Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

storia della filosofia medievale, Sintesi del corso di Storia Medievale

riassunto discorsivo della vanni rovighi.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 02/06/2023

marica-petrocelli-1
marica-petrocelli-1 🇮🇹

4.8

(5)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica storia della filosofia medievale e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! FILOSOFIA MEDIEVALE - MANUALE VANNI ROVIGHI Capitolo 1: la filosofia patristica. 1. Introduzione: la filosofia nel pensiero cristiano. il compito che la filosofia assolve nel pensiero cristiano è quello di rendere intellegibile la “buona novella” cristiana, l’Evangelo si presentava come una dottrina di salvezza e non come un sapere ma questa stessa dottrina di salvezza implicava affermazioni teoretiche: l’esistenza di un unico Dio, Padre che è nei cieli. A questi presupposti segue una dottrina morale fondata sull’amore verso gli uomini, considerati tutti come fratelli perché tutti figli di un unico Padre, Dio. Gli scritti dei padri apostolici mirano soprattutto a edificare una vita cristiana, dunque hanno carattere morale-ascetico. Nel momento in cui si doveva presentare e difendere la dottrina cristiana dinanzi agli uomini colti del paganesimo, un certo confronto con la filosofia si impose tanto più che in quel periodo la filosofia si presentava spesso come una dottrina di vita e in un certo senso di salvezza. Questo elemento è presente anche nelle epistole di S. Paolo e nel Prologo del 4° Vangelo: al loro interno sono impliciti concetti filosofici, il che non deve stupire per due motivi: (1) [di carattere storico] ogni uomo, anche quando deve esprimere un messaggio ricevuto, lo esprime coi termini e i concetti che trova nella cultura del suo tempo. (2) [di carattere teorico] se una verità oggettiva esiste, non desta stupore il trovarne echi ed espressioni negli scritti più diversi. In fondo, lo stupirsi che due scrittori che dichiarino di attingere a fonti diverse (l’uno alla rivelazione religiosa e l’altro alla ragione umana) dicano cosa analoghe, suppone la tesi che lo scrittore-filosofo sia il creatore della dottrina che enuncia ed esponga un suo modo di sentire anziché un suo modo di vedere la realtà. Non era questa la persuasione dei Padri: essi erano persuasi che il Cristianesimo avesse loro meglio rivelato quella verità che i filosofi avevano già intravisto, sia pur frammentandola a molti errori. L’aver sottolineato l’aspetto identico tra verità conosciuta razionalmente e la verità rivelata non deve farci dimenticare gli aspetti diversi, che sono due, secondo la stessa convinzione degli scrittori di cui dobbiamo parlare: (1) la rivelazione fa meglio conoscere quella verità alla quale la filosofia era arrivata imperfettamente; (2) il Cristianesimo ci fa conoscere alcune verità che la filosofia non aveva conosciuto (es.: trinità e incarnazione del Verbo). 2. Fiducia nella ragione: S. Giustino, la scuola di Alessandria, Origene. Giustino martire, il più grande filosofo degli apologisti del 2° secolo. nel Dialogo con Trifone egli racconta come perviene al Cristianesimo: dopo aver cercato invano soddisfazione alla sua sete di verità nello stoicismo, nella filosofia peripatetica, in quella pitagorica, trovò nella filosofia platonica una risposta più adeguata ai suoi problemi. Ma più tardi un vecchio cristiano gli mostrò l’insufficienza anche di questa dottrina ed egli si convertì al cristianesimo, dove trovò la vera e sicura filosofia. Questa sua esperienza lo portò a valorizzare la filosofia poiché questa fu per lui un avviamento alla verità piena del Cristianesimo e nello stesso tempo a dichiararne l’inferiorità rispetto alla dottrina cristiana. In Giustino c’è la persuasione che il Cristianesimo è non un limite imposto alla ragione ma un arricchimento rispetto a ciò a cui può giungere la ragione stesse: di qui una fiducia, un atteggiamento aperto verso la filosofia e nello stesso tempo la persuasione della sua insufficienza e dei suoi limiti – non imposti dal di fuori ma derivati dalla sua stessa natura. Il concetto filosofico che offre a Giustino una maggiore apertura teologica è quello storico del logos: c’è un’eterna ragione, identica con Dio (elemento originale rispetto alle filosofie contemporanee che avevano tendenza a farne un intermediario tra Dio e mondo) e questa si è incarnata in Cristo. C’è poi un “seme” di ragione che è una partecipazione al logos divino ma distinto da esso ed è sparso in ogni uomo. In virtù di essa gli uomini, anche prima del cristianesimo, poterono conoscere alcune verità che sarebbero poi state più pienamente rivelate dal logos divino incarnato in Cristo. Tra gli apologisti del 2° secolo ricordiamo anche Tiziano, discepolo di Giustino, che sottolinea però l’inferiorità della filosofia rispetto alla dottrina cristiana ed ha verso di essa un atteggiamento negativo, diversamente dal maestro Milziade, Atenagora e Teofilo di Alessandria – quest’ultimo svolge una dottrina del logos e, come Giustino, ritiene che l’anima umana sia immortale solo per dono di Dio e non per natura. La ragione non solo avvia il cristianesimo ma serve a far capire meglio la verità cristiana, a darcene la gnosi. Il termine, in questo significato ampio, di approfondimento, comprensione del dato rivelato, è comune a ortodossi e eterodossi e corrisponde a quell’intellectum fidei (comprensione della fede) che anche la teologia classica si propose di conseguire ma assunse un significato speciale in una eresia (o groviglio di eresie) che occupano un posto notevole nel 2° secolo e suscitarono la controversia e la confutazione da parte di scrittori ortodossi. Le dottrine caratteristiche dell’eresia gnostica sono il dualismo e l’affermazione di intermediari fra Dio e il mondo. Non tutto ciò che esiste deriva da Dio: accanto e coeterno a Dio c’è qualcosa di tenebroso e intrinsecamente cattivo, identificato con la materia; il mondo sensibile risulta da una mescolanza fra emanazioni di Dio e il principio oscuro. Emanazioni di Dio perché fra l’eterno e altissimo Dio e il mondo c’è una serie di intermediari, gli enoi, che sono di sostanza divina e vanno degradando via via che si allontanano da Dio. Intorno a queste dottrine centrali sta poi una massa di cosmologie fantastiche che descrivono la processione degli enoi da Dio e il sorgere dell’universo il cui Demiurgo non si identifica con Dio. Da Dio emana invece direttamente lo spirito santo che si è incarnato in Cristo (secondo alcuni in un corpo solo apparente); ulteriore caratteristica che si individua nello gnosticismo è la svalutazione dell’Antico Testamento. Contro lo gnosticismo S. Ireneo 1 afferma l’unicità di Dio e la sua trascendenza rispetto al mondo, vi è un solo Dio che è lo stesso creatore del mondo: il Verbo di Dio che si è incarnato in Cristo è identico a Dio. La creazione è opera della libera volontà divina. Lo gnosticismo era un tentativo di interpretazione filosofica del Cristianesimo che si mescola con elementi fantastici e da questo si capisce anche la visione di alcuni che vedevano la filosofia come un pericolo per la fede cristiana: è il caso di Tertulliano; si tratta di un atteggiamento di diffidenza nei confronti della filosofia che sarà proprio dei Padri latini fino a S. Agostino. Atteggiamento diverso è quello di Clemente Alessandrino di Origene, nato verso la seconda metà del 2° secolo ad Atena da una famiglia pagana. Egli andò ad Alessandria, grande centro culturale in cui vi erano rappresentate tutte le fedi e tutte le filosofie, e qui si convertì al Cristianesimo e tenne scuola. Il suo atteggiamento nei confronti della filosofia è analogo a quello di Giustino. Nel protrettico Clemente, partendo dai miti di Anfione/Arione e Orfeo, osserva che queste sono favole assurde e che uno solo è il cantore capace di amministrare gli uomini e di condurli verso la luce e il bene: Cristo. Dopo la critica dei miti e dei misteri pagani viene anche quella dei filosofi che hanno identificato Dio con qualche aspetto della natura (peccano del medesimo naturalismo dei mitologi) ma c’è anche del buono nei filosofi: la verità da loro sfiorata va completata e la pienezza di questa si trova nei Profeti e in ciò che Cristo ha rivelato. Si noti bene che non bisogna fermarsi alla semplice accettazione di ciò che Dio ha rivelato: bisogna arrivare all’intelligenza, alla gnosi di questo dato, alla quale giova la filosofia. dalla filosofia Clemente assume la dottrina del logos. La gnosi di Clemente differisce profondamente da quella degli eretici perché suppone la fede, l’accettazione previa della dottrina rivelata; certo però la gnosi ha una grande importanza per il pensatore, tanto che la purezza morale è intesa come mezzo per giungere ad essa. Discepolo di Clemente fu Origene (185-255) il quale ebbe dal padre la prima istruzione cristiana e a 18 anni fu messo a capo della scuola catechista di Alessandria. Da qui si dedicò allo studio della Sacra Scrittura ed a una durissima ascesi. Il valore del suo insegnamento attirò nella sua scuola catecumeni da preparare al battesimo e gente colta e filosoficamente istruita e per andare incontro ai problemi posti da costoro che Origene si mise a studiare filosofia nella scuola di Ammonio Sacca (maestro di Plotino). Dunque, Origene arrivò alla filosofia dopo la sua adesione al cristianesimo e ciò spiega il minore entusiasmo per la filosofia: per lui la filosofia non era stata necessaria per arrivare al Cristianesimo ma, ciò nonostante, ebbe un atteggiamento aperto nei confronti della filosofia, riteneva che si dovesse prendere da essa tutto il buono. Nella sua opera si manifesta l’influsso del medio platonismo. Le sue idee filosofiche sono contenute nel Contra celsum (contro il cielo) e nel De principiis (di principi), in quest’ultimo sono contenute le sue dottrine più discutibili – le quali furono condannate nel Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553, in particolar modo le dottrine della caduta delle intelligenze e del ritorno allo stato primitivo della creazione*-. Origene pensa che originariamente, e ab eterno, siano state create solo sostanze intelligenti: gli angeli di cui parla la Bibbia, alcune di queste intelligenze si ribellarono a Dio e, da questa ribellione, ebbe origine il mondo sensibile poiché le intelligenze ribelli caddero in un corpo; quindi le anime umane sono le intelligenze cadute in un corpo, mentre gli spiriti caduti più in basso sono i demoni ma questo non è lo stato finale del mondo: tutte le creature saranno redente e torneranno alla loro origine; il mondo corporeo sarà riassorbito nel mondo spirituale.*L’idea dell’apocatàstasi era molto diffusa ma Origene la modificò in senso cristiano poiché non parla di eterno ritorno ma di un ritorno che avrà un termine finale. Queste dottrine discutibili non devono oscurare i meriti dell’opera in quanto fu la prima sistemazione del pensiero cristiano. Origene nel De principiis svolge la sua dottrina partendo da Dio uno e trino (Padre, figlio e spirito santo – trinità), venendo poi alla creazione, all’uomo, all’incarnazione, alla redenzione. Concepisce Dio come assolutamente trascendente e, rompendo con le concezioni naturalistiche della creazione, afferma che la creazione è un atto libero della volontà divina. Dio ha creato ogni cosa nel logos che è l’idea archetipa del mondo. L’affermazione di libertà: atto di libertà è la creazione, atto di libertà è caduta delle intelligenze anch’esse dotate di libera volontà, atto di libertà – da parte di Dio e da parte dell’uomo che gli risponde- è la redenzione. 3. I padri di Cappadocia. ð S. BASILIO (330-379) uomo ricco di cultura greca. Nelle sue Omelie sull’hexaemeron si rivela una notevole conoscenza delle teorie cosmologiche dei filosofi (Platone, Aristotele e stoici) e una grande libertà di fronte ad esse. Libertà che potrebbe sembrare ostilità se non fosse piuttosto espressione di netta consapevolezza della diversità di piano a cui appartengono la verità religiosa e le opinioni dei filosofi-scienziati. Bisogna notare, infatti, che le opinioni dichiarate estranee alle verità religiose sono sempre teorie cosmologiche, come quelle che riguardano le essenze dei corpi che costituiscono l’universo o su cosa poggia la terra, e che al disinteresse succede la polemica solo quando queste pretendono di essere spiegazione ultima dell’universo e di porsi contro la verità rivelata nella Sacra scrittura. Accade che nel polemizzare S. Basilio dia le sue spiegazioni pseudo scientifiche ma la sua preoccupazione è quella di distinguere i piani delle verità religiose e delle opinioni cosmologiche. Nel momento in cui una teoria cosmologica sembrasse probabile, cioè che spiegasse un aspetto dell’universo, questa non renderebbe inutile la verità religiosa poiché alcune volte la verità religiosa implica delle verità che noi chiameremmo filosofiche ad esempio: “il mondo è stato creato e ha avuto inizio”. La materia non è coeterna a Dio e coloro che hanno affermato ciò attribuiscono a Dio la povertà della natura umana (che ha sempre bisogno di una materia su cui operare). La creazione si estende a tutto l’essere del creato <<Dio concepì tutto insieme come doveva essere il mondo e produsse insieme alla forma di esso una materia che gli fosse adatta>>. Nel momento un cui si trova nelle 2 conversione al cristianesimo era necessaria anche la conversione morale: il distacco dalla donna, dall’ambizione di far carriera. Il distacco è descritto nel libro 8° delle confessione e si compì nell’autunno del 386. Di qui segue il suo ritiro a Cassiciaco e la preparazione al Battesimo che Agostino riceve a Pasqua del 387. Il primo problema filosofico che Agostino trattò è quello della certezza: se sia possibile conoscere la verità, il problema che si pone è in stretta connessione con il problema della beatitudine: tutti vogliono essere felici. È possibile essere felici senza conoscere la verità? E poiché sappiamo che la beatitudine è pienezza di vita, ciò implica la sapienza… ci può essere sapienza senza possesso della verità? La sapienza è solo ricerca della verità o esige il possesso della verità? Al termine del Contra academicos, Agostino è certo che noi possediamo almeno alcune verità che possono essere: Indubitabili: l’esistenza dell’io che ricerca e necessarie: verità matematiche. Sempre nel contra academicos S. Agostino mette in rilievo l’indubitabilità delle verità necessarie a cominciare dal De beata vita in cui insiste sulla indubitabilità dell’esistenza dell’io; nel De libero arbitrio dalla riflessione sull’io e sulle verità indubitabili nasce la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Dopo aver riconosciuto la propria esistenza come verità indubitabile, la figura di Agostino prosegue nel distinguere nell’io l’essere, la vita e l’intelligenza; la vita è superiore alla semplice esistenza (come può essere quella di un sasso) e l’intelligenza suppone e implica la vita. Si vuole notare che nell’esaminare la superiorità nell’ambito della vita, S. Agostino individua un ulteriore criterio: ciò che giudica è superiore al giudicato e da qui nasce il problema: esiste qualcosa di superiore alla ragione? E se così fosse, sarebbe possibile identificarlo con Dio? Agostino risponde: “se la ragione troverà qualcosa di superiore a sé (o se questo qualcosa non ha a sua volta qualcosa di superiore) allora è Dio o ha un’altra realtà superiore a sé e questa sarà Dio” … quindi, se si trova una realtà superiore alla ragione, si troverà (immediatamente o mediante) Dio. Ora ci sono oggetti intellegibili (es. numeri e verità numeriche) che non possono venire dai sensi e dal mondo sensibile perché sono eterni, immutabili e questi oggetti regolano e giudicano la ragione; anziché essere giudicati, gli oggetti intellegibili si manifestano superiori alla ragione. Abbiamo così trovato qualcosa di superiore alla ragione: le verità necessarie, le quali non possono che essere un riflesso in noi della Verità eterna di Dio che ci illumina. In questa affermazione, che l’uomo potrebbe non conoscere le verità necessarie (verità eterne) se Dio non illuminasse il suo intelletto, consisterebbe la teoria agostiniana dell’illuminazione. Tale teoria suppone un contatto immediato con l’intellegibile, un’intuizione dell’intellegibile che non passa necessariamente attraverso la conoscenza dei corpi (concezione