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Storia della filosofia antica 23-24, Appunti di Storia della filosofia antica

Appunti sulle lezioni di storia della filosofia antica con attenzione all'analisi dei testi e dei frammenti

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 02/07/2024

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Scarica Storia della filosofia antica 23-24 e più Appunti in PDF di Storia della filosofia antica solo su Docsity! Storia della filosofia antica Appare quantomeno complesso individuare in modo sicuro il momento della nascita della filosofia, almeno così come la intendiamo oggi, e della figura stessa del filosofo. Questo è ovviamente dovuto alla grande distanza temporale che intercorre tra noi e figure che hanno vissuto a partire dal VII sec a.C. ma anche alla difficoltà stessa della categoria del filosofo. La nascita della filosofia appare quindi come un argomento di dibattito e legato a tradizioni diverse. Una di queste è quella dei Sette Sapienti, un gruppo di sette personalità vissute tra il VII e il VI sec a.C. divenute poi un modello di saggezza e di comportamento. La composizione di questo gruppo cambia in base alla fonte di riferimento, Platone nomina Talete,Pittaco,Biante, Solone, Cleobulo, Misone e Chilone, mentre per esempio Diogene Laerzio fa i nomi di Talete,Pittaco, Biante, Solone, Periandro, Cleobulo e Chilone, ma compare per esempio anche il nome del tiranno ateniese Pisistrato. Solitamente la tradizione e i manuali considerano Talete come il primo filosofo, ma prima riflettiamo sull’etichetta di presocratico. Questa etichetta è introdotta solo a fine settecento e poi canonizzata nella raccolta di frammenti presocratici pubblicata da Hermann Diels. La giustificazione dell’uso di questo termine viene sostenuta affermando che esista una cesura netta tra la filosofia prima e dopo Socrate. Tuttavia i presocratici non erano un gruppo temporalmente omogeneo (per dire Democrito è contemporaneo a Socrate mentre Anassimandro vive duecento anni prima), e non avrebbero descritto la loro attività come filosofia. L’etichetta di presocratici è quindi successiva e appartenente a una tradizione già riportata da Cicerone. Anche Nietzsche, per ribadire come Socrate e soprattutto l’allievo Platone abbiano corrotto lo spirito greco originario, parla di filosofia preplatonica, ma anche questa categoria presenta pressochè gli stessi limiti. Questo termine è stata poi rifiutato nella più recente raccolta di frammenti presocratici che abbiamo, quella di Laks e Most che si intitola Early Greek Philosophy, per quanto i presocratici non chiamassero quello che facevano filosofia. Omero, Esiodo e Erodoto Nella Grecia arcaica emerge la ricerca di una verità basata sul mito, come una rivelazione investita di sacralità che fa parte del patrimonio culturale del popolo greco, e i massimi esponenti del racconto mitologico greco sono per l’appunto Omero, con l’Iliade e l’Odissea, e Esiodo, con la Teogonia. Questi autori, specialmente Omero, diventano i prescrittori di un intero codice di valori individuali e comunitari e la loro parola è il modo in cui mettono in scena la loro saggezza. Questi personaggi usano il linguaggio della poesia e in particolare il verso dell’esametro, poi ripreso da autori come Parmenide o Empedocle. Osservando i proemi di Esiodo e di Omero notiamo tuttavia una sorta di evoluzione in una differenza. Mentre nel mondo omerico il poeta è solo un tramite della musa, mentre in Esiodo si nomina, affermando la propria individualità nel momento in cui riceve l’investitura poetica, secondo l’espediente della σφραγίς , tramite cui si nomina sigillando la propria importanza individuale. Inoltre Esiodo afferma che le muse possono raccontare menzogne, ma è Esiodo la garanzia del vero. Anche Erodoto come Esiodo e Omero ricerca una possibile spiegazione del mondo, in una modalità diversa essendo uno storico. Nelle Storie ricerca una realtà dei fatti basata sulle fonti che possano essere verificate in prima persona. Per Erodoto, ma anche per altri storici come Ecateo di Mileto, la veridicità di un fatto risiede nelle fonti che lo sostengono, e in particolare è Ecateo a insistere sul concetto di causa e sul motivo che lo ha portato a scrivere la sua opera. I Milesi: Talete-Anassimandro-Anassimene Per quanto riguarda tutta la filosofia presocratica noi abbiamo poche fonti, per lo più indirette e divise in frammenti che sono citazioni di questi autori che altri autori a loro successivi o dossografi hanno trascritto e riportato perchè particolarmente rilevanti per loro. Questi frammenti sono stati raccolti nel Diels-Kranz. Altre possibili fonti sono gli annedotti che abbiamo su questi autori ma spesso la leggenda si mischia al mito. Il primo gruppo di filosofi che la tradizione riporta è quello dei milesi, che vivono tra VII e VI sec a.C. nelle colonie greche dell’Asia Minore, specialmente a Mileto, città particolarmente ricca e vivace culturalmente. I filosofi ionici gettano le basi per un nuovo modo di riflettere sulle origini del cosmo. Il loro obiettivo ultimo e determinare e trovare l’origine del cosmo, l’ἀρχή.(archè) Il principale elemento di novità è l’abbandono delle teogonie e delle cosmogonie in favore di principi esplicativi interni alla natura e, infine, un modello di indagine incentrata sul procedimento analogico (interpretazione basata sull’analogia, ovvero individuazione di elementi di somiglianza tra alcuni elementi costitutivi di due fatti od oggetti, tale da far dedurre mentalmente un certo grado di somiglianza tra i fatti o gli oggetti stessi, alla base della deduzione). Questa indagine, apparentemente astratta, nasceva in realtà dalla considerazione attenta, basata sull'osservazione diretta, degli eventi naturali, della natura nelle sue varie manifestazioni. Proprio questa riflessione speculativa sulla natura e sulla sua genesi spinse la tradizione successiva, in particolare Aristotele, a identificare questi primi pensatori come FISICI, ovvero filosofi della natura (φύσις, fùsis). Un’altra ulteriore specificazione è che sono tradiionalmente detti MONISTI, in quando individuano ognuno una e una sola ἀρχή possibile. Talete (640/625 a.c.-548-545 a.c.) La tradizione ricorda Talete come il primo filosofo, ricordato perchè affermo che l’ ἀρχή di tutte le cose è l’acqua (ὕδωρ, ùdor). Con ὕδωρ non va intesa l’acqua esattamente come elemento, quanto più l’elemento umido. Talete, secondo Aristotele, avrebbe riportato che tutto nasce dall’umido, e che quindi questo elemento sarebbe dovuto essere in stretto rapporto con l’origine della natura, che ha carattere dinamico e animato. Più che per la sua teoria Talete è stato considerato il primo filosofo a ragione perchè indagava la natura con mezzi umani e razionali, senza ricadere in spiegazioni mistiche o mitologiche. Confermano questo elemento gli annedotti riportati da Aristotele e altri dossografi come quello della Servetta Tracia o l’episodiio in cui con i suoi calcoli riuscì a prevedere un eclissi. Talete è stato considerato da Aristotele, e quindi da tutta la tradizine successiva, come il primo filosofo proprio per il suo metodo di ricerca e il suo atteggiamento davanti ai fenomeni. Anassimandro (610 a.c.-546 a.c.) Secondo la tradizione allievo di Talete e pressochè suo contemporaneo, si interessò di vari argomenti che oggi noi definiremmo scientifici e anche geografici. Anassimandro rompe rispetto alla riflessione del maestro he pone il fondamento delle cose naturali in un elemento che ha caratteristiche sensibili e naturali come l'acqua. L’ ἀρχή di Anassimandro è l’ἀπείρων (apeìron) che in greco si traduce sia come infinito sia come indefinito. Rispetto al maestro potrebbe apparentemente sembrare un passo indietro, il ritorno a una tradizione più indefinita, tendente alla cosmogonia mitologica, ma in realtà rivela un notevolo salto in avanti e manifesta sicuramente un grado di astrazione maggiore rispetto al maestro. Aristotele sostiene che il motivo per cui Anassimandro abbia pensato all’indefinito come principio sia che si sarebbe accorto che un solo principio finisce per assorbire in sè tutte le cose non fornendo una spiegazione soddisfacente a un mondo variegato e molteplice come quello della natura. Tutte le cose, come riportano i frammenti tramandati da Simplicio, provengono e ritornano nell’ἀπείρων secondo una legge di necessità. Inoltre caratteristica fondamentale dell’ἀπείρων è il fatto che sia eterrno, infatti tutte le cose nascono da esso e ritornano in esso. Anassimandro avrebbe sostenuto l’immagine che gli elementi paghino pena l’uno all’altro. Probabilmente Anassimandro in questo modo vuole spiegare la natura animata che vede. La natura è infatti caratterizzata da cicli e ordini naturali sempre uguali, per pagare pena Anassimandro intenderebbe dunque il mantenimento del perfetto equilibrio naturale, ovvero nel momento che un elemento tenta di prevalere sull’altro pagherà tornando alla sua condizione generale mantenendo l’equilibrio. Secondo questa interpretazione l’ἀπείρων non sarebbe solo l’indefinito (non nel senso di una miscela di elementi dove il singolo elemento è irriconoscibile e quindi non definito, ma piuttosto un'unica materia nella quale i vari elementi non sono ancora distinti) ma rappresenterebbe l’ordine invisibile dei cicli cosmico-naturali. Se a Talete si attribuisce la frase tutto è pieno di dei anche Anassimandro definisce l’ἀπείρων come divino ma non come una divinità personale, ma come sostanza che regge la realtà e principio della vita. Il pensiero di Anassimandro, in quanto ogni ente, proveniente dallo stesso principio divino, ha tracce di vita e di divino è sia una forma di ILOZOISMO e di PANTEISMO. ritenendo che la loro mentalità da uomini comuni gli impedisca di vedere la realtà delle cose, come se per l’appunto stessero dormendo. Questo non vuol dire che la conoscenza sia esclusiva per Eraclito, ma bensì che per lo più del tempo sono gli uomini a non vederla perchè decidono di non vederla. Eraclito critica anche i cosidetti eruditi, gli esperti come Esiodo e Omero, in un frammento si riporta «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane ed Ecateo» sostenendo che per essere sapienti vuol dire riconoscere l’ordine naturale delle cose, non sapere moltissime cose. Questi eruditi hanno preso in considerazione una forma privata di conoscenza, ma l’intelletto è comune, è il λόγος , che è universale per tutti gli uomini. Quella della filosofia di Eraclito è una comprensione verticale,invita ad andare in profondità non ad accumulare orizzontalmente tante conoscenze. Il termine λόγος è un termine comune della lingua greca con molteplici significati. Si può tradurre con “parola, discorso, ragione” ma quello che ha in mente Eraclito è un disegno universale del mondo, un principio eterno, ma implica anche il significato di discorso, in quanto per Eraclito quando noi parliamo diciamo quello che è, e ad esistere è solo il λόγος. A livello linguistico quello che Eraclito attua è un processo di risemantizzazione di una parola comune della lingua greca di cui amplia il significato in un senso non più comune. Il λόγος appartiene a tutti gli uomini, in quanto tutti gli uomini sono dotati della capacità di articolare pensieri e discorsi razionali,ma ognuno di loro si comporta secondo una sua personale saggezza, spesso non riconoscendo il λόγος e la sua universalità, questi sono per l’appunto i dormienti, mentre i veri saggi veri saggi invece sono quelli che lo riconoscono nella sua universalità. Non è la conoscenza inaccessibile, sono gli uomini deficienti. Il λόγος ordina il mondo mediante Πόλεμος (pòlemos), traducibile con conflitto o guerra. Anche in questo caso siamo davanti a un fenomeno di risemantizzazione, in quanto in sè il termine è usato in modo comune per indicare la guerra o un conflitto, e ciò ci dimostra come il lessico tecnico della filosofia fosse ancora in una fase embrionale e non ancora ben articolato. Un frammento riporta «Polemos è padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.» L’elemento più originale della filosofia eraclitea è proprio questo. Il conflitto non è solo elemento distruttivo ma soprattutto elemento armonioso. Eraclito usa l’immagine dell’arco, l’arco non è la corda da sola nè il legno che le si oppone, ma è dato solo se i due elementi che lo compongono sono in un contrasto ma equilibrato. Per capire questo concetto è utile introdurre la Dottrina dei Contrari eraclitea. L’ordine del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti (fame-sazietà, pace-guerra, amore-odio