dell’opera. Ma tra le righe di Vico si legge la volontà di fornire la prova diretta dell’antico legame tra le terre italiane e le terre greche, da dove in quegli anni stavano rispuntando di una cultura comune. L’ANTICO E LA TEORIA ARCHITETTONICA. I VITRUVIANI. Per Francisco de Holanda a patto che il luogo fosse adatto e la non conformità fosse proporzionata, illustrando il paradosso e per il tipica dell’epoca, l’ibridazione delle forme non poneva nessun inconveniente oltre a rilevare il talento dell’artista. L’iniziale ammirazione cedette in breve tempo il passo alle reticenze stimolate dalle sfavorevoli opinioni già espresse da Orazio e da Vitruvio già presenti in Gaurico. Per Doni, lo sguardo divertito su queste Chimere rientrava nell’ottica della difesa della scultura, premiando le grottesche di stucco rispetto a quelle dipinte. Vasari le considerò una pittura licenziosa e ridicola, reputando più evolute quelle realizzate con una tecnica mista in stucco, pittura e doratura. Una sferzata contro le grottesche giunse da Daniele Barbaro, il quale ne sancì la condanna nel suo commento alla traduzione vitruviana. Il dibattito raggiunse il culmine nel 1580 quando anche il cardinale Paleotti giudicò con disprezzo il gusto per il fantasioso. Nel suo “Discorso” alla lotta contro il falso e contro l’immaginazione. A difesa delle grottesche, la risposta di Pirro Ligorio non si fece attendere con ampie pagine sull’antico. La questione del luogo risultò altrettanto determinante. Ligorio volle dimostrare quanto le grottesche nell’Antichità ricoprissero anche le parti delle stanze più luminose delle dimore, con l’intenzione di contrastare il pregiudizio, nato dal fatto che fossero oramai ubicate nel sottosuolo con la conseguente associazione ai mondi oscuri delle tenebre e del male. Daniele Barbaro si concentrò sul presente. Lomazzo raccomandò delle grottesche un uso moderato e regolato, limitato ai soffitti, come già suggerito da Serlio, cosicchè all’elogio della fantasia si combinava il caratteristico Horror vacui della maniera. CAP 4. INVENZIONE TRA REGOLA E LICENZA. L’invenzione fu una nozione di grande rilievo nella teoria dell’arte del Cinquecento. Se per Leon Battista Alberti era da intendersi come “comportamenti” e “circoscrizione”, alla fine del secolo con Lomazzo si sarebbe sovrapposta al concetto di idea. In attività letteraria legata al filone dell’ekphrasis, la scelta della soluzione interpretativa più idonea di un determinato soggetto ricavato da vari tipi di fonti testuali fu affidata alla nascente figura del consigliere iconografico. Attraverso una serie di testimonianze documentali. Le opere d’arte si arricchivano di intricati significati simbolici e allegorici, grazie alla collaborazione tra letterati e artisti, i vescovi della Controriforma tentarono al contrario di fermarne lo sviluppo, privilegiando una maggiore chiarezza e immediatezza di lettura, invitando a una generale codificazione delle immagini e sostenendo la necessità di un linguaggio comune a tutte le sorti di persone, come scrisse Gabriele Paleotti. VERSO UNA SCIENZA DELL’IMMAGINE. Già Alberti raccomandava al pittore di avvalersi della collaborazione di un letterato per mettere a punto le composizioni più elaborate. Pur disponendo di un bagaglio culturale il pittore non riceveva una vera e propria formazione umanistica. A cavallo tra le due discipline, l’arte e le lettere, l’invenzione veniva considerata parte integrante dell’attività lavorativa dell’artista, ma anche una delle attività intellettuali più congeniali all’erudito. Si giunse alla costituzione di una triade alla base del processo produttivo dell’opera d’arte: committente, consulente, artista. Del rapporto tra artisti e eruditi sono rimaste poche testimonianze. Per quanto riguarda le fonti scritte bisogna rivolgere l’attenzione alla documentazione epistolare, resasi necessaria in quei casi in cui veniva a mancare il contatto diretto fra le parti. Se Vincenzo Borghini non si fosse trovato lontano da Firenze, nella sua residenza di Poppiano, non avremmo disposto di tutti quei dati sul procedimento di elaborazione delle iconografie dello studiolo di Francesco I de Medici, presenti nelle lettere inviate a Giorgio Vasari, del resto era più conveniente offrire tali indicazioni di persona. Nel riflettere sui soggetti per gli affreschi del duomo di Firenze, questi dichiara al pittore che molte cose non si possono esprimere per lettere. Dalla necessità di spiegarsi meglio per iscritto scaturì uno dei documenti più interessanti per lo studio della genesi dei grandi cicli decorativi. Tra le testimonianze vi sono la lettera scritta da Isabella d’Este a Pietro Perugino nel 1505, concernente la commissione di un quadro allegorico per lo studiolo. In questa lettera ritroviamo tutte le richieste della marchesa come indicazioni iconografiche a cui il pittore doveva attenersi. Sono ridotti i margini d’azione lasciati al Perugino, egli poteva intervenire eliminando alcuni elementi della storia considerati troppo abbondanti. Isabella ricorda in un'altra lettera come il significato del dipinto fosse stato minuziosamente elaborato da Paris de Ceresari umanista a cui la marchesa consigliava di rivolgersi nel caso fossero sorti dei dubbi o delle difficoltà nel decifrare i desideri frutto di una maturata riflessione filosofica sull’amore. La marchesa non ottenne la stessa condiscendenza da Giovanni Bellini. Pare che Michelangelo abbia invece avuto carta bianca per decorare la Cappella sistina. Egli dichiara in una lettera del 1523 a Giovan Francesco Fattucci circa l’idea iniziale di raffigurare gli apostoli nelle lunette e nelle altre decorazioni della volta. Ciò non esclude la presenza dell’erudito. Intendere l’abilità creativa del grande maestro come il frutto di conoscenze acquisite tramite lo studio personale e la frequentazione delle cerchie colte. Lo stesso Raffaello era solito mantenere rapporti stretti con un gruppo di eminenti eruditi. Viene citato il trattato 700 dei due Richardson in cui viene citato un documento legato alla disputa delle Stanze Vaticane. Raffaello chiedeva all’Ariosto che carattere dovessero aver ei suoi personaggi per rappresentare ciascuno nel modo più adeguato. Famosa è anche la lettera di Raffaello a Baldassarre da Castiglione in cui, in risposta alle indicazioni ricevute dall’erudito inviava alcuni disegni al medesimo soggetto affinché il Castiglione potesse scegliere il migliore. I rapporti tra artisti ed eruditi erano talvolta complessi, vincolanti e persino conflittuali, tra l’altro collaborativi. Giorgio Vasari riuscì a stringere importanti relazioni con una cerchia di letterati. Di rilievo risulta una lettera di Borghini in risposta alle richieste di Vasari riguardo al cantiere delle cappelle vaticane, che illustra quanto il pittore fosse libero di rivolgersi al proprio circolo di relazioni e di amicizie per poi elaborare con le proprie forze il programma decorativo. Le parole del Borghini sono un punto di riferimento, ma in tale occasione il priore lo invitava a rivolgersi anche ad altre persone, fornendo delle indicazioni sulla prassi e la modalità comunicative tra le parti. Nella stessa lettera egli raccomandava il rifarsi ai grandi maestri dell’Antichità dando informazioni sulle fonti testuali da consultare per rintracciare ulteriori dettagli sulle storie scelte. Allo stesso Francesco Salviati piaceva lavorare con persone letterate, come attesta una lettera inviata da Remigio Fiorentino, il pittore intendeva ricevere delle indicazioni per la realizzazione di una Fortuna. Il monaco non suggerisce un’unica soluzione, ma una serie di spunti. Il talento dell’artista si esprimeva pure attraverso la personale capacità di rintracciare presso i letterati del suo tempo le migliori e più appropriate indicazioni iconografiche per comporre le proprie invenzioni. Una lettera interessante è quella che Vasari indirizza ad Annibale Caro, in relazione alle invenzioni per le figure allegoriche dei mesi che doveva eseguire nel palazzo di Bindo Altoviti. Giunto il tempo della conclusione dei lavori e non avendo ancora delle idee precise sul da farsi, egli sollecita Caro a trasmettergli rapidamente dei soggetti. Preziosa è la risposta di Caro, il quale rifacendosi a un stratto scritto, concernente i dodici mesi dell’anno dichiara di averlo prestato ad altri: un documento di cui oggi resta traccia indiretta nello Zibaldone di Vasari. Tra le mani dell’autore delle Vite deve essere passata anche la lettera scritta da Caro a Taddeo Zuccari nel 1562, avendola trascritta per intera nella biografia del pittore, un incomparabile documento ricco di preziosi dettagli sulla genesi della Stanza del Sonno di Palazzo Farnese a Caprarola. Gli eruditi, una volta elaborata un’invenzione per una determinata destinazione, dovevano tenerne una copia, conservandola alla stessa stregua di qualsiasi altro componimento letterario, per poi utilizzarla seguito all’occasione giusta. Questi componimenti dovevano circolare fra eruditi, artisti e forse gli stessi committenti, stimolando nuove invenzioni, scambi di informazioni o facili reimpieghi. In questi scambi epistolari non è raro trovare delle osservazioni del letterato che sottolineano alcune approssimazioni commesse dall’artista nei disegni presentati. Che nei sistemi decorativi tutto