platonica). S. Agostino si esprime nei soliloqui come se accettasse la teoria platonica della reminiscenza, correggendola nelle Retractationes <<se uomini ignoranti di certe discipline rispondono bene quando sono interrogati, ciò avviene perché è loro presente, per quanto possano capirla, la luce della ragione eterna nella quale vedono quelle verità immutabili>>. Dunque, S. agostino sostituisce la teoria dell’illuminazione alla teoria platonica della reminiscenza anche se di platonica resta che l’intellegibile è presente in sé e non mediante oil sensibile. In questa prospettiva si capisce che l’intellectus (intuizione dell’intellegibile), su cui si fonda la sapentia, differisca dalla ratio che è il discorrere sulle cose sensibili, su cui si fonda la scientia. Del mondo sensibile S. Agostino non se ne occupa molto, ne tratta quanto deve commentare la Sacra Scrittura che parla di creazione del mondo. Dio ha creato il mondo liberamente, modellandolo sulle sue eterne idee. Commentando il 1° verso della Genesi: <<in principio creavit Deus coelum et terram>> (in principio Dio creò il cielo e la terra); il pensatore ammette che vi sono numerose interpretazione, tra cui: Nel suo Verbo (in principio) Dio creò la realtà spirituale (cielo rappresenta il mondo spirituale, ossia il mondo angelico) e quella corporea (terra); ma la Genesi aggiunge che la terra era invisibilis et incomposita e con questo S. Agostino pensa questa terra caotica e tenebrosa voglia dire la materia informe che è “prope nihil” (quasi niente) ma, per quel tanto che ha di realtà, è creata da Dio. Difficile è definire questa realtà sfuggente, questa “mutabilitas rerum mutabilium”, radice della mutevolezza delle cose che non è né spirito né corpo. <<se si potesse dire un nulla che è qualcosa, un essere che non è, la definirei così>>. Si capisce che alcuni medievali identificassero la materia con la potenzialità insita in ogni creatura e ritrovassero in Agostino la teoria di Avicebron secondo la quale ogni creatura, anche quelle spirituali, è composta di materia e forma. Dio ha creato tutto insieme un mondo destinato a svolgersi nel tempo, ossia: ha dato inizialmente al mondo la virtualità di svilupparsi e di dar luogo ai diversi corpi, così fin dall’inizio furono presenti nel mondo virtualmente tutti i diversi corpi. È questa la dottrina agostiniana delle rationes seminales. Il racconto biblico della creazione pone in S. Agostino anche il problema del tempo. Certo non si può parlare di tempo prima che ci sia una realtà mutevole, quindi non si può parlare di tempo prima del mondo, prima della realtà creata e perciò bisogna dire non che il mondo è fatto nel tempo ma piuttosto che il mondo è fatto col tempo. Ma che cosa è il tempo? Agostino inizia con l’analisi della coscienza del tempo. Certo è che non ci sarebbe tempo passato se qualcosa non passasse, non futuro se qualcosa non avvenisse, non presente se qualcosa non fosse; ma il passato non è più, il futuro non è ancora dunque si vuole guardare il presente. Propriamente il presente è solo l’istante che non ha durata poiché se dura si divide già in passato e futuro. E se non dura come può essere? Affinché il tempo sia, bisogna che esista un sogg. in cui possono essere anche il passato e il futuro. Tale sogg. è l’anima che ha la memoria del passato e l’aspettazione del futuro: il tempo è nell’anima. Una delle fondamentali verità che Agostino apprese dai neoplatonici e che lo aiutò a ritrovare il porto della fede cattolica fu l’esistenza di una realtà spirituale: Dio è incorporeo, come è incorporea la verità, e incorporeo è in noi ciò che è capace di conoscere la verità. Nel De beata vita, S. Agostino non è ancora riuscito a formulare filosoficamente l’intuizione della spiritualità dell’anima e chiede aiuto a Teodoro che non venne; l’anno successivo (387) Agostino trattò il 5 1. Verità intellegibile (7+3=10). Si tratta di una verità immutabile, come lo sono le <<regole della sapienza>>, ossia i principi della morale. 2. Verità di questo tipo sono normative, regolative della nostra ragione, la quale giudica secondo quelle verità (in base a quelle ma non giudica di esse). problema dell’anima nel De immortalitate animae e nel De quantitate animae. Il nocciolo dell’argomento per dimostrare la spiritualità dell’anima è che l’anima deve essere incorporea perché può conoscere realtà incorporee, così come Agostino dimostra che l’anima è immortale perché conosce la verità che è immortale. Successivamente nel 10° libro del De trinitate, la spiritualità dell’anima è presentata come una verità immediatamente evidente, oggetto di intuizione anche se si tratta di una intuizione annebbiata da pregiudizi e che bisogna riscoprire. Le teorie materialistiche derivano dalla sovrapposizione di elementi estranei a quella nozione di spirito che ognuno di noi ha per intuizione: ognuno di noi sa di essere, di vivere, di pensare; nessuno sa, invece, di essere aria o sangue ma lo opinia; se distinguiamo ciò che sappiamo di essere (cioè una sostanza esistente, vivente e pensante) da ciò che taluni opinano di essere, avremo un esatto concetto dell’anima, che è quello di un sogg. esistente, vivente e pensante e che non implica in sé alcuna qualità corporea. Come si spiegano allora i rapporti dell’anima col corpo? È possibile che nel sentire, l’anima patisca il corpo? S. Agostino risponde che è assurdo pensare che l’anima possa subire o patire qualcosa dal corpo ma è il corpo che patisce dai corpi esterni, l’anima (che è fatta per reggere e governare il corpo) non può essere ignara di ciò che avviene nel corpo. Questo non essere ignara <<non latere animam quod patitur corpus>> (non nascondere all’anima ciò che il corpo patisce/soffre) è definita <<passio corpis per seipsam non latens animam>> (la passione dell’anima di per sé non nasconde l’anima). A questa concezione metafisica corrisponde l’etica agostiniana; l’uomo è o essenzialmente o principalmente anima: il bene dell’uomo deve essere ciò che fa buona l’anima, ciò che fa buona l’anima è la virtù e la sapienza. Per acquistare virtù e sapienza, l’anima deve seguire qualcosa di superiore a sé: Dio <<Deus igitur restat: quem si sequimur, bene; si assequimur etiam beate vivimus>> (dio, dunque, rimane: il quale se seguiamo, bene; se lo seguiamo, anche noi viviamo felici/beati). Raggiungere Dio non vuol dire diventare come lui o parte di lui ma avvicinarglisi amandolo, perciò il primo comandamento è quello di amare Dio e nell’amore di Dio consiste la virtù. Le virtù cardinali sono modi dell’amor di Dio: 1. Temperanza << è l’amore che si offre integro a colui che è amato>>; questo toglie gli ostacoli che impediscono all’uomo di amare Dio, il 1° di questi è l’amore sfrenato dei beni sensibili (cupiditas). 2. Fortezza << è l’amore che sopporta facilmente ogni cosa per l’amato >>; elemento che permette all’uomo di sopportare ogni dolore per conseguire il sommo bene. 3. Giustizia << è l’amore che serve solo all’amato e quindi rettamente domina>>; questo elemento è interpretato da Agostino nel senso scritturale, come santità: essere giusti vuol dire servire a Dio solo, e dominare tutto il resto. 4. Prudenza << è l’amore che distingue con sagacia ciò che lo aiuta da ciò che lo impedisce>>; è il discernimento di ciò che ci conduce al vero bene. 1° libro del De libero arbitrio; il fatto che le leggi positive mutino, che siano giudicate e valutate diversamente a seconda delle situazioni alle quali si applicano, il fatto che talora siano giudicate ingiuste certe azioni che pure non sono punite dalle leggi positive porta S. Agostino a parlare di un’altra legge secondo la quale valutiamo le leggi positive, di una regola alla quale si appella il giudizio della coscienza. È questa la lex aeterna, che è l’ordine dato da Dio alle cose: eterna perché si giustifica con la stessa intelligenza divina ordinatrice di tutte le cose. Si noti, inoltre, che l’autore afferma che la moralità perfetta non consista nell’osservanza della legge per timore (definito “servile”) ma nell’osservanza della legge per amore del bene, per amore di Dio. 6. Boezio [480-525]. (maestro di logica) per molti secoli fu la principale fonte alla quale il medioevo attinse la conoscenza del pensiero antico, questa figura si proponeva di tradurre e commentare le opere di Platone e Aristotele, cercando di conciliare i due filosofi nelle idee fondamentali. Il medioevo conobbe le sue traduzioni dell’Isagoge di Porfirio -libro di introduzione alle categorie di Aristotele-, delle categorie e del Perihermeneias di Aristotele e conobbe il resto della logica aristotelica attraverso gli scritti di logica dello stesso Boezio. Da questa figura il medioevo ricevette il problema degli universali; infatti, nel commentare l’Isagoge, si ritrovò dinnanzi a tre problemi: 1. se i generi e le specie (ossia gli universali) esistano o no; gli universali esistono ma non come sono pensati, ossia come universali: non esiste l’uomo in universale, l’uomo come specie, ma da ogni singolo uomo si possono astrarre quei caratteri che costituiscono la specie uomo. 2. Se siano corporei o incorporei; sono incorporei perché esistono solo nell’intelletto che li astrae. 3. Se ammesso che siano incorporei, siano uniti alle cose sensibili; sono uniti alle cose sensibili e corporee ma sono concepiti separatamente dalle cose sensibili. anche se si rivela in Boezio un neoplatonico, in particolare nell’opera “Consolatio” stesa in prosa e versi che risale al periodo di prigionia prima dell’esecuzione della sua condanna a morte. All’inizio dell’opera Boezio invoca le Muse ma vede presso di sé una donna: la filosofia che dichiara le Muse incapaci a consolarlo, prendendo il loro posto. Questa donna dice che l’afflizione di Boezio è data dal fatto che questo non conosce bene né sé né Dio e perciò reputa mali le cose che tali non sono: non sono veri beni le ricchezze , la potenza no devi mettere la Virgo, gli onori perché io no perché non danno la beatitudine, stato capace di soddisfare le tendenze dell'uomo al bene poiché esistono beni imperfetti. Tutto ciò che è imperfetto è tale solo in quanto è una partecipazione del perfetto (tesi platonica) il bene perfetto è Dio, dunque è in lui la beatitudine. la considerazione di Dio come sommo bene porta Boezio a formulare alcune tesi neoplatoniche: il bene, l'uno e l'essere si identificano; ogni cosa in quanto tende a mantenersi nell'essere tende al bene e il bene e il fine di tutte le cose. Problema: se Dio, sommo bene, regge l’universo come mai vi è il male? 6 Le virtù sono unificate e la morale esposta dai saggi pagani assume senso grazie alla rivelazione del cristianesimo E come mai il male morale non è punito e la virtù è soppressa? La risposta: allora sembra che Boezio identifichi la beatitudine con la virtù, talora sembra che la virtù esiga una beatitudine in senso più pieno. Stupisce il non trovare la risposta di un cristiano “la beatitudine ci sarà nell'altra vita”. Forse Boezio vuol procedere solo filosoficamente è la soluzione che fa appello a una vita futura e accennata vagamente. Nel trattare il problema Boezio parla della provvidenza come piano divino del mondo esistente nella stessa mente divina e la distingue dal fatto che è l'esecuzione di questo piano. in questo mondo retto dalla provvidenza non c'è posto per il caso in senso assoluto come assenza di ragione: caso può essere detto solo l’incontro di due o più cause cha va oltre la finalità di ognuna delle singole cause operanti. Anche l’effetto casuale non sfugge alla provvidenza. Un altro problema è quello della conciliazione la provvidenza divina e libertà umana. Boezio lo risolve ricorrendo al concetto di eternità di Dio. Dio ,che è eterno, conosce ogni cosa da presente a presente, quindi Vede le cose così come sono: necessari se sono necessarie, libere se sono libere. Influsso ancora maggiore ebbero sul pensiero medievale i brevi trattati teologici di Boezio, gli Opuscola sacra, specie il De Trinitate e il De hebdomadibus hanno comandato ,con certe loro formule, il modo di porre molti problemi filosofici nel medioevo. De trinitate proponeva la divisione aristotelica della scienza in fisica matematica e teologia. attraverso le espressioni di questi due formulo una metafisica della partecipazione che fu continuata e approfondita nel medioevo. Il De hebdomadibus poneva il problema del come le sostanze possono essere intrinsecamente buone pur non essendo il bene per essenza e lo risolveva affermando che le cose sono buone in quanto sono, ma sono derivatamente quindi sono buone derivatamente. Questa risposta è un'estensione e approfondimento del concetto di partecipazione: se si intende la partecipazione delle cose al bene come un fatto che sopraggiunga al loro essere, il dire che le cose son buone per partecipazione equivarrebbe a negare che siano buone intrinsecamente; ma se le cose create partecipano al bene nell'atto stesso in cui partecipano dell'essere allora si può dire che le cose sono buone per partecipazione pur essendo intrinsecamente buone; ciò che interessa realmente non è la soluzione ma gli assiomi che permettono di arrivarci: (1) essere è diverso da ciò che è poiché l'essere stesso non è ancora; in verità ciò che è, avendo accettato la forma, è e rimane. (2) cioè può partecipare a qualcosa; malessere stesso non partecipa in alcun modo a nulla … (6) ogni cosa ha il proprio essere e ciò che è. (7) in ogni composto c'è una cosa da essere è un'altra da essere sé stesso. Capitolo 2: la prima scolastica 1. Le fonti e i caratteri della prima scolastica La cultura filosofica dell'alto medioevo (476-1000) dipende dalla conoscenza che si ha delle opere e delle traduzioni di Boezio nel settimo e nell'ottavo secolo non si fa nessun uso dei trattati logici i Boezio e delle sue traduzioni e commenti alla logica di Aristotele. dalla fine del secolo nono si conoscono gli opuscola sacra fatto di Boezio ma solo alla fine del decimo secolo si conoscono tutti gli scritti di logica di Boezio e tutta la logica vetus. Il fatto che le fonti filosofiche allora conosciute fossero in gran parte opere di logica spiega perché la dialettica abbia tanta importanza nella prima scolastica. B. Haurèau si meraviglia che nella prima scolastica si attribuissero alla dialettica o alla logica tutti i compiti della filosofia anche quelli che sarebbero della metafisica. i latini dei secoli ottavo e settimo non conoscevano la metafisica non ne avevano un esempio storico. di Platone conobbero fino alla seconda metà del secolo settimo solo il Timeo nella traduzione e col commento di Calcidio, di Aristotele ancora nulla. Scoto Eriugena conobbe scoprì il neoplatonismo attraverso lo Pseudo-Dionigi e qualche scritto dei padri greci, diciamo “scoprì” perché ci voleva ingegno per trovare la metafisica da parte di chi non conosceva la fonte prima. analogamente per scoprire la metafisica di Sant'Agostino come fece San Anselmo nel nono secolo. così ci volle l’ingegno di Gilberto de la Porrèe Ciò per scoprire i problemi impliciti negli scarni gli Opuscula sacra di Boezio. Il progresso filosofico del secolo rispetto ai secoli precedenti è dovuto alla conoscenza del neoplatonismo arabo e di Aristotele, così come la ricchezza culturale del Rinascimento e il progresso perciò che riguarda i problemi umani (vita civile storia arte) è dovuta alla conoscenza del pensiero greco nei testi originali. con scolastica intendiamo la filosofia insegnata nelle scuole medievali. Facciamo riferimento a De Wulf e la sintesi scolastica: si tratta di un tentativo che non conduce a risultati sostenibili e per questo la sintesi viene sostituita da studi sintetici sui diversi periodi della scolastica anche se la soluzione presenta un dilemma: o le dottrine che si ritengono essenziali alla sintesi scolastica sono troppe e allora non tutti i filosofi medievali rientrano nella scolastica, oppure son troppo poche, e scolastici dovrebbero essere detti molti filosofi che non si possono chiamare tali se non prendendo il termine scolastica in un senso puramente convenzionale che non rispecchia nessuna realtà storica. Anche i rapporti di una filosofia con la religione cattolica non possono essere assunti come criterio per stabilire se una filosofia e scolastica. se intendiamo per scolastica la filosofia che fu insegnata nelle scuole medievali dovremmo partire da quella che fu la prima riorganizzazione medievale delle scuole