ecc.) che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l'uno dell'altro, poiché vivono solo l'uno in virtù dell'altro: ciascuno dei due infatti può essere definito solo per opposizione, e niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. (Senza il male il bene non è riconoscibile, senza il buio la luce non è riconoscibile e così via). Per questo Eraclito insiste sul fluire delle cose (famosa l’errata frase attribuita al filosofo «Tutto Scorre»), perchè afferma «È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi.» ma anche «Non ascoltando me, ma il logos, è saggio intuire che tutto è Uno, e che l'Uno è tutto.» Gli opposti sono tutti un uno, esistono solo in relazione uno dell’altro, ed esiste una legge armonica che permette l’equilibrio di Πόλεμος ed è la legge del λόγος. Il λόγος viene anche descritto con l’immagine del fuoco, o πῦρ (pùr) cosa che sembra collocarlo in scia diretta con i milesi, è tuttavia solo un immagine metaforica. Eraclito ha scelto il fuoco proprio per la sua immagine di distruzione correlata a creazione e continuo cambiamento. L’altro grande elemento di novità importato da Eraclito è l’idea dell’esistenza di una legge che è ontologica e logica insieme che è inviolabile, a cui perfino gli dei sono sottoposti. Questo è un atteggiamento tipicamente greco, infatti i greci ragionavano secondo quella che a posteriori è stata chiamata coincidenza tra pensiero e essere, un’idea fortemente ottimistica se ci pensiamo in quanto se la legge logica è interpretata correttamente abbiamo la sicurezza che stiamo parlando di ciò che è, non c’è nessun genio maligno che tenta di ingannarci. Hegel afferma inoltre di aver preso ispirazione per la sua dialettica proprio dal filosofo di Efeso, afferma infatti : «Non c'è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica». Eraclito però, a differenza di Hegel non concepiva il conflitto come una forma necessaria alla progressiva presa di coscienza dell'assoluto, mentre per Eraclito il conflitto sembra consistere piuttosto nelle variazioni del mondo naturale che un uomo della Grecia del V sec.a.c può osservare. La scuola Eleatica La scuola Eleatica è una scuola filosofica attiva ad Elea, una colonia della Magna Grecia. Peculiarità della scuola Eleatica è l’innovazione dell’INDAGINE ONTOLOGICA, lo studio dell’ESSERE. La domanda che si pongono i filosofi Eleati è: come possiamo conoscere la realtà, se essa stessa ma anche noi stessi siamo in perenne cambiamento? Eraclito aveva infatti affermato il continuo mutamento del mondo che però apre il problema di determinare come si possa raggiungere una forma di conoscenza certa. Il fondatore della scuola Eleatica e l’iniziatore della ricerca di tipo ontologico in occidente è considerato essere Parmenide. Parmenide (515 a.c.-450 a.c.) Parmenide può essere considerato il padre dell’ontologia, ovvero della scienza dell’essere. Con essere intendiamo la totalità degli enti intesa come un unico insieme, e si ottiene sostantivando il participio neutro del verbo essere in greco, to òn, che aiuta ad intendere l’essere nel modo più astratto possibile, in una visione in cui essere e ente non coincidono. Parmenide narra di come arrivi a questa nozione nel suo poema che pensiamo si chiamasse “Sulla Natura”. Il poema era scritto in esametri, il verso della poesia omerica e quindi il verso poetico per eccellenza. L’opera parlava, o era divisa in sezioni con questo titolo, di ἀλήθεια (alèteia), la verità, e di δόξα (dòxa),l’opinione. Nel promeio dell’opera un giovane, che è Parmenide, è portato da un carro al cospetto della dea ἀλήθεια, davanti a una porta che è chiusa. Questa porta non è chiusa perchè inaccessibile a tutti, tutti possono aprirla e raggiungere la conoscenza reale, tuttavia non tutti possono arrivare al cospetto di questa porta. La dea assume un atteggiamento confortante, nonostante la via sia descritta in modo oscuro e tenebroso, riprendendo il mondo dei morti, richiamando una dimensione mitico-mistica che non ci deve stupire. Infatti la filosofia delle origini non è cosi nettamente distinta come potremmo pensarla oggi da una visione più mistica, e per questo Parmenide era anche un famoso taumaturgo. La dea rivela la verità ma dice “giudica tu col tuo lògos”, invitando Parmenide a non accettare passivamente e basta la verità, ma a sottoporla al vaglio dela ragione, per capire che è veramente l’unica verità. La verità rivelata è quella dell’essere, esistono due vie la via dell’essere e la via del non essere. Famosissima è la frase parmenidea “L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere” che afferma un ovvietà, è evidente che se qualifico una cosa come essere questa non può non essere. Per questa ragione solo la prima via è percorribile, in quanto il non essere non è, mentre la via dell’essere è la via della verità. Alcune fonti riportano anche di una terza via. quella della δόξα, una sorta di via di mezzo. Il problema parmenideo parte dalla comprensione di un modo in continuo divenire e molteplice. Secondo Parmenide l’uomo è creatura dalla doppia testa e che vedono la realtà come duplice, segnata dalla differenza tra conoscenza intellettiva (logica) e sensibile, solo la prima è vera mentre i nostri sensi ci ingannano, ma l’uomo non sa nulla, è sordo e senza giudizio e per questo si fa trascinare in modo disordinato dall’idea di un mondo molteplice. L’idea di un mondo molteplice per Parmenide è quindi una credenza dovuta alla fiducia riposta nelle esperienza immediata, tuttavia come già dice nel proemio per comprendere la verità del mondo bisogna usare la ragione. La verità è quella dell’essere. Parmenide afferma che quello che è non è generato, è senza confini, è imperituro, non ha movimento ed è continuo. Tutte queste affermazioni sono contradditorie rispetto alla nostra esperienza, come lo è la stessa nozione del non essere. Il non essere è ciò che non è e non può essere nemmeno pensato, ma nel momento in cui Parmenide gli da nome lo sta effettivamente concettualizzando, e come sosterrà Platone, se è concettualizzabile allora è anche pensabile. Platone nel “Sofista” in un passaggio che è noto come il Parricidio di Parmenide insisterà su questo punto, sostenendo che definire il non essere vuol dire ammettere che è quantomeno pensabile. Molto probabilmente Parmenide scrive del non essere perchè è una possibilità di espressione possibile nella lingua greca, non intende indicare il vuoto o il nulla, ma semplice tutto ciò che non è essere. Le caratteristiche dell’essere Parmenideo sono diverse. L’essere è ingenerato e eterno, perchè se fosse generato vuol dire che ci sarebbe un momento in cui l’essere non era e se non fosse eterno vuol dire che ci sarebbe un momento in cui non sarebbe più. Niente secondo i greci può nascere dal nulla o andare nel nulla, e lo stesso vale per Parmenide, inoltre se l’essere fosse nato in un momento preciso allora Parmenide dovrebbe spiegare perchè e perchè proprio in quel momento ma questa non è una spiegazione razionale. L’essere è poi omogeneo perchè altrimenti per un aspetto sarebbe in un modo e per un altro aspetto non lo sarebbe, è immobile perchè altrimenti muovendosi non sarebbe in un certo luogo, è indivisibile e unico perchè altrimenti una sua parte non sarebbe un’altra, è illiimitato, e in particolare Parmenide parla di una sfera perfetta per dare l’idea di pieno, perchè altrimenti dovrebbe esserci qualcosa al di fuori dell’essere a limitarlo, ma non è infinito perchè sennò sarebbe mancante di qualcosa e non sarebbe perfetto. Le caratteristiche dell’essere sono delineate usufruendo di un metodo razionale, deducendo le caratteristiche dalla ragione e da una premessa assunta per vera: “L'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere”. L’uomo ha il vizio di dare nomi alle cose, di categorizzarle, di individuare il molteplice laddove in realtà è tutto un’unità priva di opposizioni, non come diceva Eraclito un’unità data dalle opposizioni, basandosi sulla conoscenza sensibile. Parmenide arriva a negare la realtà del divenire e del mutamento basandosi sulla propria legge universale, una realtà che è evidente e che nessuno mai si sognerebbe di negare, ma che secondo Parmenide rientra negli argomenti dell’opinione, e dimsotra ciò attraverso argomentazioni razionali. Da questo punto dovranno poi ripartire i fisici pluralisti per spiegare la realtà molteplice del mondo tenendo conto delle prove e delle argomentazioni portate da Parmenide e dagli Eleati, Parmenide riprende quella coincidenza tra pensiero e essere tipica del pensiero greco. Tuttavia la vera conoscenza non deriva dai sensi, ma nasce dalla ragione. «Non c'è nulla di errato nell'intelletto che prima non sia stato negli erranti sensi» è la frase che d'ora in poi sarà attribuita a Parmenide. Il pensiero è dunque la via maestra per cogliere la verità dell'Essere: «ed è lo stesso il pensare e pensare che è. Giacché senza l'essere … non troverai il pensare», a indicare come l'Essere si trovi nel pensiero. Pensare il nulla è difatti impossibile, il pensiero è necessariamente pensiero dell'essere. Di conseguenza, poiché è sempre l'essere a muovere il pensiero, la pensabilità di qualcosa dimostra l'esistenza dell'oggetto pensato. Per quanto riguarda la dimensione dell’errore Parmenide si limita a dire che che gli uomini si lasciano guidare dall'opinione (δόξα), ossia giudicano la realtà in base all'apparenza, secondo procedimenti illogici. L'errore in definitiva è una semplice illusione, e dunque, in quanto non esiste, non si può trovargli una ragione. Compito del filosofo è unicamente quello di rivelare la nuda verità dell'Essere nascosta sotto la superficie degli inganni. Zenone di Elea (489 a.c.-431 a.c.) Parmenide fu il fondatore della scuola di Elea, dove ebbe vari discepoli, il più importante dei quali fu Zenone. Zenone mise al servizio delle dottrine del maestro Parmenide la sua notevole abilità logica e dialettica, inventando una serie di argomenti volti a screditare i critici della Filosofia di Parmenide sull'Essere e i sostenitori del pluralismo ontologico e del divenire. Le argomentazioni di Zenone costituiscono forse i primi esempi del metodo di dimostrazione noto come reductio ad absurdum o dimostrazione per assurdo, un tipo di argomentazione logica nella quale, muovendo dalla negazione della tesi che si intende sostenere e facendone seguire una sequenza di passaggi logico-deduttivi, si giunge a una conclusione incoerente e contraddittoria. Tale risultato, nella logica argomentativa, confermerebbe l'ipotesi iniziale, per mezzo della falsificazione della sua negazione. L’obiettivo di Zenone non è evidentemente dimostrare che il mondo non sia soggetto al divenire ma dimostrare con argomenti razionali e ben motivati come anche la tesi che il mondo sia soggetto al divenire sia assurda anche di più del fatto che non lo sia. Le argomentazioni di Zenone sono basate sul modello della geometria euclidea, e sono poi confutate da Arisotele che afferma che l’errore in queste argomentazioni sia nel rapporto tra mondo matematico e mondo reale, tra mondo puramente logico e mondo empirico. Tre di essi, in particolare, sono noti come "paradosso dello stadio", "paradosso di Achille e la tartaruga", "paradosso della freccia". In tutti il fine è quello di dimostrare che accettare la presenza del movimento nella realtà implica contraddizioni logiche ed è meglio quindi, da un punto di vista puramente razionale, rifiutare l'esperienza sensibile ed affermare che la realtà è immobile. Anassagora (496 a.c.