dovesse avere un senso e rispettare un certo ordine era la “condicio sine qua non” per il Borghini. La sua osservazione in relazione al progetto della volta della Cappella Paolina per adeguarsi agli affreschi parietali di Michelangelo. E’ da questo assunto che, per creare un ciclo pittorico tanto denso quanto strutturato, il priore degli Innocenti iniziava a ordire il programma iconografico in questione, seguendo i principi di organizzazione spaziale. In questa situazione Ludovico Capponi si rivolge al poeta Lorenzo Giacomini, per assicurarsi delle scelte operate per le decorazioni del soffitto e delle pareti del suo salone a non incorrere in quella bassezza di pensieri. Il fenomeno delle descrizioni scritte è da condurre al gusto per la dotta costruzione dei programmi iconografici. Il ricorso alla scrittura si rese necessario per facilitare la lettura dello spettatore. Per Baccio Baldini il ricco apparato festivo del carnevale del 1565 fu incompreso dal pubblico fiorentino. Un tale esercizio letterario si rifaceva ai noti esempi di ekprhasis della letteratura classica. Così videro la luce alcune descrizioni che permisero la diffusione dei ricchi significati presso un ampio pubblico, promuovendo i committenti e mettendo in valore l’erudizione degli autori di siffatte invenzioni. Se questa pratica riguardava la descrizione degli apparati effimeri per conservarne la memoria, anche i grandi cicli furono oggetto di attenzione. Su tutti occorre ricordare la spiegazione condotta da Vasari nei suoi Ragionamenti. In questa impresa il pittore aretino fu non poco stimolato da una lettera di Anton Francesco Doni, scritta nel 1547, nella quale vengono descritti gli affreschi del Salone del Palazzo della Cancelleria, affrancato dalla supervisione del consigliere iconografico, Jacopo Zucchi decise di stilare la descrizione delle proprie realizzazioni in Palazzo Rucellai- Ruspoli a Roma. Una fatica ormai resa possibile grazie al crescente successo dei repertori mitologici compilati da Lilo Gregorio Giraldi, Natale Conti e Vincenzo Cartari, utili strumenti per l’elaborazione delle invenzioni. Era nata una sorta di scienza dell’immagine, incentrata sull’invenzione, a metà strada tra le arti e le lettere, di cui tanto l’elaborazione quando la descrizione erano in contesa tra letterati e artisti. L’INVENZIONE DELLE IMPRESE. Nel campo dell’invenzione, le imprese erano prerogativa dell’uomo di lettere. Occorre dedicate al tema delle imprese una distinta trattazione, risalente al Medioevo e divenne in voga nel corso del Cinquecento. L’impresa richiedeva, in quanto concepita ispirandosi a aspetti del temperamento del committente, spesso in riferimento a determinati episodi biografici, un’accurata riflessione, spesso affidata all’erudito di corte. A fine quattrocento, per Poliziano, l’invenzione delle imprese risultava solo una di quelle occupazioni di cui disprezzare con ironia la diffusione e l’intempestivo uso domestico. Progressivamente divenne un esercizio mentale non privo di una dimensione ludica che poneva in risalto l’ingegnosità dell’inventore, quasi a dimenticare il ruolo del protagonista committente per cui erano state concepite. Baldassarre Castiglione ricorda come alla corte urbinate esse assumessero a tutti gli effetti il carattere di un divertimento di corte. Una svolta verso una dimensione intellettualistica, determinò una riflessione teorica specifica e la conseguente produzione di una serie di trattati pubblicati a partire dagli anni Cinquanta del Cinquecento, tanto che si rese necessaria una sorta di catalogazione. Nel 1551 vennero stampate a Lione le “Devis Heroiques”, il primo compendio ad opera di Claude Paradin, che comprendeva una raccolta di imprese illustrate. Fu Paolo Giovio il primo a porre per iscritto una storia delle imprese accompagnata da una raccolta di esempi famosi. L’autore definisce il suo libro un piccolo trattate piacevole, una lettura d’evasione e ricreativa da destinare a quei momenti in cui lo studio della storia risultava troppo impegnativo. Nello spazio di pochi anni vennero pubblicati altri trattati sullo stresso argomento. Un primo filone editoriale intendeva discutere alcune delle preoccupazioni teoriche gioviane; mentre un secondo filone allargava l’orizzonte delle imprese con ulteriori illustrazioni, aggiungendo e correggendo alcune interpretazioni. Tra i più notevoli ricordiamo Girolamo Ruscelli che pubblicò nel 1566 “Le imprese illustri con esposizioni e discorsi”. Scipione Ammirato rispose a Giovio con il “Rota overo delle imprese” pubblicato a Napoli nel 1562. Alla fine del secolo le imprese sono parte integrante dei ventisei soggetti trattati da Torquato Tasso, nella serie dei Dialoghi. Nel tentativo di distinguere l’impresa dalle altre categorie di invenzioni, il punto di partenza di questi trattati riguardava una questione definizionistica. L’altro aspetto ricorrente fu la relazione tra testo e immagine, cosicché tutti gli autori trattarono delle proporzioni tra corpo e anima, ovvero tra la figura e il motto, dettando i principi di composizione di questo nodo di persone e di cose. Nascondere il senso dietro un idioma straniero ne avrebbe accentuato il diletto rendendo più enigmatiche le stesse parole. Vi è in tutti gli autori la volontà di promuovere le dimensioni concettuali dell’impresa, definita dall’Ammirato la filosofia del cavaliere. L’INVENZIONE E LA CONTRORIFORMA. NEL NOME DELL’UTILITA’ E DELLA CONVENEVOLEZZA. Prima che fossero rese note le conclusioni del Concilio di Trento, erano da tempo sorte le controversie al riguardo di certe opere d’arte. Le abitudini dissolute dei membri della Curia provocarono un clima di tensione in relazione alla nascente Riforma protestante. Lo sguardo critico delle dottrine d’oltralpe sulla Roma trova il documento nel resoconto di Johannes Fichard, il quale descrive ironicamente la stufetta all’antica installata da Clemente VII a Castel S’Angelo. Al cuore del problema, nelle osservazioni del Tedesco, si coglie lo stupore di fronte all’inadeguatezza dei soggetti, gli dei pagani, rispetto al luogo e al committente, ossia il Sacro Palazzo e il Santo Padre. Ancora più note sono le reazioni causate dal Giudizio Universale della Cappella Sistina. La ricezione così negativa degli affreschi si collocava in un contesto di rapido mutamento delle scelte politiche della chiesa, costituendo l’antefatto più clamoroso delle riflessioni sul ruolo e la forma delle immagini sviluppate durante le discussioni conciliari. Due furono gli argomenti principali: la mancanza di decoro e la confusione narratologica. Per Pietro Aretino era stato passato il limite del decoro, schierandosi dalla parte di coloro che biasimavano l’opera michelangiolesca. Con una lettera a Gasparo Ballini e con il Dialogo, Ludovico Dolce si fece interprete e divulgatore delle polemiche sul Giudizio, ribadendo le osservazioni dell’Aretino. In questo testo, la convenienza assume una dimensione fondamentale e costituisce l’elemento principale della definizione stessa di invenzione, rifacendosi ai concetti oraziani, ma anche alla trattatistica letteraria cinquecentesca, in particolare a Barnardo Daniello. Il suo Dialogo inflisse un colpo alla fortuna di Michelangelo, la quale fin da subito subì un ridimensionamento portando alla preferenza di Raffaello. Legato al principio classico del decorum, ossia alla coerenza di tutti gli aspetti dell’opera, delle parti con il tutto, nella forma e nei contenuti, di convenienza o di decoro si affermò nell’estetica cinquecentesca, con ripercussioni nel 600 per la notevole dimensione moralistica suscitata. Il dialogo di Giovanni Andrea Gilio fu il primo, in Italia, di una serie di testi che trattavano tali preoccupazioni, non a caso pubblicato l’anno che seguì la chiusura del concilio, 1564. Nei due dialoghi dedicati al cardinale Alessandro Farnese, fornisce una serie di norme ispirate a quella mentalità post- tridentina. Se nel primo Detta le regole di natura comportamentale, ovvero le buone maniere da seguire in società, nel secondo tratta dei codici di rappresentazione delle arti visive, dichiarando l’appartenenza al filone antimichelangiolesco e moralistico. Egli invita il pittore ad accentuare il pathos delle figure come nel caso della raffigurazione del corpo difforme del Cristo durante la passione. La ricerca frenetica dell’ideale classico di bellezza cedeva il passo a un’attenzione sempre più marcata nei confronti del coinvolgimento dello spettatore, cosicchè anche le deformità, i segni del dolore e della bruttezza erano auspicabili e raccomandabili. Nel 1563, 18 anni dopo la prima convocazione del Concilio ecumenico tridentino che doveva rifondare l’ortodossia cattolica e riformare la vita del clero si aprì la venticinquesima e ultima sessione conciliare, durante la quale i vescovi trattarono della questione delle arti figurative condannate dai protestanti. Contrariamente ad altri argomenti discussi durante le sedute precedenti, scaturirono sintetiche indicazioni che ebbero un notevole impatto sulla ridefinizione dell’utilità e dell’uso delle sacre immagini nel culto della fede. Fin dalla prima frase del decreto l’arte appare legata all’insegnamento religioso. La produzione di arte sacra è ora giustificata in quanto strumento didattico essenziale alla catechesi. Si intendeva