quella promossa da Carlo Magno e da quel rifiorire della cultura che fu detto rinascita Carolina. prima delle università, le scuole medievali sono annesse o ad un'abbazia (scuole monistiche) o ad una cattedrale (scuole episcopali o cattedrali) O ad una Corte (tipica la scuola palatina della corte carolingia). Fino alla fine del dodicesimo secolo hanno particolare importanza alle scuole monastiche abbaziali: i monasteri nei secoli delle invasioni barbariche erano i luoghi di rifugio della cultura, infatti le loro biblioteche sono le sole che abbiano conservato opere classiche. più curata e l'istruzione nelle abbazie dell’Irlanda e soprattutto dell’Inghilterra. BEDA IL VENERABILE (674-735) aveva creato un centro notevole di cultura nel suo monastero di Jarrow e un suo discepolo, Egberto, divenuto arcivescovo di York , aveva dato particolare impulso a quella scuola cattedrale nella quale si formò ALCUINO (730-804). Nel 781 alcuino fu chiamato da Carlo Magno a dirigere la scuola palatina e divenne il consigliere del re per tutte le questioni inerenti alle istruzioni e al culto, tempo in cui l'istruzione comprende tre momenti: (1) 7 non c’è, si deve dare un significato alla parola Dio, affinché la negazione abbia significato. Pur negando Dio, lo stolto deve avere il concetto di Dio e pensarlo come l’ente in cui nulla può pensarsi più grande. Ma può un tale ente esistere solo nella mente, essere solo pensato, e non esistere? Non si può concepire l’ente di cui non si può pensare il maggiore senza pensarlo anche esistente. Dio non può essere pensato come non-esistente. E allora come poté lo stolto dire in cuor suo “Dio non esiste”? la risposta è che poté dirlo ma non pensarlo veramente (si tratta di una negazione impensabile). Tale argomentazione ha avuto immensa fortuna nella storia della filosofia; fu respinta dal monaco Gaunilone e S. Tommaso, mentre fu accettata da S. Bonaventura (senza modificazioni) e Duns Scoto. L’obiezione/critica di Gaunilone si può dividere in parti: (1) non possiamo avere l’idea di Dio prima di averne dimostrato l’esistenza. (2) non possiamo dedurre l’esistenza dell’idea del <<id quod maius cogitar nequit>> (quello che non si pensare più grande). Gaunilone obietta << tu dici “ente di cui nono si può pensare il maggiore” ma effettivamente non lo pensi perché né l’hai mai visto né hai mai visto una cosa simile a Dio. Se mi si parla di un Tizio mai conosciuto, che non so neanche se esista, posso comunque pensarlo come uomo, in generale.>> Ma dov’è il genere a cui appartiene Dio? Dio, per essere tale, deve essere al di sopra di ogni genere di realtà. Ma come posso dire di avere un’idea? Il passaggio dall’idea dell’essere perfettissimo alla sua esistenza non è giustificato, presuppone già che un ente perfettissimo ci debba essere. Certo se c’è un essere perfettissimo deve essere esistente, ma c’è? S. Anselmo rimase stupito dalla prima parte della critica e risponde “tu dici di non avere un’idea di Dio? Io mi appello alla tua fede e alla tua coscienza: come puoi credere in Dio se non ne hai l’idea?”, mentre per quanto riguarda la seconda parte, Anselmo ripete più chiaramente il suo ragionamento facendo notare che questo può applicarsi ad una sola idea, quella dell’essere perfettissimo. L’appello di S. Anselmo alla fede di Gaunilone rivela da dove traesse l’idea di Dio come id quo maius cogitar non potest: dalla fede e se così fosse, il suo argomento non ha validità per colui che dalla fede non prescinda o per colui che neghi la rivelazione. per questo, alcuni dei suoi interpreti contemporanei ritengono il Proslogion un’opera teologica e non filosofica. Importante notare che in quest’opera S. Anselmo muta la propria concezione dei rapporti tra fede e ragione: non è più così ottimista sui poteri della ragione come nel Monologion, poiché parte dal dato di fede; anche se crede ancora che il presupposto possa essere riscattato dalla dimostrazione. Come detto in precedenza Anselmo si servì della logica per conoscere il mondo reale, in particolare si interessò di Dio e dell’uomo. Per quanto riguarda l’uomo, egli, lo considera come soggetto conoscente e come soggetto morale, della conoscenza tratta specialmente nel dialogo De veritate; la conoscenza sensibile, che è l’inizio di ogni nostro conoscere, è al di qua del vero e del falso; verità o falsità hanno luogo solotanto quando noi giudichiamo. Le nostre enunciazioni sono vere quando dicono come stanno le cose. La verità della nostra conoscenza ha come norma la realtà delle cose. Ma perché le cose sono vere? Perché sono capaci di regolare la nostra conoscenza? S. Anselmo risponde: perché partecipano tutte di una verità, della summa veritas che è Dio. Anche la nostra volontà ha la sua verità che è la sua rectitudo, il suo essere come deve essere, e questa rettitudine della volontà è la giustizia. Siccome la verità è consapevole, anche la sua rettitudine – che è la giustizia- deve essere consapevole: cioè deve essere voluta per sé. Non c’è giustizia se l’uomo non vuole la cosa giusta perché è giusta. Ogni interesse, ogni volontà dell’utile che si insinui nelle nostre decisioni, toglie qualcosa al nitore della moralità. S. Anselmo ritiene essenziali alla perfetta moralità di un atto l’elemento oggettivo(rectitudo) e l’elemento soggettivo (propter se servata). 5. La rinascita del 7° secolo. Nel settimo secolo si parla del “rinascimento” in quanto vi fu un rifiorire culturale in tutti i suoi aspetti: arti/lettere/filosofia e teologia. In questo periodo la vita sociale si sposta dalla campagna alla città, ciò si traduce con la maggiore importanza delle scuole episcopali (p.es.: di Chatres) e cattedrali dalle quali si svilupperanno le scuole a Parigi e le università. Ulteriori centri di cultura sono presenti anche nelle corti: ENRICO ARISTIPPO (p.es.)il quale visse nella corte normanna in Sicilia, tradusse il Menone e il Fedone e il 4 libro della metafisica di Aristotele. Si vuole rivolgere l’attenzione a tre opere che ci informano sulle materie e sui metodi di insegnamento: Eptateucon di Teodorico di Chatres, il Didascalicon di Ugo di San Vittore e il Metalogicon di Giovanni di Salisbury. La divisione di tutto il sapere in sette arti liberali è affiancata dalla divisione aristotelica: matematica, fisica e metafisica che indirizza l’attenzione a tre diverse realtà: corporea, delle forme separate, Dio. Per quanto riguarda il metodo d’insegnamento si fa riferimento all’opera di Ugo di San Vittore, che sottolinea il ruolo: (1) lectio e meditatio; la lectio possiede un triplice significato: A) attivo: lettura e spiegazione del testo per quanto riguarda l’aspetto grammaticale, del senso ovvio e del significato profondo. Da questo elemento nasce in seguito la domanda (quaestio), ossia un problema che suppone un dubbio sul significato di un testo, sull’interpretazione di esso; per la soluzione del dubbio si portano “autorità” a favore di una parte e dell’altra, per il si e per il no e dalla loro raccolta - di solito sono i testi patristici - si giunge così alle sententiae. Dalla discussione e dall’interrogazione deve risultare la soluzione, la sapienza teologica. I testi di riferimento sono i “classici” per le arti liberali, la sacra scrittura e i padri per la teologia. Per l’insegnamento di grammatica Giovanni di Salisbury ci lascia la testimonianza della scuola di Bernardo di Chatres, il quale insegnava grammatica leggendo gli autori e facendo vedere come le regole fossero attuate nelle loro frasi, faceva esercitare la memoria e spronava gli allievi ad imitare ma cercando di creare uno stile proprio. Si è parlato della povertà dell’umanesimo del 12° secolo, rispetto a quello del 15° secolo, che non si vuole negare ma si vuole sottolineare il fatto che si tratti di una povertà materiale. 10 6. Interesse per la natura: la scuola di Chatres. Nel 12° secolo è vivo l’interesse per la natura e l’opera più importante in ambito della cosmologia è il Timeo, in questo periodo lo studio della natura è affiancato ad una concezione platonica della realtà. Un chiaro esempio è ADELARDO di BATH, il quale lascia traduzioni di opere scientifiche arabe e degli scritti scientifici propri. Nel De eodem et diverso, si mostra platonico già dalla contrapposizione dei due personaggi del dialogo: la filosofia (rivolta al mondo spirituale) e la filocosmia (rivolta ai vantaggi che si possono trarre dal mondo sensibile). Questa figura sostiene che non vi è un disaccordo tra Platone e Aristotele ma si tratta solo di una diversa prospettiva: uno inizia dagli archetipi per discendere alle cose sensibili mentre l’altro parte dalle cose sensibili. Anche nella scuola di Chatres, fondata alla fine del 10° secolo da Fulberto, vi è un vivo interesse per lo studio della filosofia; la scuola fiorì nella prima metà del 12° secolo. una figura che emerge in questo contesto è TEODORICO – maestro di Chatres nel 1121, poi a Parigi nel 1140 ca., quindi cancelliere di Chatres-, autore di un’opera riguardante i sei giorni della creazione (de sex dierum operibus), un cui egli cerca di spiegare filosoficamente la creazione del mondo. Le sue fonti sono il Timeo e Boezio. Le cause dell’essere del mondo sono: (1) efficiente cioè Dio. (2) formale cioè la sapienza di Dio. (3) finale la benignità di Dio. (4) materiale cioè i 4 elementi. Si vuole notare come manchi il concetto di una causa formale intrinseca alla creatura (as S. Anselmo): le forme delle cose sono gli eterni esemplari esistenti della mente divina: Dio è forma essendi (forma dell’essere) di ogni singola cosa. La cosa verrà esplicita nel commento del De trinitate di Boezio, in cui Teodorico dice <<poiché questa è la forma dell’essere che naturalmente fa di che tutte le cose siano.>> è possibile un paragone con la bianchezza che è forma dell’essere bianco; così come Dio, che è l’essere (essentia), è forma essendi di ogni cosa. Teodorico inoltre insiste nell’affermare che Dio abbia creato le cose dal nulla e per dimostrare l’esistenza di Dio, Teodorico afferma che è dare delle prove aritmetiche [Plotino e il principio dell’Uno e il Due; <<ogni alterità presuppone l’unità poiché l’unità precede il due che è principio di ogni alterità… ogni mutevolezza presuppone l’unità>> e poiché la creatura è mutevole, essa presuppone l’unità immutabile ed eterna, che è Dio.], geometriche, astronomiche e musicali. GUGLIELMO DI CONCHES: i suoi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio sono di due tipi: cosmologico: ossia, attraverso la creazione del mondo e la sua sistemazione quotidiana; e dialettico: dalla considerazione dell’uno e del molteplice. Ma risultano essere maggiormente interessanti le sue considerazione circa il rapporto tra Dio e il mondo, nelle quali cerca di conciliare il Timeo con la dottrina cattolica, interpretando il Demiurgo come creatore e negando che Platone abbia ammesso l’eternità del mondo. Per quanto riguardo l’anima del mondo platonica, essa inizialmente è intesa da Guglielmo come lo Spirito Santo anche se negli scritti successivi è interpretata come un principio vitale e spirituale diffuso in tutte le cose. GILBERTO DE LA PORRÈE: formatosi alla scuola di Chatres e maestro di Parigi, si interrogò sul problema della causa formale intrinseca – ancor prima dell’incontro con il pensiero aristotelico-. Nell’ambiente “scolastico” si incontrano Scoto Eriugena e Boezio, che si percepiscono nel pensiero di Gilberto, anche se è possibile individuare anche una prima differenza con Boezio: fra essse e id quod est. L’id quod est, Gilberto lo chiama subsistens (sussistente) cioè l’individuo esistente. Ma l’esse (che ricordiamo: è ciò per cui una cosa è quello che è) come va concepito? Nel commmento ad De Hebdomanibus, Gilberto afferma che vi sono diverse posizioni/atteggiamenti a seconda del problema preso in considerazione – teologico o fisico. La risposta di Teodorico di Chatres era <<ciò per cui tutte le cose sono è Dio>> e da qui sorge un problema: che cosa distingue le creature fra loro se tutte sono in virtù dell’unico esse divino? le loro nature determinate (le subsistentiae), anche se per i teologi la subsistentia non dà alla cosa l’esse ma solo l’esse aliquid (essere qualcosa): si può dire che per l’umanità l’uomo è uomo ma non si può dire che per l’umanità l’uomo è. I filosofi naturali (che considerano la natura in se stessa) prescindendo dalla Causa prima, dicono che da un medesimo principio una cosa ha l’esse e l’esse aliquid: ossia ciò che determina una cosa a essere quella che è, è anche condizione per cui la cosa è. In altre parole: non può essere se non ciò che è determinato, quindi una cosa per essere deve avere un principio che la determina ad essere tale o altra. questo principio determinatore che Gilberto chiama subsistentia, è il principio intrinseco dell’essere di una cosa nella considerazione “fisica”. Tale affermazione dei naturales non nega quella dei teologi poiché non esclude affatto che la subsistentia della creatura sia una immagine dell’eterna essentia e afferma, invece che oltre all’essere divino (forma essendi) bisogna ammmetere una forma creata (subsistentia). Da qui Gilberto distingue due modi in cui la causa può far essere l’effetto: (teologico) in cui dio fa essere le cose e (naturale) in cui la subsistentia, la forma immanente, fa essere ciò di cui è forma. E anche se l’elaborazione di Gilberto si avvicina alla forma aristotelica ci sono molte incertezze: la subsistentia è individuale o universale? L’universale è una realtà o una similitudine scorta dal pensiero? Gilberto distingue due tipi di unità: quella costituita dalla singolarità di natura e quella costituita dall’unione di più nature (unione creata dalla similitudine). L’individuo è uno per tutto se stesso: ossia non è solo la varietà degli accidenti quella che distingue un individuo da un altro, ogni individuo ha la propria subsistentia. D’altra parte sembrerebbe che la concretezza della subsistentia individuale consistesse nell’essere composta da molte subsistentiae universali. Si vuole ricordare la figura di CLAREMBALDO DI ARRAS, il quale polemizza contro Gilberto per quanto riguarda la dottrina trinitaria e nel problema degli universali. Importante questa figura anche per quanto riguarda la dimostrazione dell’esistenza di Dio fondata sulla considerazione del mutevole; il mutevole deve derivare da un immutabile, infatti il 11 mutevole è detto “factum” poiché se non lo fosse sarebbe eterno e di conseguenza immutabile. Ma nel momento in cui è factum, allora è fatto da un altro e siccome non si può procedere all’infinito, si deve giungere ad un immutabile. ALANO DI LILLA: figura che interessa i teologi per l’ampia Summa >>quoniam homines>>, della quale fa parte il Tractatus de virtutibus et vitiis, e per le Regulae theologicae; quest’ultime sono un 1° tentativo di sistemazione della scienza teologica a partire dalle regole (assiomi) dai quali si deducono le verità teologiche. << ogni scienza si basa sulle sue regole come su propri fondamenti; anche la scienza superceleste, ossia la teologia, non è priva delle sue regole […]>>. Si vogliono ricordare alcune delle sue regole: (1) la monade è ciò per cui ogni ente è uno. (2) nel superceleste vi è unità, nel celeste alterità e nel subceleste pluralità. (8) Dio è colui al quale appartiene sostanzialmente tutto ciò che gli appartiene. (9) in ogni semplice si identifica l’esse e il quod est. (13) solo il semplice è forma senza soggetta materia, e sostanza senza predicato formale. 7. ABELARDO [1079-1142] come detto in precedenza di Aristotele il medioevo conobbe solo alcuni scritti di logica che, assieme agli scritti di Boezio, costituiscono la “vecchia logica” (logica vetus) e nel 12° si conoscono nuovi scritti di logica: logica nova, gli analitici primi e secondi, i topici e gli elenchi sofistici. Come hanno dimostrato gli studi di M. Grabmann vi è continuità e una certa analogia tra gli scritti di logica del 12° e 13° secolo. ora, al centro della speculazione di logica si colloca la figura di Pietro Abelardo, il quale confessò che la logica gli rovinò la vita… la logica pare da uno studio lontano dalla vita pratica e non si potrebbe capire tale affermazione di Abelardo se non si tenessero in considerazione due elementi, ossia: la dialettica era intesa come un modo di battagliare con il prossimo e che il pensatore ebbe grande fiducia nell’applicazione della dialettica alla teologia. Quando mette su scuola a S. Genoveffa afferma che << sul monte santo ho allestito il campo delle nostre scuole come per assediare colui che aveva occupato il nostro posto>>. L’assediato di cui parla è il suo ex maestro Guglielmo di Champeaux che nel problema degli universali era realista, ossia: sosteneva in un primo momento che l’universale è una realtà essenzialmente identica presente nei singoli individui, i quali differirebbero solo per la varietà degli accidenti. Dunque, se si pone come antirealista, Abelardo è anche antinominalista – si oppone anche alla figura di Roscellino, sempre suo maestro-. La trattazione del problema degli universali di Abelardo implica una acuta teoria della conoscenza… il problema esposto da Boezio parte da una alternativa: <<gli universali sono voci o cose (voces o res)?