- 428 a.c.) Celebre in particolare per l’atteggiamento naturalistico con cui studiava i fenomeni, evitando di ricorrere a spiegazioni di carattere mitico o religioso, come dimostrano le sue opinioni sulla natura del Sole, ritenuto un corpo incandescente, e la Luna, ritenuta un globo roccioso. Nativo di Clazomene in Ionia si trasferì poi ad Atene dove entrò a far parte del circolo di intellettuali che si riunì intorno a Pericle. Accusato dai nemici di Pericle di empietà e di altre accuse infamanti fu costretto all’esilio morendo nell’Ellesponto. Anassagora condivide con Empedocle gli stessi presupposti e pertanto moltiplica i principi per spiegare la natura di un mondo molteplice. Rispetto ad Empedocle tuttavia si chiede come sia possibile che solo quattro principi producano un mondo ben più variegato e molteplice. Se per Empedocle ciò era possibile attraverso la mescolanza delle quattro radici, e poteva affermare ciò analogicamente osservando come in natura dalla mescolanza di elementi diversi possa nascere un nuovo elemento, per Anassagora la risposta è che esistano infiniti principi. Per Anassagora esistono quindi infiniti principi, identificati come semi, ognuno per ogni qualità o elemento che possiamo vedere in natura. Aristotele ha poi chiamato questi semi omeomerie cioè parti uguali volendo dire che i semi per quanto divisi non perdono mai le loro caratteristiche qualitative, e pare che per Anassagora i semi fossero divisibili all’infinito. Mentre per Empedocle scomponendo la realtà prima o poi ci imbattiamo necessariamente nelle quattro radici, che sono le uniche qualità originarie, ma per esempio così si ammetterebbe che un pezzo di legno è composto da quattro elementi che non possiedono le caratteristiche del legno, che non sono omeomere al legno, e ciò per Anassagora non è ragionevole, un pezzo di legno dovrà essere composto da molte parti a esso omeomere. Anche per Anassagora la generazione e la morte delle cose sono spiegate dall’aggregazione e dalla disgregazione dei semi, ma Anassagora afferma che "tutte le cose sono in ogni cosa". L'oro, ad esempio, è costituito in prevalenza da semi d'oro, in esso però ci sono anche, in minor quantità, semi di tutte le altre sostanze.L'unione dei semi dà origine alla materia; essa si differenzia solo in base alla diversa qualità e quantità di semi presenti in essa. Questa spiegazione potrebbe essere dovuta a spiegare il mutamento e le metamorfosi delle cose nel mondo. Se sempre un pezzo di legno prende fuoco e si infiamma, evidentemente in principio conteneva dei semi di fuoco al suo interno. In questo modo Anassagora spiega le trasformazioni e il mutamento del mondo, sfuggendo all’ombra del non essere parmenideo. La parte probabilmente più interessante della filosofia di Anassagora è probabilmente quella che parla del νοῦς (noùs) che noi traduciamo come intelletto o come principio razionale. Il νοῦς spiega perchè i semi si aggreghino e disgreghino, Anassagora fa quello che Empedocle non aveva fatto, spiega il perchè i semi si aggreghino, mentre Empedocle non aveva spiegato cosa spingesse odio a rompere lo sfero perfetto e nemmeno perchè in quel esatto momento. Il νοῦς è completamente slegato e indipendente rispetto ai semi, mentre per esempio il λόγος era percepito in modo immanente rispetto alle cose. . Esso è «la più sottile e la più pura di tutte le cose e possiede completa conoscenza di tutto e enorme potere illimitato, indipendente e non mescolato a cosa alcuna, ma sta da solo in se stesso». Il concetto del νοῦς di Anassagora è poi ripreso da Platone e Aristotele. Questa intuizione dell’esistenza di un principio superiore è infatti elogiata da Platone e Aristotele che tuttavia criticano il modo in cui Anassagora lo ha concepito. Introducendo il concetto di causa o αἴτια (aìtia) formalizzato da Aristotele possiamo dire che il νοῦς è causa dell’ordine delle cose. Anassagora parla di un intelligenza razionale tuttavia Platone, per bocca di Socrate nel Fedone, dice di essere rimasto deluso dall’intelligenza del sistema di Anassagora in quanto è definito unicamente come una causa meccanica o efficiente, e pur essendo una forza intelligente questa non dispone le cose nel modo migliore possibile, e ciò per Platone è irragionevole. Nell’ottica platonica se il νοῦς è per l’appunto intelligente allora deve per forza essere buono, ma il νοῦς di Anassagora è impersonale e dispone le cose secondo un ordine non ben definito. Inoltre secondo Anassagora il νοῦς rompe con un esplosione un pieno perfetto originario e da lì crea liberamente, mentre per Platone il demiurgo opera secondo necessità, non crea ma da forma alla materia già presente. Per Platone e Aristotele il νοῦς è deludente perchè è unicamente un pretesto per spiegare il sistema di Anassagora, una miccia che faccia esplodere lo sfero originale, una sorta di deus ex machina, e non è invece pienamente sviluppato come una causa finale o realmente intelligente. Democrito (460 a.c.- 370 a.c.) Fondatore dell’atomismo pare sia stato il suo maestro Leucippo, ma di lui sappiamo così poco che questa teoria è da sempre associata al nome del suo allievo Democrito. Riguardo a Democrito ci sono poche notizie certe della sua vita, che si perde talora nella leggenda. Sarebbe cresciuto tra agi e ricchezze, ma avrebbe rinunciato, in seguito, ad una parte dei suoi averi per dedicarsi esclusivamente agli studi, ai viaggi ed all'osservazione della natura. Contemporaneo di Socrate morì molto anziano ad Atene. Egli scrisse più di qualunque altro presocratico o fisico pluralista, opere che a livello di contenuti comprendono sia la sfera filosofica dei presocratici sia altri argomenti filosofici quali la natura, l'uomo, la vita e la giustizia. Il riferimento a questi contenuti socratici è quindi ulteriore conferma della sua posteriorità a Socrate. La teoria atomica diventa poi importante perchè diventa il quadro ontologico e fisico dell’epicureismo. Il nocciolo fondamentale dell’atomismo democriteo, in contrapposizione rispetto alla teoria di Anassagora è il fatto che la realtà non può essere divisa all’infinito, quindi alla sua base devono esserci degli elementi primi indivisibili che sono per l’appunto gli atomi o in greco ἄτομος (àtomos) per l’appunto indivisibile. Ogni singolo atomo ha le caratteristiche dell’essere parmenideo, quindi eterno, omogeneo e indivisibile. Per Democrito la divisione non può essere infinita perchè è un argomento irrazionale, deve pur esistere una base della realtà e per l’appunto questa sono gli atomi. Il concetto di atomo di Democrito non ruota tanto intorno alla piccolezza quanto alla loro indivisibilità, in linea di principio l’atomo democriteo può essere grande come una mela, purchè sia indivisibile. Tutto è composto da atomi, perfino gli dei e l’anima. Le cose sensibili si creano dal continuo aggregarsi e scomporsi degli atomi e sono collocati a un livello di realtà tale che sono impercettibili all’occhio umano. I singoli atomi non sono diversi qualitativamente ma solo per forma, ordine e posizione. Le uniche caratteristiche che possiamo attribuire agli atomi sono quindi geometriche, che sono quindi da considerarsi come delle qualità prime, mentre tutte le altre sono solo qualità secondarie che derivano da queste. Le qualità che noi attribuiamo ai composti degli atomi sono solo qualità secondarie, e anzi Democrito scrive per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo, per convenzione il colore, secondo verità gli atomi e il vuoto, le caratteristiche che quindi non sono quelle primarie non appartengono agli oggetti, ma dipendono dai nostri organi di senso, sono qualità soggettive che non possiamo attribuire quindi agli atomi. Atomi rotondi e lisci daranno origine a una sensazione dolce, atomi spigolosi e ruvidi a una sensazione di aspro. Mentre per Anassagora tutte le qualità erano originarie per Democrito non è così, in quanto l’idea di Anassagora va contro al principio di omogeneità dell’essere di Parmenide. Uno degli elementi più interessanti della filosofia democritea è quello del vuoto. Per Democrito il movimento è un fatto, inattaccabile, e bisogna quindi trovare le condizioni a cui sia possibile. Il vuoto è condizione necessaria per il movimento degli atomi, per Democrito non può esistere movimento nel pieno, e il vuoto è l’unica dimensione possibile che permetta agli atomi di aggregarsi e scomporsi. Il vuoto non è tanto da intendersi come realtà fisica ma più come spazio, come la χώρα (kòra), lo spazio vuoto, in quanto il termine vuoto in ambito atomico verrà coniato solo da Lucrezio nel I secolo d.c. Gli atomi si muovono nel vuoto, in ogni direzione, in un movimento eterno senza principio e destinazione, privo di scopo. Il loro movimento è, secondo Democrito, necessario e dipende dal caso e non dall'esterno. Per questo motivo Democrito fu considerato da molti il filosofo della casualità, e lo stesso Dante per esempio lo definì come «Colui che il mondo a caso pone». Tuttavia Democrito da un lato spiega la realtà senza ricorrere a spiegazioni finalistiche, a cause divine o a leggi astratte, ma comunque secondo Democrito tutto avviene per necessità, secondo una forma di determinismo. La conoscenza si basa sulla meccanica atomistica: ogni oggetto, anche se appariva immobile e statico, era costituito da atomi in continuo movimento. La la superficie dei corpi era formata da uno strato di atomi più leggeri che si staccavano dal corpo stesso, di cui conservavano però la configurazione esteriore, producendo delle "emissioni atomiche", degli effluvi di atomi (quelli che poi Lucrezio definisce “Simulacra”). La conoscenza sensibile tuttavia forniva informazioni piuttosto superficiali e spesso ingannevoli sulle qualità degli oggetti percepiti, non era in grado é di cogliere la struttura profonda degli enti, quindi la loro natura atomica. Per questo motivo il frammento che ci riporta questo concetto è riportato proprio da Sesto Empirico, un neoscettico, perchè lascia spazio all’interpretazione che la conoscenza sia una convenzione. Per Democrito la conoscenza sensibile è convenzionale, ma esiste una conoscenza vera e non precaria che è quella degli atomi e del vuoto. La materia per Democrito è infinita, di conseguenza anche l’universo, e quindi esisterebbero altri mondi rispetto al nostro, è uno dei primi a teorizzare la pluralità dei mondi. Inoltre gli atomi sono soggetti a determinismo e meccanicismo. Democrito non è un filosofo che si occupa solo di natura, ma si occupa anche di gnoseologia ed etica, e questo è sicuramente dovuto anche al periodo storico-sociale in cui vive. Nella sua lunga esistenza Democrito scrisse anche opere di etica, in cui affermava che l'interesse maggiore dell'Uomo deve essere la felicità, che si ricerca attraverso una moderata cancellazione della paura: per questo egli divenne noto come il filosofo del riso, con una felicità che coincide con la moderazione e l’equilibrio. Diogene di Apollonia Della sua vita si sa poco se non che è vissuto nel V secolo a.c e che secondo Diogene Laerzio fu discepolo di Anassimene. La posizione che ci riporta Simplicio nel commentario della Fisica di Aristotele è molto interessante. In un periodo completamente influenzato dall’eleatismo e dal pluralismo Diogene difende la posizione dei primi esponenti della filosofia ionica ritornando al monismo, ma in una posizione più sofisticata. Per Diogene non ha senso che principi ontologicamente diversi possano incontrarsi per dare origine al mondo. Commenta Simplicio a me pare che tutte le cose risultino dall'alterazione di una stessa cosa e siano perciò la stessa cosa. Infatti se tutte le cose che esistono in questo mondo, come la terra, l'acqua, l'aria, il fuoco e tutte le altre, fossero ciascuna diversa dall'altra, perché di natura diversa, e non fossero invece la stessa cosa che cambia in molte forme diverse, esse non si potrebbero mescolare fra loro e a ciascuna non verrebbe dall'altra nessuna utilità come pure nessun danno, e nessuna pianta potrebbe nascere dalla terra e non potrebbero nascere animali o altri esseri, se non fossero composte in modo da essere la stessa cosa. In realtà, ciascuna cosa nasce ora in una forma, ora in un'altra, perché sono il risultato di un'alterazione di quella stessa cosa e a quella stessa ritornano. Diogene pensa quindi ad un’unica sostanza, molto probabilmente l’aria riprendendo la posizione di Anassimene, sottostante alla realtà che può mutare forma. Esistono quindi elementi diversi che interagiscono tra loro dando origine alle cose, ma questi sono solo modi di mostrarsi della stessa sostanza di fondo (ricorda un po’ Spinoza). In questo senso è chiara la vicinanza con Anassimene che sosteneva che tutto fosse aria e che tutto derivasse dall’aria tramite cambi di stato. Diogene rielabora un monismo tenendo conto delle posizioni dei pluralisti che lo hanno preceduto, tuttavia per lui la mescolanza di diversi principi è dovuta al fatto che sono la stessa sostanza solo che si presenta in modi diversi. In qualche modo sostiene anche che esista un’intelligenza superiore che ordini questo, riprendendo anche Anassagora. La riflessione su νόμος e φύσις e la sofistica Già a partire da Democrito la riflessione della filosofia si occupa anche di morale, e ricordiamo anche che Democrito infatti muore dopo Socrate. Tra i filosofi che più si occupano di temi come le tradizioni, la virtù, la legge e la natura umana ci sono i sofisti. I sofisti si dichiaravano come maestri di virtù e facevano pagare i loro insegnamenti. Anche per questo motivo furono La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia. Nel V secolo inizia una riflessione che