porre il confine tra devozione e idolatria, limitando i possibili abusi o derive nell’esercizio delle pratiche religiose. Si trattava di ricordare il corretto uso dei principali strumenti a disposizione del clero, ossia la lettura dei testi agiografici, il culto delle immagini e delle reliquie, educando ai corretti modelli comportamentali da attuare per veicolare la fede, quegli elementi considerati come pericolosi e vettori d’idolatria. Le richieste di maggior chiarezza delle opere, di semplicità nell’esposizione dei soggetti, come pure la loro finalità devozionale andavano in direzioni opposte rispetto alla tendenza alla stratificazione dei significati, al gusto per il complesso e alle invenzioni originali tipiche dell’epoca della Maniera. E’ in questo senso che Paleotti dedica una discussione al tema della novità nel suo Discorso. La Novità è ora sinonimo per la Chiesa di sospetti, sia nel registro sacro che in quello profano, tanto da essere additata dall’autore come peccato di novità e inserita tra le tipologie di errore se non fosse stata ricercata l’adeguata leggibilità da parte del comune spettatore. E’ in queste osservazioni che si avvertono le nascenti tensioni tra eloquenza e poesia, tra insegnamento e fantasia, tra utilità e diletto, in sostanza tra il compito che la Chiesa assegnava all’arte e la propensione che dimostrava gli artisti dell’epoca. Seguendo queste direttive, si verificò una regolamentazione dell’invenzione, tramite una normalizzazione del repertorio iconografico. E’ in tale contesto che vide la luce l’ Iconologia di Cesare Ripa, con l’intento di dare una regola universale, un chiaro orientamento destinato ai pittori. Si prestò attenzione anche all’immaginazione in quell’Indice dei libri proibiti che avrebbero condotto all’abbandono delle fonti testuali poco usate e potenzialmente eretiche. L’importanza della conformità al vero, o al verosimile, implicava il ricorso ai testi di riferimento. I trattatisti più critici giunsero a mettere in dubbio la formazione letteraria dell’artista, nonché la scelta delle fonti usate durante l’elaborazione delle iconografie. Giovanni Andrea Gilio accusandoli di concentrarsi troppo sulle forme delle figure e non abbastanza sul significato della storia. La loro lacunosa preparazione era la prima causa di evidenti errori: confusione tra sacro e profano, mancato rispetto della convenienza e assenza di veri e propri confini tra il vero, il falso e favoloso. Sono gli artisti i veri e unici responsabili degli errori e degli abusi nella triade committente- letterato-artista anche secondo Giovan Battista Armenini, quasi a voler dimenticare quella collaborazione in materia iconografica tra artista ed erudito e giudicando i “padroni delle case”. Se Paletti e Ammannati non si dimostrarono categorici nei confronti degli artisti, Armenini ribadiva senza esitazioni le osservazioni di Gilio, proponendo un elenco dei testi per rimediare a tali lacune. Per concludere il ragionamento, occorre richiamare l’attenzione sulla nozione di licenza poetica, usato dagli artisti per rivendicare la libertà d’espressione. “Libertà” e “Licenza” non sono sinonimi. Da un lato il primo termine esprime una autonomia e un’assenza di vincoli, dall’altro il secondo termine indica una libertà limitata, concesso all’interno di un contesto di regole dettate da un’autorità superiore. L’autore rivela quanto sia sottile il confine tra norma ed eccesso. Per Gilio non si trattava di escludere l’immaginazione o l’irreale, considerando tre modi di dipingere e definendo il pittore poetico, pittore storico, e pittore misto. Tale trovata permetteva di risolvere la disputa sulla licenza poetica, concedendo alla terza categoria la possibilità di rimanere in bilico tra realtà e immaginazione, di creare delle invenzioni in cui operare una “leggiadra mescolanza di cose vere” a patto che cadano a propogito, e che non siano destinate a luoghi sacri. Raffaello Borghini valuta positivamente questa suddivisione, l’idea del pittore misto, giacché l’artista può allargarsi nell’invenzione. Era in questa categoria, più soggetta a cadere in errore, che sarebbero rientrati la maggior parte dei pittori contemporanei. Gilio torna a discutere delle pitture miste, e non senza un tono dispregiativo, egli impiega il termine “mistura” raccomandando l’assidua collaborazione con gli uomini di lettere. CAP 5. LA RICEZIONE DELLE OPERE. Le attenzioni rivolte alle opere d’arte e la nozione stessa di pubblico subirono dei sviluppi nel corso del cinquecento. Indizi di una crescente considerazione nei confronti della figura dello spettatore si riscontrano nell’uso dei termini scelti per indicare colui che è di fronte all’opera. Leonardo, sensibile alla questione della percezione visiva, usava alternare la parola “riguardatore” a quella di “veditore”, in associazione con occhio. Da Paolo Pino in poi, si sarebbe privilegiato invece l’uso di riguardante. Termini che indicano un’osservazione attenta e interessata, ma che non specificano il tipo di oggetto guardato. Poco frequente l’impiego del termine “spettatore” che richiamava alla visione di uno spettacolo; quell’accezione più ampia derivata dalla terminologia sinonimica latina spectacula, miracula e mirabilia si prestava al contesto delle arti visive. Così si intensificarono i dibattiti sul fine dell’arte e del ruolo dell’arte sacra, si prestò una maggiore attenzione alla figura del fruitore dell’opera. Non è un caso se riscontriamo alcune occorrenze del termine “spettatore” nel trattato di Gabriele Paleotti, all’interno del quale emergono i primi spunti di una teoria della ricezione, in un contesto caratterizzato da una profonda riflessione sui potenziali effetti dell’opera d’arte, alla luce della catarsi aristotelica. Le arti visive si stavano teatralizzando. CONSERVANDO ED ESPORRE LE OPERE D’ARTE. Quando nella seduta del 1504 si riunisce la commissione dell’Opera del Duomo per decidere sulla collocazione del David di Michelangelo, quel gruppo di fronte all’opera del maestro viene definito “viandante”, “veditore” e non “riguardante”. Sono interessanti i diversi pareri registrati nel verbale della seduta perché testimoniano delle consistenti connessioni simboliche e politiche che legavano il monumento alla piazza e alla storia della stessa città. Lasciare la statua alle intemperie o collocarla al riparo? Questo dibattito portava alla nascita dell’idea di: TUTELA CONSERVATIVA. Molti intendevano necessario il ricorso a un’adeguata copertura, mentre altri difesero la soluzione di collocazione all’aperto, in nome di una maggiore esposizione e visibilità. Per Filippino Lippi e Piero di Cosimo la decisione sarebbe dovuto spettare all’autore stesso dell’opera. L’ultima parola sull’argomento fu quella di Michelangelo e il colosso marmoreo del piccolo David divenne l’eroe cittadino. Il resto lo fece anche il trasporto in città, contribuendo non poco a forgiare il mito michelangiolesco. Contemporaneamente all’attenzione per la decorazione dei luoghi pubblici, crebbe quella nei riguardi delle abitazioni private, per ciò che concerneva sia gli ambienti interni che quelli esterni. Giardini, cortili e logge divennero i luoghi preferiti dove mettere in scena il perfetto connubio tra arte e natura costruendo giochi d’acqua, con fontane, organi idraulici e automi. Quanto agli interni, uno dei ricordi di Sabba da Castiglione illustra gli aspetti principali del collezionismo cinquecentesco all’altezza degli anni Sessanta, il gusto per le anticaglie e al contempo le cose nuove e bizzarre. Il crescente numero di amatori contava Pietro Bembo, appassionato di antichità e figura esemplare nel collezionismo. Negli appunti di Michiel troviamo quel che è da considerare il primo inventario della sua collezione, attraverso il quale restituisce la fisionomia del patrimonio, dove coabitavano le opere antiche con quelle moderne e i ritratti di poeti con quelli di famiglia. Nel Riposo di Raffaele Borghini si divulgano informazioni sulle numerose collezioni fiorentine come quelle di Ridolfo Sirigatti e di Bernardo Vecchietti. La descrizione della villa del riposo lascia emergere un ritratto che combina l’ometto da Wunderkammer, deriso da Galileo, al dilettante da tornitura. La sua raccolta includeva alcuni Fiamminghi paesi bellissimi. Nell’effettiva impossibilità di possedere le più famose opere, il Vecchietti ne aveva raccolto un frammento dell’Idea. Siffatto atteggiamento denota l’evoluzione dello statuto dell’opera d’arte e l’affermarsi di un nuovo sguardo al processo creativo e alla genesi dell’opera. Quanto il disegno avesse assunto un notevole rilievo in ambito fiorentino, lo testimonia la collezione di Niccolò Gaddi, uno dei più importanti collezionisti della seconda metà del 500, nucleo di disegni di architettura nonché il famoso Libro dei disegni di Giorgio Vasari. Con Vasari arriviamo al caso singolare della figura dell’artista collezionista. Oltre al libro dei disegni, innovativo strumento del conoscitore a completamento ideale delle Vite nelle quali è rammentato, egli aveva raccolto non poche opere di pittura e scultura. Facilitati dai sistemi dei doni e degli scambi con colleghi e amici, gli artisti riuscivano in genere a raccogliere delle opere, il più delle volte utilizzate per lo studio personale o per giovare allo studio degli