>>. Abelardo: 1. Confuta prima le teorie realiste; 2. Espone la tesi nominalistica. 3. Afferma il valore conoscitivo degli universali. 4. Giustifica tale affermazione mediante un’indagine sulla causa dell’universale. l’argomento fondamentale contro il realismo è il seguente: se l’universale, p.es.: l’animale in genere, fosse una res che si trova dentro i singoli individui, questa identica res assumerebbe nei diversi individui predicati contradditori, sarebbe p.es. ragionevole in Socrate e irragionevole in un cavallo (ossia sarebbe e non sarebbe ragionevole). L’argomento abelardiano afferma che affinché una cosa sia determinata – come esige il principio di identità e non-contraddizione- bisogna che essa sia determinata fino all’individualizzazione, sia individua. Allora, partendo dall’alternativa res-voces, Abelardo concluderà nella “Logica ingredientibus” che gli universali sono voces. Più tardi nella “Logica Nostrorum” l’autore uscirà dall’alternativa e dirà che gli universali sono sermones (conversazioni) – spiegando che con “sermo” intende la parola con significato-. Si vuole notare che ciò che muta è solo la terminologia perché già nella logica ingredientibus quando diceva “vox”, Abelardo intendeva la parola con significato. All’obiezione che se l’universale non è una res, esso non significa nulla, risponde: non è vero, gli universali hanno un significato. Solo che il significato dell’universale non è una res (p.es.: non è la res homo ma è l’essere uomo (esse hominem). L’essere uomo è un pensato. Per spiegare cosa sia il pensato Abelardo si domanda cosa sia l’intelletto, il pensiero e rivela vin primo luogo che l’intelletto è una facoltà conoscitiva come il senso. Ora: come il senso non è la cosa sentita, l’intelletto non è la cosa pensata. In questo passaggio si vuole notare la differenza che sussiste tra i due: il senso coglie solo la realtà presente mentre, l’intelletto può pensarla anche assente; ciò vuol dire che l’attività dell’intelletto non termina immediatamente alla res ma ad una res imaginaria quaedam ficta (cosa immaginaria e fittizia) lo spirito si foggia come e quando vuole. Dunque: il senso non è il sentito ma il sentito è una res, presente e agente sul corpo che sente; il pensiero non è il pensato ma il pensato non è una res ma è un fictum dell’intelletto perché l’intelletto può pensare anche quando la res non è presente perché quando l’intelletto pensa l’universale, questo non può essere una res ma e una immagine comune e confusa di molti (communis et confusa imago multorum). Tale immagine non va paragonata alle idee che Dio ha delle creature perché queste sono i modelli delle cose mentre i concetti umani – a meno che non siano concetti di cose fatte dall’uomo- non sono affatto modelli delle cose ma sono ricavati da quello che delle cose attestano i sensi, cioè dagli accidenti esteriori delle cose stesse. Dunque, tra il pensiero e la res c’è il significato del nome: “è venuto fuori il 3^ significato del nome (tertia exiit nominis sifnificatio)”, notando che Abelardo non afferma “tertia res” poiché il significato del nome non è una res ma è il modo in cui la res è presente al nostro intelletto. Se ora ci domandiamo come nasca questo significato universale dei nomi (nominis universalis significatio) Abelardo ci risponde: per astrazione. La ragione ha la capacità di distinguere ciò che in realtà è unito: distingue la materia dalla forma, il che vuol dire che distingue il sogg. dalle sue proprietà. Benché le nozioni universali apprendano la realtà diversamente da come esiste, esse non sono false e vuote. Infatti, conoscere una cosa diversamente da come essa esiste non vuol dire conoscerla come “altra”. Se si dicesse che una cosa è con certe proprietà che in realtà essa non ha, o che è senza certe proprietà che in realtà essa ha, e dalle quali, la nozione universale prescinde, allora sarebbe falso. Ma se ci si limita a badare 12 - RICCARDO DI SAN VITTORE ( 1173). Dopo aver distinto nel De trinitate, tre modi di conoscenza: l’esperienza, la ragione e la fede, ritiene che una volta messa a fondamento la fede, si debba cercarne le ragioni, e rationes necessariae, non sono probabili. Così la fede ci dice che esiste un solo Dio, eterno, increato, uno e trino; ma di queste verità si può render ragione. La ragione ci dice, infatti, che tutto ciò che è o può essere, o esiste ab eterno o è cominciato. Ancora: tutto ciò che è o può essere, o esiste da sé o ha l’essere da un altro. Dunque, sono possibili t3 possibili tipi di realtà: (1) Ciò che è ab eterno e da sé. (2) Ciò che è ab eterno ma ab alio. (3) Ciò che non è né ab eterno né da sé. Ora, l’esperienza ci mette a contatto con quest’ultima con un mondo di cose che nascono e che muoiono e che, non essendo eterne, non possono certo essere da sé poiché avrebbero dovuto darsi l’essere prima di esistere. Queste cose hanno ricevuto l’essere da altro, da uno che ha l’essere in sé. Ma ciò che esiste da sé, è eterno… dunque, la considerazione razionale delle cose che l’esperienza ci offre ci porta ad affermare l’esistenza di un ente necessario ed eterno. Continuando la speculazione razionale scopriremo che a questo ente appartengono tutti gli attributi divini e dimostreremo la sua unità e trinità. - la tradizione vittorina dimostra un atteggiamento di simpatia per la ricerca razionale, elemento interrotto da GUALITERO DI SAN VITTORE (1180) autore di “contra quatuor labyrinthos Franciae” in cui se la prende coi maggiori rappresentati del sapere filosofico e teologico: Abelardo, Gilbero de la Porrée, Pier Lombardo e Pietro Poitiers. Probabilmente fu lui che creò difficoltà a GOFFREDO DI SAN VITTORE ( DOPO 1194), quest’ultimo autore di un “Fons philosophiae” in versi e di un “Microcosmus”, in cui esalta la dignità dell’uomo. Dell’uomo pregia specialmente lo spirito ma non disprezza il corpo, osservando che la mortalità di questo è dovuta al peccato e non era nella natura primitiva dell’uomo. Un dialogo fra l’anima e il corpo che essa sta per abbandonare al momento della morte riflette una considerazione serena della morte stessa, vista come la temporanea sparizione di due elementi che in questa vita hanno dovuto lottare fra di loro ma che sono fatti per ricongiungersi in una piena armonia. 10. verso la sistemazione teologica: Pier Lombardo. Il 12^ secolo è anche il secolo in cui si arriva alla sistemazione della teologia, intendendo per sistemazione un certa unità nell’esposizione delle verità di fede – anche se la sistemazione interiore avverrà nel 13^ secolo-. si sente il bisogno di raccogliere in un’esposizione ordinata la dottrina cattolica, includendo le interpretazioni che avevano dato i padri. L’insegnamento delle verità di fede era basato sulla Sacra Scrittura poiché nella sua interpretazione potevano nascere dubbi, questioni, e le questioni si risolvevano ricorrendo alle interpretazioni dei padri. In questa elaborazione della teologia ha un’importanza storica la figura di ANSELMO DI LAON (1117): dalla sua scuola sono uscite molte sententiae. Scarsissimi gli elementi filosofici: si fa risentire però in esse l’esigenza di una sistemazione razionale, di un’esposizione completa di tutta la teologia. Dalla scuola di Abelardo sono pure uscite somme o sentenza, se ne conoscono almeno 7. Le sentenza di scuola abelardiana hanno certe caratteristiche comuni: la divisione in fides, sacramentum, charitas e l’ampia trattazione della dottrina della trinità e dell’incarnazione. Una delle maggiori sistemazioni teologiche è il “De sacramentis christianae fidei” di Ugo di San Vittore. La “Summa sententiarum” pubblicata fra le opere di Ugo è alla confluenza fra la scuola di Abelardo e la scuola di San Vittore. Di ispirazione anselmiana è l’Elucidarium di Onorio di Autun. Ma lo scritto più fortunato anche se non il più geniale è quello di PIER LOMBARDO (1160): “Libri IV sententiarum” che diventò testo di scuola fino al 16esimo secolo. il 1^ libro tratta di Dio Uno e Trino, il 2^ di Dio creatore, della grazia, del peccato originale e attuale. Il 3^ dell’Incarnazione, delle virtù e dei comandamenti. Il 4^ dei sacramenti e dei novissimi. Le sentenze di Pier Lombardo non sono opera originale ma di compilazione <<in cui sfociano tutte le correnti anteriori>>, specialmente quella di San Vittore e di Abelardo. Pier Lombardo poté conoscere e adoperare anche il De fide orthodoxa di S. Giovanni Damasceno. L’opera si impose soprattutto per il suo carattere equilibrato poiché Pier Lombardo fa uso della dialettica, riconosce l’utilità della ragione ma quando si tratta di verità di fede, si appella all’autorità, specialmente a quella di S. agostino…ad alcuni la figura di Pier Lombardo parve troppo dialettico e pericoloso, si tentò di far condannare la sua opera ma il IV concilio lateranense del 1215 segnò invece il trionfo della sua dottrina. Fra gli oppositori di Pier Lombardo va ricordato GIOACCHINO DA FIORE (1145-1202), secondo il quale la storia si divide in tre età: quella del padre (antico testamento), quella del figlio (età cristiana fino a quei tempi) e quella dello spirito santo (che sarebbe dovuta cominciare allora). 11. una figura caratteristica del secolo XII: Giovanni di Salisbury Nato in Inghilterra ma venuto a studiare in Francia e fu in contatto coi principali maestri del suo tempo e ci ha lasciato notizie preziose sulle scuole e i problemi del 12^ secolo. studio per 12 anni e fu alcuni anni alla scuola di Chartres, tornò in Inghilterra e fu uomo di curia, tornò poi in Francia e morì vescovo di Chartres. Giovanni è convinto del valore della cultura in tutti i suoi aspetti ma specialmente del trivio: delle discipline umanistiche e della logica di cui fa una difesa e un’esposizione notevole nel “Metalogicom”. Polemizza sia coi detrattori della cultura (i cornificiani), sia con coloro che si dilettano di sottigliezze logiche senza costrutto. Forse è il 1^ a riconoscere tutta la logica di Aristotele e si rende conto dell’importanza degli analitici e della loro difficoltà. Simpatizza con gli accademici non perché sia scettico ma perché oltre a certe verità indubitabili – che apprendiamo da sensi/ragione o fede- ammette che ci siano questioni insolubili intorno alle quali è più saggio sospendere l’assenso (alcuni esempi di tali questioni: sostanza, facoltà, origine dell’anima, caso e libero arbitrio, natura degli universali). Anche se son parecchie le questioni insolubili, non bisogna disinteressarsi ad esse e smettere di studiarle, solo non bisogna credere di aver raggiunto la verità assoluta quando si è arrivati a una certa soluzione. Dalle sue esperienze di attività politico-ecclesiastiche, Giovanni di Salisbury, ha raccolto certe riflessioni che esprime nel “policraticus”. Paragona, nel corpo sociale, l’autorità ecclesiastica all’anima e quella civile al corpo (la prima è superiore alla seconda); la subordinazione del potere politico a quello ecclesiastico va inteso come 15 subordinazione <<all’ordine obiettivo delle leggi di cui Dio è fondamento e garanzia>> e quando il principe viola la legge divina diventa tiranno – in certi casi ucciderlo può essere lecito. 3. il secolo XIII 1. la conoscenza di Aristotele. ð L’avvenimento filosofico capitale del secolo 13 è costituito dalla conoscenza e dalla diffusione nel mondo latino delle opere fisiche e metafisiche di Aristotele e dei suoi interpreti arabi. Per la prima volta il medioevo conosce un sistema filosofico elaborato dalla rivelazione (elaborazione in mondo pagano) e si trova dinanzi a una concezione puramente filosofica della realtà. Prima di allora anche le concezioni della realtà giustificate dalla sola ragione erano in realtà concezioni teologiche: il dato della rivelazione era ad un certo punto un presupposto anche se si cercava di chiarirlo e di renderlo intellegibile. Fino ad allora si parlava di filosofia pura solo con la dialettica. la prima forma sotto la quale si presenta l’aristotelismo, avicennistica, rappresentava già una mediazione tra aristotelismo, neoplatonismo e religione islamica. L’avicennismo facilitò l’incontro fra pensiero cristiano e aristotelismo. L’opera principale di AVICENNA (980-1037) è una grande enciclopedia filosofica divisa in 4 parti: logica, matematica, fisica e metafisica, ognuna suddivisa in vari libri. Alcuni di questi (4^ della fisica e la metafisica furono tradotti nella seconda metà del 12^ secolo). Per la traduzione del “De anima” il chierico* fu Domenico Gundisalvi e Abraham Ibn Daud; facciamo riferimento alla figura del chierico Gundisalvi anche per la traduzione della metaficia mentre il collaboratore questa volta è ignoto. L’opera di Avicenna, dice il de Vanx, passava per essere un commento autorizzato – il migliore- di tutta la filosofia aristotelica […] il sistema di Aristotele poteva sembrare manchevole ad occhi cristiani in due parti soprattutto: era muto sull’origine delle cose e assai laconico su Dio… per quel che riguarda Dio, Avicenna lo considerava come ente necessario in cui si identificano l’essenza e l’esistenza, mentre in ogni altro ente si distinguono. Ogni ente che non sia Dio ha solo la possibilità di esistere ma non esiste di fatto se non riceve l’essere da Dio: l’essenza di ciò che non è Dio è come un vuoto che deve essere riempito da lui. La processione delle cose da Dio è intesa come derivazione necessaria, dipendente dalla stessa essenza divina perciò deve essere eterna (as Dio). inoltre, Dio è l’Uno -secondo la concezione neoplatonica; da lui non può derivare immediatamente che un solo ente: la prima intelligenza. Essendo causata, essa è in sé e riceve l’essere dall’Uno. da questa prima molteplicità nascono tutte le altre: la prima intelligenza contemplando Dio, genera un’altra intelligenza; contemplando sé genera la prima sfera celeste e l’anima di essa. Si giunge così all’intelligenza dell’ultima sfera (10^) che Avicenna identifica con l’intelletto agente di cui parla Aristotele. L’intelletto agente -come lo interpreta Avicenna, cioè: sostanza intellettuale separata- nel mondo sublunare ha una duplice funzione: cosmologica e gnoseologica: è donatore di forme (dator formarum) alla natura e all’intelletto (possibile umano). Alla natura poiché dai moti celesti la materia è preparata a ricevere nuove forme, quando si trasforma nel processo della generazione (ossia quando nasce un nuovo corpo) ma la nuova forma è data dall’intelletto agente. Analogamente, nel processo della conoscenza, l’intelletto possibile è preparato dall’esperienza sensibile a ricevere le specie intellegibili dall’intelletto agente separato. Ogni individuo umano ha però un’anima spirituale con un proprio intelletto possibile: il ricevere le forme dall’intelletto agente è come un essere illuminati da questa intelligenza separata. Di qui la possibilità, per dei cristiani, di fondere questa dottrina gnoseologica con la teoria agostiniana dell’illuminazione – purché l’intelletto agente fosse identificato con Dio-. Avicenna ha influito sul pensiero latino anche per la dottrina sull’anima. Egli afferma che unico e separato è l’intelletto agente, il quale ha in sostanza una funzione illuminatrice sulle singole anime umane ma ognuna di questa ha il suo intelletto possibile: ci sono quindi tanti intelletti possibili quanti sono i singoli uomini. L’intelletto possibile, col quale l’uomo conosce l’universale ed è capace di riflettere su di sé, non dipende nella sua attività (neppure nel suo essere) dal corpo; l’anima umana che è soggetto di una tale facoltà è spirituale e immortale; non è eterna ma è stata creata al momento della sua unione col corpo. si tratta di dottrine accettate dai grandi scolastici del secolo 13. ð Contemporaneamente fu tradotto sempre dal Gundissalino, in collaborazione con Giovanni Ispano, anche il Fons vitae del filosof ebreo Ibn Gebirol che i latini chiamano AVICEBRON (1070) . anche questa figura fonde nella sua opera aristotelismo, neoplatonismo e dottrine religiose – notando che la dottrina religiosa a cui attinge non è quella islamica bensì quella ebraica, dalla quale trae probabilmente il suo concetto di Volontà come intermediario fra Dio e il mondo; certo è che il mondo latino lo interpretò come la volontà creatrice di Dio e trovò nel volontarismo di Avicebron un antidoto contro il naturalismo di Avicenna. Mentre Avicenna affermava che Dio crea per necessità di natura, Avicebron afferma che a fondamento della natura e di ogni apparente necessità naturale sta la liberà volontà creatrice. La dottrina di Avicebron che più affluì sul mondo latino fu quella secondo la quale tutte le sostanze create, anche quelle spirituali, sono composte di materia e forma. C’è una materia universale e una forma universale che si trovano in tutti gli elementi creati; nei corpi, inoltre, si trova una materia corporea che è attuata da diverse forme (forma di corporeità, forma vegetativa, forma sensitiva e forma razionale). Altro filosofo ebreo che influì sul pensiero del 13^ secolo è MOSÈ MAIMONIDE (1135-1204), autore della “Guida dei dubbiosi”. Egli ritiene legittimo, anzi doveroso, cercare di spiegarsi razionalmente ciò che la Rivelazione insegna. In filosofia segue Aristotele affermando, però contro Aristotele, la creazione dal nulla e la creazione nel tempo. Insiste sulla trascendenza di Dio e ritiene che ogni nostra conoscenza di Lui sia puramente negativa. 