si occupa delle consuetudini, delle convenzioni, dei costumi e dei conflitti che si instaurano tra e nelle comunità umane. Tra i temi principali c’è il contrasto tra il νόμος (nòmos) e la φύσις (fùsis), dove per νόμος intendiamo le norme, le leggi e le consuetudini stabilite dalla comunità umana e per φύσις intendiamo una legge non scritta, una sorte di legge naturale all’interno di ogni singolo individuo. Emerge in questo periodo anche il problema della comparazione dei diversi nòmoi dei diversi popoli, anche per sceglierne uno migliore. Già Erodoto nelle sue Storie riporta tracce di questo tema, per esempio riporta un aneddoto in cui alla corte di Dario, re persiano, l’ambasceria greca venendo a sapere che gli Socrate(469 a.c. - 399 a.c.) Socrate rispetto alla tradizione filosofica che lo precede è definito ἄτοπος (àtopos) ovvero inusuale, proprio per evidenziare la differenza tra la sua riflessione e quella dei filosofi che per l’appunto sono definiti presocratici. La sua figura è uno spartiacque per la storia della filosofia greca e non solo ed essendo il maestro di Platone ha avuto una influeza molto importante nel corso della filosofia successiva, per esempio Nietzsche vede in Socrate, e in Platone per riflesso, il grande corruttore dello spirito greco originario, colui che ha ingabbiato il mondo nella razionalità logica. Il rifiuto della scrittura e la “Questione Socratica” Socrate intendeva la ricerca filosofica come esame incessante di sé e degli altri, nessuno scritto può suscitare o dirigere un pensiero di questo tipo, in quanto si limita a comunicare o riportare una dottrina o una tesi. La verità secondo Socrate non poteva essere insegnata ma solo scoperta con una lunga indagine individuale. Per questo motivo Socrate non scrisse nulla, e anche perchè non riteneva possibile che la sua ricerca filosofica continuasse dopo di lui da uno scritto. Questa rinuncia ci pone però davanti al difficile problema di caratterizzare la personalità di Socrate. Possediamo tre testimonianze principali: quella di Senofonte nei Detti memorabili di Socrate, che si limita a una descrizione storica e esteriore senza riportare nessun contenuto filosofico, quella di Platone che lo fa parlare come personaggio principale della maggior parte dei suoi dialoghi, ma qui nasce il dubbio che le parole e i pensieri della figura di Socrate non siano altro che i pensieri e le parole di Platone, e che quindi nei suoi dialoghi non si possa ritrovare il Socrate storico, e infine la caricatura di Aristofane nelle Nuvole che presenta Socrate come un filosofo della natura che dà anche ai fatti più semplici spiegazioni eccessivamente complicate e come un sofista che rende più forti nelle parole i forti portandoli alla vittoria degli ingiusti sui giusti. La fonte fondamentale per la ricostruzione della personalità di Socrate è sempre Platone, ma è difficile dividere ciò che è stato effettivamente pensato da Socrate e ciò che è frutto del pensiero platonico. Per questo possiamo parlare di una vera e propria Questione Socratica. L’etica socratica La ricerca di Socrate ha come centro la ricerca del modo per raggiungere la felicità. Tutti agiscono in vista della felicità, specialmente in una società contraddistinta dall’eudaimonismo come quella greca. Gli uomini sono infelici perchè non sanno ricercare la felicità. L’infelicità è ignoranza, tutti gli uomini che si dicono infelici lo sono perchè non sanno come essere felici. La virtù, ἀρετή (aretè) in greco, ha nella tradizione il significato di eccellenza in qualcosa, in un comportamento o in un compito, e non implica in sè un comportamento morale. Per i greci è virtuoso l’uomo che eccelle in quello che fa. Per Socrate la virtù è in questo senso la conoscenza. Un uomo che compie il male è solo perchè non conosce il bene. Il concetto di felicità greca, o εὐδαιμονία (eudaimonìa), fa riferimento all’avere un buon demone o una buona sorte, Socrate e poi Platone ribaltano questo concetto, la felicità non è dovuta alla sorte, ma ognuno è fautore della propria felicità comportandosi bene. In questa visuale la virtù non è l’obiettivo utimo da raggiungere ma il mezzo con cui raggiungere la felicità. Il fine umano è la felicità e ogni azione si muove in questa direzione. Se chi quindi si comporta male sceglie il proprio male allora secondo Socrate non può esistere altra spiegazione che quest’uomo non conosca il bene, è infatti completamente irragionevole che un uomo scelga consapevolmente di non essere felice. Anche le scelte che a noi sembrano unicamente di rinuncia o sacrificio sono un modo egoistico per raggiungere la felicità. Chi fa il male lo fa perchè non conosce il bene, in quanto nessun uomo sceglie consapevolmente di non poter essere felice. Questo pensiero viene anche definito intelletualismo etico. Per Socrate siamo comunque responsabili delle nostre azioni, abbiamo il dovere di ricercare la conoscenza. La giustizia in sè è anche superiore alle leggi, ha un carattere sovraumano, e il dovere dell’uomo è ricercare la giustizia, per quanto egli non sia naturalmente portato alla giustizia ma al soddisfacimento dei propri bisogni. “So di non sapere” Nell’Apologia di Socrate ci viene descritto come Socrate sia stato definito dalla Pizia, la sacerdotessa dell'oracolo di Apollo di Delfi, come l’uomo più sapiente di Atene. Egli sapeva di non essere sapiente e quindi, poiché l'oracolo non può mentire, il vero significato del suo responso era che solo colui che si reputa ignorante è il vero sapiente. Socrate dunque sarebbe il più sapiente perchè pur essendo ignorante come ogni altro uomo è ben consapevole della sua ignoranza, e per questa ragione mentre l’uomo che presume in modo arrogante di essere sapiente non ricerca la conoscenza, lui ricerca la conoscenza in modo continuo. Egli quindi "investigando e ricercando" conferma l'oracolo del dio, mostrando così l'insufficienza di coloro che si dicono sapienti. Socrate interroga per le strade di Atene gli uomini più in vista della città, poeti, aristocratici, generali e politici, chiedendogli di definire dei concetti fondamentali, quindi quando le loro definizioni appaiono inadeguate e contradditorie, la cosidetta ἀπορία (aporìa), davanti allo smarrimento dell’interlocutore quindi la falsa sapienza viene smascherata. Tuttavia Socrate non dà definizioni, infatti lui non sa, alla fine del dialogo entrambi i personaggi sono costretti ad ammettere la loro ignoranza. Questo processo è caratterizzato dall’ironia. Il metodo socratico, basato dunque su domande e risposte tra Socrate e l'interlocutore di turno in modo serrato, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l'infondatezza delle convinzioni che siamo abituati a considerare come scontate e che invece a un attento esame rivelano la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) perché conduce per mano l'interlocutore con brevi domande e risposte per indurlo ad accorgersi della propria ignoranza Quindi non si basa sul tentativo di vincere l'interlocutore con la propria abilità retorica, così come facevano i sofisti. Socrate non contestava il fatto in sé che si potessero avere verità definitive, ma che venissero spacciate per tali delle convinzioni che non lo erano. Per questo per esempio Menone nel Menone platonico dirà «O Socrate, prima di incontrarti avevo sentito dire che tu non fai altro che sollevare difficoltà, tu stesso, e farne sorgere agli altri: e adesso, a quel che mi sembra almeno, mi affascini, mi ammalii, realmente mi incanti, al punto che sono pieno di dubbi. E mi sembri, se è opportuno scherzare anche un po’, in tutto assolutamente simile per l’aspetto e per il resto a questa piatta torpedine di mare. Essa infatti fa intorpidire chi di volta in volta le si avvicina e la tocca e anche tu mi sembra che abbia fatto ora con me qualcosa di simile, intorpidire; e infatti veramente io sono intorpidito nell’anima e nella bocca e non so cosa risponderti». Dall’Apologia di Socrate L’Apologia di Socrate è uno dei dialoghi platonici giovanili ed è la nostra principale fonte su Socrate e sul processo che portò alla sua condanna a morte nel 399 a.C. Seguendo la numerazione Stephanus ovvero il sistema di riferimento per la classificazione dei dialoghi di Platone la parte esaminata parte dal paragrafo 17a. Dopo che hanno parlato gli accusatori che sono Meleto, Anito e Licone, Socrate inizia il suo discorso di difesa. Socrate propone la sua autodifesa come il coronamento della rettitudine morale da lui seguita per tutta la vita. Socrate non ha l’intenzione di persuadere la giuria della propria innocenza, dichiara la sua estraneità dal linguaggio al linguaggio giudiziario, la propria inabilità oratoria e stilistica, e quindi prega il pubblico ateniese di ascoltare obiettivamente quello che ha da dire. Queste dichiarazioni potrebbero avere sia un intento parodico nei confronti della retorica contemporanea per esempio dei sofisti, ma è sopratutto un modo per affermare ancora la veridicità delle parole di Socrate, non gli interessa la forma delle parole ma che dicano il vero (18a) Le accuse che a Socrate sono principalmente due. La prima accusa è quella di corrompere i giovani la seconda è quella di empietà (ἀσέβεια, asèbeia) ovvero di non riconoscere gli dei tradizionali della città. Questa seconda accusa è particolarmente pesante nel mondo greco in quanto negare gli dei della città non vuol dire in sè rifiutare il culto degli dei olimpici ma rifiutare i valori cittadini che sono incarnati dagli dei poliadi, in una vera e propria religione civile. Socrate afferma poi di essere particolarmente spaventato da alcune accuse, quelle con cui gli Ateniesi sono cresciuti. Queste accuse sono le più radicate perchè gli ateniesi sono cresciuti assimilandole, attraverso per esempio la caricatura che è stata fatta di Socrate specialmente a teatro. Pensiamo per esempio alle Nuvole di Aristofane che rappresentano Socrate come uno dei tanti filosofi naturalisti, argomento di cui Socrate in realtà non si è mai occupato come poi rivendicherà affermando la sua differenza da Anassagora, e come addirittura un sofista, che a pagamento, come un ciarlatano, insegna l’arte della retorica che poi diventa in grado di ribaltare i concetti della virtù e di negarne l’universalità portando il caos e la corruzione (Nella commedia di Aristofane si arriva addirittura al momento chiaramente grottesco e parodico in cui Filippide allievo di Socrate arriva ad affermare che sia giusto picchiare il proprio padre Strepsiade, che contro le argomentazioni chiaramente esagerate e retoriche del figlio non potrà ammettere che è giusto che suo figlio lo corchi di botte). Questa influenza del teatro nella vita politica e civile ateniese a noi potrebbe apparire assurda, ma dobbiamo ricordarci quanto effettivamente fosse importante e noto a tutti ciò che era rappresentato a teatro, e quanto questo fosse un fenomeno rivolto a tutti e specialmente influente (Platone arriverà addirittura ad affermare che Atene è una teatrocrazia). Socrate si smarca dall’accusa di essere un sofista, e di quindi in qualche modo insegnare qualcosa ai giovani che possa corromperne i costumi e la mente. Socrate non insegna nulla ai giovani, perchè non ha niente da insegnare. Non sa niente. Sa di non sapere. E di conseguenza non avendo niente da insegnare, non può farsi pagare per insegnare qualcosa che lui non sa. Anzi, provocatoriamente arriva a dire di invidiare quegli uomini che si fanno pagare per insegnare la virtù e l’arte della parola, ma ripete che lui non ha niente da insegnare. Smentisce poi quelle accuse profondamente radicate negli ateniesi. Egli le contesta perché sa che è da queste che nascono le accuse di empietà: chi investiga su cose di tal genere è considerato come un uomo che vuole intromettersi negli affari divini (come successo ad Anassagora, costretto all'esilio perché predicava che gli astri fossero pietre e non dei). Gli sarà semplice: lui non sa nulla di queste cose scientifiche, nessuno lo ha mai effettivamente sentito parlarne (ammetterà di essersi interessato a queste cose ma di esservisi staccato in quanto non gli davano la sapienza necessaria); per l'accusa di insegnarle, se non bastasse quanto detto, c'è la consueta professione d'ignoranza da parte di Socrate: come può egli insegnare se non sa nulla? Poi cita il celeberrimo episodio del suo amico Cherefonte, il quale domandò all'oracolo di Delfi se vi fosse qualcuno più sapiente di Socrate; la risposta dell'oracolo fu "nessuno è più sapiente di Socrate". Il filosofo, che sapeva che il dio non mente, sapendo però di non sapere, non