allievi. Si apprende da un inventario degli oggetti lasciati a Roma nel 1541 che Bandinelli possedeva alcuni reperti antichi, utili supporti alle personali riflessioni o all’attività di insegnamento. Questo genere di collezione svolse una funzione autopromozionale. L’OPERA D’ARTE E IL SUO PUBBLICO: CHI GIUDICA L’ARTE? Le osservazioni di Leonardo sul giudizio e la valutazione delle opere d’arte dimostrano quanto egli si sia concentrato non solo sulla fase creativa, indagando a fondo le ragioni delle forme, ma anche sulla ricezione dell’opera stessa, in un processo sperimentale che vedeva il suo compimento soltanto con la verifica dell’effetto visivo presso il riguardatore. Il ruolo di primo giudice spettava all’artista. Egli raccomandava l’uso dello specchio, alternando i diversi punti di vista, per stimolare il pensiero critico e mantenere una certa distanza dall’opera, evidenziandone le debolezze, riguardo alla costruzione prospettica o alle proporzioni delle figure. Dopo di che occorreva sottoporre l’opera al giudizio degli altri. Egli invita il pittore a non sottrarsi a tale prova e a non trascurare la fase dei ritocchi. Quale conseguenza della ricerca costante del consenso generale egli suggerì di adattarsi al gusto prevalente e di dipingere con diverse maniere. In Leonardo era già presente l’idea di critica d’arte, promuovendo la tesi di un’arte giudicabile da chiunque. Nella prassi il giudizio del lavoro ultimato era confinato dentro i margini del rapporto contrattuale tra il committente e l’artista. Soddisfare il committente costituiva il principale obiettivo dell’artista. Il più delle volte il rapporto con il committente non era esclusivo, ma venivano coinvolti altri artisti, per quantificare i compensi e valutare l’opera compiuta in qualità di esperti. Un sistema nel quale i critici non di rado erano mossi da interessi personali. Per il loro continuo biasimare le opere “malignamente” e senza ragione, Jacone e i suoi compari vennero denunciati da Vasari. Cellini sfogò apertamente il suo odio nei confronti di Baccio Bandinelli, mettendo in scena un processo alla corte di Cosimo I, sferzando l’Ercole e Caco con una requisitoria. In questo passo autobiografico, Cellini ricorda del testo l’usanza di affiggere dei componimenti poetici sulle sculture, quali supporti ideali per veicolare l’opinione della piazza, facendo parlare le statue, anche su argomenti non artistici. Riscoperta durante il Rinascimento, la poesia d’occasione, si diffuse nel 500, in particolare a Roma con le pasquinate, di natura satirica, ma anche a Firenze dove il fenomeno lasciò tracce letterarie. La travagliata storia dell’Ercole e Caco, contesa tra i repubblicani e i Medici, risultò un Pasquino fiorentino. Dai toni accesi e diffamatori, essi prendevano di mira le sculture, animato da sentimenti filoimperiali. Disegnato da Baccio d’Agnolo, Palazzo Bartolini fu parimenti biasimato per la sua troppo poca fiorentinità. A prescindere dalle eventuali implicazioni politiche o dalle infamanti allusioni, questa dorma di reazione del pubblico trovò terreno fertile nell’ambito della critica delle opere in specie nel momento della loro inaugurazione. Le opere stimolavano altrettanti componimenti in encomio da dare alle stampe, dal registro linguistico più ricercato e più retorico. Rifacendosi alla tradizione ellenistica, nel 1524 uscì la raccolta dei Coryciana volume dedicato a Johann Goritz detto Coricio, un insieme di poesie latine composte in occasione delle feste coriciane legate al culto di Sant’Anna nella chiesa di Sant’Agostino a Roma. I componimenti venivano affissi all’altare commissionato da Goritz in onore della Santa, decorato con il profeta Isaia, Affrescato da Raffaello e con il gruppo di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino scolpito da Andrea Sansovino. Allo stesso filone appartengono inoltre gli epigrammata di Fausto Sabeo, stampati una prima volta nel 1536 e accresciuti nel 1556 con versi celebrativi ispirati a opere di scultura, tra cui il calco del Laocoonte realizzato da Primaticcio. Nel 1583 venne pubblicato un libretto in lode del ratto delle Sabine di Giambologna. Significativa è l’osservazione di Francesco Bocchi, che sembra alludere all’usanza delle poesie in biasimo, illustrando chiaramente l’evoluzione della critica d’arte in un contesto sempre più condizionato da quella preoccupazione dell’età controriformistica, ovvero la ricerca degli errori dell’artista., egli constata che i giudizi umani si sono perfezionati al tal punto che chiunque si senta in grado di esprimere il proprio sulle opere d’arte. Accettare la critica di un più ampio pubblico possibile per poi eventualmente apportare le dovute correzioni rappresentava una prova d’umiltà, in contrasto con le nuove ambizioni di libertà degli artisti, spesso poco inclini a rimettersi in questione. Ed è forse ancora attorno alla figura di Michelangelo che nascono i più famosi aneddoti in proposito. Vasari ci descrive ad esempio, lo scultore alle prese con i suoi ritocchi sul David, un’attività che avrebbe indotto il gonfaloniere fiorentino a prendere una posizione e dire la sua. Il maestro finse di dargliela vinta, ma con l’accorgimento escogitato da Michelangelo Vasari punta il dito contro quei giudizi avventati di un pubblico non competente, esaltando la superiorità dell’artista. visione dell’arte è la concezione parabolica, già introdotta da Plinio il Vecchio, il cui apice era Lisippo, mentre per Vasari, l’apice è Michelangelo. Michelangelo Buonarroti è per Vasari il più grande artista di tutti i tempi ed è ampia la sezione a lui dedicata nella prima edizione della sua opera. Michelangelo morì nel 1552 con la possibilità che il Giudizio Universale, apice della sua carriera artistica, venga scalpellato a causa delle grandi critiche ricevute che consideravano l’affresco una blasfemia (nudità). La Cappella Sistina fu commissionata da Sisto IV tra il 1475 e il 1481 e vi lavorarono in principio artisti come il Perugino, Botticelli e Ghirlandaio (affreschi sui lati della sala). Nei primi anni del 1500 furono portati alla luce alcuni problemi di infiltrazione, serviva quindi un restauro, ed è Giulio II a chiedere a Michelangelo nel 1508 di affrescare la volta. All’epoca Michelangelo non aveva grande esperienza con l’affresco, si dedicava ancora quasi interamente alla scultura ma decise comunque di accettare l’incarico e soprattutto rifiuta ogni offerta di aiuto, sappiamo infatti che l’artista non ha mai aperto una sua bottega o avuto allievi. I lavori della volta terminano nel 1512, mentre quelli del Giudizio Universale iniziano nel 1535. Una importante novità della Cappella Sistina è la mancanza di una architettura decorativa, i dettagli architettonici sono infatti interamente dipinti. Il Giudizio Universale raffigura un momento di grande potenza e drammaticità, i contemporanei furono soprattutto colpiti dalla centralità del corpo umano, dall’importanza che l’artista dà ad esso. A causa delle grandi critiche furono apposte centinaia di censure con la giustificazione di dover dare “decoro alla composizione”. Gli affreschi della volta raffigurano invece le storie della Genesi: • 9 episodi : Separazione della luce dalle tenebre (Genesi 1,1-5), Creazione degli astri e delle piante, (Genesi 1,11-19), Separazione della terra dalle acque (Genesi 1,9-10), Creazione di Adamo (Genesi 1,26- 27), Creazione di Eva (Genesi 2,18-25), Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre (Genesi 3,1- 13.22-24), Sacrificio di Noè (Genesi 8,15-20), Diluvio universale (Genesi 6,5-8,20), Ebbrezza di Noè (Genesi 9,20-27). Ignudi che recano i simboli dei Della Rovere (papa Giulio II) rappresentati dalle foglie di quercia, Antenati di Cristo, Sibille e Profeti. Secondo il critico d’arte Leo Steinberg (1920-2011) la scena della Creazione di Adamo, più precisamente il punto in cui le mani stanno per toccarsi, è il punto più citato della storia dell’arte. L’immagine è stata infatti riprodotta nei secoli e utilizzata persino nel consumismo popolare. Le opere di Michelangelo sono state, nel corso della storia recente, vittime di atti di vandalismo; famoso è il caso alla pietà del 1972 in cui Laszlo Toth, geologo di origine australiana, colpisce a martellate la scultura, poi soggetta ad un raffinatissimo restauro. L’opera fu commissionata nel 1497 dal Cardinale francese Jean de Bilhères, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, ed era destinata alla cappella di Santa Petronilla. Michelangelo firma il contratto l’anno dopo, con un tempo di consegna di un anno e la termina infatti nel 1499. Anche per quest’opera Michelangelo fu duramente criticato, data la composizione insolita e soprattutto per il modo in cui era stata raffigurata la Vergine, più giovane del figlio e con una forza interiore solitamente non rappresentata. Anche il David fu vittima di vandalismo nel 1991 per mano di Pietro Cannata. Vasari nelle Vite presenta ogni artista come esempio di qualche vizio, tecnica tipica della retorica alla latina e di personaggi come Cicerone; Vasari, parlando di Michelangelo, sostiene che “Dio ha mandato Michelangelo agli uomini a illuminarli per fargli compiere quell’ultimo scatto che gli altri non erano riusciti a compiere”. Vasari scrive tre biografie in vita: nella Torrentiniana parla solo di persone morte, tranne Michelangelo, che assume il ruolo di chiave di volta di tutta l’opera. Vasari crea un vero e proprio mito di Michelangelo che per altro legge l’opera e ne rimane indignato, criticando duramente il lavoro del Vasari. Come reazione alla prima edizione delle Vite, Michelangelo commissiona ad Ascanio Condivi una propria biografia che è la visione che l’artista ha di se Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511 – Firenze, 27 giugno 1574) è stato un pittore, scultore, architetto e trattatista italiano. Fu allievo di Michelangelo e di Andrea del Sarto. • Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, scritto in due diverse edizioni (1550, 1568) e preceduto da un'introduzione di natura tecnica e storico-critica sulle tre arti maggiori (architettura, scultura e pittura). Lavora alla corte de Medici sia a Firenze che per la città di Pisa La storia della critica d’arte è una disciplina che analizza come si scrive e come si giudica l’arte in un processo che nasce dal passato. L’uomo è predisposto all’arte per natura; ognuno di noi come essere umano è predisposto a produrre arte, è la civiltà circostante a cambiare l’individuo. L’arte è quindi una necessità dell’uomo. Se produrre arte è comune ad ognuno di noi, riflettere su cosa sia l’arte è invece rarissimo e deriva dalla Grecia del VI secolo a.C.. A produrre un “discorso sull’arte” e ad organizzarlo per parametri storici furono i due artisti che eressero il tempio di Artemide ad Efeso, scrivendo un trattato (commentario) sulla loro opera. I concetti definiti in Grecia e poi a Roma furono ripresi solo nell’Umanesimo e Rinascimento. Plinio, nella sua naturalis historia parla di piante, animali ed opere d’arte; per Plinio, i materiali della scultura erano l’ultimo passo di trasformazione, così come i pigmenti derivati dalle piante, è per questo motivo che inserisce l’arte nella storia della natura, in quanto per lui la bellezza dell’arte è mimesis della natura. Gli artisti nel periodo greco iniziano a scrivere, ad emanciparsi: prima architetti, poi pittori e infine scultori. Con il Doriforo di Policleto viene definito il termine canone, da cui prende poi nome il suo trattato a riguardo (cosa per lui è il modello ideale> serve la presenza di un modulo per raggiungere armonia e bellezza). Questo processo di scrittura di trattati da parte degli artisti si interrompe durante il Medioevo e riprende nel 1400 con interesse degli eruditi per i testi antichi. Studiare la storia della critica d’arte è quindi vedere le opere attraverso gli occhi degli osservatori nel tempo, conoscere i loro concetti di bellezza e grazia, quello che per loro è l’artista più capace di trasmettere tali canoni e soprattutto di essere capaci ad analizzare testi e testimonianze e compararli alle opere d’arte stesse. Gli storici di critica d’arte inoltre indagano su quelli che sono i tentativi nel tempo di capire cosa sta dietro ad un capolavoro, a quello che affascina e al significato intrinseco che esso cela. Questo esercizio interpretativo è strettamente legato al gusto delle epoche, a ragioni politiche, religiose e ideologiche. Julius Von Schlosser (Vienna, 1866 - Vienna, 1938) è considerato il padre fondatore della disciplina; frequenta la scuola storico-artistica di Vienna e nel 1901 diventa direttore delle collezioni di scultura e delle arti minori al Kunsthistorisches Museum. GIORGIO VASARI Vasari parla dell’importanza della scrittura come strumento di sopravvivenza e trasmissione della memoria; egli scrive le Vite ma riconfigura anche la sua personale storia e memoria. Il Culmine di questo processo è costituito dall’ Autobiografia con la quale Vasari chiude la seconda edizione delle Vite, collocando se stesso e la ‘rilettura’ della sua esistenza in posizione speculare, rispetto alla Vita di Michelangelo, che aveva messo a conclusione della prima edizione. Dopo un apprendistato ad Arezzo presso Guglielmo di Marcillat dove impara la tecnica francese, a Firenze studiò nella bottega Andrea del Sarto e B. Bandinelli, conobbe Michelangelo e fu introdotto nella cerchia della corte medicea. Ad Arezzo conobbe Rosso Fiorentino; quindi lavorò con Francesco Salviati (con cui lega una forte amicizia, documentata nelle Vite da Vasari stesso nella biografia di Salviati) e poi presso Vittore Ghiberti. Entra giovanissimo nella cerchia medicea e diventa compagno di giochi di Ippolito de’ Medici (1511-1535) e di Alessandro (1512-1537) suoi coetanei GIORGIO VASARI Vasari parla dell’importanza della scrittura come strumento di sopravvivenza e trasmissione della memoria; egli scrive le Vite ma riconfigura anche la sua personale storia e memoria. Il Culmine di questo processo è costituito dall’ Autobiografia con la quale Vasari chiude la seconda edizione delle Vite, collocando se stesso e la ‘rilettura’ della sua esistenza in posizione speculare, rispetto alla Vita di Michelangelo, che aveva messo a conclusione della prima edizione. Dopo un apprendistato ad Arezzo presso Guglielmo di Marcillat dove impara la tecnica francese, a Firenze studiò nella bottega Andrea del Sarto e B. Bandinelli, conobbe Michelangelo e fu introdotto nella cerchia della corte medicea. Ad Arezzo conobbe Rosso Fiorentino; quindi lavorò con Francesco Salviati (con cui lega una forte amicizia, documentata nelle Vite da Vasari stesso nella biografia di Salviati) e poi presso Vittore Ghiberti. Entra giovanissimo nella cerchia medicea e diventa compagno di giochi di Ippolito de’ Medici (1511-1535) e di Alessandro (1512-1537) suoi coetanei. Nel 1554 chiamato dalla famiglia Medici a Firenze. Oltre alle Vite Vasari scrive altre opere: -Le Ricordanze, una sorta di annotazioni delle opere realizzate dall’artista dal 1527 al 1572, sono conservate nel Museo di Casa Vasari ad Arezzo. In questo scritto Vasari parla di tutte le tecniche da lui eseguite in carriera e ne fa una lettura iconografica ed iconologica; -I Ragionamenti, pubblicati postumi la sua morte nel 1588 (prima bozza 1558-60), sono un’opera ambientata dentro Palazzo Ducale a Firenze in cui Vasari accompagna un giovane Francesco de Medici per il palazzo e gli spiega sala per sala le opere da lui affrescate. E’ oggi conservata nella Biblioteca degli Uffizi a Firenze; -Zibaldone (o Libro delle Inventioni), conservato ad Arezzo nell’archivio di Casa Vasari, è un blocco di appunti dedicato alle invenzioni (da Cicerone con la parola latina inventio ci si riferiva al modo di parlare e di esprimersi per intrattenere in oratoria, Vasari lo adatta all’arte) ovvero a tutto quello che sta dietro alla scelta di un soggetto dopo una commissione, le varie scelte prese da un artista per la realizzazione di un’opera dopo aver ricevuto il tema della rappresentazione del committente; -Carteggio Vasariano, l’insieme delle corrispondenze dell’artista con i suoi contemporanei, conservato a Casa Vasari. Tra i corrispondenti di Vasari vi sono alcuni degli intellettuali e degli artisti più prestigiosi della sua epoca con i quali egli collaborò e si legò di amicizia (come Paolo Giovio,Pietro Aretino, Annibal Caro, Vincenzio Borghini, Pierfrancesco Giambullari, Cosimo Bartoli e Michelangelo II età matematica: ricerca della prospettiva. Nel Quattrocento la prospettiva acquistò una straordinaria rilevanza sia perché contribuiva a dare all’arte un fondamento razionale, sia soprattutto perché andava incontro alle esigenze di un’arte che da sempre cercava spazialità e rilievo. La prospettiva, come la definisce Alberti, segna in maniera radicale la centralità dell’uomo: la tavola dipinta è un intersezione della piramide visiva, cioè una finestra aperta “per donde io miri quello che vi sarà dipinto”. La pittura e l’arte in genere riproducono la realtà così come appare all’occhio umano. La prospettiva pone dunque l’uomo al centro dell’opera d’arte. La seconda età propone di utilizzare leggi fisse matematiche per dare agli artisti degli effetti ufficiali e reali. L’osservatore che guarda una pittura deve avere un’impressione reale, come vedere un paesaggio dalla finestra. In questa visione matematica gli artisti lavorano insieme (es. rapporto tra Brunelleschi e Masaccio) per permettere la riuscita nei diversi campi dell’arte. Vasari scrive un elogio a Piero della Francesca (tavola di Brera) parlando della sua bravura in pittura, oltre che nell’aritmetica e nella geometria (scritti) e del suo essere particolarmente fedele ai calcoli della prospettiva III età: Criteri di Giudizio Oltre alla regola apportata dai matematici si aggiungono: la Grazia e il Giudizio. Quello che impedì alla seconda età di arrivare alla perfezione fu la mancanza “della regola di una licenza nella regola”; Vasari cioè si scaglia contro l’eccessiva diligenza, l’eccessivo seguire regole fisse degli artisti del Quattrocento. Le scoperte archeologiche di primo Cinquecento aiutano a trovare una nuova armonia. Bellezza e Grazia sono concetti diversi: con bellezza si intende il risultato armonico ottenuto attraverso delle misurazioni canoniche, si parla infatti di bellezza aristotelica, con dei veri e propri canoni proporzionali convenzionali da rispettare; la grazia è invece qualcosa di antinormativo, non necessariamente rientra nei canoni aristotelici ma ha un fascino proprio, anche interiore, che supera i canoni. E’ una bellezza superiore che va oltre la convenzione. A livello pittorico la grazia si lega per Vasari al livello di licenza: lui sostiene che gli artisti del ‘400 fossero prigionieri delle loro regole, mentre quelli del ‘500 riescono a fare proprie queste regole e le a superarle. Motivo per cui Michelangelo non misura mai le opere d’arte ma ha “le seste negli occhi”; con questa affermazione Vasari intende che l’artista ha talmente assimilato le regole da non aver bisogno di strumenti di misurazione. La licenza determina quindi la grazia, è quella libertà di togliersi di dosso l’ossessione matematica degli artisti quattrocenteschi. Questa libertà nasce anche dalla casualità: nel ‘500 ci furono straordinarie scoperte archeologiche in cui vennero alla luce statue la cui scoperta cambiò i canoni di bellezza che prima si ritenevano essenziali; hanno portato alla grazia grazia=charis: fascino, interiorità; non per forza esteriore, legata alla negazione dell’arte che consiste nel non fare vedere mai la fatica artistica che ha portato a quel risultato, a far si che lo spettatore pensi che sia scaturito senza fatica. es. il cigno> dall’esterno lo vediamo nuotare fluidamente ed elegantemente in un lago, se lo vedessimo da sott’acqua vedremmo la fatica di nuotare. Importante per comprendere il concetto di grazia e negazione dell’arte è l’opera di Baldassarre Castiglione “Cortegiano”. Castiglione nella sua opera cerca di gettare le basi della figura ideale dell’uomo cinquecentesco: il vero uomo elegante non è colui che segue la moda, quello è prigioniero, l’uomo elegante è colui che sa cosa va di moda ma che si veste con i capi che gli stanno meglio, sembrando però non outfit studiati, ma come se li avesse messi in modo trasandato e senza pensarci. Questo tipo di estetica, che promuove un modo di rivelare che libera dalle regole si chiama Sprezzatura. Essa è una regola universale, da seguire in tutti i campi della vita; consiste quindi nel conoscere talmente le regole da non esserne succube e senza far vedere la profonda conoscenza dell’individuo. Deve essere di una artificiosità tale da ingannare l’artificiosità stessa. Alterego della sprezzatura è l’affettazione che consiste in qualcuno che si fa vedere eccessivamente colto o bravo in qualcosa, secondo il principio della sprezzatura non deve darlo a vedere per esserlo davvero. Vasari usa questo criterio culturale sostituendo la parola sprezzatura con licenza: è una libertà regolata, a cui è stato posto un freno ed è la terza età ad averla raggiunta. Solo grazie ad essa gli artisti cinquecenteschi sono giunti alla grazia. Per Vasari la grazia è il risultato visivo di un’opera talmente straordinaria da sembrare di essere stata realizzata senza fatica; non è più legata alla natura, ma è divenuta il frutto di una cultura talmente raffinata da avere una nuova naturalezza. E’ la vera arte a dover negare se stessa, cioè lo sforzo dell’artista nella sua realizzazione. Grazia e giudizio fanno riferimento alla percezione visiva che lo spettatore ha dell’opera d’arte al di là delle regole aritmetiche. La grazia per Vasari è una bellezza spirituale che supera l’aristotelica bellezza corporale, costituita dalla giusta proporzione delle parti. Naturalmente parliamo ancora di libertà frenate, dato che Vasari ritiene che ci siano delle regole insormontabili; di totale libertà si potrà parlare unicamente con le avanguardie novecentesche. Per Vasari gli artisti della grazia sono Leonardo, Raffaello e Michelangelo; quest’ultimo il migliore, ottiene il risultato di potere e sapere, non più solo di qualità pittorica. Michelangelo resuscita un enorme quantità di marmo reputata inutilizzabile, solo guardandola, grazie alla sua capacità di vedere la statua imprigionata nel blocco. Un esempio della sua infrazione alla regola si trova nel David: la testa è più grande, ma vista dal basso pare precisa; superamento della regola. Con giudizio della terza età, Vasari intende il giudizio dell’occhio. È necessario che l’artista, proprio perché ha assimilato il disegno, le misure e le proporzioni le adatti alle circostanze esterne che influiscono sulla visione che lo spettatore avrà dell’opera d’arte. Vasari chiama Giudizio questa capacità di adattare le regole per favorire un’ottima percezione (David di Michelangelo). Il retto giudizio è una prerogativa della III età. Grandi scoperte archeologiche: il Laocoonte, Ercole, Torso del Belvedere, Venere, Cleopatra Apollo ecc; i pittori del 500 godono di questa nuova prospettiva estetica. Queste opere derivano tutte dal Belvedere Vaticano, persino Francesco I re di Francia manda dei suoi artisti francesi per creare calchi da successivamente collocare in un proprio belvedere in Francia. Il Laocoonte fu scoperto il 14 gennaio 1506, fu una scoperta di immensa fortuna che provocò grande fermento in tutta Europa. Fu la prima statua venuta alla luce da cui si trovava una citazione dai testi antichi, in questo caso da Plinio il Vecchio, il quale la descrive e sostiene fosse stata scolpita da una sola pietra, voluta da Tito e commissionata a tre artisti di Rodi: Agesandro, Polidoro e Atenodoro. La scultura fu ritrovata in una vigna nei pressi di Santa Maria Maggiore dove si riteneva ci fossero le terme di Tito, il proprietario della vigna un giorno cadde in un buco, e si ritrovò in una stanza affrescata con una porta murata, chiaramente si voleva proteggere qualcosa dalle invasioni barbariche; dietro questa porta vi era la statua nascosta e perfettamente conservata. Francesco da Sangallo, dopo 60 anni dal ritrovamento, racconta di come il padre Giuliano da Sangallo e Michelangelo fossero stati chiamati a Roma dal papa per vedere personalmente l’opera e di farne un riconoscimento. Il soggetto rappresentato fece grande scalpore essendo il prototipo della vittima innocente: Laocoonte era un sacerdote di Apollo che, quando i greci cercarono di entrare in città con il cavallo, si oppose a far entrare il cavallo dalle porte.Egli lanciò una lancia contro il cavallo che provocò un brusio (persone all’interno) interpretato dai Troiani come la dea Atena irata da quell’atto. Gli dei dalla parte dei greci mandarono un mostro dal mare che per punizione uccise lui e i due figli. La scultura è un’immagine del dolore e della sofferenza; di un doppio dolore: quello del morso al fianco (fisico) e del dolore di un uomo che vede morire la prole senza poter far nulla. L’importanza del soggetto rappresentato è data anche dal fatto che grazie al Laocoonte Enea scappa da Troia e fonda Roma facendo sì che il disegno degli dei si compiesse; è quindi un simbolo della nascita di Roma e della storia imperiale. Tutte queste opere furono collocate nel Cortile Ottagono del Belvedere, in Vaticano, opera del Bramante; il progetto fu commissionato da Papa Giulio II della Rovere. Si crea nel giardino un percorso spettacolare, costituito da un sistema di scalinate e giardini; vi era l’idea di una entrata trionfale che portava a questo piccolo luogo che conteneva le grandi scoperte; come un nuovo giardino dell’Eden che doveva coinvolgere tutti i sensi: l’olfatto per la presenza di aranci, l’udito grazie alle fontane e il tatto dato che le statue potevano essere toccate. Vasari parla anche del Torso del Belvedere di Apollonio, legato al nome di Michelangelo, anche dalla critica dei secoli successivi e di cui vi sono una serie di aneddoti michelangioleschi come quello dell’artista ormai cieco che riesce tramite il tatto a percepire la bellezza, racchiusa nella scultura. Michelangelo vietò, una volta scoperta la scultura, di apporre restauri, in quanto sostiene che nessuno ne sarebbe stato capace senza rovinarla nel processo. Altre scoperte furono quelle di Sperlonga (villa sul litorale ninfeo (stanze adibite a banchetti con fontane), sulla spiaggia), fu ritrovato un gruppo statuario che rappresenta il mito di Ulisse e Polifemo e Scilla al centro del bacino; oggi è conservato al museo di Sperlonga. L'Apollo del Belvedere è una statua marmorea romana di epoca adrianea eseguita intorno al 130 - 140, copia di un originale greco in bronzo del IV secolo a.C., probabilmente situato nell'agorà di Atene. L'Apollo mostra i caratteri distintivi dell'arte ellenistica, in particolare quella di Prassitele, soprattutto nel contrasto tra il modellato morbido del corpo e la fitta pieghettatura del mantello che forma forti chiaroscuri (come notato e lodato da Winckelmann teorico del Neoclassicismo che la considerava un originale). Cleopatra/Arianna: due copie diverse, di cui una dei Medici, si ritiene essere Cleopatra per la presenza di un bracciale a forma di serpente. Tutte queste scoperte contribuirono a un nuovo canone di proporzioni, all’esibizione dei muscoli particolarmente enfatizzati e soprattutto al ruolo centrale che assumerà l’espressività dei soggetti rappresentati. Singola Biografia d’artista Ogni Vita scritta da Vasari segue uno schema ripetuto in tutte le altre della raccolta. Prima parte: ●introduzione generale> ogni artista viene presentato per una prerogativa (es. invidia) ●infanzia e giovinezza A Firenze si usa il calendario fiorentino (l’anno iniziava il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione alla Vergine), quindi per loro Michelangelo nasce nel 1474, per noi è il 6 marzo 1475. Aneddoto della balia dello scalpellino: Vasari nella giuntina racconta di come la balia di MIchelangelo fosse moglie di uno scalpellino e che l’artista stesso scherzando avesse detto una volta a Vasari che la sua bravura provenisse dal latte della sua balia. Condivi dice che la sua balia era la figlia di uno scalpellino e poi sposata ad uno scalpellino, per questo Michelangelo sostiene di essere da sempre stato introdotto all’arte. Entrambe le biografie parlano del topos dell’artista che viene all’inizio contrastato dalla famiglia, ma che poi acconsente al proseguimento della carriera vista la grande bravura del giovane Michelangelo. Michelangelo iniziò i suoi studi da Francesco da Urbino a Firenze per studiare grammatica, ma dimostrò sin da subito un particolare interesse per il disegno e la pittura. Tra Vasari e il Condivi risultano alcune differenze nella formazione di Michelangelo: Vasari già nella torrentiniana parla dell’apprendistato artistico presso Domenico Ghirlandaio citando anche documenti scritti che lo testimoniano, mentre Condivi abbia una versione radicalmente differente; egli infatti nega un qualsiasi apprendistato dall’artista e anzi calca la mano su una presunta invidia dello stesso per Michelangelo, passata poi anche al figlio, che Condivi (Michelangelo) incolpa per aver diffuso la voce dell’apprendistato dal padre. Nella giuntina Vasari parla di come la biografia di Condivi menta sulla formazione nella bottega del Ghirlandaio, in quanto ci sono le firme di Lodovico, padre dell’artista, sui libri privati di Domenico Ghirlandaio che confermano l’apprendistato di Michelangelo all’età di 14 anni in un documento datato 1488. Michelangelo frequenta la bottega per 3 anni, per una somma totale di 96 fiorini. Michael Hirst (Michelangelo giovane, Modena, Panini, 1997, p. 14) mette in rilievo come Michelangelo voglia presentare sé stesso come autodidatta, un artista senza maestri. Condivi, nega dunque ogni apprendistato con Domenico, anche se i documenti attestano ormai che Vasari aveva ragione. Nuovi documenti: documento del 28 giugno 1487, in cui si attesta che a 12 anni M. riscuoteva crediti per la bottega del Ghirlandaio. Prime rivelazioni ingegno di Michelangelo ●Ingegno precoce: Sbigottimento ●«Contraffazioni» e emulazione di modelli: nella prima fase Michelangelo imita talmente bene i modelli che usa da sembrare originali A) l’Antico - Fauno - Amorino B) i maestri - Tentazioni di S. Antonio da Martin Schongauer - La Madonna della Scala «alla maniera di» Donatello Nel 1487 inizia l’apprendistato di Michelangelo presso la bottega di Domenico Ghirlandaio, Vasari scrive, sia nella torrentiniana che nella giuntina dello sbigottimento del maestro davanti allo stile e alla capacità imitativa di Michelangelo, all’epoca solo ragazzino. Giardino di San Marco: Il giardino delle sculture o di San Marco era situato nei pressi di piazza San Marco (attuali via degli Arazzieri e via Salvestrina). Lorenzo il Magnifico aveva fatto sistemare nel giardino statue antiche e reperti antichi. Alcuni giovani artisti erano ammessi a studiare e copiare le sculture, esercitandosi nella pratica del disegno e delle tecniche di scultura. Bertoldo di Giovanni, allievo e collaboratore di Donatello ricevette il compito di guidare i giovani e impartire loro anche i suoi insegnamenti. Vasari vede nel giardino di S. Marco un antecedente illustre dell’Accademia delle arti del disegno, fondata nel 1563. Vasari racconta di come Lorenzo desiderava una scuola in cui si trovassero grandi scultori e pittori celebrati e di grande pregio, che nella sua epoca mancavano, così chiese al Ghirlandaio se alcuni dei suoi allievi fossero inclinati a ciò e di inviarli al giardino per onorare la città; gli furono mandati Michelangelo e Francesco Granacci. Michelangelo e Francesco Granacci. Condivi dice invece che sia stato Granacci stesso a portarlo al Giardino e a presentarlo a Lorenzo, ma questo non è possibile. Affresco Celebrativo di Ottaviano Vannini (1642) nel salone di Giovanni da San Giovanni a Palazzo Pitti: raffigura la loggia del giardino dove Michelangelo mostra a Lorenzo la testa del fauno. Da questo aneddoto nasce il mito di Michelangelo. Emilio Zocchi, 1861, Firenze Galleria Palatina: Michelangelo fanciullo scolpisce la testa del fauno. CASO DEL FAUNO Da Vasari (giuntina) e del Condivi vi è l’aneddoto dell'artista fanciullo, di appena 15 anni, nel giardino di San Marco, scolpisce una testa di fauno a imitazione di un marmo antico e in questa occasione viene notato da Lorenzo il Magnifico. Giuntina (da Condivi): Michelangelo ragazzino si mise a contraffare con un pezzo di marmo una testa di un Fauno vecchio, la realizzò così bene da stupire il Magnifico, Michelangelo aveva scolpito la bocca del fauno in un sorriso di cui si vedevano tutti i denti e Lorenzo, scherzando, gli disse che se fosse stato davvero vecchio gli sarebbero dovuti mancare dei denti. Michelangelo ne tolse uno e trapanò la gengiva, così da sembrare che fosse caduto e aspettò il ritorno di Lorenzo, il quale si era affezionato al giovane e scrisse al padre Lodovico di poterlo portare con sé per farlo crescere assieme ai suoi figli. Michelangelo visse in casa Medici sino alla morte del Magnifico. I testi di Vasari e Condivi parlano di una Testa, ma nel tempo si parla di maschera. Ipotesi storica, già viva nel Seicento sostiene che l’opera originariamente attribuita a Michelangelo fosse una maschera manierista e non la testa originale. Probabilmente ispirata all aneddoto? Basta vedere la bocca, a cui mancano più denti e che non combacia con l’aneddoto delle biografie. Essa fu donata nel 1699 a Cosimo III della collezione di Apollonio Bassetti. Dagli Uffizi l’opera passa al Bargello. Durante la Seconda Guerra Mondiale viene portata al castello di Poppi requisita dai Nazisti il 23 agosto del 1944. L’immagine della maschera viene riprodotta nella Vita di Condivi del 1746 a cura di Anton Francesco Gori. Ad oggi sono molte le richieste da parte del direttore degli Uffizi tedesco Eike Schmidt per riottenere la Testa del Fauno dalla Germania, nonostante ci sono dubbi che sia la testa dell’aneddoto. CASO DELL’AMORINO A poco più di 20 anni Michelangelo si reca a Roma e, proprio a questo caso, si fa un nome nella città. A parlare di questo caso sono Vasari, Condivi, Paolo Giovio e altre Vite sconosciute di Michelangelo. Vasari giuntina: Michelangelo fece un S. Giovannino in marmo per Pierfrancesco de Medici e successivamente un amorino dormiente. Baldassarri del Milanese lo mostrò a Pierfrancesco che disse che se lo avesse messo sottoterra e facendolo parere antico, sarebbe passato per un originale classico, così da ottenere più soldi a Roma. Altri dicono che il Milanese lo portò a Roma egli stesso e che lo sotterrò nella sua vigna per poi venderlo per 200 ducati al cardinale San Giorgio. Altri ancora dicono che un altro mediatore lo vendette al Cardinale (grande committente del Bacco del Bargello, grande esperto di antichità che abitava nel palazzo della Cancelleria dove Vasari aveva dipinto la Sala dei Cento Giorni e in cui vi era una loggia che ospitava molte opere antiche) ingannandolo. Condivi: Michelangelo scolpì un amorino dormiente di 6-7 anni che sotterrò e rese più vecchio; fu poi venduto al Cardinale di San Giorgio per 200 ducati di cui solo 30 vennero dati all’artista. Il mediatore, di cui parla anche Vasari, aveva così truffato da Firenze tutti e tre i personaggi (anche Pierfrancesco). Il cardinale scopre la truffa e manda Iacopo Galli a cercare a Firenze Michelangelo, il quale per dimostrare di essere lui l’artista, gli fa un disegno che sconvolge l’uomo. Lo portò a Roma dove riscosse il resto del suo denaro e visse vicino al Cardinale, il quale smascherò l’uomo e si fece ridare la somma. Non si sa come la scultura fu venduta al Duca Valentino che la diede alla Marchesana di Mantova (Isabella d’Este) e da lei mandata, dove ancora all’epoca si trovava. Lo studiolo privato di Isabella d’Este era tra 400 e 500 uno dei più maggiori luoghi di collezionismo, vi erano conservate opere del Mantegna, Perugino, Correggio; tutte con il tema del conflitto tra amore sensuale e amore celeste. Paolo Giovio: grande amico di Vasari, fa il progetto per la casa ad Arezzo e con cui lavora per la sala dei cento giorni. La sua Vita viene scritta attorno al 1520, in cui viene trattato anche l’episodio del fauno. L’opera è scritta in latino. Anch’egli parla di come Michelangelo avesse realizzato un cupido in marmo e di averlo successivamente sepolto e per renderlo antico, poi venduto al Cardinale Riario tramite un intermediario. Una serie di letterati videro la scultura e uno di questi, Antonio Maria Pico Della Mirandola, scrisse ad Isabella per informarla di una “bella anticaglia” . Lettera del 27 giugno 1496: “un Cupido, che si ghiace e dorme posato in su una sua mano; è integro et è lungo circa IV spanne [ca. 80 cm.] quale è bellissimo. Chi lo tene antiquo e chi moderno . Qualunque se sia , è tenuto et è perfectissimo». Il 23 luglio vi è un’altra lettera di Antonio Maria Pico Della Mirandola dove si precisa che il pezzo è moderno e che Isabella non è interessata. Leandro Alberti parla di due amorini dormienti di Isabella d’Este: uno antico e uno moderno; egli sostiene che quello moderno, visto da solo, pare meraviglioso, ma che paragonato al primo sembra “morto”. Tra maggio e giugno 1496 Isabella ebbe notizia di due amorini dormienti in marmo. Sottoposti alla sua attenzione inizialmente ebbero sorti diverse: Il cupido di Michelangelo verrà inizialmente rifiutato come moderno, il cupido antico invece verrà molto desiderato. Cesare Borgia (il Valentino) acquistò la statua di Michelangelo e ne fece dono a Guidobaldo da Montefeltro. Quest’ultimo partecipò come alleato dei Borgia alla guerra contro gli Orsini, ma fu fatto prigioniero e dovette pagare 50.000 fiorini d’oro per essere liberato (la somma ricavata dalla vendita di gioielli e beni raccolti da Elisabetta Gonzaga). Non sappiamo se il regalo fu pensato come un risarcimento postumo del fatto. I rapporti cambiarono quando i Valentino il 22 Giugno 1502 si impossessò del ducato di Urbino costringendo Guidobaldo a rifugiarsi a Mantova. Neppure una settimana dopo, il 22 giugno 1502, Isabella scrisse al fratello Ippolito d’Este perché intercedesse presso Cesare Borgia per riavere il cupido e una Venere Sottratti ai Montefeltro. La statua fu concessa e il cupido arrivò a Mantova il 21 luglio 1502. Non appena Guidobaldo rientrò in possesso di Urbino nel 1503 cercò di riottenere le opere sottratte da Borgia e chiese il Cupido ad Isabella, ma inutilmente. L’opera rimase ai Gonzaga finché non fu venduta a Carlo I d'Inghilterra, ed entrò nella “Lista dei marmi” Vincenzo Danti ha scritto un trattato, delle “Perfette proporzioni” in cui si sfida con Michelangelo, dando alla sua opera una teoresi. Il fratello, Ignazio Danti, astronomo, pubblica intorno al 1560, una serie di tavole dove aiutato dal fratello prede il “De Pictura” di leon Battista Alberti viene schematizzato in una chiave mnemotecnica. Nel 1590-1591 Giovan Paolo Gallucci, maestro di retorica e mnemotecnica, è un collaboratore degli editori veneziani, “volgarizzatore”, traduce in volgare diverse opere, tra cui quelle di Durer: “Sulle Proporzioni”. Dal tedesco era stato tradotto in Latino, Gallucci lo volgarizza dal latino. Ora il Durer viene percepito come il perfetto pittore cristiano, dal rinascimento ora viene riconosciuta la sua posizione antimanierista. Questa traduzione arriva da parte di un Retore che vuole trovare prodotti nuovi per il mercato editoriale veneziano e per questo inizia la sua volgarizzazione. Sulla traduzione di Durer, egli inserisce un quinto libro in cui afferma in che modo i pittori possono dimostrare le passioni dei loro soggetti, colma una lacuna che il trattato di Durer aveva, e il quinto libro dovrà insegnare come raffigurare i moti dell’animo. Gallucci ricrea anche con delle matrici nuove le figure di Durer. Recupera Michelangelo per l’espressione dei moti, si prende libertà che altri non si erano preso. NAPOLI: riflessione estetica interessante. La maniera moderna arriva a Napoli con Polidoro da Caravaggio, inserito da Lomazzo tra i Governatori. Kalkar, allievo di Tiziano e disegnatore delle incisioni di un trattato medico, più celebre del 500, a Napoli diviene amico di Berardino Rota, petrarchista. Rota scrive un canzoniere, inflazione al codice petrarchesco, donna che da morta si trasforma nella moglie. Scrive anche un sonetto dedicato a Giovanni Fiammingo, poetica materica. Rota utilizza la forza degli elementi, quel tipo di “termodinamica del petrarchismo” il cuore che si infiamma, la durezza della donna umana, come pietra. A Rota questa poesia assume una consistenza materica, lui scrive anche delle poesie con la descrizione di questo aspetto, viene ad essere ispirato a una trasformazione del repertorio. Nel 1157 arriva a Napoli una tela di Tiziano, un’Annunciazione. Un amico di Rota, Venosino, Bartolomeo Maratta, scrive su questo dipinto, un dialogo. Inizia riportando delle critiche sul quadro, su cui si era concentrati sul rossore dell’angelo, come se un fuoco lo animasse, qui si va a spiegare in termini medici la ragione. Nel 1600 inizia la polemica tra coloro che sostenevano che il presente fosse un secolo di decadenza e chi credeva fosse un secolo pieno di novità. Raffaello, Tiziano e Carreggio, saranno una triade canonica di questo periodo. Aspetto di competizione assume le forme della parodia o del “pastiche”, quando si scrive alla maniera di qualcuno. I “Baccanali” di Tiziano, vengono copiati dal Alessandro Varotani detto il Padovanino, non si limita a copiarli, ma ne aggiunge un quarto: “Il trionfo di Teti”, con una citazione dell’Adamo di Michelangelo, gioco sulla tradizione del 500. A Firenze troviamo Francesco Furini, sacerdote da cui passa il libro di Pittura di Leonardo, che vorrebbe copiarlo. In un dipinto che rappresenta le tre grazie troviamo una citazione dei Baccanali di Michelangelo, nella figura destra, mentre nella sinistra un richiamo di Raffaello alla loggia di Psiche della Farnesina. Omaggio al secolo precedente. Nei primi due decenni del 600 si crea un concetto che il 500 non ha, ovvero quello di “scuola”. Si matura una concezione storicista. Il concetto di scuola attecchisce in funzione di polemica con Vasari, nella distinzione degli ambiti, ma si forma una storiografia locale, fortemente anti vasariana. Venezia, a distanza di un secolo, nel 1648 produce “Le meraviglie dell’arte” di Ridolfi, “Vite dei pittori Veneti e dello stato” contro le critiche negative che Vasari aveva dato a Venezia, usando comunque il modello Vasariano, con linguaggio volgare, biografie, illustrazioni. Ridolfi aveva scritto negli anni 40 due vite a parte che poi vengono inserite nelle meraviglie, la vita del Tintoretto e quella del Veronese. Vicino all’accademia degli Incogniti, Giovan francesco Loredan. Accademia con il culto di Marino il culto poema più celebrato era l’Adone. Polemica retrospettiva, fatta con armi vasariane. Ridolfi, da scrittore barocco, inventa un finto funerale di Tiziano. Dopo la sua morte i pittori di Venezia volevano realizzare delle esequie come quelle organizzate per la morte di Michelangelo. Assoluta finzione, modellata su quanto realmente utilizzato per Michelangelo FINTO PROGETTO. Nel 1600 vi è questo gusto per il Barocco. Suscitate meraviglia nei pittori. Ridolfi nella sua opera utilizza molti brani letterari, ripresi da Ariosto, Marino. Questi versi vengono utilizzato per elogiare opere d’arte, la descrizione viene amalgamata diventando altro. Volontà di trovare un equivalente all’estetica di stato che Vasari aveva creato. La caratteristica della pittura veneta è una caratteristica celebrativa, viene elogiata la capacità dei pittori veneti di creare “figure in aria”, scorcio nei soffitti, aspetto peculiare, così come lo era il disegno in ambito toscano. Nel 1660 Marco Boschini fa una polemica anche nei confronti del suo predecessore che aveva compiuto una critica anti vasariana utilizzando comunque precetti vasariani. Boschini scrive in dialetto veneto “La Carta del Navigar pittoresco”, dialogo con la metafora marinara, rifiuta la lingua del nemico utilizzando la sua, in quanto era già presenta un poema in lingua veneta. Qui presenta opere del 500, materiali retrospettivi, Tiziano, Veronese, Tintoretto. Boschini, in una Galleria di eccellenza, inserisce delle incisioni di quei quadri che lui commissiona. Galleria che sta tra la realtà e l’illusione. Omaggio a Giovan Battista Marino che nel 1619 aveva scritto un’opera in cui erano presenti tutti gli artisti dal 500-600, che gli artisti avrebbero dipinto. Marco Boschini scrive anche due poemi per gli Este: in uno vi è un’incisione su una pittura di Zanchi, incisa da Boschini stesso. Un grande catafalco realizzato da Boschini stesso. Duca che aveva combattuto nei ranghi della serenissima, immagina un poemetto in cui i vari artisti della scuola veneta creano questo catafalco. Il catafalco viene attribuito principalmente a Palladio, la celebrazione della contemporaneità viene attribuita a un’architettura palladiana. Il 1600 è un secolo svogliato, ha bisogno di novità perché il pubblico deve essere tenuto sveglio. Boschini enfatizza la metafora degli artisti veneti come spadaccini, Vasari diceva che questi artisti erano furiosi, Tintoretto dipingeva come se tirasse di scherma. Questa metafora viene fatta propria, parlando di una pittura di battaglia. Pittura di macchie e di colpi, barocchizzazione di una pittura precedente. FIRENZE: Bisogna aspettare il 1681 per far comparire il primo volume di Baldinucci “Le prime notizie dei professori del disegno: da Cimabue a qua.” È il volume di un’opera enciclopedica, personaggio importante. Baldinucci è un dilettante, ma anche scrittore d’arte, appartiene sia all’Accademia delle arti del disegno e All’accademia della Crusca. Egli entra in quest’ultima scrivendo un Dizionario dell’arte e del disegno. Intreccia la caratteristica dello scrittore con quella dell’amatore. I suoi volumi furono poi pubblicati anche dal figlio, l’ultimo volume viene pubblicato nel 1728. Opera diviene nota perché usa sia il criterio biografico, ma la novità è che divide la sua opera in decennali. Arcata temporale enorme in quanto ricomincia dalla fine del 200 fino all’età contemporanea. Rispetto a Vasari ha accesso anche a note biografiche degli eredi dell’artista. Le parti i più interessanti sono quelle della sua epoca. Baldinucci scrive anche dell’ESTETICA DEL BRUTTO: CALANDRINO. Passi dove si fa riferimento a situazioni legate al brutto e a ciò che è malato
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