16 Neoplatonismo vecchia conoscenza per i latini – già assimilato dai cristiani- mentre la religione islamica condivideva alcuni dogmi col cristianesimo. Chierico = dotto anche se a partire dal medioevo il termine indicava le persone dedite alle attività intellettuali e culturali, notando che queste figure si formavano all’interno della chiesa (p.es.: Petrarca) insieme ad Avicenna è conosciuta anche la “philosophia” di ALGAZEL, si tratta di un riassunto della filosofia di Avicenna che l’autore intendeva come premessa a una sua opera polemica contro la filosofia (“distruzione dei filosofi”). ð Fra i primi ad utilizzare le nuove fonti aristotelico-arabo-ebraiche fu GUNDISALVI (O GUNDISSALINO) – traduttore di Avicenna e Avicebron-. Gundissalino accetta da Avicebron la teoria dell’universale composizione di materia e forma. Da Dio derivano l’intelligenza, l’anima e il mondo corporeo: ognuno di questi gradi dell’essere è presente la materia. Nel “De processione mundi”, l’autore opera una sintesi fra la dottrina cristiana della creazione e le filosofie di Avicenna e Avicebron e una analoga sintesi compie nel “De anima” fra la psicologia di Avicenna e la teoria agostiniana dell’illuminazione. 2. i divieti ecclesiastici di Aristotele a Parigi. il maggior centro in cui queste nuove teorie vengono discusse e costituiscono un fermento nel pensiero latino è l’università di Parigi, sorta dalle scuole che si riunivano intorno alla cattedrale (si vuole notare che “università” significa la corporazione dei maestri e degli studenti). Si segna come nascita dell’università di Parisi il 1200, anno in cui Filippo Augusto sottrasse i maestri e gli studenti alla giurisdizione ordinaria e li sottomise solo a quella del vescovo di Parigi -che esercitava tale autorità mediante il suo cancelliere-. L’Università comprendeva 4 facoltà: delle arti (facoltà scientifico- filosofica), di teologia, di diritto e quella di medicina. La facoltà delle arti è considerata come preparatoria a quella di teologia…. Nella facoltà delle arti si leggevano le opere logiche di Aristotele, i libri fisici e metafisici di Aristotele e le opere di Avicenna. Queste nuove fonti filosofiche dovettero determinare le teorie non del tutto ortodosse. Di qui i divieti ecclesiastici di Aristotele del 1210 e del 1215. Nel 1210 il concilio della provincia ecclesiastica di Sens, da cui dipendeva anche Parigi, dopo aver condannato anche le dottrine di Amalrico di Bène e di Davide di Dinant, aggiunge <<né i libri sulla filosofia naturale di Aristotele che venivano fatti leggere pubblicamente e privatamente a Parigi.>>. Nel 1215 il cardinale Legato Roberto di Courcon, decreta per quel che riguarda la facoltà delle arti, che si leggano libri di Aristotele ma <<non i libri sulla metafisica e sulla filosofia naturale – né simili>>. Per leggere si intendeva allora usare come testo di lezione. Le summe e i commenta ai quali alludono i divieti sono probabilmente i libri di Avicenna che si presentano come parafrasi di Aristotele. L’aristotelismo si era affermato nella facoltà delle arti; i custodi dell’ortodossia erano i teologi: i divieti del 1210 e del 1215 segnano un contrasto fra la facoltà di teologia e la facoltà delle arti di Parigi. Altro segno di questo contrasto è lo sciopero universitario parigino del 1229-1231. Guglielmo d’Auvergne , già maestro di teologia e allora vescovo di Parigi, cerca di comporre il dissidio fra gli studenti e le autorità civili ma non con ottimi, egli determinò lo sciopero di studenti e maestri parigini perché poiché sperava di cambiare il colore all’università di Parigi. Ma a Roma ci si rende conto che non si poteva liquidare una corrente di pensiero coi metodi di Guglielmo d’Auvergne: quindi si svolge un’opera di mediazione che culmina con la lettera del papa Gregorio 9^ del 13 Aprile 1231. Ma il passo più importante è quello che riguarda gli scritti di Aristotele: si conferma la proibizione del 1210 solo finché quei libri non siano corretti <<per quanto tempo sono stati esaminati e scagionati da tutti i sospetti>> e si nomina pure la commissione, costituita da uomini che avevano dato prova di apertura verso le nuove correnti. La commissione non portò mai a termine il lavoro ma verso il 1240, i libri fisici e metafisici di Aristotele – che già erano studiati a Oxford dove non si consideravano i divieti parigini- cominciarono ad essere testo di scuola anche a Parigi: uno dei primi a commentarli a Parigi fu Bacone. 3. Averroè Solo verso il 1230 i latini conobbero Averroè (1126-1198), le opere più importanti sono i suoi commenti ad Aristotele che sono di tre tipi diversi: grande, medio e compendio/epitome. Questa figura nei grandi commenti trascrive un passo di Aristotele e lo commenta, preoccupandosi solo di scoprire il pensiero aristotelico; inoltre introduce lunghe digressioni in cui discute le interpretazioni di altri commentatori ed espone la propria. Averroè concepisce Dio come motore immobile e atto puro. Quanto alla derivazione degli altri enti da Lui, Averroè rifiuta il principio neoplatonico-avicennistico secondo il quale da Dio potrebbe derivare immediatamente solo una intelligenza, dalla quale procederebbero poi le altre; Dio crea ab aeterno, immediatamente, tutte le intelligenze separate. Nel mondo sublunare (mondo della generazione e corruzione) le forme non sono date dall’intelletto agente separato ma sono edotte dalla potenza della materia per opera degli agenti naturali (concezione più naturalistica rispetto Avicenna). La dottrina averroistica che ha destato più rumore nel mondo latino è quella sull’intelletto possibile. Averroè ritiene incompatibili i due caratteri: forma del corpo e spirituale, opta per il secondo: l’intelletto possibile è spirituale, quindi non può essere forma del corpo, né esser proprio di ogni singolo individuo ma è un’intelligenza separata ed unica per tutta l’umanità. Bisogna spiegare come il singolo uomo conosca e in che senso il nostro conoscere nasca e muoia con noi. Averroè da questo tentativo di soluzione: i nostri concetti (intellecta) stanno all’intelletto possibile come i sentiti stanno al senso, secondo una analogia stabilita dallo stesso Aristotele; il sentito si realizza in due soggetti: nella cosa fuori dell’anima e nella sensazione, ossia nell’atto di sentire. Così il concetto di realizza nell’immagine, dalla quale è astratto, e nell’atto intellettivo, che è nell’intelletto possibile e dell’intelletto possibile. Il concetto, quindi, per un verso è nell’immagine che, essendo corporea, è in ogni individuo umano, e per l’altro è nell’intelletto spirituale e separato: è quindi il concetto, l’intentio intellecta, quella per cui, nell’atto conoscitivo l’intelletto possibile si unisce con ogni singolo uomo. Secondo la dottrina di Averroè siamo intelligenti perché partecipiamo in qualche modo all’oggetto inteso, per la presenza in noi dell’oggetto inteso. Ore, se l’unicità dell’intelletto agente affermata da Avicenna avesse implicato solo l’illuminazione delle nostre singole anime intellettive da parte di una intelligenza separata, l’unicità dell’intelletto possibile 17 sintesi tomistica uno sviluppo della filosofia agostiniana; la figura di F. Van steenberghen mette in rilievo il carattere aristotelico della filosofia pretomistica del 13^ secolo, quindi nega che vi sia un agostinismo filosofico pretomista. 6. Alessandro di Hales e S. Bonaventura ð Problema: S. Bonaventura è il tipico e maggiore rappresentate dell’agostinismo? Oppure è un filosofo rappresentante dell’aristotelismo eclettico della prima metà del duecento, teologo agostiniano? Per risolvere il dilemma bisogna ricordare la figura del suo maestro: ALESSANDRO DI HALES (1245), sotto il suo nome si pubblica un’amplia Summa theologica che non gli appartiene mentre i suoi scritti autentici sono: Quaestiones disputate e la Summa Halensis; bisogna tenere presente che quest’ultima è stata compilata una buona parte da Alessandro e – anche nelle parti che non gli appartengono- riflette l’insegnamento dell’antica scuola francescana di Parigi. La Summa Halesis rivela un’approfondita conoscenza di Aristotele – interpretato alla maniera di Avicenna e Avicebron- ma sembra preferire al neoplatonismo nuovo quello vecchio. Così a differenza di Guglielmo d’Auvergne, concepisce Dio specialmente sotto l’attributo di Ente necessario. La summa Halensis considera Dio in primo luogo come summum bonum (“il più alto bene”) e per dimostrare l’esistenza di Dio accetta tutti gli argomenti tradizionali, da quello agostiniano che prova l’esistenza di Dio dall’esistenza della verità, a quello del proslogion di S. Anselmo, a quelli di Ugo e Riccardo di S. Vittore. Inoltre, accenna ad una specie di presenza di Dio alla mente, presenza non attuale ma abituale; si capisce, quindi, che nella summa si trovino argomenti a priori e a posteriori poiché <<Alessandro nel conoscere umano distingue due lati: uno che si alimenta dall’alto, l’altro dal basso. quello si alimenta dall’alto ha la sua sorgente in Dio, primo nell’ordine dell’essere e del conoscere, il quale creando l’anima, le si rivela attraverso le nozioni impresse rendendola così razionale, cioè capace di conoscere Dio. quello che si alimenta dal basso ha le sue origini nell’esperienza sensibile>> analogamente la concezione dell’uomo, la summa halensis proprone ben 7 definizioni dell’anima e anche in questo caso non si può dire che ci si ritrova davanti a una semplice raccolta, vi si trova: la concezione agostiniana dell’anima come sostanza spirituale;la definizione aristotelica dell’anima come forma del corpo è scartata perché l’anima umana non è soltanto forma sostanziale ma è un “ens in se”, una sostanza. Per questo è composta di materia e forma: tutte le sostanze per sé esistenti, all’infuori di Dio, sono composte di materia e forma. ð Si giunge alla figura di maggior rilievo di questo periodo S. BONAVENTURA (1221-1274); nel suo commento alle sentenze (1250 circa) ci sono delle tesi essenziali della filosofia aristotelica: teorie metafisiche dell’atto e della potenza, della materia e della forma, della sostanza e dell’accidente; dottrina dell0astrazione, dell’intelletto possibile e dell’intelletto agente, concetto dell’anima come forma del corpo. l’aristotelismo è interpretato spesso alla maniera del neoplatonismo arabo: composizione ilemorfica di tutte le sostanze create, pluralità delle forme, teoria della luce come sostanza o prima forma sostanziale ma queste dottrine sono inquadrate in una sintesi personale. Secondo il Van Steenberghen si tratta di una sintesi teologica e non filosofica mentre il Gilson parla della filosofia di S. Bonaventura pur ammettendo che tale filosofia non può essere separata dalla teologia. In una pagina famosa delle “Collationes in Hexaemeron” (1270), opera teologica, S. Bonaventura insiste sull’impossibilità di una filosofia separata, egli fa risalire gli errori della filosofia aristotelica alla negazione della verità fondamentale del platonismo: teoria delle idee come cause esemplari del mondo. L’autore interpreta le idee platoniche come idee della mente divina, e osserva che il negare tali idee porta a negare la provvidenza e ad introdurre quella necessità fatale di cui parlano gli interpreti arabi di Aristotele: è tolta così la finalità dell’universo ed è negata la libertà umana. Se il mondo deriva da Dionecessariamente esso è ab aeterno e se il mondo è ab aeterno bisogna negare l’immortalità delle anime individuali. Infatti in un mondo eterno ci sarebbero infinite generazioni umane e, quindi, infiniti individui; se ciascuno di questi individui è dotato di un’anima immortale, ci dovrebbero essere infinite anime e non è possibile che si siano attualmente infiniti enti – di qui la, secondo Aristotele, negazione dell’immortalità personale e la teoria averroistica dell’unico intelletto. S. Bonaventura ritiene che la teoria delle idee sia stata ispirata da Dio a Platone e a Plotino per una speciale illuminazione ma di fatto, la teoria delle idee è una dottrina filosofica posta da S. Bonaventura come fondamento della sua concezione della realtà e di qui l’importanza che dà all’esemplarismo divino. In Dio ci sono le idee, ossia i modelli, le similitudini di tutte le cose. E spiega in che modo le idee divine sono similitudini delle cose. Due realtà possono essere dette simili: o perché convengono in una terza o perché una delle due realtà è apertura verso l’altra. In questo secondo senso si parla si similitudine nella conoscenza; ma in modo diverso nella conoscenza divina e nella conoscenza umana poiché in noi la similitudine è impressa dalle cose (sono le cose che ci aprono verso di loro e ci perfezionano intenzionalmente), mentre in Dio la cosa è espressa dall’idea; è l’idea divina quella che originariamente esprime l’essere della cosa creata. Dio crea non per necessità di natura ma come un artista che attua ciò che ha preconcepito: crea dunque liberamente e dal nulla. Ora se il mondo è ex nihilo (dal nulla) deve essere anche post nihilum: l’inizio del mondo, la creazione nel tempo è, per S. Bonaventura, una verità dimostrabile razionalmente. Le idee divine hanno una funzione nella nostra conoscenza: non possiamo conoscere con certezza se non nelle eterne idee. Conoscere con certezza vuol dire applicare agli oggetti sensibili principi immutabili. Quelle legge immutabili con le quali giudichiamo i dati sensibili sono 20 proposizioni che constano di termini, ossia di concetti, di cui non si può capire il significato se non definendoli; definire vuol dire risalire ad un concetto più generale, e in ultima analisi, al concetto di essere che implica le proprietà trascendentali: uno, vero e buono. Ma l’essere può essere imperfetto o perfetto, in potenza o in atto, relativo o assoluto, mutevole o immutabile. Dunque, a fondamento di ogni nostra conoscenza intellettiva sta il concetto di essere è, e questo concetto è nel nostro spirito un’irradiazione dell’Essere assoluto di Dio, in cui sono le eterne idee di tutti gli enti. Il che non vuol dire che le idee eterne siano per noi l’oggetto adeguato della nostra conoscenza, ché altrimenti avremmo già la visione beatifica; né vuol dire che le idee eterne – ossia l’intelletto divino in cui esse sussistono- siano soltanto cause efficiente del nostro intendere. Ciò vuol dire che Dio è ratio motiva, imperfettamente conosciuta dal nostro intelletto. importante è ricordare la teoria bonaventuriana dell’illuminazione, la quale si presta ad un contesto teologico ma si giustifica con argomenti filosofici, infatti, le argomentazioni si appellano a quella medesima fonte platonica; Esse puntano verso la seguente conclusione: c’è nella conoscenza umana dell’intellegibile; intuizione oscura, confusa finché si vuole ma intuizione, non elaborazione a partire dal sensibile. E l’intellegibile, poiché S. Bonaventura non ammette idee platoniche separate né decima intelligenza avicennistica, è un’irradiazione in noi della luce divina. Per quanto riguarda la nozione di Dio è innata; se la nozione di Dio come pieno e assoluto essere è a fondamento di ogni nostra conoscenza, non c’è bisogno di dimostrare la sua esistenza ma solo di richiamare l’attenzione su questa presenza di dio al nostro intelletto. L’antropologia di S. Bonaventura è coerente con questa sua persuasione di una presenza immediata dell’intellegibile allo spirito umano. Alle due facce dell’anima, una rivolta verso il sensibile ed una verso l’intellegibile, devono corrispondere due aspetti dell’anima stessa: uno per cui è forma del corpo ed uno per cui è sostanza indipendente capace di svolgere un’attività conoscitiva alla quale non contribuisce il corpo e dalla quale, perciò, non molto sarà tolto all’anima quando questa sarà separata dal corpo. 