poté credere a quella risposta: cercò qualcuno che fosse più sapiente di lui, recandosi dai politici con fama di sapienti ed interrogandoli, per poi scoprire che essi in verità non sapevano nulla di quel che dicevano di sapere. Pur rendendosi conto di attirarsi l'odio di coloro di cui confutava la sapienza, Socrate passò poi all'esame dei poeti e degli artigiani, che quantomeno hanno delle conoscenze tecniche. Tuttavia nessuno possiede una vera conoscenza. Il filosofo capì quindi che l'oracolo aveva parlato in forma di enigma: Socrate è sapiente perché è il solo essere umano a sapere di non sapere, a differenza degli altri. Socrate inizia poi a smentire le accuse recenti di Meleto, e invita direttamente Meleto a rendere conto delle accuse. Prende atto l’impietosa distruzione della figura di Meleto. Egli aveva accusato Socrate di essere un empio e un ateo. Tuttavia Socrate diceva di sentire la voce di un δαίμων (daìmon) o essere divino che lo fermava prima di fare qualcosa di sbagliato, ma non avanzava mai proposte su fare qualcosa magari di giusto. Questo essere divino si manifestava come forma di delirio o di ispirazione divina, e se Socrate afferma di agire sempre tenendo conto della voce di un Dio allora non può essere ateo. Meleto accusa Socrate di non credere negli dei ma di dare ascolto ad un demone, ma il demone è esso stesso un Dio e quindi l’accusa di Meleto è ridicolizzata e contradditoria. Socrate afferma di essere accusato di non credere agli dei perchè crede a un dio, e tutto ciò è evidentemente assurdo e Meleto è costretto ad ammetterlo. Socrate ribadisce che, se sarà condannato, sarà solo per l'odio fomentato dalle antiche accuse. Ma ciò non lo scalfisce: egli non ragiona in termini di vita o di morte, teme solo di non vivere nel giusto; se non fosse questa la giusta condotta di vita, andrebbero biasimati tutti coloro che persero la vita in battaglia pur di aiutare il compagno in difficoltà, o lo stesso Achille dell'Iliade. Egli non teme la morte, teme solo di poter vivere nell’ingiustizia, in quanto è meglio subire che commettere un’ingiustizia, in quanto commetterla vorrebbe dire ricercare la propria infelicità e il proprio male. Socrate si considera un bene per la città di Atene per quello che fa. Socrate pungola le personalità più in vista della città, stimola le persone che prima pensavano di conoscere a cercare una vera conoscenza. Questa attività lo ha reso inviso a molti, ma ucciderlo per Atene sarebbe un male, quella di Socrate è una missione divina, deve smascherare l’ignoranza mascherata da presunta conoscenza. Socrate per ribadire quanto si è dedicato a questa missione rivendica la sua povertà. Socrate rifiuta la dimensione politica. Non partecipa alle assemblee, ma va dalle persone in privato a fare le sue domande. Socrate non ha capacità retoriche, non gli interessa persuadere le persone in politica, gli interessa dire la verità, e chi dice la verità per Socrate non può essere un bravo politico. Socrate, come poi Platone, è caratterizzato da uno spirito antidemocratico. La massa è irrazionale, non è in grado di controllarsi, figuriamoci di governare. Proprio questo spirito antidemocratico è problematico. Il processo ricordiamo si svolge poco dopo la caduta del Regime dei Trenta Tiranni, di cui uno dei membri più in vista è Crizia allievo di Socrate, e la restaurazione della democrazia ateniese. Socrate per quello che fa e per le sue posizioni è un personaggio scomodo per la restaurata democrazia ateniese. Socrate poi provocatoriamente ricorda ai giudici che egli avrebbe potuto far ricorso alle suppliche, alle proprie come a quelle dei suoi figli e della moglie Santippe: in questo modo vuole riproporsi come uomo determinato a fare il giusto, come spinto dalla verità e come rispettoso delle leggi: se supplicasse la grazia, e gli venisse accordata, farebbe infrangere ai giudici il giuramento di giudicare secondo legge. Con queste ultime Dalla Repubblica- Il problema della giustizia La Repubblica o πολιτεία (politeìa) è un ampio dialogo in dieci libri, che si occupa dei temi della giustizia e della politica. Platone risponde alla riflessione sofisitca di Protagora e Gorgia che erano arrivati a negare l’esistenza di una verità assoluta, affermazione che porta a stabilire che tutte le opinioni abbiano lo stesso peso specifico, e che quindi non esista nemmeno una giustizia, perchè tutto è relativo. Questo pensiero per Platone è estremamente pericoloso perchè rischia di coincidere con l’idea che la giustizia sia l’utile del più forte, idea incarnata dal personaggio di Trasimaco. In particolare nel secondo libro la giustizia è definita come un bene. Per Platone esistono beni che scegliamo di per sè, beni che scegliamo anche in vista di ciò che ne deriva e beni che scegliamo esclusivamente per ciò che ne deriva. É opinione comune che la giustizia sia un bene per ciò che ne deriva, la giustizia permette infatti di avere sicurezza e protezione per i propri beni, ma non un bene di per sè. Platone si oppone a questa concezione, sostenendo che la giustizia sia un bene sì per ciò che ne deriva ma soprattutto di per sè. Per sostenere la propria posizione riporta il mito dell’anello di Gige. Dopo un nubifragio e un terremoto, nel luogo dove Gige stava pascolando il suo armento, si aprì una voragine; meravigliato e spinto dalla curiosità, il pastore entrò e scoprì che tra le meraviglie di quel luogo sotterraneo c’era anche un bellissimo anello d'oro al dito, di cui si impadronì. Uscito dalla caverna, nel metterlo, scoprì per caso che girando il castone dalla parte interna della mano, diventava invisibile a chiunque, effetto che scompariva quando di nuovo girava il castone verso l’esterno. Godendo del potere dell’invisibilità, riuscì a sedurre la regina, che lo aiutò ad uccidere Candaule e a divenire il nuovo Re della Lidia. Nella Repubblica Platone utilizza questo mito facendolo narrare da Glaucone, suo fratellastro, che lo usa per dimostrare che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla tentazione di fare azioni anche terribili, se gli altri non lo possono vedere. Partendo da questo, Glaucone arriva a dire che la moralità è solo una costruzione della “società, che l'uomo rispetta per paura delle conseguenze e delle sanzioni. Una volta che queste sono eliminate, quando nessuno può vedere ciò che fai, la morale viene meno, e l'uomo si rivela per quello che è in realtà. Tuttavia Platone non è di questo avviso. La giustizia è un bene di per sè perchè permette di essere felici. L’esercizio della giustizia permette di raggiungere la felicità, e questo il saggio lo sa, solo che realisticamente parlando la maggior parte degli uomini è attraversata da pensieri orribili e quindi non lo sa. Il saggio non compie ingiustizia non perchè teme il biasimo altrui, ma perchè sa che commettendola sarebbe infelice, il saggio rifiuterebbe categoricamente di possedere l’anello di Gige in quanto comunque non commetterebbe ingiustizia, visto o non visto non fa differenza. Questa è la tesi rivoluzionaria sostenuta da Platone, ripresa da Socrate. La giustizia è un bene di per sè, e questo si scontra con la mentalità dell’uomo greco per cui l’uomo massimamente ingiusto, il tiranno, proprio perchè ingiusto è massimamente felice. Per Platone invece non è così, il tiranno può tutto, ma non è felice perchè non fa ciò che vuole, ma ciò che gli pare, cioè indiscriminatamente tutto quello che può perdendo di vista la felicità. Questa è la grande sfida di Platone, dimostrare che l’uomo massimamente ingiusto è massimamente infelice e che solo la giustizia rende felici. Sempre nel secondo libro Platone tratta della fondazione dello stato ideale. Il filosofo platonico deve governare, anche se non vorrebbe, perchè è il migliore, per evitare che governino i peggiori. L’idea politica di Platone è fortemente anti-democratica, la massa non si può controllare, figurati se può essere capace di governare. Per questo motivo bisogna lasciare governare i migliori, è in questo senso Platone sembra propendere per l’idea che l’unico modo per essere felici sia lasciarsi governare da questi migliori. Infatti tutti noi desideriamo e molti desiderano male, questi non solo non possono governare, per ovvi motivi, ma devono essere educati a desiderare dai migliori. La Repubblica, I Libro La Repubblica si apre con la discesa di Socrate nel Pireo, una discesa anche metaforica che come è una discesa nei meandri di Atene lo è anche nel pensiero di alcuni. Al Pireo si tiene uno spettacolo in onore di una dea orientale, la dea Bendis, un culto importato dai lavoratori traci del Pireo. Socrate vorrebbe già andarsene ma viene bloccato da un gruppetto di persone che gli impedisce di andarsene con la forza. L’elemento della forza è qui introdotto come un gioco, ma diventa poi centrale nel proseguire del dialogo, e alla fine Socrate dopo aver sentito che ci saranno cibo e bei ragazzi accetta di rimanere. Si recano a casa di Cefalo, presentato come un uomo fedele alle tradizioni, che ha appena fatto un sacrificio agli dei, anziano. Inizialmente Socrate e Cefalo discutono proprio sul tema della vecchiaia. Molte persone dice Cefalo pensano che la vecchiaia sia solo una maledizione, e anzi si sentono già morti. La vecchiaia è spesso identificata come la morte del divertimento, dei piaceri, per Socrate invece, ma anche per Cefalo la vecchiaia è un’età di gran lunga migliore della giovinezza in quanto si è finalmente liberi dalle pulsioni, dal piacere e ci si può dedicare alla riflessione e alla vita tranquilla. Platone è molto attento al tema dellἜρως (èros) o dell’amore passionale, ed è centrale nei dialoghi del Fedro e del Simposio. Nel Fedro si cita un discorso di Lisia per cui l’amore è follia, porta con se conseguenza irrazionali come la gelosia e la violenza, e per questo motivo sia meglio concedersi a chi non ci ama, a chi non è pazzo di noi. Senza arrivare a questo punto anche Platone chiama l’Ἔρως follia, o μανια (manìa), ma può essere sia una follia buona che cattiva. Questa può condurre al bene ma anche al male. La prima manifestazione descritta da Platone nel Simposio è l’amore per un corpo bello, che successivamente si estende all’amore per tutti i corpi belli. Questo passaggio consente il passaggio da un’idea di corporeità a supercorporeità, in quanto capiamo che i singoli corpi belli sono accomunati da una cosa che ce li rende desiderabili, ovvero l’idea di bellezza, che possiamo trovare anche nella giustizia o nelle leggi. Tuttavia Ἔρως può anche portare all’autodistruzione, e fa paura proprio perchè è una forza immane e irrazionale, e solo da vecchi si riesce ben a governarlo, perchè si è meno soggetti ad esso. Tornando a Cefalo, la sua unica paura dunque non è di morire, ma teme di essere stato ingiusto, e quindi teme una possibile punizione nell’aldilà. Viene così introdotto il tema della giustizia. Socrate chiede a Cefalo cosa per lui sia la giustizia. Cefalo risponde con non mentire e restituire i debiti, tuttavia Socrate non è soddisfatto di questa risposta in quanto dimostra che esistono singoli casi dove questa affermazione non vale. Se un amico mi presta un arma e poi impazzisce e più giusto non ridargli l’arma che ridargliela e se un mio amico sta male è più giusto dire una bugia bianca che la verità dura e cruda. Per Cefalo in realtà questi controesempi non cambiano molto, è chiaro che per lui essere giusto comunque vuol dire non mentire e restituire i propri debiti, ma è chiaro che esistendo dei controesempi questa non può essere la giustizia in sè. Si allontana Cefalo e prende la parola il figlio Polemarco che corregge la posizione del padre, che riprende il poeta Simonide affermando che la giustizia è rendere a ciascuno il dovuto, che in sostanza vuol dire fare del bene agli amici e danneggiare i nemici. Socrate parte con la sua confutazione. Quindi secondo questo principio sembra che Simonide più che il dovuto intenda ciò che si addice a qualcuno, quindi il bene agli amici e il male ai nemici. Se la giustizia è una tecnica come le altre allora deve giovare a qualcuno, l’uomo giusto deve dare a qualcuno ciò che gli si addice, ma se l’amico sta male non interviene l’uomo giusto ma il medico, se un un amico sta affogando ci pensa il capitano, non interviene mai l’uomo giusto, ma un uomo che ha il compito, e riceve una ricompensa, di fare ciò. Allora Socgrate, visto che sembra che la giustizia sia inutile chiede a Polemarco cosa voglia dire realmente la frase di Simonide. Polemarco risponde che intende stringere alleanze in tempo di guerra e contratti in tempo di pace. Ma per