7. S. Alberto Magno (1193/1207-1280) Questa figura ripone una grande nel sapere, anche profano, ciò è testimoniato dall’immensa opera di interprete dell’aristotelismo; i suoi commenti si estendono a tutte le opere aristoteliche e pseudo-aristoteliche che sono in forma di parafrasi – si capisce che preferisce questa forma a quella tipica del commento, poiché la sua preoccupazione non è rivolta alla spiegazione del testo, egli aveva l’interesse di rendere il pensiero aristotelico accessibile ai latini-. Da notare che egli intercala alla parafrasi delle digressiones in cui riferisce e discute le varie interpretazioni date prima di lui della dottrina in questione ed espone la propria opinione personale e nel momento in cui non trova trattato un certo argomento da Aristotele, lo svolge personalmente inserendolo però sempre nella parafrasi. In un certo senso, con questo lavoro, Alberto Magno è colui che ha immesso l’aristotelismo nel pensiero cristiano: non perché sia il primo a conoscere Aristotele ma perché è il primo che ha presentato ai cristiani Aristotele come un patrimonio da assimilare – e non come qualcosa di pericoloso che bisogna conoscere per combatterlo -. Si discute sul valore che le parafrasi aristoteliche hanno per farci conoscere il pensiero di Alberto; Meersseman trae la conclusione che le parafrasi non esprimano il pensiero di Alberto, ma si può osservare che Alberto stesso distingue i capitoli nei quali espone il testo aristotelico da quelli nei quali discute ed esprime il suo pensiero – o almeno un pensiero che fa suo- e questi ultimi assumono il nome di digressiones. La filosofia secondo Alberto è un sapere incompleto ma valido. Sembra che il pensatore considerasse l’esistenza di Dio come una verità evidente e in qualche modo nota a tutti: la filosofia ha il compito di chiarire e di distinguere meglio questa conoscenza, tant’è che nel “commento alle sentenze” si domanda che cosa i filosofi abbiano conosciuto di Dio. nella “Summa theologiae” egli sistema gli argomenti coi quali la ragione umana può arrivare a conoscere Dio, diverse sono le vie - PRIMA: porta a Dio come causa efficiente del mondo ma senza precisarne la natura; - SECONDA: arriva a determinare che Dio è incorporeo e immutabile; - TERZA: arriva a Dio come causa dell’universo; - QUARTA: arriva a Dio affermando la superiorità dell’intellegibile sul sensibile e dell’intellegibile che è anche intelligente su ciò che è intellegibile ma non intelligente (le fonti di questa sono S. Agostino e il Timeo di Platone). - QUINTA: (accennata da Pier Lombardo, fondata sul S. Paolo) è la via eminentiae che dalle perfezioni delle creature inferisce l’esistenza di un Creatore in cui trova la fonte di quelle perfezioni: così la grandezza dell’universo ci fa conoscere l’onnipotenza del Creatore, la sua bellezza e il suo ordine ci fanno conoscere la sapienza infinita di Dio. Queste sono le prove tradizionali, alle quali Alberto dichiara di aggiungerne due: (1) l’argomento del moto che porta ad un primo motore immobile -desunto dall’8^ libro della fisica di Aristotele-. (2) argomento desunto da Boezio, interpretato con l’aiuto di Avicenna. Tutto ciò in cui si distinguono l’esse e il quod est ha l’essere da una causa diversa da quella dalla quale ha il quod est; ora il quod est lo ha da una causa determinata, ossia da una causa seconda, dunque l’essere deve averlo da una causa di altra natura, ossia dalla Causa prima. Solo la causa prima è causa dell’essere; Tutte queste vie per ascendere a Dio ce lo fanno sconoscere come cause prima, come creatore ma non ci dicono gli attributi. Già dall’ultima via, Dio è semplicissimo e che in ogni creatura c’è composizione: non però composizione di materia e forma ma composizione di quod est e quo est. Alberto non si è espresso con grande chiarezza perché il quo est o esse è interpretato come l’essenza, talora è inteso come ciò da cui una cosa ha di esistere (l’esistenza). lo Schneider vede nella psicologia di Alberto un insieme di elementi aristotelici, neoplatonici, teologico-agostiniani accostati, più che sintetizzati. La figura di Alberto afferma che l’anima razionale, composta come ogni creatura di quo est 21 e di quod est, è individuata dal suo quod est e non dal corpo – come dirà S. Tommaso-; Alberto Magno non si limita ad accostare questi elementi e questo si nota già nel momento in cui tratta l’anima dove espone prima di tutto le definizioni dei sancti – tutte più o meno dipendenti da quella di S. Agostino- e poi quelle dei philosophi.; in questo contesto Alberto si domanda se e come un’anima-sostanza spirituale possa esser concepita come atto e forma di un corpo. Per conciliarle fa a intermediario Avicenna che già aveva parlato dell’anima umana come una forma speciale capace di sussistere anche senza corpo. la posizione di Alberto Magno subisce un mutamento sia per quel che riguarda la definizione dell’anima, sia per quel che riguarda i rapporti tra anima e corpo… <<considerando l’anima in sé e per sé, siamo d’accordo con Platone ma considerandola secondo la forma di animazione che dà al corpo, saremo d’accordo con Aristotele.>> nella summa de homine, Magno insiste nel dire che l’anima umana non esaurisce nel suo informare il corpo. Anche la teoria della conoscenza subisce una certa evoluzione: la conoscenza umana comincia con l’esperienza sensibile che fornisce le immagini, l’intelletto agente le illumina ed estrae la specie che saranno ricevute dall’intelletto possibile. La nozione così ricevuta è inquadrata in un patrimonio intellettuale che ha a fondamento quei primi principi o assiomi dei quali ci serviamo per giudicare le nuove nozioni. L’intelletto agente illumina, l’intelletto possibile è illuminato, i principi primi sono strumenti attivi di conoscenza poiché sono stati appresi in virtù della luce dell’intelletto agente, ma, una volta appresi, servono poi a formulare quei giudizi di cui si arricchisce ulteriormente l’intelletto possibile. e fin qui si tratta di elementi immanenti all’animo umano, poiché secondo Alberto Magno: tanto l’intelletto possibile quanto l’intelletto agente sono facoltà dell’anima. 8. S. Tommaso d’Aquino (1225-1274) In che cosa era nuovo l’insegnamento tomistico? Non nei materiali costituiti dalla dottrina dei Padri, specialmente S. Agostino, filosofia aristotelica e neoplatonica ma l’innovazione sta nel modo personale di ripensare quei materiali. La figura di Tommaso era persuaso che la filosofia fosse una progressiva scoperta di una unica verità accessibile ad ogni ricercatore di buona volontà; numerosi suoi articoli premettono alla soluzione del problema una breve storia delle soluzioni precedenti, storia che segue sempre questo schema: i presocratici hanno dato un 1^ abbozzo di soluzione che si è determinato e perfezionato prima nell’ambito della filosofia presocratica, si è arricchito con Platone e ha raggiunto un’ulteriore compiutezza con Aristotele. Quello che manca nei suoi articoli è l’annuncio del suo contributo personale alla soluzione che è presentata come una conclusione logica, obiettiva e impersonale. Gli studi ci permettono di notare che non ci sono mutamenti notevoli nel suo pensiero, c’è un influsso più sensibile di Avicenna nelle prime opere, un contatto più dirette con Aristotele ed un ripensamento personale della sua dottrina nelle opere della maturità (i commenti ad Aristotele). Il “De ente et essentia” (1254-1256) contiene una breve esposizione della metafisica tomistica. Dopo aver distinto l’ente reale da quello logico, S. Tommaso osserva che è l’ente reale quello da cui deriva il termine essenza, termine che significa “ciò che un ente è”, e perciò è sinonimo di quidditas “ciò per cui qualcosa deve essere quello che è”. L’essenza si chiama anche forma, in quanto per forma s’intende la determinatezza di una cosa, e anche natura specialmente quando è considerata come principio di attività. <<ma l’essenza si dice secondo ciò che l’ente ha per mezzo di essa e in essa>>; infatti non può esistere se non ciò che è determinato e quindi ha una determinata essenza. Ente è qualsiasi realtà a qualsiasi categoria appartenga ma assolutamente e primariamente ente è la sostanza; perciò S. Tommaso considera l’essenza delle sostanze: prima delle sostanze composte, le più note a noi, perché sono quelle con le quali ci mette a contatto l’esperienza sensibile e poi delle sostanze semplici. Le sostanze corporee sono composte di materia e forma e la loro essenza, non la materia sola che per sé è indeterminata e quindi incapace di esistere, né la sola forma che non darebbe ragione della loro composizione.  PROBLEMA: se la materia è principio di individuazione, tutto ciò che è composto di materia e forma è individuo e, poiché l’essenza delle cose corporee è composta di forma e materia, ne dovrebbe seguire che nel mondo corporeo solo all’individuo si possa attribuire un’essenza e quindi solo l’individuo sarebbe definibile. E invece si definiscono sempre essenza universali. S. Tommaso risponde che principio di individuazione è, non la materia accettata in alcun modo (“quomodocumque accepta”), ma la materia firmata (“signata”), ossia la materia che essendo passata nel corso delle generazioni sotto diverse forme, porta in sé l’esigenza di essere informata con certe determinate dimensioni: hic et nunc (qui e ora). Risulta che nella sua teoria di individuazione S. Tommaso sintetizza Avicenna e Averroè. Nella definizione di un’essenza universale è compresa la materia in generale e come nell’essenza dell’individuo è compresa la materia signata. <<quindi è chiaro che l’essenza di Socrate e l’essenza di uomo non differiscono se non secondo il significato e il non segno>>. Il che vuol dire: l’essenza di Socrate non è altro che essenza dell’uomo determinata fino all’individualità (fino ad essere questo), così come l’essenza della specie -uomo- non è altro che l’essenza del genere -animale- determinata ad essere tale animale. Questa osservazione dà modo a S. Tommaso di parlare dei rapporti fra il genere e la specie: è esclusa ogni concezione del genere come una realtà distinta dalla specie. Il genere e la specie non sono altro che l’individuo considerato indeterminatamente. <<è l’intelletto che opera l’universalità nelle cose>> il che non impedisce che l’universale si possa predicare dell’individuo ed esprima ciò che è la realtà esistente poichè: (1) ciò che una cosa è, ossia l’essenza, può essere considerata assolutamente (absolute) per quel che esprime, prescindendo dal modo in cui si realizza; oppure (2) può esser considerata nel modo in cui si attua nel suo modo di esistere. considerata nel primo modo, l’essenza non è né singolare né universale: è quella che è. Considerata nel secondo modo l’essenza può esistere nelle cose singolari e nell’intelletto che la pensa: nelle cose singolari esiste come singola, 22 Marzo del 1277, da parte di Roberto Kilwardby: primate d’Inghilterra (condanna ribadita nel 1284 e 1286 da Giovanni Peckham, successore di Roberto, nella sede arcivescovile di Canterbury). Accanto all’aristotelismo eterodosso degli averroisti e all’aristotelismo personale di S. Tommaso, nasce l’agostinismo – il quale ha come maggiori rappresentanti: Giovanni Peckham, Guglielmo de la Mare, Matteo d’Acquasparta e Ruggero Marston). Le tesi caratteristiche non sono tutte agostiniane ma sono affermate in nome di un ritorno a S.Agostino. i maestri di questa corrente ritengono che S. Tommaso abbia accettato troppo dall’aristotelismo e si attaccano a certe tesi dell’aristotelismo eclettico pretomista… dietro il conflitto tra tomismo e agostinismo vi è anche un’opposizione di mentalità filosofica, quella che S. Tommaso stesso tratta l’unità della forma sostanziale; la diversità delle due opinioni procede da questo, dice S. Tommaso: - alcuni nella ricerca della verità partono dai concetti (da motivi intellegibili) e questa è la caratteristica dei platonici; partire dai concetti vuol dire ipostatizzare i nostri concetti e pensare che la realtà si modelli su questi. E poiché i nostri primi concetti sono i più universali e astratti, e si specificano via via, si porrà nel reale uno scaglionarsi di forme; poiché il nostro primo concetto è l’essere, si vedrà in esso il riflesso della prima realtà e si ricorrerà a una speciale illuminazione per spiegare in noi la presenza di quest’idea; e in generale si avrà la tendenza a pensare che ciò che è più reale e più intellegibile in sé sia anche più evidente per noi. - altri invece partono dalle cose sensibili e questa è la caratteristica della filosofia di Aristotele. Il partire dal sensibile vuol dire partire dal concreto col quale l’esperienza sensibile è il 1^ contatto, persuasi che tale realtà concreta (e non l’esperienza sensibile) è immensamente più ricca di intellegibilità di quel che essa riesca a scoprire di primo acchito il nostro intelletto; il quale deve far passare e ripassare su ciò che l’esperienza gli offre per poter scorgere la ricchezza: e di qui deve partire nella sua ascesa a Dio. ð Dopo il 1270, resa più grave e più viva dalla presenza di una interpretazione eterodossa di Aristotele, continua la problematica della assimilazione del pensiero aristotelico da parte del pensiero cristiano, l’argomento sul quale l’assimilazione era più discutibile è quello che riguarda la concezione dell’uomo e quelle che gli sono connesse – conoscenza, volontà-, si capisce che su questo si appuntino le ricerche. Ancor prima della condanna GIOVANNI PECKHAM (1292) prese posizione contro Tommaso. Per quel che riguarda l’anima umana questa figura è preoccupata di metterne in luce la spiritualità e l’indipendenza dal corpo: la composizione di forma e materia gli sembra condizione necessaria della sostanzialità dell’anima. L’anima razionale, composta di forma e materia, si unisce a un corpo già formato. Gli “spiriti”, corpi sottilissimi, fanno da intermediari nell’unione; non si può dire che nell’uomo vi siano diverse anime ma l’unica anima umana è composta di 3 sostanze. <<quindi in base a ciò si può dire che nell’uomo c’è una sola anima che lo anima pienamente composta di una triplice sostanza, cioè vegetativa, sensitiva e intellettiva. E vegetativo lo mettiamo in una specie di materiale perché come la specie umana differisce dal bruto, così anche il sensibile, ma formalmente per mezzo dell’intelletto che di per sé può dirsi dotato di senso da Agostino. O si dice che abbia poteri sensibili perché è diretto al completamento dell’anima sensibile>>. Nell’anima umana si distinguono varie potenze fra le quali: l’intelletto possibile e l’intelletto agente creato che è “la forza formativa della specie” (vis formativa specierum) ma alla conoscenza della verità è necessaria l’illuminazione dell’intelletto agente increato che è Dio. Dio si conosce per tre vie: - con la ragione, ciò vuol dire argomentare la sua esistenza dalle cose create nello specifico dal loro ordine, dalla loro origine e dalla loro perfezione. - con l’intelletto che vuol dire conoscerlo ritrovando l’idea dell’Assoluto [essere semplice e completo] a fondamento di ogni nostra conoscenza. - con la sapienza che significa conoscerlo <<per gustum et devotionem>>. ð RUGGERO MARSTONS è un conservatore: per lui i filosofi pagani sono “uomini infernali”, S. Tommaso e i tomisti sono teologi filosofanti che si lasciano ubriacare