stringere alleanze e contratti non serve l’uomo giusto, ma il diplomatico, che spesso non è giusto ma anzi il più delle volte cerca di difendere un interesse. Allora Socrate osserva anche che secondo la definizione di Polemarco non si capisca cosa intenda con contratti. Polemarco intende la società, ed esausto, sostiene che l’uomo giusto è il miglior custode di denaro, in quanto non è disposto a rubarlo nè ad usarlo ma lo conserva, per Socrate però questa posizione è paradossale perchè l’uomo giusto in questo caso serve solo quando il denaro è nascosto, quando è inutile, e sembra ancora che sia quindi inutile essere giusti. Polemarco tuttavia rimane convinto che la giustizia sia fare del bene a coloro che ci appaiono amici e del male a coloro che ci appaiono nemici. Anche qui è però incalzato da Socrate, che ricorda come spesso gli uomini sbagliano a riconoscere gli amici e i nemici, spesso invertendoli, e finiscano a fare del male agli amici e de bene ai nemici, ma allora Polemarco si corregge, giustizia è fare del bene agli uomini buoni e del male agli uomini cattivi, non che come ci appaiono ma per come sono. Socrate comunque non è soddisfatto perchè secondo Polemarco l’uomo giusto fa ingiustizia contro i cattivi, che così diventano ancora più cattivi, quindi l’uomo giusto compiendo un atto giusto fa il male e rende l’uomo ingiusto ancora più ingiusto, cio è assurdo, l’uomo giusto non compie mai il male. La giustizia non può rendere più ingiusti, così come la musica non può rendere musicalmente ignoranti. A questo punto interviene ferocemente Trasimaco, che è descritto come una belva feroce, che immediatamente si scaglia contro Socrate, sostenendo che sia troppo facile fare domande senza mai rispondere, e chiede a Socrate una reale definizione, concreta senza utilizzare parole vaghe come l’opportuno, l’utile, il giovevole. Trasimaco è ferocissimo, è accomunato a un lupo che nella tradizione greca con il solo sguardo toglie le parole a chi lo vede. Socrate trova la forza di rispondere e lo fa in modo ironico, ma viene bloccato da Trasimaco, che a questo punto afferma che la giustizia sia l’utile del più forte. Socrate prova a rispondere sostenendo che non è vero che ciò che è utile per il più forte sia utile per tutti, per esempio se ad un lottatore, sicuramente più forte di Socrate e Trasimaco, è utile mangiare carne in grandissima quantità questo non vuol dire che sia utile anche ai più deboli. Trasimaco, furioso, risponde che non ha detto che ciò che è utile al più forte sia giusto, ma che invece che il più forte può imporre come giustizia tutto ciò che è utile a lui senza rendere conto a nessuno. Trasimaco avverte Socrate, non è come Cefalo o Polemarco, è molto più intelligente di loro, e non si farà abbindolare dai suoi giochi di parole. Socrate allora prova ad abbozzare una confutazione. Se la giustizia è l’utile del più forte, e il più forte è colui che fa le leggi, allora essere giusto vuol dire obbedire sempre a chi fa le leggi, ma coloro che governano non sono capaci e fanno leggi che vanno contro i loro propri interessi e fanno l’interesse dei sudditi. Per Socrate, seguendo il ragionamento di Trasimaco, visto che essere giusti vuol dire obbedire a chi governa allora sarebbe giusto seguire le leggi da loro imposte anche andando contro il loro interesse. Trasimaco risponde a tono, sostenendo che ancora Socrate non ha capito, il più forte non commette errori, e nel momento che li commette non è più il più forte. Nel momento in cui sbaglia è ancora nominalmente governante ma il più forte e chi riesce a fare il suo interesse fregandolo. Qui Trasimaco chiede inoltre chiarezza a Socrate sostenendo che esistano due registri del linguaggio, uno colloquiale, e uno specifico, e che se si vuole ragionare correttamente allora bisogna usare un lessico specifico. Il nuovo attacco di Socrate verte sul fatto che ogni arte opera l'interesse di ciò per cui essa esiste, la medicina per esempio fa l’utile del corpo, e l’utile di ogni tecnica è rendere perfetto il suo interesse. Allora bisogna chiarire se ogni opera sia perfetta o imperfetta. Se questa è imperfetta, tesi che è improbabile Trasimaco sostenga, allora ha bisogno di un’altra tecnica perchè è difettosa, se invece è perfetta, ed è quindi più forte, ricerca l’utile del suo ambito di competenza, nel caso della medicina del corpo, che è il più debole. Allora anche la giustizia in quanto opera fa l’utile del più debole. Trasimaco sbrocca. Affermare che la medicina cura il corpo malato per il bene del corpo malato è come dire che il pastore pascola la mandria per il bene dei suoi capi, ma ovviamente il pastore pascola la mandria perchè ha interesse che sia in salute per venderla o nutrirsene. La giustizia è quindi un bene altrui, ed ancora una volta è l’utile del più forte, in questo caso del pastore. Socrate agli occhi di Trasimaco, che ora si accorge che è veramente convinto che la giustizia non solo esista ma che sia un bene, è un ingenuo, un bambino. Mentre Cefalo e Polemarco erarno solo degli ipocriti che avevano paura di affermare la verità delle cose davanti a tutti, che hanno paura a dire che la giustizia sia un male, Socrate è un bambino ingenuo. Per dimostare ancora la sua tesi Trasimaco prende due esempi agli estremi, l’uomo massimamente giusto e l’uomo massimamente ingiusto. Tutti invidiano il tiranno, tutti vorrebbero essere lui, tutti vorrebbero poter tutto come lui, e parlano male dell’ingiustizia solo perchè se ne sono le vittime, ma se fossero al posto del tiranno si comporterebbero ingiustamente proprio come lui. Invece l’uomo giusto non solo non è invidiato ma è anzi spesso evitato e odiato per il suo essere massimamente giusto, e spesso isolato. La tesi di Socrate, e di Platone, è per questo surreale, come può l’uomo massimamente ingiusto essere più infelice dell’uomo massimamente giusto. Socrate allora risponde che chiunque tragga vantaggio dalla propria arte (ad esempio un medico) non lo fa tramite quella stessa arte (la medicina), ma tramite la capacità di farsi pagare per essa (ossia associando a essa la μισθωτικὴ τέχνη, mistotikè tècne, l’arte del guadagnare ). Socrate allora introduce il tema politico e chiede se i cittadini governino volontariamente per tranrne utilità. Trasimaco è convinto di sì, ma allora Socrate chiede perchè mai chi governa è ricompensato se già fa il suo utile? Perchè chi governa fa il bene degli altri, per questa ragione deve quantomeno essere ricompensato, e per questo nessuno vuol governare. I migliori scelgono di governare per evitare che governino i peggiori, non per la ricchezza e non per l’onore. Qui ora si sta ormai parlando se sia meglio vivere in modo giusto o in modo ingiusto. Qui emerge anche la differenza tra il pensiero di Callicle e il pensiero di Trasimaco. Trasimaco afferma che non esiste un quadro dei valori che è giusto ma ogni sistema è equivalente, la giustizia è l’utile del più forte come il concreto affermarsi dell’uno o dell’altro dipendentemente dalle circostanze, per Callicle invece esiste un quadro dei valori che è giusto di per sè, quello che comporta il dominio dei forti sui deboli. In sè la tecnica non ha il compito di arrichirsi ma ha uno scopo diverso, si occupa solo del suo campo di interesse. Dunque il governante non deve pensare ai propri interessi quando ricopre tale compito, e per non poterlo fare secondo Platone l’unico modo è far coincidere l’interesse pubblico con quello privato. (Nel III libro della Repubblica presenta il mito delle stirpi. Alcuni devono governare ed è necessario che i più si lascino governare, chi governa deve essere sapiente.Il mito narra che gli uomini prima di venire alla luce erano sotto terra e con loro c'erano le armi e ogni tipo di manufatto. Nonostante fossero tutti uguali, quando li plasmò il dio decise che alcuni di loro dovessero essere destinati a governare e perciò mescolò dell'oro nella loro stirpe. Nei soldati, invece, mescolò dell'argento e nei contadini e negli artigiani ferro e bronzo, i metalli non nobili. Quindi c’è qualcuno che deve goverare, ma non è tanto una differenza qualitativa dalla nascita quando dettata dalla sapienza.) ragionamento che ragiona se è sconveniente o meno soddisfare il proprio desiderio, e quindi permette di soddisfarlo o meno. Per spiegare questo viene introdotto un aneddoto la storia di Leonzio. Leonzio, uomo nobilissimo e rispettato, si aggira fuori dalle mura cittadine. Qui si imbatte nel boia che esegue delle esecuzioni, e quando vede i cadaveri sente il desiderio irrefrenabile di guardarli. Leonzio sente tuttavia una forza che si oppone a questo desiderio, ma non è un ragionamento, è qualcosa di istintuale, è qualcosa di emotivo. Alla fine cede e maledice i suoi occhi per averlo voluto godere del macabro spettacolo, ma rimane il problema di chiarire che cosa lo frenasse se non era un ragionamento e quindi qualcosa proveniente dalla facoltà razionale dell’anima. Il motivo è sempre irrazionale, ed è lo θυμός, che è un modo d’essere, non frutto di un ragionamento razionale. Questa facoltà sembra associarsi alle pulsioni, al carattere emotivo dell’anima e emotivo (irascibile). Platone ha quindi dimostrato razionalmente la tripartizione del’anima e il fatto che sia composta da due parti irrazionali e da una parte in minoranza di razionalità. La parte razionale, come ricorda il Mito della Biga Alata nel Fedro ha il difficile compito di dirigere l’anima secondo ragione, mediando tra queste due parti che sono tra loro in conflitto. La parte razionale per vincere si allea con lo θυμός. Questa alleanza è addirittura naturale, infatti la parte desiderativa non si allea con quella irascibile, si limita a desiderare, mentre naturalmente noi abbiamo impulsi buoni, a patto che abbiamo ricevuto una buona educazione o παιδεία (paideìa), che è quindi fondamentale per non avere cattivi impulsi. dovuti a uno θυμός malato che ha un rapporto malato con la ragione. Lo θυμός non è certamente razionale ma non è nemmeno parte desiderativa, perché il desiderio può essere mediato dalla ragione,non può allearsi con essa. Sembra che l’etica platonica sia un’educazione del desiderio. Tutti desideriamo, però bisogna che siamo in grado di guidarlo, e per farlo è assolutamente fondamentale l’educazione, e per poter somministrare un’educazione corretta è necessario che lo stato non sia corrotto, ma perfettamente giusto, l’uomo non è cattivo è solo mal educato. L’anima razionale può dominare le parti irrazionali dell’anima, è difficile, per alcuni impossibile, ma è possibile, è questa armonia permette la giustizia. La giustizia è armonia, ed essere giusti vuol dire essere amici di sè stessi, ovvero avere un anima in armonia. L’idea negativa dell’arte in rapporto con l’anima Anche per questo Platone ha un’idea negativa dell’arte. I poeti vanno cacciati dalla città ideale o Καλλίπολις (kallìpolis), le favole raccontate ai bambini vanno censurate, perchè stimolano le parti razionali dell’anima, le emozioni, la fanno spaventare, commuovere, adirare, e questo tipo di educazione, alternativo e avversario a quello della filosofia rende ancora più difficile l’armonia dell’anima, in quanto la parte razionale in minoranza deve affrontare due parti ancora più incandescenti. L’immortalità dell’anima A sostengo dell’immortalità dell’anima è famoso l’aneddotto del Fedone relativo al caso dell’uguale. In natura non esiste il perfettamente uguale, ma solo il simile. Noi non facciamo mai esperienza quindi dell’idea del perfettamente uguale, eppure è evidente che mentalmente la possediamo, noi possiamo dire che due cose sono uguali avendo in mente un concetto di uguale perfetto che non possiamo conoscere empiricamente, che è già in noi, ed è in noi perchè Platone sostiene che l’anima è immortale, e in realtà la nostra conoscenza sarebbe un ricordo di qualcosa conosciuto precedentemente, prima della nascita in una fase intermedia dove l’anima può osservare direttamente le idee. Questa si chiama teoria dell’anamnesi o della reminiscenza. Repubblica, X Libro Platone afferma che l’anima vada quindi osservata nuda, indipendentemente dal corpo. Noi però in vita possiamo vederla solo connessa al corpo. Platone parla allora di un mito, introducendo un sistema di premi e punizioni nell’aldilà. Questa uscita escatologica si spiega con il fatto che Platone voglia affermare che il saggio non si comporta bene perchè spera di essere premiato nell’aldilà, ma perchè fare il bene lo rende felice in vita. Per questo Platone utilizza il mito o μύθος (mùthos) non perchè ci creda davvero ma per meglio spiegare il suo disengo alla massa. Il mito di Er Il mito in questione è il Mito di Er. Uomo valoroso muore in battaglia, ma successivamente gli è concesso di resuscitare affinché possa raccontare ai vivi quello che ha visto. Dopo la morte l’anima di Er si era unita alle altre in cammino verso l’aldilà arrivando davanti a due spaccature, una in alto e una in basso. Dei giudici divini ordinano alle anime ingiuste di entrare nella fenditura inferiore e a quelle giuste in quella superiore, in vista o della punizione o della beatificazione. Altre anime escono dalle spaccature invece e si ricongiungono in un prato, dove le anime che hanno sperimentato la punizione possono testimoniare quanto sia stato terribile e apprendere quanto invece sia stata bella la beatificazione. Qui apprendiamo anche che le anime dei tiranni, gli ingiusti per eccellenza e inguaribili per questo, non hanno una fine al loro tormento ultraterreno essendo costrette a subire la punizione che gli spetta per l’eternità. Le anime sono allora portate davanti alle tre Moire, Cloto, Làchesi e Atropo. Davanti a Làchesi sono messe davanti a tanti modelli di vita o demoni, tra cui, in un ordine casuale scelto mediante sorteggio, dovranno scegliere. Per la prima volta, contro l’intera tradizione greca precedente, l’infelicità è frutto di una nostra scelta, non unicamente del caso o del volere degli dei. Certo il caso ha un suo peso, come testimonia l’elemento del sorteggio casuale, infatti gli ultimi potrebbero non poter più scegliere tra le vite migliori, ma dato che le scelte possibili sono molte di più delle anime chiamate a scegliere, viene sottolineata la responsabilità della scelta. L’unico rischio è quindi quello di scegliere male, e si sceglie male solo se non si è stati educati a scegliere il modello di vita giusto. Saper scegliere è molto importante dato che le vite in questione non sono completamente buone o cattive, ma sono complesse, sono miste. Inoltre bisogna anche ragionare bene sui presunti pregi di queste vita in quanto, come viene anche descritto nell’Eutidemo, anche le cose che ci possono apparire come beni come la ricchezza o la bellezza se non si sa come usarli diventano tra i mali peggiori. Quindi è molto facile sbagliare, e anche per questo il banditore consiglia alle prime anime chiamate a scegliere di scegliere con criterio. Dopo tutto questo pippone il primo sceglie malissimo, e inizia a lamentarsi con le Moire, col destino e le altre anime, non accusando il vero colpevole, ovvero sè stesso. Curioso è il fatto che il primo non proveniva dal gruppo di anime che aveva subito la punizione, ma bensì la beatificazione. Questo perché aveva vissuto in una costituzione dove effettivamente i governanti erano i saggi, ed in vita quindi si era limitato ad imitare il loro comportamento, a imitare la virù, senza però realmente apprendere qualcosa, quindi non era realmente virtuoso. Invece chi ha subito la lunga punizione è molto più attento a scegliere. Dopo che tutte le anime hanno scelto sono condotte al fiume Lete, dove bevono l’acqua che dà l’oblio, per poi reincarnarsi non ricordano niente di questa esperienza. A fine libro, e quindi a fine opera, Platone scrive, abbiamo salvato il discorso, ovvero dopo questo dialogo si è salvata la validità del valore della giustizia, garantito dall’immortalità dell’anima, e si è descritta la figura del tiranno per quella che è, una bestia, uno schiavo delle passioni, quindi un uomo infelice o addirittura terrificante. Essere felici è quindi una scelta, e per compiere questa scelta bisogna essere giusti, è fondamentale prendersi cura della propria anima, solo così si potrà essere felici, e questa è una scelta di cui la completa responsabilità è da attribuirsi agli uomini, il caso sicuramente esiste e ha un suo peso, ma in ogni situazione si può scegliere di fare il bene. Quello di Platone è quindi un tentativo di reclamare per la filosofia una dimensione pubblica e politica. La filosofia deve educare, ed è l’unica educazione che permette di affermare che la giustizia sia un bene in sè. Aristotele (384 a.c.-322 a.c.) L’Etica La posizione etica di Aristotele è influenzata sicuramente da quella platonica, ma se ne discosta molto. Per Aristotele gli uomini quando agiscono lo fanno in vista di uno scopo o τέλος (tèlos), ed esiste una gerarchia di scopi ad apice di cui c’è quello che chiamiamo bene. Gli uomini sono in disaccordo sia sulla sua natura, sia su come si possa ottenere. Se il bene è fine ultimo deve quindi essere perfetto, ricercato solo in virtù di se stesso, è autosufficiente. Noi chiamiamo bene molte cose, ma esiste solo un bene in vista di cui gli uomini agiscono di per sè e solo in vista di quello, ed è la felicità. Gli uomini possono sbagliarsi circa cosa sia la felicità, ma tutti sono d’accordo sul fatto che sia il bene. Gli uomini si sbagliano riguardano la felicità, ricercandola in modo sbagliato, un’idea difficile da concepire per noi moderni per cui ogni uomo ricerca la felicità a modo suo. Aristotele concepisce la felicità in senso soggettivo, l’attività attraverso cui si ricerca la felicità, ma soprattutto oggettivo, esistono dei criteri oggettivi che determinano quando una vita è pienamente realizzata, quindi felice. Quindi come Platone tiene conto del desiderio, che ci spinge a ricercare la felicità in un determinato modo, ma è possibile determinare in modo oggettivo quando una vita è felice e quando non lo è. Potremmo pensare che l’etica di Aristotele sia utilitarista, tuttavia la felicità per lui non è ricercata in quanto massima espressione del piacere o della tranquillità, ma per sè stessa. Rapporto tra piacere e felicità Potremmo obiettare che alcuni uomini scelgono il piacere in vista di sè stesso. Di questo avviso è per esempio l’accademico Eudosso, per cui sarebbe il piacere il bene supremo, ciò a cui tutti tendono. Il ragionamento di Eudosso è quasi un sillogismo, ciò a cui tutti tendono è il bene, tutti tendono al piacere, allora il bene è il piacere. Un altro accademico, Speusippo, corregge la posizione di Eudosso, sostenendo che non tutti gli enti tendono al piacere come fine sommo, ma solo gli enti irrazionali. Gli enti razionali sarebbero invece capaci di un calcolo dei piaceri, similmente a qualcosa che anche Platone dice nel Filebo, ovvero sarebbero dotati di una moderazione razionale. Per Aristotele invece la felicità coincide non con il piacere ma con la vita priva di turbamento, poi ripresa nel concetto di ἀταραξία o atarassìa di Epicuro, per cui il piacere, concepito in senso negativo, è assenza di dolore, non positivamente qualcosa di aggiunto. L’Etica Nicomachea e la sua eredità L’Etica Nicomachea è il primo trattato di Etica della filosofia occidentale, insieme all’Etica Eudemia sempre di Aristotele. In generale è piuttosto difficile determinare quale dei due trattati sia stato scritto prima, anche a causa del fatto che alcuni libri sono identici. I due trattati definiscono la felicità come un’attività di una vita perfetta secondo virtù, la differenza è che nell’Eudemia la virtù non dipende dall’abitudine, mentre nella Nicomachea il ruolo dell’abitudine è fondamentale, e per questo si propende a sostenere che la scrittura della Nicomachea sia successiva a quella della Eudemia, dopo la lettura delle Leggi di Platone. L’Etica Eudemia si fonda sulla virtù come stato naturale, mentre l’Etica Nicomachea smentisce questa tesi. L’Etica Nicomachea è stata fortemente ripresa anche nella filosofia del novecento. Nel periodo in cui nella filosofia europea l’approccio positivistico si sta perdendo, portando alla formazione di molte nuove correnti filosofiche l’esistenzialismo, la teoria critica dei francofortesi o la fenomenologia, nel caso della filosofia continentale per esempio, e poi la filosofia analitica. Questa filosofia novecentesca critica la filosofia politica moderna basandosi invece sulla nozione di πόλις con cui Aristotele ragiona. Leo Strauss, in Che Cos’è la filosofia politica?, ritiene che la filosofia politica sia endossale, ovvero basata sulla discussione delle opinioni condivise da tutti o dalla grande maggioranza. La filosofia morale e poi politica non deve solo descrivere o prescrivere gli atteggiamenti, ma deve essere legata all’attività, alla ragion pratica, alla saggezza pratica, e per questo diventa attuale Aristotele, perchè parla di una saggezza pratica e non prescrittiva e teoretica come quella di Platone. Anche Gadamer sottolinea questo aspetto, per avere una vita buona serve l’agire, la ragion pratica. Potremmo dire che esiste il contrasto tra sapere e saper fare, tra Platone e Aristotele, e il modello legato all’attività aristotelico è più vicino alla sensibilità contemporanea. felicità è un’attività, non nel senso di unicamente raggiungere il proprio scopo, ma attività secondo virtù, e animali e piante sicuramente non agiscono secondo virtù. Per Plotino invece Aristotele comunque sbaglia ad utilizzare il termine vita riferendosi ad animali e piante e nelle Enneadi sostiene che solo la vita umana sia veramente vita mentre animali e piante si limitano a sopravvivere perché non hanno un’anima discesa. Per Aristotele la differenza sta nell’attività razionale dell’uomo. Potremmo anche osservare che esistono uomini, afflitti da gravi patologie psichiche, che non possiedono il λòγος. Aristotele, in un modo che noi forse definiremmo brutalmente logico, sostiene che queste persone non possano essere felici, utilizza il termine τέρας (tèras) per riferirsi a loro, un termine che si può anche tradurre come mostro, sostenendo che questo dimostra come normalmente l’uomo sia dotato di λòγος e la loro sia una eccezione. Certamente questo è lontanissimo dalla nostra sensibilità moderna, pensiamo per esempio al testo Animali Razionali Dipendenti di Macintyre dove si dimostra che il termine che definisca un uomo non sia percepito dall’uomo stesso come la capacità razionale, infatti noi non declassifichiamo come non uomini le persone che non la manifestano in modo evidente ma anzi li tuteliamo maggiormente, ma come la natura umana stessa. Non ha senso provare ad attualizzare il pensiero di un filosofo della Grecia del IV secolo a.c. ma è comunque curioso vedere come si sia evoluta la nostra sensibilità e vedere come poteva ragionare, in una sequenza rigorosamente logica, un uomo comunque figliio del suo tempo. Contro l’argomento di Solone La domanda successiva è allora chi possa dirsi felice. A proposito viene riportata la tesi di Solone. Solone, saggio e politico ateniese, davanti al re di Lidia Creso, l’uomo più ricco del suo tempo, che gli aveva chiesto chi fosse l’uomo più felice del mondo, aveva risposto un certo Tello di Atene, uno sconosciuto, sostenedo che fosse stato felice perché aveva vissuto una vita all’insegna della tranquillità e dell’onestà. Creso deluso, aspettandosi che rispondesse che era lui l’uomo più felice, chiese chi allora fosse il secondo uomo più felice del mondo e poi il terzo, e vedendo che non veniva nominato chiese perché. Solone rispose che ancora non poteva dire se la vita di Creso fosse felice o meno, perché era ancora vivo, e dato che la vita è soggetta a moltissimi cambiamenti, per lo più improvvisi, avrebbe dovuto aspettare che Creso morisse per visionare la sua vita per intero e dire se fosse stata una vita felice o meno. Per Solone possiamo dire la vita di qualcuno felice solo dopo la morte, perché possiamo esaminarla nella sua completezza. Questa tesi per Aristotele è assurda. Un morto è riconosciuto universalmente come privo di turbamenti, ma Aristotele mostra come anche le azioni dei nostri discendenti possano attaccare la nostra serenità anche se siamo morti. Viceversa la vita è per definizione caratterizzata da continui mutamenti, improvvisi e anche radicali, e ciò è inevitabile, ma questo non vuol dire che non si possa essere felici nei mutamenti o nonostante le disgrazie, almeno che non siano troppe disgrazie e troppo dure da sopportare, ma questo è il caso di una vita su un milione, è il caso per esempio che è toccato a Priamo, ma di norma nessuno affronta così tante grandi disgrazie. Noi poi diciamo un morto felice solo perché lo abbiamo visto felice in vita, ma non è felice perché è morto. La sorte quindi non è un fattore che intacca la nostra felicità, e qualcosa di cui certamente si deve tenere conto (e questa è la differenza con le etiche epicuree e stoiche), ma se la felicità è un’attività dell’anima secondo virtù noi possiamo agire secondo virtù anche nelle disgrazie, sentendole ma resistendo con più calma e dignità possibile. Certo può essere meno o più difficile essere virtuosi ma possiamo sempre scegliere di esserlo con un grande spirito o μεγαλοψυχία (megalopsuchìa). Inoltre mentre secondo Solone io non posso sapere cosa può accadere durante la vita invece Aristotele sostiene di poterelo sapere. Sa infatti con sicurezza che sarà piena di cambiamenti e di sfide, e sa anche che l’uomo virtuoso cercherà comunque esercitando l’abitudine virtuosa di essere felice. Esistono cose degne di lode e cose degne di onore. La felicità è una cosa degna di onore. La lode infatti implica una relazione, riguarda infatti un ambito specifico, io lodo qualcuno rispetto a qualcosa in cui eccelle. La felicità non implica questa relazione, perché è un’attività, non un ambito. Questo serve a ribadire come la felicità sia un principio. In rapporto al Filebo di Platone dove si afferma che la felicità è una gara in cui l’uomo concorre per il secondo posto perché il primo è gia agli dei. Per questo quando Aristotele parla di virtù, parla della virtù umana, di quella che realmente possiamo constatare. Per questo il politico deve conoscere bene l’anima, per poter governare e rendere migliori i cittadini nell’ambito della loro virtù umana. Il politico deve indagare non riguardo all’anima in generale e in assoluto, ma rispetto a ciò che gli è utile per governare. Non è come era per Platone, chi governa non deve necessariamente essere filosofo e conoscere l’anima nel dettaglio, ma gli basta conoscere l’anima in relazione in quanto serve, deve essere un buon politico non un buon filosofo. L’anima in relazione alla virtù Nel Timeo Platone aveva attribuito a delle parti del corpo la presenza delle diverse parti dell’anima, l’anima razionale nel cervello, l’anima desiderativa nel cuore, l’animo irascibile negli organi genitali, affermando la loro netta distinzione. Aristotele nell’Etica non si pone nemmeno il problema di affermare o meno la netta distinzione tra le parti dell’anima, gli basta affermare che sia divisa in una parte razionale e una irrazionale, e che esite un’irrazionalità che può allearsi con la ragione e una che non può per definizione. Una prova di questo è il fatto che gli uomini possano contenersi rispetto ad alcune cose e non rispetto ad altre. Esiste quindi sicuramente in loro una parte pulsionale e una desiderativa, di cui l’indagine sulla prassi umana deve tenere conto. Distinzione tra virtù morali e intellettuali, l’abitudine e il giusto mezzo Esistono virtù morali o etiche distinte dalle virtù intelletuali o dianoetiche. Le virtù intellettuali sono apprendibili tramite l’insegnamento, mentre le virtù morali non sono insegnabili. L’insegnamento infatti richiede tempo, ma la morale si impara tramite l’abitudine che non richiede tempo. Sicuramente potremmo pensare che abituarsi a qualcosa prenda del tempo, tuttavia essendo l’abitudine la ripetizione sempre uguale di un’azione, non richiede tempo perché essendo l’azione sempre uguale già la prima volta che agisco lo faccio moralmente. Il ruolo centrale dell’abitudine è una caratteristica unica dell’Etica Nicomachea ed è una delle grandi differenze con l’Etica Eudemia, questo per Pierluigi Donini sarebbe la prova che l’Etica Nicomachea è stata scritta in un momento posteriore da Aristotele rispetto all’Eudemia, dopo essere stato influenzato dalla lettura delle Leggi di Platone. Nell’Etica Eudemia era molto più importante invece il ruolo della natura, ma l’uomo non è virtuoso per natura, al massimo per natura l’uomo è predisposto a comportarsi moralmente, ma la virtù non è una capacità o una facoltà come potrebbe essere la ragione. in quanto non è innata, si acquisisce col tempo, con l’esercizio. Una cattiva abitudine può rendere impossibile l’esercizio della virtù. La virtù è il giusto mezzo. L’esempio è quello del coraggio, non è coraggioso l’uomo che non ha paura di niente, è temerario, e nemmeno l’uomo che ha paura di tutto, è codardo, lo è l’uomo che ha paura delle cose di cui si deve avere paura. A provare la predisposizione dell’uomo verso il giusto mezzo sono il piacere e il dolore che si provano quando si agisce moralmente o non si agisce moralmente, il dolore è la cura per riportare gli uomini ad agire moralmente, per questo li puniamo e pensiamo sia giusto punirli. Per alcuni la virtù è impassibilità o ἀταραξία, lo era già per Democrito e lo sarà per le scuola di Epicuro e di Zenone di Cizio, ma Aristotele rifiuta questa tesi, e probabilmente ha in mente Speusippo, filosofo accademico. La virtù è anche impassibilità ma non coincide con essa. L’impassibilità totale implica una passività, ma abbiamo detto che la felicità è un’attività, sicuramente è virtuoso l’uomo che si trattiene o l’uomo che sopporta con calma e serenità le disgrazie, ma ciò non è il signifcato completo della virtù, che è l’azione virtuosa. Il ruolo della conoscenza nell’esercizio della virtù In questo Aristotele prende una certa distanza dall’etica platonica, si può essere virtuosi anche senza conoscere in senso pieno la virtù, lo si può essere per caso o perché guidati, mentre per Platone il vero uomo virtuoso non è colui che riproduce l’azione morale per imitazione ma che conosce la virtù e agisce secondo di essa. Le virtù sono disposizioni, le azioni morali sono azioni consapevoli e deliberate, quindi per esercitare la virtù sono condizioni fondamentali la consapevolezza e la deliberazione, in questo senso l’uomo giusto è l’uomo che compie le azioni come le compirebbe un uomo giusto. Si può compiere un atto virtuoso per caso, ma l’uomo veramente giusto è colui che ha indossato l’abito morale e che ormai non si pone più il dilemma se un’azione sia giusta o sbagliata, già lo sa. La natura del giusto mezzo Il giusto mezzo non è da intendersi in senso matematico. Rispetto alla natura di ognuno di noi il giusto mezzo cambia. L’eccesso e il difetto sono nemici del bene e lo rovinano, ma il giusto mezzo si pone in questa linea in una posizione diversa a seconda della nostra natura. Per un lottatore il giusto mezzo di cibo per mantenersi in forze sarà sicuramente diverso dal nostro giusto mezzo di cibo per mantenerci in salute. Inoltre il giusto mezzo dipende anche dal momento e dalla situazione in cui ci troviamo. Alcune azioni sono intrinsecamente negative e non possieodono un giusto mezzo. Non tutte le cose hanno un giusto mezzo, rispetto all’omicidio non potrò essere un omicida equilibrato e quindi buono, è in sè una cosa cattiva. Il giusto mezzo appartiene al caso particolare. Etica Nicomachea, X Libro La felicità non è uno stato abituale, altrimenti apparterebbe anche a un uomo virtuoso ma che non esercita la virtù, è attività dell’anima secondo virtù. La felicità è fine di ogni azione umana, non è il divertimento, che è equiparato al riposo e prepara all’azione seria secondo virtù. Quindi dato che il riposo non può essere il fine, ma qualcosa che prepara. L’attività per raggiungere la felicità è l’attività teoretica. Aristotele dice che la filosofia racchiuda piaceri grandiosi, quelli intellettuali. I piaceri corporei sono alla portatata di tutti, e chi ha provato entrambi sostiene che non ci sia paragone per quanto sono meglio quegli intellettuali. Risulta meglio conoscere che faticare nell’indagine, e la scoperta di qualcosa che a lungo ci è stato ignoto è fonte di grande gioia. La fisica, II Libro Composta da 8 libri, ognuno un trattato su un argomento diverso, possiamo dividerla in due blocchi unitari. I libri I-IV spiegano la generazione degli elementi naturali, i processi naturali e il movimento. I libri V-VIII parlano in maniera più specifica del movimento, con il libro VII che ci è giunto solo frammentato e il libro VIII che afferma l’insufficienza dei principi fisici per spiegare la completezza del cosmo, preparando il terreno alla metafisica. Il rapporto tra metafisica (termine mai utlizzato da Aristotele ma introdotto nel linguaggio della filosofia da Andronico di Rodi che avrebbe utilizzato questo termine per indicare lo studio delle cose che stanno oltre il mondo fisico) e la fisica, è quello tra una filosofia prima e una filosofia seconda. La metafisica è la scienza che ricerca i principi, occupandosi delle cause, della sostanza, delle categorie e di Dio, qualcosa di immateriale, mentre la fisica spiega i fenomeni e i modi della sostanza. Natura della fisica aristotelica La fisica di Aristotele è molto distante da quella che oggi noi chiamiamo fisica. Non ha ovviamente una base sperimentale, ma cerca di spiegare con l’utlizzo della ragione, e di facoltà come la dialettica e l’induzione il funzionamento delle cose. Nel libro I critica duramente la filosofia eleatica, che si era chiamata fisica. Infatti la filosofia eleatica nega il movimento, mentre il movimento è principio fondante della fisica, un qualcosa di immediatamente ovvio anche solo dal semplice osservare il mondo. Per questo dato che la filosofia eleatica nega uno dei principi fondamentali della fisica non è fisica. Anche per questa ragione Aristotele, che nel libro I illustra e analizza le posizioni di tutti i filosofi che prima di lui si sono occupati della natura, si limita a riportare la posizione degli Eleati, in quanto comunque autorevole, ma non ci si sofferma e non la confuta se non a livello dialettico, in quanto non ha senso parlare se si vuole parlare di fisica perdere tempo a occuparsi di una posizione che fisica non è, sarebbe anzi addirittura forse impossibile in quanto le posizioni di Aristotele dovrebbero rispettare dei principi e quella degli Eleati no. La natura del movimento Dai Presocratici noi avremmo ereditato l’idea che il movimento sia il passaggio da un contrario all’altro (viene facile per esempio pensare ad Eraclito), ma per Aristotele questa spiegazione non è soddisfacente. Per spiegare la natura del movimento utilizza una metafora. Non è il non musico che diventa musico, ma è per esempio Socrate che da non musico diventa musico. Non è il passaggio completo da un contrario all’altro ma qualcosa rimane, e questo (Socrate) è il sostrato. Aristotele spiega il movimento attraverso tre elementi, l’elemento che non cambia che è il sostrato, ciò che non si era è la privazione, ciò che si diventa è la forma. Il movimento è l’acquisizione di un sostrato del contrario che non possiede, ma la cosa non cambia di natura trasformandosi, ed è facile intuire ciò se pensiamo al meccanismo di potenza e atto. Inoltre Aristotele afferma anche che i principi della scienza non possano essere infiniti perché altrimenti non si potrebbe avere una scienza. Gli enti per natura Gli enti che sono per natura sono quelli che hanno il principio del movimento in essi stessi. Lo sono gli esseri viventi e i quattro elementi empedoclei. Le cose artificiali (artefatti) non sono per natura, e infatti non hanno in esse stesse il principio del movimento, e infatti se ci pensiamo per muoversi hanno bisogno di uno stimolo esterno. Esiste una differenza tra enti naturali e artificiali. Per Aristotele ogni elemento tende a un determinato. Questa è la dottrina dei luoghi naturali, che spiega anche in che senso possano esistere oggetti inanimati ma naturali. Un corpo, libero da ogni costrizione, si muoverà spontaneamente o verso il basso, come il caso della terra e dell’acqua, o verso l’alto, come il caso dell’aria e del fuoco. Gli enti artificiali potrebbero tendere a un luogo naturale solo perché fatti di un determinato ente naturale, e per questa ragione se vedessimo un oggetto fatto di pietra cadere verso il basso il principio non sarebbe nel tavolo ma nel fatto che è di pietra. Questa è la differenza tra essere per natura e essere secondo natura. Esistono comunque delle eccezioni, pensiamo al caso del fulmine, in questo caso il fuoco tende verso il basso, ma questo non vuol dire che agli occhi di Aristotele la natura sia caotica, ma funzioni “per lo più” e le eccezioni ne confermano la sua regolarità. La definizione della natura Aristotele non si pone nemmeno il problema di dimostrare che la natura esista, per lo stesso motivo per cui non ha senso provare a dimostrare che il movimento esista. L’esistenza della natura è un dato oggettivo immediatamente sperimentabile in modo empirico, e quindi è ovvio che sia vera. Più complesso è dire ciò che sia la natura. Potremmo pensare che la natura sia solo materia. Riporta quindi la posizione di Antifonte. Se noi sotterrassimo un letto se questo fosse materia allora germogliebbero letti, tuttavia germoglia il legno (l’albero). Secondo questa posizione apparirebbe evidente come il legno sia un elemento Td A —_ PROV Cel E SEN ER SANE NETTE)
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