dalla filosofia e abbandonano S. Agostino. Marstons afferma la teoria dell’illuminazione e giudica insostenibile l’interpretazione di S. Tommaso: <<che tutte le cose si vedono nella luce eterna perché si vedono nella luce da lui derivata, pervertono la dottrina di Agostino e distorcono le sue autorità al proprio senso, non senza l’ingiuria del santo. >> Dio illuminatore è l’intelletto agente increato, c’è però un intelletto agente creato immanente all’anima umana. ð Notevole l’importanza storica di Guglielmo de la Mare (1298) per il suo “Correctorium fratis Thomae”, il quale raccoglie in 118 capi passi di S. Tommaso e ad ognuno di essi fa seguire una confutazione ; divenuto quasi testo ufficiale dell’ordine francescano, per la deliberazione del capitolo di Strasburgo, il correctorium divenne bersaglio ufficiale della polemica tomistica: le risposte attribuirono a sé il titolo di correctoria e chiamarono corruptiorum il testo di Gugliemo. Si conoscono 5 correctoria corruptorii il <<Quare>>, <<circa>> , <<sciendum>>, <<quaestione>> e l’Apologeticum. ð Matteo d’Acquasparta (1302) ritorna alla teoria agostiniana della conoscenza sensibile come attività dell’anima sola <<non solo il corpo del percepito ma l’anima attraverso il corpo che usa come messaggio per formare in sé ciò che si annuncia esternamente>>. Qualcosa di analogo avviene per la conoscenza immaginativa e intellettiva: e questi diversi modi di configurarsi all’oggetto possono corrispondere ai tre gradi d’astrazione dei 25 quali parla Aristotele. Nell’ultima astrazione (quella intellettiva) entra l’opera dell’intelletto agente. Per Matteo l’astrazione non è propria dell’intelletto solo ma è di qualsiasi tipo di conoscenza: non può segnare essa il limite fra conoscenza sensitiva e intellettiva. La specifica superiorità dell’intelletto rispetto al senso sta nella conoscenza delle verità necessarie che non può compiersi senza una illuminazione da parte di Dio. gli argomenti per dimostrare la necessità dell’illuminazione sono quelli già addotti da S. Bonaventura: in ogni concetto è implicito quello di essere, ora non si ha il concetto dell’essere imperfetto senza quello dell’essere perfetto e questo non si può avere se non per illuminazione; non si può avere conoscenza certa nel giudizio senza aver conoscenza dell’immutabile e anche questa non può avvertirsi dall’esperienza ma esige un lume che venga da Dio. lume però non è Dio stesso ma è mandato in noi da Dio, sì che siamo sempre noi che formalmente conosciamo anche se nella luce di Dio. <<quella luce, quindi, muovendo il nostro intelletto, infonde una specie di luce nella nostra mente, sicché per la luce divina vede oggettivamente e quasi efficacemente, ma per essa e in quella luce vede formalmente>> ð La teoria della luce non è accetta da PIER DI GIOVANNI OLIVI (1248-1298), noto francescano per la presa di posizione nell’Ordine a proposito del modo in cui si doveva intendere la povertà e per il suo modo di intendere il rapporto fra anima e corpo. questa figura sostiene che la parte intellettiva dell’anima non è per sé e in quanto tale forma del corpo e, per spiegare come essa si unisca al corpo, escogita una sua teoria che fu condannata prima dai superiori dell’ordine francescano e poi dal concilio di Vienne (1311). (tesi comune a S. Bonaventura) presuppone che l’anima sia composta di forma e materia e afferma che nella materia spirituale dell’anima sono impresse sia la forma intellettiva sia la forma sensitiva; queste due sono sostanzialmente unite in quanto impresse nella medesima materia. Ora, la forma sensitiva è a sua volta forma del corpo e, come tale, inclina al corpo anche la sua materia spirituale nella quale è impressa la forma intellettiva la quale è così << “proprio per questo era sostanzialmente inclinato rispetto al corpo”>>. Il motivo di questa teoria è la preoccupazione di salvare la spiritualità e immortalità dell’anima e la libertà. La sua teoria della conoscenza nega l’esistenza di una species intellegibile perché la interpreta come un intermediario fra il conoscente e il conosciuto: la conoscenza è intuizione (aspectus) dell’oggetto, il quale è terminus e non propriamente causa della conoscenza. In questa tesi è presente la preoccupazione di affermare l’attività del sogg. conoscente e vi è la volontà di sottolineare l’originalità dell’atto conoscitivo. 11. La diffusione del tomismo ð la teoria tomistica non suscitò solo opposizione ma anche consensi, specialmente nell’ordine domenicano dove cominciò a formarsi una scuola tomistica; in Italia ne sono rappresentanti: ANNIBALDO DEGLI ANNIBALDI (1272), REMIGIO DE’ GIROLAMI (1319), TOLOMEO DA LUCCA (1326) e GIOVANNI Di NAPOLI (1338). ð fu scolaro di S. Tommaso, dal 1269 al 1272, EGIDIO ROMANO (1247-1316). Da molti fu considerato fedelissimo tomista; mentre, studi recenti lo mostrano come ammiratore di S. Tommaso ma indipendente dal maestro col quale polemizza. Per quanto riguarda la teoria della distinzione di essenza ed essere nelle creature e della loro identità in Dio (teoria affermata anche da S. Tommaso), Egidio introduce innovazioni soprattutto irrigidisce la distinzione, fino al punto di dire che essa è distinzione inter rem et rem, e le dà un’importanza nella costruzione metafisica che essa non aveva nell’opera di S. Tommaso. La filosofia di Egidio presenta in modo tipico quei caratteri che l’art. 3 della “questione delle creature spirituali” di S. Tommaso chiama platonici: basterebbe confrontare il “De ente et essentia” di S. Tommaso e il ”Theoremata de esse et essentia” di Egidio. Si può notare che dall’ens parte S. Tommaso, ossia dal concreto, e si domanda come vada concepito l’ente, qual sia l’essenza della sostanza e degli accidenti, delle sostanze corporee e delle incorporee (e comincia dalle prime perché son quelle di cui abbiamo esperienza); mentre, Egidio parte dall’esse, ossia un concetto, e il suo 1^ teorema dice <<tutto l’essere o è pure, autoesistente e infinito oppure è condiviso, ricevuto da un altro e limitato>> - questo primo teorema è certo tomistico-; padre Hocedez afferma che non sempre le sue conclusioni si accordino con quelle di S. Tommaso; Egidio tende a fisicizzare quelli che in S. Tommaso sono costruttivi metafisici della realtà, il che è quanto dire che egli tende a ipostatizzare i concetti umani, a concepirli come realtà anche in quegli aspetti che essi hanno in quanto pensati. Si capisce che egli è più realista di S. Tommaso nel problema degli universali e concepisca diversamente la funzione dell’intelletto agente: secondo Egidio, non astrae, non foggia la specie intellegibile ma illumina e muove il fantasma comunicandogli una disposizione che lo rende capace di agire sull’intelletto possibile. e poiché concepisce, platonicamente, l’intendere umano come un’intuizione dell’intellegibile, anziché come una elaborazione del significato intellegibile del sensibile, si capisce anche che ritenga per se nota, in base al solo concetto di essere, l’esistenza di Dio. ð contro Egidio Romano ha spesso polemizzato nei suoi “”quodlibeti” ENRICO DI GAND (1293), rappresentante dell’agostinismo. Secondo l’interpretazione del Paulus la forma mentis (dell’anima/mente) di enrico si avicinerebbe a quella di Egidio; i due si scontrano a proposito della distinzione fra essenza e essere nelle 26 creature, che Enrico nega o riduce a distinzione intenzionale: l’esistenza non aggiunge all’essenza se non il respectus a Dio creatore. Avversi anche nella teoria della conoscenza poiché Enrico è fautore della teoria dell’illuminazione. L’uomo con i suoi mezzi naturali può conoscere le cose che sono vere ma questo non vuol dire ancora conoscere la verità. <<altro […] è sapere di una creatura ciò che è vero in essa, altro è conoscere la verità, così che una cosa è la conoscenza con cui una cosa è conosciuta e la conoscenza con cui la sua verità è conosciuta è altro.>> la veritas delle cose e la loro conformità all’idea divina sulla quale sono modellate: non si può conoscere la verità delle cose senza che Dio ci illumini. Dio è <<primum cognitum e ratio cognoscendi>> (1^ conosciuto e motivo per sapere) della verità delle altre cose. Non che occorra avere una conoscenza distinta di Dio per conoscere la veritas delle cose ma occorre conoscere le cose nei loro aspetti più universali e in primo luogo nel loro aspetto di enti; se si pensa a fondo l’ente si pensa a Dio <<che se un uomo nota e concepisce un essere come sussistente in se stesso, comprende distintamente Dio.>>. Il rendersi conto della presenza di dio all’intelletto dipende per Enrico da un prestar attenzione al significato profondo delle nozioni di ente, uno, vero, buono, e questo prestare attenzione che dipende dalla volontà umana può essere inteso come il frutto di una ispirazione e di una mozione che viene da Dio. si vuole porre in confronto la frase di Enrico <<quod si advertat homo, et concipiat ens ut in se subsistens, Deum distincte intelliget>> con il 1^ teorema de esse et essentia di Egidio, nel quale si dà come una immediata evidenza che pensare l’essere vuol dire pensarlo <<”puro, esistente in sé, infinito oppure condiviso, ricevuto da un altro e limitato”>>; si comprende come i due fossero d’accordo nell’ammettere l’argomento a priori per dimostrare l’esistenza di Dio. nella teoria della conoscenza sensibile dobbiamo ricordare il suo concetto della species impressa, intesa materialisticamente come una realtà intermediaria fra il corpo e l’organo di senso, realtà che si trasmette nel medio (p.es.: l’aria). Questa teoria implica una contaminazione di elementi fisici e di elementi conoscitivi. Dato questo concetto, Enrico nega l’esistenza della specie intelligibile. Per quanto rifuarda l’unità della forma sostanziale dell’uomo Enrico sostiene una teoria dualistica, la quale afferma che in tutti i composti all’infuori dell’uomo si deve ammettere (per ragioni filosofiche) l’unità della forma sostanziale; nell’uomo invece si deve ammettere che esistano due forme sostanziali: la forma carnis (corporea) e l’anima intellettiva. ð può dirsi tomista GOFFREDO DI FONTAINES (dopo 1303) anche se in alcune conclusioni si allontana da S. Tommaso, queste distanze riguardano la distinzione del reale fra essenza ed essere, che Goffredo nega; il principio di individualizzazione che secondo Goffredo non è la materia signata ma la forma. Questa figura polemizza contro la teoria dell’illuminazione difesa da Enrico di Gand e afferma che: non c’è altro modo di conoscere per l’uomo se non quello per astrazione della specie intelligibile, in virtù dell’intelletto agente. L’attività dell’intelletto agente non è intesa materialisticamente come una manipolazione del fantasma, un imprimere qualcosa nel fantasma, né come una separazione materiale MA è intesa come la capacità originaria di far apparire all’intelletto possibile il significato intelligibile del sensibile. 12. Riccardo di Mediavilla e Duns Scoto; ð Accade del tomismo alla fine del 200 quello che era accaduto all’aristotelismo all’inizio del secolo: di essere in parte assorbito anche dalla corrente conservatrice. Per quel che riguarda RICCARDO DI MEDIAVILLA, nato intorno al 1249 e morto all’inizio del 14^ secolo, padre Hocedez ha rilevato che sia fedele a S. Bonaventura, tuttavia si avvicina in parecchi casi a S. Tommaso, p.es.: nella teoria della conoscenza intellettiva, nella quale non ammette l’illuminazione e nel lasciar cadere l’argomento a priori per dimostrare l’esistenza di Dio. è rimasto fedele a S. Bonaventura nell’affermare l’attualità della materia, la pluralità delle forme, l’impossibilità della creazione ab aeterno, il primato del bene e della volontà e, in genere, nella concezione dell’uomo. La dottrina caratteristica di Riccardo in metafisica è quella che riguarda il “principium pure possibile”: tale principio è la potenzialità originaria, ontologicamente anteriore alla materia; è la potenza della materia. ð GIOVANNI DUNS SCOTO, nato in Scozia nel 1266 e morto in Colonia nel 1308. La sua sintesi filosofico- teologica è una delle più notevoli sistemazioni del pensiero medievale. Gli studi di Gilson, che mettono in rilievo l’influsso di Avicenna, confermano la convinzione che l’ispirazione fondamentale del suo pensiero sia platonica o neoplatonica, nonostante il solco profonda lasciato dal pensiero aristotelico; tale interpretazione è affermata nella dottrina dell’intelletto umano. Scoto discute due dottrine che trova nell’ambiente filosofico: quella tomistica, secondo la quale l’oggetto proprio dell’intelletto umano è la quidditas rei materialis, e quella di Enrico di Gand, secondo la quale Dio è in certo modo il primum cognitum e, dopo averle respinte entrambe, afferma che oggetto proprio dell’intelletto umano è l’ente. Gilson fa vedere come Scoto sia giunto alla sua tesi: dalla discussione sull’oggetto della metafisica. Tra Avicenna, il quale afferma che oggetto della metafisica è l’ente, e Averroè, il quale afferma che oggetto della metafisica è Dio; Duns Scoto preferisce il 1^. Averroè afferma che l’esistenza di Dio è dimostrata dalla fisica con l’argomento del moto; la metafisica determina la natura di Dio e contro Avicenna, nega che oggetto della metafisica sia l’ente perché non c’è un concetto di ente comune alle dieci categorie: l’ente non è un genere. Appellandosi ad Avicenna Scoto osserva che è tuttavia una “intentio” (intenzione) in cui tutte le cose convengono. Nelle Quaestiones in Metaphysicam, Scoto non dice ancora se tale intentio sia analogicamente o univocamente comune ma nell’Opus oxoniense opta per l’univocità. Si tratta di una univocità che riguarda il concetto non di un fondo comune della realtà delle cose, di una communitas 27 <<Platone ha posto quest’ordine nella materia che sperimentiamo nell’intelletto>>; teoria non accettabile secondo Aureolo e per evitarla bisogna ammettere <<che le cose esistenti al di fuori dei particolari ricevono, attraverso l’operazione dell’intelletto, una certa esistenza intenzionale e oggettiva>>. La teoria dell’esse apparens è stata studiata con cura da F. Prezioso, il quale la interpreta in senso soggettivistico così avvicinando l’esse apparens al fenomeno kantianamente inteso. Alcuni non accettano tale interpretazione poiché pensano che Aureolo metta in evidenza il fatto che il conoscere è un originario aver presente la cosa stessa e non il fabbricare una immagine della cosa o il subire una modificazione soggettiva. Nella teoria di Aureolo si debbono distinguere due parti: una generale che mette efficacemente in rilievo l’intenzionalità del conoscere e una infelice applicazione di questa teoria generale alla conoscenza sensibile. L’infelice applicazione dipende da mancanza di cognizioni scientifiche. p.es.: si vuole spiegare il fenomeno per cui un bastone immerso nell’acqua appare spezzato, Aureolo non sa che la res presente alla vista (raggio luminoso) è realmente diverso da quando il bastone è immerso solo nell’aria perché ha una diversa inclinazione e allora afferma che quella inclinazione <<è solo intenzionale e non realmente nell’essere visto e giudicato nell’essere>> Dove sembra che l’esse intentionale o apparens sia una seconda realtà accanto a quella della cosa. Aureolo dice che conoscere è aver presente la cosa stessa in modo originale, che il pensatore chiama oggettivo o intenzionale. <<quindi si può cogliere la ragione formale dell’intelletto, che non è altro che il possesso di qualcosa per il modo dell’apparire sotto il modo dell’apparire spirituale>>. Sì che la cosa conosciuta è la stessa cosa esistente, non è una immagine, una realtà soggettiva distinta dalla cosa, ma la cosa in quanto “appare”, ossia si manifesta al sogg. conoscente. <<infatti la forma che sperimentiamo di guardare mentre intendiamo semplicemente una rosa o un fiore, non è un qualcosa di reale impresso soggettivamente all’intelletto, o un fantasma, non qualcosa di reale sussistente, ma è la stessa cosa che ha un essere intenzionale visibile e apparente.>>. Quello che Aureolo vuole escludere è che l’oggetto conosciuto sia una modificazione soggettiva o un universale realmente esistente distinto dal singolare, come per la conoscenza sensibile aveva escluso che l’oggetto sentito fosse una immagine volante nel mezzo fra la cosa e l’organo senziente. Gli preme sottolineare che il conoscere non produce nulla di reale ma connota la realtà come manifesta (<<comprendere formalmente non include qualcosa di giusto ma connota solo qualcosa di apparente a colui che si dice comprenda>>). Il motivo per cui Aureolo nega l’esistenza della species intelligibilis, sebbene ammetta una impressa similitudo che determina la potenza intellettiva a conoscere, è che egli interpreta la species intelligibilis come una realtà intermedia fra il sogg. conoscente e la cosa. Aureolo, come Ockham, ammette la possibilità di una conoscenza intuitiva del non esistente – il filosofo si preoccupa di salvare l’onnipotenza divina-. Il padre Bohner ha insistito nel rilevare il carattere eccezionale e miracoloso di questa conoscenza per Aureolo ma per ritenerla possibile, Aureolo deve aver ritenuto una tal conoscenza non-contradditoria, compatibile con la teoria della conoscenza. Quando Aureolo ammette la possibilità di una conoscenza intuitiva del non-esistente, egli sia determinato da quella infelice interpretazione della conoscenza sensibile che gli fa ritenere non esistenti o realtà delle quali egli non conosce l’esistenza fisica o realtà che hanno una esistenza fisiologica. Data la sua concezione aristotelica della conoscenza, Aureolo non accetta la dottrina dell’illuminazione, o piuttosto la interpreta come S. Tommaso. L’esistenza di Dio è per sé nota, secondo Aureolo, e conosciuta da tutti gli uomini naturalmente in base alla tendenza insita nell’animo umano verso ciò che è migliore. ð DURANDO DI S. PORZIANO fu censurato dal suo Ordine per essersi allontanato dalle dottrine di S. Tommaso. Ricordiamo che questa figura nega l’esistenza dell’intelletto agente e della species intelligibilis. Le considerazioni con le quali egli nega l’intelletto agente sono dominate dalla preoccupazione di sottolineare il distacco fra la sensibilità e l’intelletto. Durando non riesce a pensare un’astrazione che non sia una manipolazione materiale o una distinzione di ragione, ma operante un oggetto conosciuto. Egli fornisce una spiegazione semplicistica della conoscenza intellettiva: bastano l’intelletto e l’oggetto; l’intelletto è fatto per conoscere, l’atto secondo (l’attività) segue dall’atto primo (natura dell’intelletto) senza che occorra l’aiuto dell’intelletto agente. Egli interpreta la species come un intermediario fra l’intelletto e la realtà conosciuta e la esclude per affermare che la stessa realtà conosciuta è obiective nell’intelletto, il quale coglie non i diversi aspetti (intentiones) della realtà. Le intentiones non sono realtà psichiche ma modi di aver presente il conosciuto. La verità è la conformità tra il conosciuto e il reale <<la conformità di una cosa come è intesa a se stessa secondo ciò che è>> e poiché l’essere conosciuto non è una realtà che si aggiunga all’essere ma è solo la presenza oggettiva dell’essere; la verità è una relazione logica <<l’esaltazione della stessa ragione a se stessa è una cosa e un’altra, cioè secondo l’essere inteso e reale.>> ð GIUGLIELMO DI OCKHAN (1280/90- 1349), considerato fino a qualche decennio fa come uno dei principali distruttori della scolastica, fu valutato negativamente dagli storici neoscolastici ed esaltato da altri come precursore del pensiero moderno. Partendo dalla premessa che fosse il distruttore della scolastica, gli storici francescani mettono in rilievo i punti di divergenza fra Ockham e Duns Scoto, i neotomisti invece mettono in rilievo i punti di contatto fra i due pensatori. Gli studi recenti hanno richiamato l’attenzione sugli aspetti 30 tradizionali del pensiero ossia al suo Aristotelismo in filosofia e il suo volontarismo cristiano-francescano. Nel prologo al commento alle sentenze, Ockham tratta delle condizioni e della natura della scienza in generale e svolge alcune fondamentali dottrine gnoseologiche. Una scienza è un sistema di conoscenze evidenti che l’autore tratta in generale. Non ogni conoscenza evidente è scienza poiché scienza si dice solo la conoscenza delle verità necessarie, mentre c’è conoscenza evidente anche di fatti contingenti. Ogni conoscenza evidente si formula in proposizioni ma nella proposizione altro è l’atto giudicativo, col quale si dà assenso, altro l’atto apprensivo di quel complexum di termini che costituisce la proposizione; ora l’atto giudicativo presuppone l’atto apprensivo: prima di dire si o no bisogna capire di che cosa si tratta e per capire ciò bisogna capire i termini della questione. <<l’atto apprensivo rispetto a qualcosa di complesso presuppone una conoscenza semplice dei termini.>> anche se si vuole notare che la “notizia semplice” può essere di due tipi: 1. Notitia intuitiva: questa implica l’evidenza dell’esistenza dell’oggetto. <<informazione non complessa in virtù della quale si può chiaramente sapere se qualcosa esiste o non esiste.>>. La conoscenza intuitiva non è conoscenza dell’esistente ma implica l’evidenza dell’esistente. È la prima forma di conoscenza, è quella dalla quale inizia l’esperienza <<da cui partono i dati sperimentali>> dalla quale, poi, deriva la conoscenza delle verità necessarie. È l’apprensione di un esistente concreto, apprensione che il vero e proprio giudizio di esistenza renderà esplicita <<esiste un giudizio equivalente>>. la notitia intuitiva non è solo conoscenza sensitiva ma implica anche una conoscenza intellettiva poiché è fondamento del giudizio di esistenza e nel giudizio di conosce la verità; tale conoscenza esige l’attività dell’intelletto. È vero che degli oggetti sensibili non possiamo avere conoscenza intuitiva senza che vi sia anche conoscenza sensitiva, ma questa non basta: è condizione necessaria, non sufficiente. Ora, se conoscenza intuitiva, che è conoscenza del singolare (poiché implica la persuasione dell’esistenza e solo il singolare può esistere) implica una conoscenza intellettiva, vuol dire che abbiamo conoscenza intellettiva del singolare. come si può dare conoscenza intuitiva anche del non-esistente? Ockham espone due argomenti in favore di questa tesi… - (carattere metafisico); tutto ciò che Dio può fare mediante una causa concreta, può farlo immediatamente, per miracolo; ora, l’oggetto è causa efficiente della conoscenza intuitiva, dunque la conoscenza intuitiva può essere prodotta, per miracolo, immediatamente da Dio. questo argomento suppone che la conoscenza sia considerata solo nel suo aspetto ontologico, come un effetto causato dall’oggetto. - il 2^ argomento compare nelle questioni 14 e 15 del secondo libro del commento alle sentenze a proposito del giudizio negativo di esistenza. Infatti, la conoscenza intuitiva è quella in virtù della quale si pronuncia giudizio affermativo di esistenza e poiché naturalmente la conoscenza intuitiva è causata dalla presenza dell’oggetto, si può dire che (quando non interviene l’azione soprannaturale di Dio) il giudizio affermativo di esistenza suppone la presenza dell’oggetto. Ma come si spiega il giudizio negativo di esistenza? Come giudizio evidente esso dovrebbe supporre una conoscenza intuitiva e d’altra parte non suppone la presenza dell’oggetto, anzi nega tale presenza. Ockham risolve il problema affermando che Dio soprannaturalmente produce o almeno conserva la conoscenza intuitiva dell’oggetto anche quando questo non c’è più. Così tutti i giudizi negativi di esistenza sono possibili solo soprannaturalmente – e qui, potremmo essere d’accordo col padre Bohner quando dice che Ockham non trae alcuna conclusione. 2. Notitita abstractiva: questa, invece, ne prescinde. questa conoscenza può essere intesa in due modi: o come conoscenza che prescinde soltanto dall’esistenza <<e dalle altre condizioni che accadono contingentemente alla cosa o sono predicate della cosa>> o come conoscenza di qualcosa di astratto da molti individui, e allora è conoscenza universale. Ockham nel commento alle sentenze enumera 3 opinioni che dichiara probabili: secondo la prima l’universale esiste solo come oggetto dello spirito ed è foggiato da questo. Ma se questa opinione non piace si può ritenere che l’universale sia una qualità esistente nello spirito, una qualità <<che per sua natura è il segno di una cosa eterna, cosi come la voce è il segno di una cosa istituita per convenzione>>. E questa opinione può assumere due forme, secondo che si identifichi questa qualità dello spirito con l’atto stesso di intelligere o la si distingua dall’intellezione. Nel commeto alle sentenze Ockham ritiene probabili tutte e tre. Nell’Expositio aurea e nei Quodlibeti dà la preferenza alla teoria che identifica l’universale con l’atto di intellezione. Potremmo osservare che così l’universale è ridotto ad un ente reale ma è una tendenza costante di Ockham quella di concepire il pensato (ens rationis) come una cosa. Come osserva il Guelluy, il logico ignora le condizioni soggettive del conoscere umano, per lui esistono solo i termini della conoscenza. Così accade per esempio quando Ockham nega la distintio rationis. Per lui ogni distinzione è distinzione reale: la distinzione di ragione non è che distinzione reale fra concetti, e i concetti sono qualità dello spirito, ossia enti reali. Da questo dipende il suo modo di intendere le verità necessarie. Infatti si apprende una realtà con un concetto quidditativo che ne esprima adeguatamente l’essenza, e allora ogni giudizio sarà rigorosamente identico OPPURE si attribuisce ad un soggetto un predicato (che è un concetto) diverso, ma allora il giudizio esprimerà solo la possibilità dell’unione di due realtà diverse e sarà necessario solo in quanto afferma necessariamente tale possibilità. E infatti le proposizioni necessarie non vertono mai sui dati di fatto ma su possibilità. Non ci possono essere relazioni necessarie 31 fra un concetto e un altro concetto perché non ci sono relazioni necessarie fra le cose e non ci sono relazioni necessarie fra le cose perché tutto ciò che non è Dio dipende dalla libera volontà divina. Ockham non nega che si possa dimostrare l’esistenza di Dio anche se critica le dimostrazioni di certi attributi di Dio, per esempio le dimostrazioni scotistiche dell’unicità di Dio. fra gli attributi di Dio, Ockham sottolinea la libertà e l’onnipotenza che ci sono insegnati dalla rivelazione; anche l’ordine morale è considerato da lui come dipendente dalla libera volontà divina. Nella filosofia della natura, sono famose le sue dottrine sul tempo e sull’estensione: egli identifica il tempo col mutamento e questo con l’ente mutevole, così come identifica l’estensione con la sostanza corporea. per quel che riguarda il tempo, la novità da lui introdotta non consiste nell’averlo identificato col mutamento ma nell’aver identificato il mutamento con ciò che si muove, così come identifica l’estensione con la sostanza corporea. tali identificazioni non si fondano su considerazioni sperimentali ma sulla sua tendenza a concepire ogni realtà come una cosa poiché l’accidente non è una cosa, esso si identifica con la sostanza di cui è accidente. per concludere, non è possibile negare che egli rappresenti una reazione alle tendenze neoplatoneggianti prevalenti nell’ultimo quarto del 13esimo secolo e in certo senso un ritorno all’aristotelismo – interpretato però in senso empirisgico. 3. Nicola d’Autrecourt (circa 1300-dopo 1350). Lo si presenta come un seguace di Ockham ma i suoi scritti non rivelano un particolare influsso ockhamistico anzi nei suoi scritti (lettere a Bernardo d’Arezzo) confuta la possibilità della conoscenza intuitiva del non-esistemte. Questa figura espone la tesi opposta, ossia che la conoscenza intuitiva sia lo stesso presentarsi della realtà, e quindi sia necessariamente valida, è però sostenuta da Nicolo come probabile. Gli argomenti con i quali sostiene la probabilità della sua tesi meritano attenzione ed hanno un valore notevole contro ogni affermazione di aoggettivismo. L’argomento fondamentale è che, se ciò che è evidente potesse non essere, non si potrebbe affermare assolutamente nulla, neppure sui nostri atti conoscitivi dei quali non possiamo dire qualche cosa se non, appunto, in quanto anch’essi siano evidenti. A coloro che ritengono di dover limitare il valore dell’esperienza (che vogliono rendere “critico” il loro realismo) con queste condizioni: bisogna che siano nella debita disposizione l’organo di senso e il medio, e che l’oggetto sia a debita distanza. In genere, coloro che fanno la critica della conoscenza non possono farla se non appellandosi a qualche evidenza. Tutte le obiezioni contro il valore dell’evidenza si dissolvono osservando che nelle affermazioni false non c’è mai evidenza e che i così detti errori dei sensi non sono errori o non sono dei sensi ma l’errore nasce dal fatto che talora si dà assenso a ciò che non è evidente. 4. L’interesse scientifico. Si richiama l’attenzione sull’importanza che hanno per la storia della scienza, e specialmente della meccanica, i maestri della facoltà delle arti di Parigi: Giovanni Buridano, Nicola Oresme, Alberto di Sassonia e Marsilio di Inghen. Per rendersi conto del carattere e del significato delle loro speculazioni giova considerarli nella storia della scolastica. La quale, a cominciare dal 13esimo secolo, assume come punto di partenza della sua ricerca filosofica -con questa si intendeva specialmente scientifica- le dottrine di Aristotele e dei suoi interpreti arabi. Uno degli aspetti più universali sotto i quali ci si presentano i fenomeni fisici è il moto. Per moto, Aristotele intende il mutamento in generale (noi diremmo oggi il divenire, e gli scienziati “processo”) tanto che distingue quattro specie di moto: moto locale, quantitativo, qualitativo e sostanziale. La scolastica del 13esimo secolo, orientata alla metafisica, discute specialmente sul concetto di moto in generale: il moto è fluxus formae (flusso di forma) o forma fluens (forma fluente)? Alberto Magno che attribuisce la prima ad Avicenna e la seconda ad Averroè, opta per la seconda e la sua teoria è prevalsa fino all’inizio del 14esimo secolo. quello che muta nel 14esimo secolo è l’atteggiamento speculativo: si criticano le teorie perché non rispondono a fatti sperimentati, non per motivi metafisici – atteggiamento che ha delle affinità con quello della nuova scienza del 17esimo secolo-. se ci si fosse resi conto che si trattava di due tipi di interesse teoretico, uno che sfocia nella metafisica e uno che porta a quella che modernamente si chiama scienza; se ci fosse resi conto di questa distinzione del sapere, si sarebbero evitate molte polemiche poiché non è contradditorio affermare e negare lo stesso predicato di uno stesso soggetto quando questo è considerato sotto aspetti diversi. Il principio aristotelico <<tutto ciò che si muove è mosso da un altro>> è un principio metafisico: afferma la condizione del divenire in generale, il primato dell’atto; ma la tentazione di Aristotele fu quella di servirsene come principio scientifico, ossia come principio per la spiegazione di questo o di quel tipo di movimento. Questo principio formulato da Aristotele può essere applicato a tanti teoremi, per esempio a quello dell’affinità. La tentazione degli antichi fu quella di dedurre quali sono i fini delle varie attività dal principio che ogni agente opera per un fine; la tentazione dei moderni fu quella di inferire la negazione della finalità dall’impossibilità di determinare quali sono questi fini particolari. Una applicazione un po’ ingenua (per quella pretesa di tradurre un principio metafisico in una spiegazione scientifica) aveva indotto Aristotele a ritenere che nel moto dei proiettili, il movens fosse il mezzo ambiente (aria o acqua). P.es.: quando si scaglia una pietr, chi muove la pietra quando essa si è staccata dalla mano che la scaglia, sarebbe l’aria. Ma questa teoria apparve insostenibile per le difficoltà alle quali dava luogo e per la sua incompatibilità coi dati dell’esperienza, si che Giovanni Filopono le aveva sostituito un’altra teoria secondo la quale la forza che muove il proietto risiede nel proietto stesso (sia pure partecipatagli dal proiciens – lancio) e non nel mezzo ambiente. Questa forza partecipata al proietto corrisponde a quello che nel 15esimo secolo si chiamò l’impetus; il primo ad elaborare e sostenere la teoria dell’impetus fu il francescano Francesca della Marca. Il proiettile è mosso da una forza trasmessa a lui e lasciata un lui dal corpo che lo ha scagliato. Gli argomenti in favore della sua teoria sono di carattere speculativo, 32
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved