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Storia della filosofia (Scapparone), Appunti di Storia Della Filosofia

Il documento contiene gli appunti del corso di storia della filosofia, incentrato sulla confessione come genere letterario. Gli autori trattati sono stati Agostino (Confessioni), Montaigne (Saggi) e Rousseau (Confessioni e Fantasticherie di un passeggiatore solitario).

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 18/05/2021

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Scarica Storia della filosofia (Scapparone) e più Appunti in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! Storia della filosofia Considerare la fislofia come un sapere storico è un atteggiamento filosofico: non si tratta di un semplice approccio metodologico (è un metodo per considerare la fislofia, ma non solo questo, è anche un orientamento: si individuo nell’essere storico la modalità propria del darsi dell’essere umano). Rispondere in modo storicamente a determinato a domande che trascendono storicamente Si considera la filosofia come se fosse un Giano bifronte: ci sono problemi classici che perdurano ma allo stesso tempo si declinano. L’essere storico porta con sé un aspetto “eterno”, che trascende la storia stessa (cos’è la giustizia) Confessioni di S.Agostino (397-401)- I Saggi di Montaigne (1580;1588 ampliata di un terzo volume)- Confessioni di Rosseau (1766-1770). Riflessioni sul concetto di autobiografia, di cui la autobiografia filosofia costituisce un sottogenere: autori si cimentano nella scrittura di sé (quali componenti cambiano? Un filosofo si rapporta diversamente rispetto ad altri con la scrittura di sé?). Benedetto Croce scrive Contributo alla critica di me stesso (scritto 1915, pubblicato 18) e usa come epigrafe dell’opera una frase di Goethe:”perchè ciò che lo storico ha fatto agli altri non dovrebbe fare a se stesso?”, ossia quali sono i limiti che lo storico della filosofia ha nel momento in cui indaga si stesso? È possibile raggiungere una determinata nitidezza interiore nella visione di se stessi? Il filosofo riesce a indagare se stesso meglio di altri? Non c’è una riposta univoca. Croce affronta tale suggestione: vine definito dal filologo contini “biofragia mentale” con un pathos trattenuto, una commozione non spenta, ma vinta e superata. Croce si da subito si discosta da alcune categorie essenziali della autobiografia (nè confessioni ricordi o memorie). Confessioni perché esame morale di se stessi: croce considera utile sostenere con una respibilità morale ogni proprio atti (sorvegliare se stessi e lavorare sulla propria tenuta), ma è inutile l’esercizio di un giudizio universale, un bilancio complessivo della propria vita (rimosso l’ultimo fine della confessione, ossia riconoscere la propria dignità o meno alla vita eterna, il resto è lasciato alla vanità dell’individuo, ci si compiace semplicemente di sé, sopravvalutando l’individuo). In ogni caso indipendentemente dl giudizio si reputa troppo importante l’individuo, che non è nulla per se stesso. L’individuo stesso si dissolve negli atti che compie (dissolvenza ontologica): dimentica le cose che ha fatto e le motivazione che lo hanno spinto, così da colorare con i filtri del presente atti del passato e non avere uno sguardo oggettivo e non sappiamo cosa sia effettivamente vero. Nemmeno ricordi quindi per la loro consistenza fragile, corrotti dal presente. TRANSEUNTE (passeggero): l’individuo non è il luogo della stabilità ontologica e un colloqui con se stessi L’individuo per Croce sta nella cronologia delle sue opere, che a differenza dei ricordi sono fissati nel tempo: così egli si pone l’obiettivo di abbozzare una critica di se stesso, che coincide con la storia del suo lavoro. Scrive di sé da filosofia: dire quello che sa della sua opera. L’io biografico deve eclissarsi al fine di favorire l’affermazione del sé nell’opera intellettuale. Croce mette delle barriere per impedire agli altri (e a se stesso) di conoscere il “benedetto croce-individuo”. Ragioni personali e motivi teorici Ragioni personali: si scopre come un soppravvissuto (genitori e sorella morti nel terremoto di Ischia nel 1883) segnato da cicatrici profondissime e il rimorso di essersi salvato solo: vecchio prima di giovane, avvizzito prima di fiorire Motivi teorici: la negazione del valore dell’individuo empirico, non potrebbe scrivere di sé in questo senso perché rischierebbe di oscillare tra un’accusa e apologia sistematica di sé (visione estremamente ottimistica o pessimistica della propria condizione). Come Catullo, Croce vorrebbe essere tutto pensiero, ossia un aspetto della sua personalità che diviene un tutto. Individuo empirico non ha nessun rilievo nello sviluppo di un autore per Croce, ma è il rivelarsi progressivo dello spirito di sé che avviene attraverso le opere, che lo rendono manifesto, affabile e dicibile e lo esauriscono in toto (io sono quello che ho fatto e ho scritto). Croce scrive il testo alle porte dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale e conclude sottolineando la sospensione dellenimo di fronte ad avviamenti futuri: anche l’immagine futura di sé è consegnata all’acqua in tempesta. 1 I Trapassati: sui morti. Non siamo altro che il desiderio della continuazione della nostra esistenza, l’individuale non è altro che parvenza resa salda dal lume che non è altro che una convenzione. Serenamente lo spasimo e l’angoscia vengono meno conquistando una nuova realtà. La nostra vita è un correre alla morte di un individuo privo di rilievo: morire in un oper che si stacca dall’autore (sotto un certo aspetto estranea, dall’altro è ciò che consente di rinascere nell’eternità). L’individuazione non è un fatto, ma un compito storico: individuarsi come completamente risolti in un’opera che ci esaurisca non è semplice nemmeno per Croce stesso, sopratutto nella sua condizione di “anticamera della depressione). Ma la tenacia costruttiva dell’opera è creazione di una nuova forma di presenza: concentrarsi nell’azione e sorvegliare se stessi, ossia ricosctrurisi e rimcompattarsi in ogni momento e tenere salda quella unità di sé. Secondo Battistini (docente letteratura it a BO recednetmeente scomparso): l’autobiografo crede di ridarsialla vita attraverso alla scrittura ma si avvicina di più a una condizione di morte. L’autobiografia filosofica di un individuo ha poco a che fare con le vicende personali. Al di là della singola vicenda personale, l’autobiografia è sempre un guardarsi allo specchio nell’orizzonte della propria temporalità. Kafka dice che è vero, ma nel momento in cui avviene questa composizione il confronto con una dimensione estrema come quella della morte è simile a quello con un’altra fra di vita (“non posso farmi vedere in mutande dal lettore, un po’ mi pettino”). Attenzione a non consegnarci un cadaverino. Come conoscere se stessi? E quanto ho conoscenza e coscienza dei propri strati interiori? Qual è il valore di quella individualità che si cerca di cristallizzare (ponendosi come modello, oppure come Rousseau scrivendo un’apologia di sé). L’autobiografia filosofica pone in relazione l’autore, la scrittura e l’opera. Siamo sicuri che l’individuo si risolva totalmente nell’opera oppure si deve accettare una necessaria eccedenza personale? Nb attenzione al linguaggio di Agostino, tardo romano (orizzonte classicità) avvocato con grande educazione: metafisica al vocativo, un dialogo in cui Dio e testo sacro sono interlocutori. Filosofia tarodnica 2015 + sofisticata /mont uno dei primi due Abbiamo visto come in autobiografie il problema del significato dell’individualità costituisce un problema nel problema, rispetto al problema dell’individualità. Io fornisco un ritratto di me come se mi guardassi allo specchio oppure la scrittura è un elemento di mediazione e se sì in quale misura? Oppure la scrittura non è mediazione ma costituisce una riscrittura del sé? Non sappiamo fino a che punto la scrittura aiuti a conoscere l’individuo oppure costituisca una dissimulazione. Alfieri Prendi appunti Per Gramsci ha una struttura narcisistica l’autobiografia (giustificazione dll’autob), ma con essa si apre un percorso multiplo nella vita stessa complicando tale condizione iniziale: Alfieri vero fino a un certo punto. Gramsci riconosce Nietzsche:”parlare di sé può anche essere mezzo per nascondersi” Paul Valery:”non si mente mai abbastanza come quando di parla di se stessi”. Valery, teorico della filosofia, nei Quaderni, emerge la visione di un’identità tutt’altro che stabilita una volta per tutte (granitica). L’io è un qualcosa che non si dà di per sé, ma è una costruzione: l’identità è qualcosa che non esiste, l’io non è nulla. In Valery questa considerazione si collega a una serie di critiche (si riferisce nel ‘900 ad autori del ‘700 come Hume) Hume L’io costituisce un fascio di percezioni; Hume ha affrontato in maniera critica i metodi della conoscenza (gnoseologia), ma anche di metafisica. Per Hume non possiamo avere idea della sostanza perché la nostra conoscenza si fonda su impressioni sensibili, che divengono idee a cui noi diamo una consistenza. Hume attraverso moderate affermazioni scettiche sostiene che non si possa pretendere di conoscere ciò che non si può conoscere, soprattutto in riferimento alla 2 però di averla ingannata fingendo di andare a tenere compagnia ad un amico. Essendo cristiana Monica nelle sue lacrime chiese a Dio di impedire ad Agostino di partire temendo che il figlio si perdesse a Roma, e Dio infondo pur non esaudendo la richiesta in quel momento, la esaudì poi. Racconta anche che alla partenza si levò il vento, mentre Dio lo strappava dalle sue passioni lasciando tuttavia che una frustata di dolore punisse lo struggimento carnale della madre che ancora era inconscia di ciò che sarebbe stato poi grazie a questo viaggio. Dopo Roma Agostino si spostò a Milano ottenendo la cattedra prestigiosa di retorica e qui venne raggiungo anche dalla madre. È qui che Agostino incontra il vescovo Ambrogio il quale, grazie alle sue straordinarie capacità oratorie (forma veicola il contenuto), lo portò ad avvicinarsi gradualmente al cristianesimo tramite il superamento della prospettiva materialista manichea per un rinnovato sguardo da esegeta sulla Bibbia per mezzo del quale Agostino apprese l’esistenza i livelli altri di interpretazione di questa andando al di là della semplice lettura letterale. (incontro con Ambrogio descritto nel libro VI Confessioni). Grazie ad Ambrogio Agostino acquisisce quindi lo strumento allegorico di cui si farà maestro. A Milano inoltre Agostino si dedica alla lettura delle opere platoniche ovvero le Enneadi di Plotino e le opere di Porfirio. Vi sono infatti dei punti di contatto tra il cristianesimo e la filosofia neoplatonica che con un linguaggio fortemente simbolico introduce e teorizza l’emanazione dell’intelletto e dell’anima del mondo a partire da un Uno eterno ed immutabile. Plotino parte quindi da interprete fedele di Platone sostenendo che l’essere, la realtà, si sviluppa secondo tre principi metafisici di gradi differenti detti ipostasi (= substantia “ciò che sta sotto”, fondamento ideale di tutte le realtà). Il neoplatonismo sviluppa un modello cosmologico e teologico a partire dal fatto che la derivazione da un primo principio la cui caratteristica fondamentale è l’assoluta semplicità, l’Uno. Si tratta di un modello che si differenzia sia dalla cornice concettuale aristotelica sia dalla concezione di una creazione dal nulla offerta dalla Bibbia; le emanazione non sono frutto infatti della volontà o di un atto di Dio, ma scaturiscono dall’Uno a causa della sua sovrabbondanza e diffusività intrinseca. (parallelismo Bene platonico che è diffusivum sui) È in questi modelli che si crea così una scala dell’essere, gerarchicamente ordinata che si allontana progressivamente dall’Uno come discensio (passaggio dall’unità alla pluralità) e ascensio (nostalgia dell’Uno mediante la contemplazione).-> circuito dato dalla discesa dell’Uno nel molteplice per l’ascesa poi data dal desiderio del ritorno. L’Uno-Bene, ipostasi suprema, è fondamento di tutto il resto (descritto infatti come fonte, fuoco). Dell’uno inoltre non si può predicare nulla, nemmeno che sia essere, perché questo lo limiterebbe e determinerebbe in una classificazione; il modo meno arbitrario di parlare dell’Uno è quindi quello della sottrazione, di negare tutto ciò che è incompatibile con esso.-> teologia negativa. I termini meno inadeguati sono: Uno e Bene. Uno in quanto completa soppressione del molteplice, bene poiché rimanda alla definizione dell’Idea platonica del Bene nella Repubblica: “al di là dell’essenza per dignità e potenza”. -> principio primo priva di forma, senza limiti, infinita, troppo perfetta per aver bisogno di un attributo e per poter pensare sé stesso (diverso Aristotele). L’assunto tipicamente neoplatonico è che la causa è sempre maggiore e più perfetta del suo prodotto, dell’effetto-> ciò che è prodotto dall’Uno non può che essere molteplice MA non bisogna pensare che questo molteplice si addiziona all’Uno, l’Uno infatti resta sempre identico a sé stesso. La derivazione (o emanazione, processione) viene descritta da Plotino tramite una serie di immagini e metafore che implicano l’uscita da sé e allo stesso tempo il permanere in sé (fuoco che riscalda e illumina ma allo stesso tempo non si consuma). Come il Sole che emette luce e calore mantenendo la sua pienezza, dall’Uno procedono i molti senza che ciò comporti ad un indebolimento dell’Uno.-> una sorta di energia intellettuale priva di contenuto. Se il rapporto tra Uno e molti fosse legato alla creazione allora si ricadrebbe nell’antropomorfismo mettendo tale processo in parallelo con la creazione umana e ciò toglierebbe potenza all’Uno; i molti derivano invece dall’Uno per un processo spontaneo e necessario, senza inizio né fine, eterno come è eterna la sorgente. Porfirio allievo di Plotino (biografo e editore). Straordinaria ricchezza di immagini offerta da Plotino che testimonia l’ineffabilità della sua teoria sui “gradi” dell’essere (ciò che non si può offrire con le parole si suggerisce con le immagini). Anima Mundi come un’unicum che non si parcellizza, come 5 una voce che da sé senza dividersi raggiunge tutti coloro che ascoltano. Plotino vuole essere interprete vedere di alcune teoria di Platone (il suo pensiero prende sempre le mosse dalle teorie platoniche). L’idea di fondo è che la realtà si struttura su tre principi metafisici, che noi chiamiamo ipostasi. Il neoplaotnismo elabora un modello cosmologico ma anche teologico. Il punto centrale è quello della emanazione da un primo principio, la cui caratteristica fondamentale è la semplicità nell’unità. Tale concetto si differenzia sia dalla concezione aristotelica, sia dalla creazione ex nihilo biblica. Dio produce nel Bene/Bello/bontà un mondo per volontà nella concezione biblica, mentre per Plotino non c’è una volontà alla base, ma la ragione sta nelle caratteristiche di questo uno, nel suo modo di essere, ossia nella sua sovrabbondanza/diffusività intrinseca (nono riesce a rimanere chiuso nei suoi stessi confini: non sceglie di produrre un mondo, ma ciò deriva dal sua essere). Tale sovrabbondanza del primo principio produce una scala dell’essere, una derivazione ordinata e gerarchica che si allontana dal principio primo e compie un doppio obvimento: la discesa, che si vede nel passaggio dalla unità alla pluralità, e l’ascesa, che deriva dall’anelito dell’uno, ossia il desiderio innato delle creature che tendono a ricongiugenrsi con l’unità. Quando Agostino legge questi testi rimane colpito da questa teoria ciclica, ma lo interpreta in una ricerca nella terra della terra, ossia un continuo allontanamento da Dio. Siamo capaci di compiere un allontanamento, ma anche un ricongiungimento da Dio, senza muovere i piedi; ossia si tratta di un legame puramente interiore (tutte le confessioni sono un ritorno del figlio al prodigo). Il figlio che torna povero interiormente: non ha fatto un cammino fisico, ma gli è bastato vivere nella sregolatezza della passione, una lontananza interiore da Dio. Sant’Agostino a Milano incontra Ambrogio, cristianesimo e le letture neoplatoniche che ampliano la visione di Agostino: nuove risposte in relazione a problema dell’orgine del male. Si offrono diversi punti di contatto tra cristianesimo e e filosofia neoplatonica, che con un linguaggio fortemente simbolico teorizza la teoria dell’emanazione dell’intelletto e dell’anima mundi dell’Uno eterno e immutabile. Sul Bello (Enneadi, I, 6): Plotino sviluppa una domanda sulla bellezza, in cosa consista; “colui che ha attaccamento per i corpi e non li ha rifiutati… bisogna fuggire come fece Ulisse, che riuscì a non cadere negli inganni delle donne del suo tragitto, ossia Circe e Calipso. Questa fuga non va compiuta a piedi, non ci serve un traino o un’imbarcazione, occorre osservare con una vista più profonda interiore da risvegliare (anche se non tutti sono in grado). l’Uno è il vertice prontologico della scala dell’essere, o meglio che viene ancora prima dell’essere; talmente potenza effusiva, che tutto ciò che procede da tale principio non comporta alcuna diminuzione, non si esaurisce mai. Il principio fondamentale è l’eterogeneità da principio e ciò che ne dipende. Ipotesi è ciò che sta sotto (ossia substantia latina). Sono passaggi ulteriori che rendono possibile al livello del molteplice la sovrabbondanza dell’Uno. Di tale Uno non si può dire nulla, nemmeno che sia essere: è talmente oltre tutto ciò che possiamo predicare perché significherebbe limitarlo e confinarlo, mentre in realtà possiamo al massimo negare tutto ciò che è incompatibile con esso, parlandone per sottrazione. Si può costruire pertanto una teologia che è puramente negativa e ricorrere alla locuzione “per così dire” stabilendo sin da subito l’impossibilità di una precisione analitica dell’Uno. Questa unità semplicissima lo priva di ogni cosa: amorfica, senza limita, semplicissima priva di volontà, pura vita e energia che non siamo in grado di comprendere e afferrare totalmente. Come si spiega questa relazione tra Uno e molti? Secondo Plotino non ha senso chiedersi quale sia la causa finale di questa produzione, dobbiamo abbandonare la concezione arbitraria-progettualistica del mondo, mentre c’è solo una necessità essenziale secondo cui tutto viene prodotto. Per Plotino la causa è sempre più perfetta di ciò che produce, del suo effetto; la molteplicità non è qualcosa che siagiunge all’Uno, quanto piuttosto viene ospitata da questo all’interno del suo orizzonte. Il termine emanazione/processione descrive questo tipo di derivazione: Plotine offre diverse immagini (irradiazione del fuoco, luce del Sole, profumo di un fiore) per descrive la caratteristica dell’implicazione di uscita da sé; come la luce esce dal sole senza indebolirlo ciò che procede dall’uno la metafisica plotiniana si scontra con la teologia cristiana, in cui Dio invece vuole creare un mondo secondo un grande progetto universale e allo stesso tempo individuale. Per Plotino pensare la sua produzione come volontaria e arbitraria, perché in realtà si abbassa Dio al livello dell’uomo nel tentativo di farlo rientrare in caratteristiche umane (antropomorfizzazione di Dio), in analogia con la produzione umana. Si tratta di un processo eterno e continuo, senza salti, ma che allo stesso tempo decresce sempre in direzione della molteplicità. Questi principi sono tali ipostasi a quanto precede e a quello che segue (cioè che è più in alto e più in basso a livello di gradualità). La seconda ipostasi è quella dell’Intelletto, la forma più alta di essere e pensiero. Se l’uno è sostanza che che si esplica, è allo 6 stesso tempo una vista che non vede, una visione incompiuta senza oggetto. Come fa l’Intelletto a riempirsi di significato? È l’essere, il pensiero che mantiene la forma dell’unità e apre alla molteplicità nel tenere delle idee (identità tra ciò che pensa e ciò che è pensato), che sono però indistinguibili. L’intelletto contiene in sé la molteplicità delle idee, la quale non è per svincolata dall’orizzonte dell’unità (l’idea è quella di un’unità che inizia ad aprirsi al molteplice, che inizia a formarsi, ma rimane ancora totalmente unificato). L’intelletto rimane uno (mov verso alto), ma procede anche verso la molteplicità guardando l’anima che è uno e molti. L’intelletto pertanto ospita il mondo delle idee platoniche ma anche a questo livello scorre la vita e rispetto all’iperuranio platonico le idee sono caratterizzate da un principio creativo e produttivo. Le tre ipostasi costituiscono il sostrato di quanto sorregge a livello ontologico e metafisico il mondo sensibile. Plotino dice che il primo e più alto livello è assolutamente semplice (necessario questo per Plotino) e deve essere differente da ciò che segue ed essere sussistente di per sé, tanto superiore da essere presente negli altri esseri che seguono senza mescolarsi ad essa: questo è l’Uno. Nel suo caso è falsa l’espressione “essere Uno” perché in lui non c’è discorso non c’è scienza, tanto è vero che è oltre l’essere e lo si dice al di là nell’essere (questo vuol dire che l’uno non è pensabile e non costituisce per noi oggetto di pensiero, ossia oltre l’intelligibile non possiamo parlo oggetto di discorso e scienza, non è oggettivabile). Non possiede realtà ontologica e noi con le nostre facoltà non possiamo coglierlo. Se una cosa non possiamo coglierla o parlarne il silenzio è l’unica soluzione possibile: non potremmo neanche farne oggetto di speculazione filosofica, come si mostra ciò che deriva da tale principio. Il principio primo di colloca all’origine di tutto ciò che segue da lui, pertanto è necessario avvicinarsi e parlare di tale concetti. Da un lato quindi il principio primo è assolutamente altro e irriducibile, ineffabile, dall’altro è necessario trovare un modo per parlarne per spiegare la causalità che da esso segue. Secondo Plotino non riusciamo ad esprimere tale principio e non lo possediamo in maniera intellettuale: in realtà noi lo possediamo indirettamente, ma possiamo parlarne negativamente. Noi osserviamo l’eterogeneità e l’alterità rispetto all’orizzonte sensibile, e pertanto possiamo parlarne solo affermando ciò che non è. Anche riferisci la funzione di causa non significa attribuire a lui l’accidentalità delle cause, ma a noi in quanto effetti (per essere precisi dovremmo toglierli anche l’essere: noi circumnavighiamo intorno al principio e proviamo a dare espressione alle nostre impressioni quando ci avviciniamo a lui. Perché l’Uno lascia che qualcosa si diffonda a partire da sé? (Su questo punto Bruno fa forza, perché se il bene non fosse interpretato come unitamente espansivo ne toglieremmo una proprietà fondamentale) Come ha luogo questa emanazione a partire da esso? Il bene tende a espandersi e diffondersi, uscire da sé: se la causa è infinita allora anche il suo effetto dev’esserlo affinché non si consideri una causa esauribile (bonum est diffusivo sui). Il bene alimenta altra bontà e bellezza manifestandosi recando segno nelle cose della positività originaria da cui proviene (declinazione plotiniana della partecipazione platonica). Se il motivo fondamentale della diffusione rimanda all’espansione/eccedenza naturale del bene, come ha luogo il difficile passaggio concettuale del processo emanativo (il bene non è geloso o invidioso). L’Uno racchiude in sé insieme tutte le cause dell’intelletto che da esso verranno, attuando una generazione che non è per caso, né in maniera accessoria (non si aggiunge alla natura dell’uno, ma è la generazione intrinseca alla sua stessa natura, l’uno agisce conformemente alla sua natura. (Def 7 parte I Etica, Spinoza: si dirà libera quella cosa che agisce per sola necessità della sua natura e ed è determinata da se stessa ad agire). L’uno produce senza esaurirsi mai Prima attività fondamentale. Accanto a questa bisogna accostarne una seconda, che è chiave della potenzialità della possibilità indeterminata di esistenza, che non comporta alcuna diminuzione della causa. Seconda attività: elemento di potenzialità, elemento potenziale di apertura di possibilità; potenzialità indertemenita di esistenza, ossia non stabilita ed è questo a produrre l’intelletto. L’uno non può non esplicarsi, e da esso esce fuori un’energia ancora indeterminata, una potenzialità incorporea che deve determinarsi: una vista che non vede, uno sguardo che guarda ma non ha oggetto definito. Questa seconda attività è un aspetto interno all’uno, che manifesta la sua potenzialità che si rivolge nuovamente verso l’uno (uno sguardo che prova a pensare ciò che lo origina: tentativo dell’uno di autopensarsi: guardare all’uno cercando di comrnederlo e rimpeire quella vista senza oggetto: tentativo di rendere intellegibile l’uno). È una sorta di sdoppiamento e differenziazione da un uno assolutamente identico se stesso: si produce l’Intelletto che è allo stesso tempo intelligente e intelleggibile, azione di carattere intellettuale e contenuto. Dal’uno procede un’energia indeterminata che rimane sempre interna all’uno, ma torna attraverso il movimento della conversione a guardare l’uno: questa potenza indeterminata coglie 7 -Male come aspetto dell’armonia e della varietà necessaria dell’universo (quello che a noi sembra male in realtà non è tale) Per agostino tutto ciò che esiste in quanto viene da Dio, buono e onnipotente, è buono. Il male è privazione, assenza o carenza di bene; costituisce un limite strutturale delle creature, che vivono nel perenne cambiamento, e segnano la nostra alterità da Dio. Il tema della conoscenza di sé viene abilmente trattato da Agostino sia sotto il profilo metafisico, sia mistico sia psicologico. Tu eri dentro di me mentre io ero fuori (differenza strutturale): l’anima è spinta dalla sua irrequietezza sulle forme che Dio ha dato alle cose, cioè agli oggetti, da cui l’anima si lascia catturare. Dio rimane sempre nel profondo dell’anima, ma a causa delle cose che tenevano lontane agostino, questo’ultimo non i risvegliava dal sonno del corpo (in senso plotiniano). L’anima è disposta a farsi particolarizzare da ciò che incontra: l’anima informe lanciandosi nella sua inquietudine sugli oggetti, che imprigionano bellezze sensibili (inferiori, perché sarebbero inconsistenti se Dio non fosse origine e base di ogni cosa). Il raccoglimento interiore ci restituisce all’unità da cui ci siamo riversati nei rivoli del molteplice: l’unit possiamo coglierla solo entrando nella nostra più profonda interiorità. Nessuno e niente è mai così indegno da lasciare una traccia divina. Si perde il tema dell’emanazione, ovviamente perché nell’ottica cristiana la creazione è volontaria e non una semplice diffusione naturale: creazione volontaria che ha la sua base nella bellezza e nella bontà (Dio tradizionale). Dio è esistenza al massimo grado e in quanto tale massimo livello di essere, che non rimanda ad altra causa per esistere e costituisce la massima pienezza di vitae in quanto tale capace di dare vita nel bene. Non muta e senza fine, tuttavia persino il tempo è in te contenuto come ogni cosa (altrimenti non avrebbero via le cose sensibili per arrivare a te). Tutte gli avi del passato hanno ricevuto il modo e la misura in cui sono esistiti, tu invece sei sempre lo stesso e i tuoi anni non finiranno mai. Ho volto il mio pensiero a tutte le cose sotto di te e hanno senso e esistenza solo nella mia misura in cui sono opera Tua, ma non ce l’hanno perché si tratta di un altro livello, ossia quello della temporalità, della mutazione (mentre esiste tutto ciò che permane). Dio stabile in se stesso è in grado di rinnnvare e stabilizzare tutto; le creature non sono nulla, ma non hanno la pienezza d’essere di Dio, il quale è solo ad essere nel senso più pieno del termine. Laddove le creature riescono a rimanere in Dio continuano ad esistere riconoscendosi in Lui. Perché le cose vengono meno? Perché sono mutevoli e quindi non sono in senso assoluto in quanto inferiori a colui che le ha create, Dio sommo e le create con somma sapienza; le ha create perché fossero come testimonianza della sua estrema bontà. Ogni cosa deve avere la sua essenza: anche se bene minimo, sarà bene (anche la più piccola essenza proviene da Dio), le ha create perché fossero e avessero accesso all’essere (cosa possibile solo attraverso Dio). Riconosci in cosa consista la vera armonia: non uscire, ma ritorna in te stesso. Se all’interno di noi stesso siamo inquieto non abbiamo raggiunto tale verità e armonia. La nostra parte intima possiede una tendenza strutturale verso la verità, ma non è sufficiente ritornare entro noi stessi per trovarla (è il primo passaggio). È necessaria la concentrazione e il silenzio. Questo perché l’uomo non è verità, ma ne partecipa (non la possiede). Acquisita la pienezza della sua adesione al cristianesimo nel 386, anche data una sua malattia, decide di lasciare Milano per recarsi accompagnato dalla madre e d alcuni discepoli a Cassiciaco, dove scrive diversi testi in forma dialogica e progetta il recupero della cultura filosofica classica dal punto di vista di una pedagogia cristiana (ossia cosa deve e può apprendere del sapere antico un cristiano: cosa mitigare dei pagani). Nel 387 si fa battezzare insieme al figlio da Ambrogio. Si ritira dalle due attività di insegnamento e decide di tornare con la madre in Africa, ma questa muore dopo un’esperienza di contemplazione ad Ostia. Madre nella carne e nella fede: figura silenziosa, ma occupa uno spazio molto importante nel percorso formativo di A. La figura di patrizio invece è a malapena inserita nelle confessioni e solo per essere sostituita. La mia madre secondo la carne più di ogni altra cosa desiderava partorire la mia salvezza eterna. Nel servire il marito, ella faceva il possibile perché Tu Dio mi fossi padre (e non Patrizio: in questi senso viene sostituito lui, che non credeva, mentre la madre stava nella fede cristiana senza alcun cedimento o dubbio). Monica per molti aspetti antitesi di A: fede salda e serena, lontana dall’inquietudine. Prima lettera ai Corinzi: risurrezione (tutti moriremo, ma non tutti verremo trasformati). 10 Confessioni (10.23): si può parlare di un’estasi di carattere platonico nella visione di Ostia. Un cambiamento rispetto alla dimensione del tempo: passato alle spalle e protesi verso le cose d’innanzi. Una ricerca non solitaria o semplicemente condivisa fra due, ma alla presenza della verità (una presenza fondamentale e ineludibile), quale è Dio stesso, che conosce ciò che i mortali non possono sapere. Questo paragrafo è ricco di passi biblici che strutturano il testo e non semplicemente decorativi, per lo più dei Salmi, da Isaia e il concetto Paolino di “sapienza”. Altro punto è la salvezza/verità che può essere portata dalla conoscenza, la quale è anche rivelazione (tema della vista) di quello che si dà a una vista più alta e profonda, la vista delle cose interiori. (10.24): il testo dice che c’è una visione insostenibile supeirore all’orizzonte della sensibilità e permette di elevarsi oltre tutte le cose corporee (ascesa graduale, come quella plotiniana: dopo la contemplazione vi può essere l’ascesa, tale da poter essere definita platonica). Id ipsum: è un riferimento a quel luogo biblico dei salmi e permette anche ad Agostino di riferirsi a due piano, quello biblico e quello platonico (essere assolutamente identico a se stesso). Id Ipsum: l’essere stesso (è una spia lessicale, che fa riferimento a un ordine specifico) e richiama il salmo 4,9 in facie in id ipsum… Più volte fa riferimento a questo concetto: nel commento al salmo 121 scrive Fratelli se potete, capite l’idipsum. Sforziamoci con l’aiuto delle parole e dei significati, di condurre la debolezza della mente. A è conscio della difficoltà concettuale nel cogliere questa duplicità di aspetti. Che cos’è l’idipsum? Cio che è sempre identico a se stesso, massima trasparenza, e non mutevole. Può essere identificato con il Dio biblico perché possiede la cartteristica fondamentale della permanenza e quindi dell’eternità (fuori dal passaggio e dalla mutevolezza). Ciò che continuamente muta non è, perché non possiede la caratteristica fondamentale dell’essere, ossia la permanenza. Non c’è qualcosa che sia totalmente altro dall’essere, non è completo non essere, ma non è essere nel senso pieno. Dio va pensato come assoluto Essere che non muta e possiede lui solo l’essere in senso pieno (solo lui è e possiede l’essere in senso pieno). La salvezza è visione di cose invisibili: possibile altro parallelismo platonico; ascesa che segue il passaggio da ciò che noi vediamo con gli occhi dal corpo a un vedere interiore e più elevato (in un passaggio dal basso all’alto) , ascendendo l’esaltazione e ammirazione delle opere divine arriviamo all’interno delle nostre anime, che vengono loro stesse superate all’arrivo in una fonte di pura energia, luogo stesso della verità. Dal basso all’alto, dall’esterno all’interno: si arriva alla dimensione più profonda dell’anima dell’uomo, che viene lei stessa superata. L’anima è la dimensione della vita, el movimento e del tempo: bisogna andare oltre e arrivare all’intelletto che può accomunare in uno sguardo la totalità delle cose (non mutabili o in movimento) ed esso solo è e questo è sempre e mai sarà (Plotino: è lo stesso idipsum, l’essere stesso, un Dio di cui si evidenzia la permanenza sempre uguale a stesso di A). A porta sul suo terreno un discorso lessico biblico e rimanda a tali questioni della tradizione platonica e neo-platonica: riprende l’immutabilità e la massima trasparenza a se stessa del principio ordinario, che solo lui eternamente è, e sempre è stato e sempre sarà. Confronto tra parola finita e parola divina: nell’intelletto/essere non si dà passaggio: la perfezione dell’anima deriva quella dell’intelletto; la parola umana che non può svincolare da un orizzonte temporale (un lampo del cuore ed è già tempo di abbandonare le primizie dello spirito e far ritorno allo strepito della nostra bocca, dove la parola conosce esattamente come l’essere ha inizio e fine); la Parola divina opposta. Anche se c’è discorsività del pensiero, l’anima è immagine dell’intelletto che proietta per evocare senza passaggi discorsivi. La perfezione dell’anima deriva da quella dell’intelletto (come un padre che alleva colui che ha generato imperfetto in confronto a sé, Plotino) e tacendo questa può superarsi (10.25): l’anima è cosa preziosa diceva Plotino e può ascendere. A dice che superando la differenza tra sé e il suo pensiero, l’anima può superare se stessa (pensando la sua intimità senza considerare la sua alterità: se l’uomo riuscisse a far tacere tutto l’orizzonte), l’anima può superare se stessa. Agostino afferma che ci ha fatto colui che eternamente è e presa questa posizione non si può che ammutolire data l’inadeguatezza della nostra parola in confronto a quella divina; per protrarre l’orecchio al Creatore e limitarsi all’ascolto diretto della sua parola e non più indiretto attraverso la bocca d’altri (superare livello di mediazione del divino). Contatto fulmineo e pensiero in grado di far cogliere ad A e M la sapienza eterna, da cui si è rapiti. Al termine di questa acquisizione M afferma che questa vita non abbia più niente da darle. Orizzonte della pace e del silenzio con il venir meno della turbolenza. L’appagamento seppur momentaneo dell’ansia di visione si configura in A come una promessa di salvezza e insieme come uno svelamento del significato più profondo del linguaggio simbolico della Scrittura. 11 Vedi morte Monica + lacrime A: colei che compie il primo passo verso l’eternità: da analizzare in relazione all’estasi ostia, sono due parti di un dittico. Il ritratto di Monica ci offre sia un aspetto umano sia carico di significati simbolici. La sua morte, più ancora della conversione, chiude per A un’età della vita: nel suo pianto a lungo trattenuto si chiude il cammino tormentato della memoria e si apre la dimensione metafisica del tempo. Dal X in poi A abbandona la narrazione legata alla memoria ma entra nella dimensione del tempo: si chiude la memoria e biografia dei fatti e si pare la dimensione puramente filosofica e metafisica. Alla fine del IX evocazione della Gerusalemme celeste: la prima parte delle Conf rimanda a una dimensione non solo cosmica ma escatologica. Il X libro inizia con l’insieme delle ragioni per cui vale la pena di confessare e abbandonata la dimensione dell’interrogazione entra in quella dell’interrogazione. La Gerusalemme celeste è un aggancio al tema delle due città. Le considerazioni che A farà dal X libro sono un riflesso sul piano speculativo del suo percorso intellettuale ed emotivo compiuto nel ricordo del passato e nella traduzione in scrittura di questo ricordo: descrive le caratteristiche del divino senza aver bisogno della memoria. La parola è qualcosa di consegnato che nasce per sparire: se l’uomo riuscisse a superare questa discrepanza. L’unica reazione di fronte all’inadeguatezza della parola è il silenzio. Superato anche il livello delle parabole, si può comprendere direttamente il divino con un pensiero fulmineo in grado di far cogliere a A e Monica la sapienza eterna, stabile sopra ogni cosa. L’orizzonte creatura è quello che nasce per sparire condannato all’impermanenza. Nella V Enneade di Plotino: anima non passa dal prima al poi, ma si stabilisce in un orizzonte di pace, la prospettiva ascensiva in cui viene meno il trambusto del passaggio e della temporalità. In A il raggiungimento è necessariamente momentaneo: non cogliere la parola mediante bocca o con la voce degli angeli o parabole, tutto questo è superato nell’orizzonte di carattere ascensivo e interiore. A era partito dalla rozzezza della Scrittura, incapace di far cogliere il divino, ora supera anche l’interpretazione della scrittura (anche il linguaggio biblico e non solo quello degli uomini è superato in questa ascensione). Monica è quella che fa il primo passo verso questo orizzonte eterno e per questo non dovrebbe essere piata da A, che tenta di eliminare questa sofferenza. Quel pianto così trattenuto e solo alla fine espresso illustra il assaggio visto: l’estasi platonica e la morte di Monica sono due parti di un dittico. Abbandonando la dimensione della memoria, dal decimo libro in poi so entra nell’orizzonte divino: spiega questioni filosofiche e abbandona la narrazione per arrivare a comprendere quell’idipsum. Agostino non si racconta tanto per fare, ma sempre di fronte al divino. Si chiude la narrazione di fatti simbolici e si pare la dimensione filosofica e metafisica. C’è anche una dimensione ulteriore (quella che rimanda alla fine del nono libro): prospettiva del ritorno e della dimensione eterna. Evocazione della Gerusalemme celeste: abbandonata la visione della storia A è proiettato verso l’eternità; la prima parte rinvia a una dimensione escatologica, la Gerusalemme che si avrà alla fine dei tempi i cui la vita sarà altro rispetto a quella cui siamo abituati. la Gerusalemme celeste rimanda alla città terreste e quella di Dio. Le meditazioni che A dedica alla memoria e al tempo nei libri X e XI sono il riflesso sul piano speculativo del suo percorso intellettuale e emotivo compiuto nel ricordo passato e della traduzione in scrittura di questo ricordo (si elimina la dimensione del passato, della memoria e de ricordo). Nel 388 A torna a Tagaste… nel 31 viene nominato vescovo di Ippona dal vescovo reggente: una nuova fase, dominata dai compiti del nuovo ufficio ecclesiastico e da continue, violente polemiche dottrinali con sette scissionistiche. Dal 396-400 contro i Manichei. Dal 394-418 contro i donatisti: scismatici estremisti che credevano che i sacerdoti dovessero essere assolutamente puri, convinti di essere gli unici eletti. Contro Pelagio e i suoi seguaci, uomo colto britannico. Contro i donatisti A dissolve l’idea che solo i sacramenti dati da sacerdoti puri siano validi; mentre in risposta ai Pelagiano, A indebolisce la sua dottrina del libero arbitrio, insistendo sul valore centrale e necessario della grazia divina per la salvezza (e anche solo per compiere le azioni buone). Negli ultimi anni della sua vita le Ritrattazioni: corregge se stesso. Ripercorre una rilettura delle sue posizioni rivedendo alcuni punti che gli sembrano difficilmente sostenibili alla luce di una Fede matura. Il fatto che A non abbia costituito un esempio limpido di fedele aiuta ad esaltare il suo percorso. Morte di Agostino (fonte Possidio, suo discepolo): negli ultimi giorni della sua vita chiede di essere lasciato da solo (tranne per cibo e visite) per dedicarsi completamente alla contemplazione, mentre i Vandali sono alle porte della città. 232 opere totali, escluse le omelie (600), le lettere e gli altri brevi scritti. Ne De Civitate Dei confluiscono i tempi principali del pensiero di A: tempo memoria male grazie e provvidenza in cui Agostino affronta il rapporto tra temporalità e eternità, in cui riflette il ruolo della Chiesa nel mondo e la prospettiva escatologica. Comnsta di 22 libri scritti 12 necessita di un interlocutore, il quale trova spunto per provare a conoscersi e rinascere. MZ non trascura la ragione e non sacrifica l’orizzonte della passionalità in un intreccio di confessione e sentimento che permette di alimentare la riflessione e in un secondo momento anche la vita. Allarga i confini dell’intelletto. La confessione è una visione (un metodo filosofico capace di portare luce): guardare il mio passato in modo nuovo e riconsiderarlo attraverso l’occhio della visione (non solo uno sguardo, ma un’analisi che diviene così metodo). Necessita della parola e la fissa dandole una solidità che non può provenire dalla sola esposizione verbale e rende possibile il racconto dell’epseirnza a un interlocutore (si svela prima a chi la scrive e poi a chi la legge), affinché quest’ultimo possa a sua volta farla propria e trasformarsi. MZ libri paralleli: stesso tema da punti diversi (filosofico- politico) Genere Confessione secondo MZ è un testo composito: una forma che sta a metà strada tra letteratura e filosofia e proprio per la componente letteraria sono state trattate come scritture filosofiche di secondo livello. MZ costruisce due poli: corrente razionalistica che sceglie tipologie di scrittura specifiche e le confessioni (forma risapere alternativo rispetto alla tradizione razionalistica). Lungo una strada che ha portato a filosofi di tutti rispetto, è stata lasciata indietro la possibilità di ispirare gli uomini, che possano così essere fautori di azioni e non puro pensiero. Bisognerà guardare grandi forme letterarie che sono state lasciate indietro dalla tradizione filosofica: per Z il punto dolente della cultura moderna è la mancanza di una trasformazione dalla conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo (lavoro riempie la vita, ma anima e cuore rimangono vuoti e così appena si è sollevati dalla fatica le ore scorrono ancor più opprimenti, perché sottomesse alla terribile vacuità di ogni tempo morto). Il recupero delle forme letterarie è giustificato dal fatto che queste appartengono alla stessa cultura occidentale; la dimenticanza che ne è stata fatta nella tradizione e il loro rimanere sullo sfondo rappresentano la resistenza di un pensiero irriducibile alla configurazione sistematica; per la loro forma mista (contenuto filosofico in forma narrativa) hanno un ritmo lontano da quello canonico del sistema e vicino al ritmo della vita. La confessione può essere avvicinata ad altri generi non propriamente filosofici: meditazioni (si pensi a Cartesio che inaugura una nuova filosofia con un genere non della tradizione), dialoghi e epistole in cui si dà uno scarto tra forma (letteraria) e contenuto (storico-filosofico). È proprio questo scarto a mostrare che in essi il pensiero si realizza in modo diverso che nella forma sistematica. La vita chiede continuamente di essere trasformata, modificata in forme nuove e il pensiero allo stesso tempo deve farsi umile, abdicando al suo potere universalizzante. Non tutta la conoscenza viene accolta e accettata dalla vita, ma solo ciò che di essa è in grado di costituire una nuova mentalità. Le confessioni sono il rovescio dei sistemi filosofici, troppo incentrati sulla chiarificazione e oggettivazione dei concetti senza tenere traccia del singolo uomo concreto. Scrivere è farsi guardare: la confessione è la scoperta di chi scrive (estremamente concreto e soggettivo: quella storia lì). Riesce ad aderire in modo adeguato alla complessità dei temi trattati (deve ospitare la vita, altrimenti pura angoscia e dispersione) Analisi di 4 momenti: valore tipologico -valore tipologico: 1.… bisogna guarda a modi alternativi di scrittura: dentro la confessione c’è un modo di pensare l’uomo e non solo un modo di scrivere. È la resistenza di un modo di pensare che non riesce a essere compresso in un’espressione classica di modalità filosofica. Si abbandona il sistema arido della tradizione attraverso una scrittura movimentata in modo da poter coinvolgere anche la parte vitale che andrebbe altrimenti persa. Da questo punto di vista la Confessione può essere avvicinata a altre metodologie che non sono esclusivamente filosofiche: le meditazioni (come Cartesio che le utilizza per rifondare la filosofia), dialoghi e epistole (non è un limite, ma una ricchezza). La filosofia non deve essere solo forma sistematica. Il pensiero filosofico è chiamato a farsi più umile: non può esercitare un potere universalizzante, ma deve accogliere al suo interno la capacità di modificare la mentalità degli uomini. Le confessioni sono il rovescio dei sistemi filosofici, che sono troppo incentrati sulla’obiettivo di rendere la verità statica senza lasciare alcuno spazio al lettore (la confessione invece riesce a dare dinamismo). Scrivere è farci guardare: la confessione è la scoperta di chi scrive. Illustra una condizione vitale che cerca una via d’uscita: è al minimo grado di astrazione e generalizzazione (la confessione è massimamente concreta e particolare). È un modo di fare filosofia che aderisce maggiormente alla complessità degli uomini: rimane concreto e non si fa astratto. L’utilizzo del metodo confessione favorisce il legame tra esigenze della ragione e quelle della vita (quest’ultimo è maggiormente evidente in Rousseau), che non sempre hanno ricevuto adeguata considerazione. Sguarda rinnovato sulla filosofia e il suo metodo: confessione metodo della filosofia che si apre alla vita al punto da non 15 rifiutare la contaminazione con altri generi letterari (fare autobiografia scegliendo forme non abituali alla filosofia). Il romanzo assomiglia alla confessione, ma rimane la differenza che il romanzo è una creazione artistica (l’autore può non mettersi in gioco e modificare quanto preferisce), mentre nella ocnfesioe l’esigenza principale no è la compiutezza narrativa, ma la compiutezza espressiva. Chi si confessa non sta all’orizzonte del gioco artistico della creazione, ma la confusione è essa stessa vita: nella risporoposizione della mia esperienza la vita riprende una direzione che prima non aveva. Il romanzo anche autobiografico può permettere di raccontarsi, ma non di confessarsi (confessarsi vuol dire non solo raccontarsi, ma farlo di fronte a un interlocutore che rinasce lui stesso). La confessione è la massimo espressione cui il pensiero può arrivare. Nella confessione la filosofia esprime la vita e la trasforma: permette di modificare il metodo stesso della filosofia. Chi si confessa non scrive un romanzo, perché sente più forte il desiderio di esprimersi rispetto a quello di narrare: il lusso che Dio ha dato agli uomini per consolarsi da loro dolore. Nella scrittura ci si riunifica attraverso la memoria. La confessione è la massima espressione a cui il pensiero può arrivare. L’adesione al modello confessione permette di modificare il metodo stesso della filosofia che deve tenere insieme la dimensione del pensiero e del sentimento. Momenti in cui la filosofia è stato in grado di toccare pensiero e vita: il primo Cartesio (pensiero e vita), la Vita Nova di Dante e Agostino, il suo incontro con l’evidenza, una verità che vivifica il suo cuore. Agostino è un penatore in tempo di crisi (fine dell’impero romano, sta nel pieno di una cesura epocale: ha saputo dare voce al suo tempo). Sera filsofia avesse continuato ad utilizzare il modello agostiniano di confessione si sarebbe forse evitato il fallimento della filosofia, che l’uso moderno sperimenta al massimo grado. Il platonismo, capacità di tornare al principio passando dalla nostra interiorità, non c’è più (era un movimento che permetteva alla vita di essere modificata della verità a cui faceva continuamente ritorno), la filosofia non ha più questo modello di trasformazione proposto da A. Cartesio (criticato fortemente da Z) è il simbolo di una filosofia che è astrattezza e concettualizzazione: ricerca solo della verità e dimenticanza della trasformazione della vita. Una verità che difendendo sempre più generale e astratta non è più in grado di rispondere alle esigenze del singolo individuo. Tutta la filosofia post-cartesiana, ponendosi il problema della divaricazione tra la verità della ragione e la vitalità della vita, procede su questa linea:adesione relativistica alla vitalità della vita (senza una filosofia unitaria: non cogliere siete e dover aderire costantemente al passaggio, Montaigne non descrive l’essere ma solo il passaggio) elaborare una verità nella sua dispersività + Hegel in cui la dimensione vitale viene inglobata nella vita dello spirito che la supera (non la indirizza ma la assume: la questione non è stata risolta in modo adeguato): hanno sempre marcato la differenza tra vita e ragione (fallimento) Agostino è la figura di riferimento dell’uomo moderno, perché rappresenta la stessa umiliazione del singolo uomo, abbandonato e offeso, incapace di trovare un punto di mediazione tra verità e vita: crisi drammatica ma con una prospettiva di riapertura possibile guardando la vicenda di Agostino, che è stato in grado di trovar eun punto di equilibrio, Agostino ha vissuto nu momento di dispersione ma è stato in grado di coglierlo concentrando in sé quel che per Zambrano è il duplice movimento della confession: disperazione e fuga da se stessi (essere consci della crisi) e e la speranza caratterizzata da una ricerca di qualcosa che illumina e sostenga il sé (l speranza arriva alla fine di un percorso di confusione). La disperazione è l’inizio invece di ogni confessione. La confessione appare nei moment di crisi storica, nel passaggio dalla morte alla vita non solo dell’individuo ma anche di un’epoca storica (come per Rousseau: troppo dalla parte della vita e del sentimento perdendo tale equilibrio) 2. Che insegnamento può dare A con la crisi del ‘900? Giobbe esprime la propria sofferenza alla vita: preconfessione, perché manca una consapevolezza, ma la prerogativa di questa è l’attesa di una risposta. Non chiede di essere sollevato dalle proprie sofferenze ma di essere ascoltato. Le tre caratteristiche della Con per Z: la disperazione e fuga da sé insieme al tentativo di rendere la propria vita completa; allo stesso temo è una comunicazione di sé che porta a una richiesta di senso e una trasformazione si sé e degli altri; speranza di un principio unitario al di sopra dell’inviduivilità in modo tale che possa darle un senso. Questi tre sono punti fondamentali per A: inquietudine, disperazione e ricerca dell’interiorità di qualcosa che modifichi la propria vita. Perché tutte queste categorie si ocnentrino in una vera confessione e non solo come in Giobbe, ci vuole A, che aggiunge la dimensione dell’amore per la vita, un elemento vitale (A è il punto in cui questi tre punti convergono in una confessione, per Z prima confessione dell’Occidente). Nessuno è riuscito ad eguagliare la pienezza della Confe di A, che costituisce un modello insuperato. La 16 ricerca di un principio unitario è il punto di partenza per leggere A, che cerca un ricongiungimento con il principio primo dell’essere, la cui mancanza genera questa disperazione iniziale, l’inquietudine che si traduce nella ricerca di piaceri (che A con sguardo retrospettivo condanna) . Perché questo sentimento può essere esteso a ciascun uomo quale sua caratteristica strutturale? Perché l’uomo si sente scisso e mai a suo posto dove e come è chiamato a vivere. L’uomo sente qualcosa di ulteriore e superiore di cui non comprendere i caratteri; la memoria acuisce un ruolo fondamentale ed è il modo di conoscenza che più aderisce alla vita: la memoria viene attivata in funzione maieutica (vedi def Treccani, arte ostetricia). La memoria recupera ciò che è nascosto in maniera inconsapevole. In Giobbe c’è un racconto di tutte le vicende dolorose che lui, uomo giusto, ha dovuto affrontare: attraverso la memoria ripercorre cammino della sua vita (non è un viaggio astratto, ma ripercorre quello che gli è accaduto chiedendo ragione a Dio): G si espone e si mette a nudo di fronte a Dio, senza riserve e menzogne. In questa sua interrogazione si confessa e si rivela allo sguardo di Dio perché vuole farsi trasparente anche agli altri uomini: parla a Dio e allo stesso tempo ai suoi simili per mostrare le sue colpe in modo che anche gli altri possano stare sulla stessa luce. (Salmo 129: salvezza individuale che si estende a tutta Israele). La confessione è un dono agli altri uomini di quella verità che si riscopre attraverso la propria interiorità e pertanto richiede il passaggio da una singola anima. La condivisione di un’evidenza che è maieutica ossia concede la possibilità di una rinascita e un innamoramento della vita e del pensiero. La confusione di A può essere vista come l’sporsi a uno sguardo divino rivelatore. A fa leva su questo elemento e non sul sapere filosofico. La richiesta di unificazione da parte di Dio: trovar ein Dio il punto di unità ch enon riesce a trovare in sé e nel sapere filosofico. Z differenza tra trasformazione: non è annullarsi in Dio, ma riconoscersi in lui. (Sportelli serrati e panni neri per tenere inaccessibile il contenuto del nostro cuore: Lina Botanni). L’uomo moderno non è riconciliato secondo Z, invece quello di Agostino sì, perché è stato capace di oltrepassare l’inquietudine rendendo il suo cuore trasparente (disposizione ad ascoltarlo e rendere credibile questo cambiamento). 3. La confessione di A in rapporto con le altre (differenze e motivi del primato di A). Per i filosofi la verità non è tanto maieutica (entrare nella parte più profonda di noi), ma è un fatto di ragione e esercizio della mente dove la spinta va verso una verità oggettiva e non interiore, per questo è difficile che i filosofi possano approdare alla confessione. Z mette in rapporto A e Cartesio: come la confessione il metodo cartesiano produce evidentemente un nuovo approdo dal dubbio iperbolico e metodico fino al primo approdo all’essere con il cogito. Z pero allontana questo tipo di approdo al nodo tra conoscenza amore e vita di A; A rappresenta una figura epocale, che l’uomo moderno può assumere a modello: egli è uomo vecchio, abbandonato e offeso, così come può esserlo l’uomo moderno, che alla fine da amicizia con la verità e nelle sue confessione è riuscito a trovare un punto di equilibrio tra verità e vita (una vita che tiene dentro di sé una verità filosofia e viceversa). Da un momento di confusione e crisi A è stato in grado di coglierlo e concentrare su di sé il duplice movimento delle confessioni: stare nella disperazione e fuga da se stessi, dall’altro la speranza e ricerca della propria unità (la ricerca di completezza). Nelle confessioni di A ci sono entrambi i poli disperazione data dall’orrore della nascita, la paura di morire, lo stupore per l’ingiustizia umana (disperazione), ma anche speranza che arriva alla fine di un percorso tortuoso ed è proprio nella speranza di convertire questi 3 errori che la rivelazione e meditazione della vita si attua davvero: uscendo da sé, la vita cerca oltre se stessa quella verità e compiutezza che le faccia trovare la sua unità. Trovare nella frammentarietà di ogni vita l’uscita: la confessione appare nei passaggi di crisi storica (morte e vita non solo di un singolo individuo, ma di un A questo rapporto mancato tra verità della ragione e ragioni della vita della filosofia post- cartesiana Z ha risposto: da un lato cercando di elaborare una verità che potesse rispecchiare a dispersività della vita, un puro relativismo empirico, in culto della spontaneità e dell’esigenza dei fatti; dall’altro come nel caso dell’idealismo tedesco la vita sembra aver trasferito i sui caratteri, il suo impeto totalizzante, alla verità dello spirito assoluto, invece di correggerlo e incanalarlo. Ma questo lo ha rimandato indietro, come specchio deformante, un’immagine di sé smisurata e trionfante. La confessione è possibile anche senza consapevolezza come il libro di Giobbe che costituisce un grido del dolore e della sofferenza di un uomo giusto quale è Giobbe, che esprime la sua sofferenza e ne chiede ragione a Dio (preconfessione: chiedere per attendersi una risposta). Egli chiede a Dio le ragioni dell’ingiustizia. Giobbe si espoe e si mette a nudo di fronte a Dio, si mostra senza riserve e menzogne. L nudità di Giobbe introduce all’esperienza della Conf stessa: si 17 viscere. Recupero delle confessioni come genere letterario strano. Strano sia per il suo rapporto con il tempo diverso da tutti gli altri sia per una caratteristica che la distanzia e avvicina alla filosofia (il genere di effetti di trasformazione che la Conf intende produrre nel lettore). la difficoltà dell’uomo contemporaneo è l’adesione a una realtà superiore: l’europa degli anni 30 è fortemente immersa in una dimensione disperata e l’uomo europeo non è stato cristiano nel senso che non è stato in grado di rinascere riprogettandosi in continuazione. La letteratura introduce un tempo particolare che si compie con la scrittura alternativo, mentre nella confessione non si crea questa discrepanza tra tempo virtuale e tempo della vita (vedi p. 4 di Z). Rapporto con la filosofia dal punto di vista dell’effetto nel lettore: mentre il pensiero filosofico produce un effetto generalizzato (un effetto meno individuale e universalizzato), la confessione si ocnetra sulla’individuo in cui il lettore non può ripercorrere esattamente le tappe della vita dell’autore, ma ciò che conta è essere capaci di seguire il percorso compiuto. La confessione è pertanto una forma di sapere che si muove tra tempo e memoria tr aletteratura e filosofia tra produzione di sapere oggettivo ed effetti individuali (sospesi tra tempo della vita e l’andare oltre e a questo di aggiunge un movimento dalla disperazione alla speranza). Eindividuale un duplice movimento da disperazione a speranza e se questo movimento non si compie si rimane della disperazione (come secondo la Z fanno i tuoi contemporanei). Quale modello per le Confessioni? È la narrazione di una storia interiore, la storia di una vocazione e anche un romanzo di formazione della persona e della sua riforma. Nel 397 A non dipende da un modello precostituito a cui rifarsi. A differenza del genere biografico l’autobiografia vera e propria non è presente tra gli antichi: nella cultura romana a parte elementi biografici in Catullo e Cesare e la letteratura consolatoria (Seneca), o gli stessi Ricordi di Marco Aurelio (come si potrebbe pensare dal titolo) hanno per lo più una struttura aforistica. Questa assenza della biografia è stata interpretata in diversi modi:nel’antichità l’io si realizza e si esprime senza residui in una esteriorità oggettiva in un cosmo comprensibili completamente in modo razionale; l’interiorizzazione è un’introduzione cristiana, da cui il rapporto interiore e individualetra ogni singola anima e Dio è stato esaltato (tendenza a riflettere sulla propria interiorità). All’ordine di questo cambiamento secondo alcuni studiosi potrebbe essere la confessione dei peccati, introdotta da Paolo nella prima lettera ai corinzi, secondo cui la coscienza deve autoindagarsi per comprendere la propria dignità al sacramento ad accogliere il Signore. Paolo è un autore fondamentale per Agostino: A decide di narrare la vicenda della propria anima in un modo così sofisticato (A seguendo l’orazione di Paolo scruta per primo in una lunga narrazione la propria anima). L’io non viene considerato sempre in considerazione a un mondo oggettivo, ma l’autobiografia apre la propria via maestra attraverso l’interiorità (in contrapposizione alla tendenza dominante nel mondo antico a considerare pio sempre in relazione alle cose e al mondo): innovazione epocale. A rinnova sia dal punto di vista del genere, sia dello stile con cui pensa la dimensione interiore: al di là dei puntini dottrina su cui A insiste e fornisce risposte (libero arbitrio, grazia); questa forma mentis si discosta dalle sue specifiche risposte dottrinali: questo nuovo pensiero si propone il compito di realizzare un nesso tra la verità delle parole e la consistenza personale dell’autore (quanto più sto nella verità tanto più questo profilo personale potrà dirsi compiuto). In questi stessi anni A si interroga sulla bugia (De Mendacio, 395): A riflette sulla verità come sfondo alle confessioni. A fondatore di un nuovo modello di autobiografia (autobiografia interiore), dando una svolta alla letteratura classica, portando il centro della narrazione all’intento dell’individuo piuttosto che fuori. Questo genere è straordinariamente ricco, con molte sfaccettare e interseca diversi ambiti disciplinari: letto come un documento storiografico (A parla dei suoi studi, delle istituzioni che frequenta, sia in Africa sia in Italia); descrizione di una percorso compiuto dell’umanità intera concretizzata in A stesso con una direzione ascendente verso il divino (mistico); allegoria dell’umanità (filosofico); costituisce anche un’analisi interiore di purificazione, catartica (selezione di episodi della sua vita che egli vuole proporre: scelte selettive della memoria che servono per scadere e sottolineare passaggi fondamentali della sua e allo stesso tempo allontanare dalla memoria del suo passato eventi che vengono descritti e subito allontanati: potenziare o esorcizzare il passato). Genere molteplice: stoiriografico, mistico, filosofico e psicologico (rimozione memoria). Novità nel genere e nella lingua: rispetto al latino classico che A conosce perfettamente non riesce a coprire l’area semantica cristiana, contaminata da elementi greci e ebraici (una lingua da vietare o almeno da far filtrare). Il cristianesimo porta non solo novità linguistiche, ma anche concettuali, metafisiche, liturgiche e psicologiche. Consapevole di questo, A scrive le confessioni per farne anche un esperimento, in cui A cerca una contaminazione fra gli stili della storica tradizionale e una lingua capace di aderire a una dimensione più umile e domestico-quotidiana (utilizza tutti i registri: banco di prova per la sintesi dei diversi stili retorici). Sono presenti una serie di tecniche: figure retoriche (assonanze, giochi di parole e ripetizioni), 20 coniugate al peso della lingua biblica fondamentale. Innovativo è anche l’uso di immagini fornite di grad d’intensità e plasticità visuale (occhi dell’anima, bocca del cuore, porte della carne o arpioni della parola divina), lontane dalla retorica classica e in grado di convenire affinità con il messaggio spirituale (occhi dell’anima, bocca del cuore, porte del cuore e arpioni della parola divina). Agostino fornisce una grande capacità introspettiva, una grande lucidità nel connettere gli eventi e le emozioni strettamente collegate analizzando a propria personalità in tutti i suoi aspetti e contraddizioni. Tutto questo rende le confessioni l’unica autobiografia che sia stata fondamentale ininterrottamente per i secoli a venire: fortuna del testo che non si interrompe mai (capacità e raffinatezza di introspezione; coscienza dei rapporti con il mondo esterno; lucidità logica nel connettere eventi e emozioni e analisi spietata di una personalità interiore contraddittoria). Tra ME e Rinascimento: in ME A è letto e conosciuto molto rispetto ad altri testi classici andati persi, e si privilegiano le sue opere somatiche e teologiche , sopratutto riguardo il tema di connessione tra cultura classica e cristiana. La svolta fondamentale è F Petrarca, che in A trova un punto di riferimento fondamentale e aveva ricevuto una copia delle confessioni da un teologo agostiniano Dionigi da Sansepolcro (ruolo fondamentale del testo nella ascesa di P sia spirituale sia fisica sul monte Ventoux: scrive una lettera).interessante è il parallelo istituito dal poeta tra se stesso e A. Racconto di andirivieni: fuga e cadute (più lui che suo fratello, già monaco): ricerca di una scorciatoia o quanto agevole rispetto alla via corretta, ma faticosa, indicata da suo fratello (non si dà progressione senza sforza per l’ascesa): P preferisce una via più lunga ma agevole alla scorciatoia indicata dal fratello: diviene affaticato fino a quando non decide di forare l’ascesa e raggiunge il fratello già ristorato; procedono per un po’ insieme (lo stesso si ripete nella discesa). È la descrizione del viaggio di un’anima: un guardare sia avanti sia indietro, risolto in ciò che P vede una volta conquistata la vetta (tempo lo ha cambiato, ma non è stato produttivo: non sono ancora giunto in porto per guardare le tempeste passate).Arrivaerà forse un giorno in cui P potrà raccogliere e sue tempeste ed entra A in gioco esplicitamente (“voglio ricordare le passate mie turpitudini e i peccati carnali, non perché io li ami, ma per amar te mio Dio”): in questo andirivieni dell’anima, A viene citato e prova a sciogliere questa dialettica tra le diverse direzioni. P dice di amare ciò che non vorrebbe amare, anzi che vorrebbe odiare. Egli consulta le Confessioni di A (lo porta sempre con sé) e legge il X libro (la prima frase che legge:”e gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti (…) e trascurano se stessi), dedicato alla memoria: la potenza della memoria è grande, c’è un suo fondo irriducibile (facoltà dello spirito connessa alla natura di ciascuno), inafferrabile per certi aspetti nella sua potenza e completezza. Dove sta quella parte di sé che l’uomo non riesce a comprendersi? Gli uomini invece di guardare all’interno, inconsapevoli di ciò che contengono, preferiscono guardare all’esterno ignorando se stessi. Shock nel resoconto di P: niente è degno di ammirazione al di fuori dell’anima, i cui contenuti sono sublimi. Rivolge poi gli occhi della mente all’interno: richiamo all’interiorità e al lessico di A. Libro VIII (della conversione): arriva al culmine di una crisi che attraversa tutto l’ottavo libro, sconvolto dalla’incapacità di decidere. Petrarca dopo aver letto le prole di A decide di rivolgere gli occhi della mente in se stesso e fino a quando non si ritrovò in piano rimase in silenzio perché quelle parole lo tenevano troppo tacitamente occupato. Petrarca emulatore dell’esperienza di A: questo libro aperto a caso è in grado di fornire risposte alle inquietudini dell’animo e da allora infatti P leggerà l’itinerario intellettuale di A come il proprio. Egli scrive il Secretum (1347-53) in cui svolge un dialogo con A delle Conf, ma costituisce allo stesso tempo una confessione del proprio sentimento interiore, analisi della propria coscienza all ricerca della pace e della verità. Tentativo di recuperare il dolore del passato per siglare il presente, la memoria filtra il passato e il ricordo del dolore realizza la pace interiore: la cultura moderna deve a P il richiamo e la evidenza data a A e alla ricerca interiore. Se l’Illuminismo (come in Voltaire) rifiuta gli aspetti retorici e spiritualistici di Agostino, nelle Confessioni di R la derivazione dal vescovo di Ippona vanno al di là del titolo Differente il taglio che R dà alle sue confessioni: specchio delle sue sofferenze. Incommensurabilità, dal profondo di questo abisso. Le Confessioni si aprono con un’invocazione al Signore: tutto il testo gode di una natura “vocativa”, in cui A si rivolge a Dio, destinatario del testo rispetto a cui il protagonista stesso è posto in secondo piano. A è piccolo, superbo, inquieto e incapace di dialogare con Dio, mentre Dio è massima grandezza e verità. L’esordio indica i temi fondamentali del testo: rapporto fra 21 creatore e creatura, tema del peccato (“della dispersione”) e la domanda sul “luogo di Dio” con la difficoltà dell’esprimersi. Rapporto fra creatore e creatura, che può acquisire eccessivamente le sua dimensione dipsrdendosi nel peccato, ma come si può invocare tale lode, come posso chiamare dire se lui è già dentro di me, e dov’è in me se lui è altro creatore, e io creatura? A insiste sul punto dell’inquietudine, la disciolta da creatura di trovare una forma efficace del dialogo con Dio: polarità tra protagonista/narratore e destinatario. R capacità di essere sincero e avere il coraggio di non fermarsi di fronte a nulla anche sugli aspetti più inconfessabili (miserie): guarda ad A ma lo ribalta. C’è lo stesso triangolo agostiniano autore, lettore e Dio, che viene però rimescolato. R come A si rivolge al giudice supremo, non per instaurare un dialogo, bensì lo chiama come testimone muto del suo monologo, obbligandolo ad ascoltare quanto ha da dire. Non è un Dio che comunica, non è testimone di un percorso di conversione, ma di rivendicazione di sè. Tema della comunità: in A sono fedeli, l’arroganza di R è suggerita nel suo mettersi al di là di questa folla (è fuori e al di sopra di ogni legge divina e non definisce la propria identità in relazione ad essa; rimane la solitudine (che si fa quasi forza di individuazione di fronte alla folla innumerevole), l’alterità: si fa paradigma di sé e per tutti gli uomini; i suoi simili non sono chiamati a trovare risposte come in A, ma sono lettori che ripercorrono le vicende di R stesso (il lettore di R deve semplicemente ascoltare, arrossire e piangere di fronte alle indegnità del protagonista) e Dio non gode di un ruolo privilegiato, ma può essere visto come il primo lettore, che non differisce da tutti gli altri. Lo spazio dell’io di desacralizza, in cui si elimina la dimensione trascendente: sono un tentativo di esprimere l’ineffabile di tutto il suo percorso biografico a partire dal cuore (più che dalle cose, dalle immagini delle cose). La confessione non è una lode come quella di A, ma l’apologia di un uomo che rivendica la propria indipendenza (“la tromba del giudizio finale suoni pure, quando vorrà con questo libro tra le mani mi presenterò al giudice supremo. Dirò fermamente qui è ciò che ho fatto, pensato e ciò che sono stato”) Peculiarità di A: diverso dalle classiche autobiografie rinascimentali (individuo che mostra elementi di eccezionalità, sia delle vicende attraversare, sia della fisicità, come in Cardano: momenti che illustrano passaggi personali della propria vita); differisce anche di romanzi di formazione come Alfieri, Vico o Goldoni. Non si tratta nemmeno del ritrovamento di una filosofia originata nella storia di una mente come il DsM di Cartesio. Particolarità di struttura e geografia rispetto ai documenti classici: i primi 9 libri costituiscono una autobiografia spirituale condotta a partire da uno sguardo retrospettivo attraverso i fili della memoria, mentre gli ultimi 4 libri sono autobiograficamente pacificati, ossia non si verificano più fatti o eventi, m vi è uno sviluppo del pensiero teologico e metafisico (X: analisi delle facoltà umane, in particolare della memoria; 11-13: meditazione sui primi capitoli della Genesi). Cesura dopo a morte della madre Monica, estasi di ostia e fine del IX libro, si tratta di un’autobiografia retrospettiva incentrata sull’evoluzione spirituale dell’anima; gli ultimi 4 libri sono privi di racconto, il tempo (che domina la prima parte) si ferma (libri pacificati autobiogrificamente): non ci sono fatti o eventi, ma si svolge il pensiero teologico e metafisico (non è più un resoconto, ma un testo filosofico). Nel X: A analizza se stesso, le proprie facoltà umane, in particolare della memoria (Ferm nel tempo, non guarda il passato, ma il presente dentro la coscienza idA steso). Mentre 11-13 meditazione sui primi capitoli della genesi. Geografia: primi 9 libri (luoghi fisici), libro 10 (coscienza del protagonista), libri 11-13 (l’orizzonte si dilata ulteriormente allagandosi all’universo intero). A per le modalità in cui scrive è limitato da una serie di prescrizioni: si proprie per la fisionomia intellettuale, sia per la tipologia di testo che in quel momento era pensabile produrre. A differenza di R che rivendica il suerpaento di certi limiti nel racconto, A fa confluire i contenuti in un modello preciso. Il percorso di A consta anche di problematiche pastorali dove non può che mettere dio al suo centro e il passaggio dalla descrizione della vita passata alla programmazione di una vita futura. Agostino lavora entro certi limiti di tipologia metodologici e di scrittura tardoantica (differenze rispetto a M e R dovute alle cultura a cui appartiene). A si volge indietro (P si volge avanti e indietro) nella fin della sua vita dal puto di vista della sua posizione pienamente cristiana anche dal punto di vista istituzionale , proiettato verso la sua vita futura ultraterrena. Le confessioni sono un racconto personale che si svolge Enel tempo, ma che allo stesso tempo lascia intravedere la prospettiva dell’eterno. Agostino suggerisce la sua concezione suggestiva del tempo, in un ottica che coinvolga anche l’eternità: ogni passaggio ci accompagno verso questa prospettiva ultima. 22 episodio banale radicalizza il suo significato? Un furterello giovanile risulta un episodio di incommensurabile malvagità agli occhi di A (nessun legame con il frutto del paradiso terrestre). L’anima si svoncola dal suo fondamentoper scegliere la lontananza da Dio ma non per una partecipazione del brutto, ma l’assolutezza del brutto e del male, si chiede se sia così. All’interno della linea della vita trova episodi che gli permettono di indagare questioni più ampie e trascendenti come in questo caso una bravata giovanile da modo di indagare le motivazioni che portano a fare il male. Richiamo alla mela dell’Eden. Tutti siamo certamente colpiti dalla bellezza delle cose e deriva dal fascino delle cose: (5.10) l’orizzonte della corporeità ha un carattere di bellezza; il peccato (inclinazione smodata verso beni inferiori rinunciando quelli superiori) come fonte di smodatezza e disequilibrio, come inclinazione naturale legittima ma che deve essere moderata, poiché conduce a abbandonare i beni più alti in favore di beni più bassi (primeggiamo ciò che dovremmo collocare in secondo piano: lettura del peccato come elemento di disordine inversione di valore). Il peccato è una forma di squilibrio: si privilegia ciò che andrebbe collocato in secondo piano. Anche le cose più basse hanno la loro attrazione ma non possono essere prviegiato rispetto a Dio, verso cui ogni nostra attenzione e piacere dovrebbe essere rivolta. Se riesco a comprendere anche le motivazioni profonde di un omicidio (le quali possono essere rincodotte a piaceri), cosa ha istigato A? Anche le pere sono un frutto di Dio: erano belli quei frutti ma non erano quelle a essere desiderate dall’anima: sono stati rubati solo per rubare e dava piacere il senso di ingiustizia, era la brutta a azione a dare condimento a quelle pere. Qui si confessa di fronte a Dio: quello che lo attirava è collocarsi nella stessa prospettiva di Dio imitando perversamente la su azione sotto una forma di caricatura; tutti i nostri vizi sono distorsioni caricaturali delle virtù di Dio (tentazione demoniaca come scimmiottamento di Dio) 6.12: Dio è il luogo in cui ogni nostro desiderio e piacere dovrebbe confluire. Sempre sono cose piacevoli e belle quelle che ci portano a peccare; quei beni sono oggetto di piacere (se si indagano le motivazioni anche di un grave peccato si trovano sempre ragioni comprensibili). Se si applica questo al furto delle pere? Erano belli i frutti rubati, ma non erano desiderati dal’anima miserabile di A; il grand epiacere era portato dall’assaggiare non i frutti, quanto la brutta azione compiuta. Confessione di fronte a Dio. Qual è il fondo ultimo di questo furto? Lo attirava il collocarsi nella stessa prospettiva di Dio, imitando l’azione onnipotente divina. Tutti i nostri peccati soo deformazioni caricaturali delle virtù che dovremmo praticare in quanto creature di Dio. Tentazione demoniaca come scimmiotamento di caratteri divini: imitare malamente e grottescamente la grandezza di Dio, che però è solo sua. La superbia la peggiore imitazione di Dio. L’orgoglio tentativo di imitare in modo scimmiottesco la grandezza di Dio; l’ambizione ricerca onore e gloria quando queste andrebbero riservate a Dio; la curiosità (grande bestia nera per A) imita la brama di conoscenza; persino l’ignoranza si atteggia a semplicità quando non c’è niente più semplice di Dio… la massima imitazione di Dio è la superbia perché ci impedisce di accettare ciocche noi siamo ossia creature. Dopo aver strutturato questo orizzonte dei vizi, arriva al punto. Quell’azione è stata un’imitazione al rovescio di Dio; come se lo attirasse il proibito in quanto tale (creatura che vuole farsi creatore). 6.14: lì si arriva la superbia di esperire quel massimo essere caricaturale divino. Il vizio dell’uomo è una virtù cambiata di segno (caricutale perché nessuno può arrivare alla grandezza divina). L’anima ti Fine analisi interiore: forse deisderio di infrangere il comando divino di non rubare (oppure buia caricatura dell’onnipotenza? Possibile che mi attirasse il proibito perché tale?: la creatura vuole farsi creatore sperimentando l’onnipotenza divina). Episodio tanto brutto, da non volerlo più richiamare. Avertio: allontanamento: questo lessico dell’allontanamento si lega con quello platonico della povertà lontano dal divino (attenzioni alle chiavi testuali). Aversio e Conversio: termini di origine plotiniana (aversio: azione di chi volge a Dio la schiena e non il volto, allontanamento da Dio). In A questo allontanamento si presenta nell’inclinazione verso le cose fuori e inferiori a noi (caricatura della potenza divina); l’aversio si concretizza nell’attenzione verso cose estrneee alla purezza dell’anima e su tutti il piacere dei sensi. Tutte le volte che troviamo l’impiego di questi termini ci troviamo in un punto in cui A vale sottolinear eil tema della manidesraizone della tendenza di ogni cosa di disperdersi e ritornare al nulla. La perte successiva sarà quella della converso, ritorno a Dio con il culmine nel libro VIII (passo di Paolo). Si ocmprned maggiormente con l’episodio delle pere la considerazione oscura che A ha di sé, l’opacità interiore del non sapersi leggere; una lontananza da tutti i punti di vista: ontologico e intellettuale, poca consapevolezza di sé. Tema dell’acqua a immagine dell’inconsistenza delle creature: defluxi (sta a indicare la perdita di consistenza ontologica che deriva dal’allontanamento dall’unità, da Dio) 25 9.17: ho errato per tutta la mia adolescenza: visione e analisi retrospettiva. Mi sono dissipato: perita della consistenza ontologica che deriva dall’allontanamento da Dio. Sottotetto biblico: quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grand ecaretia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno (intreccia un tema platonico: povertà lontano dal divino: Lc 15,14, la parabola del figlio al prodigo, il cui lessico ci rimanda alla regione della carestia, della povertà e del bisogno in cui si trova propio il figlio nel suo allon;tanamento; questo lessico si stringe con il tema platonico della dissipazione con l’allontanamento dal divino; A gioca con lessico dell’aversio e dell’acqua Regione della povertà con il tema platonico/plotiniano Lessico dell’aversio (inclinazione verso le cose esterne nonché inferiori: passioni per le cose estranee su tutti i piaceri dei sensi), allontanamento e poi conversio, il ritorno. La prima parte delle confessioni è costruita sullo sfondo della tematica dell’allontanamento, dopodiché, superato il tortuoso percorso interiore si sperimenta il ritorno la conversio. Son entrambi termini di ordine plotiniana. Aversio: azione di chi rivolge a Dio la schiena e non il volto; inclinazione per le cose esterne e inferiori, allontanamento da Dio, passione per cose estranee a sé e ricerca del piacere dei sensi. L’aversio è la manifestazione della tendenza di ogni cosa creata alla dispersione e al ritorno nel nulla. All’inizio del testo A richiama queste forme di allontanamento a cui seguirà dopo il cammino intrapreso la conversio, ossia la prospettiva del ritorno a Dio. In A l’incontinenza della creatura (ossia la sua incapacità a trattenersi e moderarsi negli atti e nei desideri) ha sempre come effetto una forma di oscuramento dell’intelligenza da annebbiamento o da dispersione, la cui forma procede in parallelo con un oscuramento delle facoltà intellettuali in un percorso che non è solo morale, ma anche conoscitivo. Proprio in questo orizzonte risulta centrale la ripresa della parabola del figliol prodigo e lo contamina con il tema platonico della povertà lontano dal divino (richiamo sia dal lessico dell’allontanamento sia dal simbolo dell’acqua): La regione della povertà: tema platonico della povertà lontano dal divino Enneade V 1,1 (Plotino): Sulle tre ipostasi originarie (descrizione del passaggio dal’Uno all’Intelletto all’Anima) : essere dimentichi del padre (rispetto a cui ogni cosa rimane parte); l’origine del male è stata il nascere: il darsi in maniera individuale e singola rispetto all’unità complessiva del primo principio è già una forma di diversità e manifestazione della perversione ultima, ossia il non riconoscersi come parte dell’uno (il voler appartenere a se stessi), ma si perseguiste un principio di individuazione (audacia e colpa dell’anima). Per Plotino il perseguire una forma di individuazione è già una forma di allontanamento (tema dell’allontanamento a cui si aggiunge quello dell’olio, ci si dimentica dell’ordine dal’Uno: mancato riconoscimento della propria famiglia nel tentativo di perseguire un’autonomia) Queste anime non vedendo né il padre e pertanto nemmeno se stessi, non sono più in grado di riconoscersi: ammirando tutto piuttosto che se stesse, ruppero ogni legame con la realtà a cui avevano voltato le spalle in segno di disprezzo. Così l’apprezzamento delle cose di quaggiù sia causa della completa dimenticanza delle anime del padre: questo è il nucleo neoplatonico che A riprende e trasferisce nella parabola del figlio al prodigo (allontanamento creature nella ricerca dell’autonomia dal padre) 10.16: A consiglia di ritornare al proprio mondo interiore e attraverso l’occhio dell’anima superare l’anima stessa e vedere una luce non visibile all’occhio fisico (una luce di natura diversa e potenza superiore): era più in alto anche per ragioni ontologiche e causali. Altra regione della mancanza: la regione della difformità. Da questa consapevolezza della dissomiglianza considera l’inconsistenza ontologica delle creature, che sono in quanto partecipano all’Essere di Dio, ma non sono alla stesso tempo perché non lo posseggono (se non duro in lui non posso durare nemmeno in me) regio egestatis - regio dissimilitudinis (se la regione della povertà rimanda a Plotino, la regio della dissomiglianza rimanda a Platone stesso, Politico) 11.17: si accostano il lessico della povertà e difformità rispetto all’essere divino che è il più alto livello ontologico (regio egestatis, regio dissimilitudinis: non inventato da A, ma sottolineata). La regione della dissomiglianza proviene direttamente dal Politico di Platone. Sottotetto biblico con Lc 15,14 (parabola del figlio al prodigo: tema della mancanza) e tema platonico della povertà delle essere quanto più ci si allontana da Dio: le due fonti si sostengono e potenziano a vicenda (aversio). Il tema dell’aversio connesso alla povertà. In A l’incosistenza (simboleggiata dalla metafora dell’acqua) è la dissipazione di sé che consegue all’allontanamento (aversio) dell’anima dal bene immutabile e comune. 26 Ennedadi: la virtù (la nostra è partecipazione) non è la Bellezza in sé, né il bene in sé, poiché sono valori trascendenti a cui la virtù semplicemente partecipa e in quanto tale è bella e buona. Ci troviamo immersi nella regione della dissomiglianza, perché se l’anima si immerge nel vizio non è nemmeno più partecipe di esso, ma trasfigura la propria natura. Dunque l’anima muore nella regione della dissomiglianza: la morte per un’anima legata ancorala corpo è il saziarsi della materia e sprofondare in essa (una volta separata dal corpo rimane nel pantano, si precipita dell’Ade e lì si addormenta). Dove Platone e Plotino pensavano alla distanza ontologica fra anima e creature sensibili, fra cui questa si perde, A pensa alla difformità della creatura rispetto al creatore, alla mancanza di conformità tra Essere eterno e essere temporale (differenza essenziale), perduto lontano dall’origine nella regione della povertà. Si può recupererà il filo di un tessuto concettuale, ma bisogna considerare le peculiarità di ciascun autore: è diversa la prospettiva di Platone e Plotino rispetto ad A. Il problema che i due hanno è la distanza tra l’anima e l’Uno: un legame che non dovrebbe mai essere forzato (problema del perdersi rispetto all’uno, stando troppo dal lato della materialità che provoca un allontanamento eccessivo dal principio). A recupera e rielabora: al posto dell’Uno c’è Dio Creatore, che nel bene produce le proprie creature. Tra l’orizzonte dell’Essere eterno e immutabile e quello delle sue creature c’è un eterogeneità che non può essere colmata: non è semplicemente un discorso sapienziale e filosofico. L’episodio del furto delle pere (straordinaria capacità di analisi delle motivazioni che hanno portato a un gesto banale, ma radicalizzato): prova del tentativo di mostrare una propria autonomia, mostrarsi completamente nella regione della dissomiglianza in cui A si vede come una pessima imitazione di Dio amareggiata. A riflette a dimensioni molto più ampie: rilegge retrospettivamente il proprio passato. Il furto delle pere costituiscono un episodio di cui A cerca di ritrovare le motivazioni: questo genere di esempi sono il tentativo di mostrare una propria autonomia rispetto all’orizzonte da cui deriviamo e ci si mostra immersi nella regione della dissomiglianza (A è una caratura negativa di Dio in quell’episodio: tentativo creatura di rendersi autonomo). Non sono episodi banali dell’esistenza ma gettano luce su questo tentativo di emancipazione necessariamente fallimentare (ogni momento è luogo filosofico in cui riflettere su questioni più ampie e non semplici momento della sua vita). Ha narrato la storia della sua vita per quanto ha voluto e potuto (opera una selezione): sono presenti accelerazioni, tralascio molte cose nella fretta di arrivare a ciò che più mi preme confessare; molte altre non le ricordo e forse non le voglio ricordare. A opera una selezione non solo narrativa, ma anche tematica: viene recuperato il filo di una vita per comprenderla nei suoi momenti essenziali (in M abbiamo la scelta di una forma molto più slegata e disarticolata ed è il lettore a dover ricollegare i vari punti). Le confessioni giocano sulla linea del tempo della ita di A ma sono anche costruite come un racconto allegorico e simbolico: rappresentazione del reale nel ricordo e insieme interpretazione simbolica di una storia personale che si propone come modello dell’cammino tormentato dell’uomo alla ricerca di Dio (progressivamente si allontana dal solo racconto di A per divenire un paradigma di come il processo di allontanamento da Dio può alla fine risolversi in un recupero di quello sguardo verso l’origine; un aprospettiva egocentrica che progressivamente si smaterializza la figura dell’individuo A nella prospettiva biografica.. Come il sentimento dell’allontanamento può alla fine risolversi in una conversio ossia un recupero dello sguardo verso l’origine e verso Dio. La sua vita è scandita da allontanamento e ritorno, conversione. Capacità analitica potentissima: è il presente che permette di dare significato esemplare al passato, guardando le cose dal punto di vista della conversione. Come potremmo definire le Confessioni? Un’opera di ascesa interiore in senso neoplatonico; di elevazione interiore; un’opera mistica; di purificazione della mente da ansie interessi terreni. Le confessioni non sono uno sfogo per A (è un’opera molto meditata e strutturalmente elaborata, tutt’altro che uno sfogo), ma non è nemmeno l’esito del desiderio di mettere un punto sulla propria vita e segnare una prima e un dopo (il suo obiettivo non è fare il punto della propria vita; nemmeno un esempio di autoanalisi perfettamente realizzato (non è un esempio compiuto di scavo interiore). 3 compiti delle Confessioni: confessa per convincere che questo percorso ha una sua credibilità e riproducibilità (si convince attraverso una pedagogia del percorso): mostrare si tratta di un percorso ripercorribile; confessa per insegnare quali siano i punti di questo cammino e come procedere mostrando il suo stesso cammino; confessa per esaltare la grandezza di Dio (non è possibile interpretarlo in una maniera diversa). Nelle ritrattazioni egli presenta e analizza tutti i suoi testi attraverso la prospettiva dell’uomo che è ormai arrivato a una solida maturità (indica quali con il senno di poi non avrebbe scritto). Nelle ritrattazioni A getta una luce consapevole tra il passaggio degli scritti giovanili e maturi: i 13 libri delle C lodano Dio per mali e 27 pazienza (De Civitate Dei) Il nesso ora è felicità e salvezza (proiettate entrambi a una dimensione ultraterrena): non si può cogliere la vera felicità solo con la speranza della salvezza. La filosofia trova il suo limite nel non vedere questa identità tra salvezza e felicità, e di questa se ne fabbricano una falsa, grazie a una virtù che aumenta parallelamente in menzogna e autosufficienza (indipendenza da Dio). Siamo infatti in mezzo ai mali che dobbiamo tollerare nella pazienza, sino a quando raggiungeremo quei beni che ci procureranno gioie ineffabili e non ci faranno più sopportare niente. Tale salvezza che si conseguirà nel mondo futuro sarà anche la felicità suprema. Questi filosofi non vogliono credere a questa felicità perché non la vedono e si sforzano di fabbricarsene una assolutamente falsa, grazie ad una virtù che è tanto più orgogliosa quanto più menzognera. Pertanto è una felicità inutile, perché nessuno può garantire la felicità senza prima riconoscere la necessità della salvezza. Ma che salvezza considera? Una purificazione dai condizionamenti sensibili? In primissimo piano c’è la riflessione che A compie rispetto alla deviazione paolina: non solo mancanza di essere, ma più il muoversi in punti diversi in fasi diverse che provocano quell’angoscia. Ora ad A la vita virtuosa e autosufficiente del sapiente appare inutile e falsa (non è la virtù ad assicurare la felicità perché nessuno può essere felice senza essere salvo e tale salvezza non ha più niente a che fare con la tradizione dell’etica filosofica pagana. Qual è il motivo del cambiamento brusco di pensiero? (Ritrattazioni I, 2: mi rammarico di ave raffermato che la felicità alberga solo nell’animo del sapiente in contrasto con Paolo secondo cui la compiuta conoscenza di Dio nella forma più alta concessa all’uomo si avrà nella vita futura, in cui anche il corpo incorruttibile e immortale sarà senza difficoltà sottomesso allo spirito): il problema è la corruttibilità e mortalità del corpo a causa del peccato originale. Il tema dell’allontanarsi dalla casa del padre (avverbio, filosofia platonica: l’inciampo o caduta dell’anima di cui parla Platone e che in Plotino diventa una “peregrinazione” lontano dalla patria) viene radicalizzato in un’umanità che vorrebbe arrivare alla conoscenza della felicità ma in quanto pura natura umana da sé non può raggiungerla, perché patisce dall’origine uno stato già corrotto: una natura fatta per la conoscenza e la felicità, che vi tende con tutte le sue forze e che tuttavia non riesce a raggiungere (una natura che non si trova nello stato in cui dovrebbe trovarsi). Con il peccato originale da un lato il corpo è diventato un peso e un impedimento, limite per la sua corruttibilità e dall’altro perde la sua libertà e dunque la possibilità effettiva di fare il bene. “Solo quando il corpo tornerà incorruttibile e immortale… (Paolo): eredità della colpa di Adamo (dopo aver commesso il peccato originale, l’uomo ha assunto un corpo corruttibile e mortale). A non pensa che la materia sia il luogo del male, o che l’anima sia unita al corpo per scontare i suoi peccati (come ritenevano invece i manichei), tuttavia pensa che a causa del peccato originale, il corpo sia divenuto corruttibile (anche se non cattivo in sé) e per questo appesantisce l’azione dell’anima. A sostiene persino che l’innocenza dei bambini sia un’illusione, l’innocenza sta al massimo nella loro debolezza corporea, ma non nella loro animo (basta pensare ai pensieri dei bambini). “Sono stato concepito nella colpa…” (riflessione luterana). Chi si libererà da questo peso del corpo? Quelli che saranno salvi, riconquistando l’incorruttibilità del loro corpo, ma anche la libertà piena, intesa come impossibilità di agire nel male: esito di un percorso spirituale talmente alto da rende impercorribile la strada del male). Differenza importante tra libertà e libero arbitrio. Vera libertà impossibilità di fare altro che il bene in una prospettiva di salvezza autonoma, che è stata resa impossibile dal velo del peccato originale (mentre il libero arbitrio è la possibilità di fare sia il bene sia il male). Così l’uomo si può salvare solo attraverso l’aiuto di Dio, che manifesta attraverso la sua grazia. La grazia è un dono con cui Dio concede misericordia e salvezza, eliminando l’eredità del peccato di Adamo, che ha offuscato il libero arbitrio e compromesso li libertà dell’uomo e con essa la possibilità dell’uomo di raggiungere la salvezza autonomamente. Anche a proposito della completa dottrina della grazia prende forza contro le critiche di chi sostiene che la salvezza possa essere ottenuta con le proprie forze. Difficoltà di spiegare del perché il disegno divino va esaminato solo in base alla volontà stessa di Dio senza considerare le opere di ciascuno: Esau e Giacobbe, figli di Isacco e Rebecca, Dio preferisce il secondo, ma perché? La salvezza è indipendente dalle opere, quindi dai meriti di ciascuno? Si tratta di un’ingiustizia arbitraria di Dio? Dio può agire ingiustamente nel concedere arbitrariamente la misericordia? La prima risposta di A (390 circa) è che Dio sa quale è il corso della vita degli uomini (prescienza di Dio), può prevedere e conoscere in anticipo non quello che gli uomini faranno, ma le loro capacità di aderire con fede all’Uno (questo consente un “giudizio anticipato”); dall’eternità Dio può prevedere come gi uomini si comporteranno e decide di premiare la fede di coloro che crederanno in lui, non le opere. Le opere sono un effetto della grazia divina, dell’amore che riceviamo quando Dio offre la misericordia e pertanto non possono essere criterio di salvezza. A deve tenere in piedi il libero arbitrio, non proporre un dio ingiusto e 30 ha a che fare con il limite ontologico dell’indipendenza della salvezza rispetto alle opere: si tratta di un difficile equilibrio tra una concezione della valenza delle opere solamente se guidate dalla grazie e il rifiuto dell’ingiustizia divina da un lato e dall’altro la conservazione di un ruolo attivo e significativo per il libero arbitrio dell’uomo. La seconda risposta di A (396-397) sarà che nemmeno la fede è un merito, perché anch’essa rientra fra i doni divini. Questioni a Simpliciano: nessuno crede se non è chiamato, può solo rispondere e lo fa indipendentemente dai meriti della fede (se la chiamata di Dio non precede chiamando, non possono seguire fede e opere buone dunque la grazia viene prima di qualunque merito: forte accento sulla forza della grazia, a monte di qualunque merito o fede). È Dio nella sua misericordia a chiamare e lo fa indipendentemente dai meriti della fede, perché i meriti della fede seguono e non precedono la chiamata. La fede non è una scelta un merito dell’uomo, ma è un dono di Dio, che chiama. Quanti credono il lui, credono soltanto perché Dio ha concesso loro di credere. Se tutto rende dalla grazia allora qual è il margine di scelta nelle opere? cosa rimane da scegliere per l’uomo? E cosa premia Dio? Qual è il ruolo e il margine del libero arbitrio? Contatto con il tema della predestinazione. Dio non sa in anticipo cosa faranno gli uomini e la sua chiamata è irresistibile al cuore del fedele: egli non sa come si comporteranno gli uomini; sceglie e decide in senso assoluto senza tenere conto dei comportamenti umani, perché quei comportamenti dipendono dalla sua scelta non la precedono. La risposta non è un elemento che siamo in grado di conoscere, non possiamo indagare fino in fondo le ragioni di questo. La grazia è un dono gratuito che non implica alcuno scambio (nessuna azione umana da sola può essere sufficiente per raggiungere la salvezza): imponderabilità dell’elezione divina. Se non siamo in grado di conoscere in fondo le ragioni di Dio, possiamo osservare un discrimine, un criterio tra salvi e dannati? Se non è colpa o merito dell’uomo rispondere alla chiamata (una volta che arriva non si può non rispondere) perché alcuni uomini rimangono indietro? Forse Dio davvero destina qualcuno al male? Per A in realtà tutti gli uomini meriterebbero quella condanna come conseguente al peccato originale, Dio non si accanisce contro l’individuo, ma al limite lo abbandona al suo destino (condannati non per criterio divino ma per la propria colpa originaria). Per A questo non è una risposta scandalosa, l’anomalia sta nella salvezza (questo è lo scandalo e non la dannazione): pertanto gli eletti sono tali non per meriti propri, ma per grazie divina, mentre i dannati sono tali non per decreto divino, ma in virtù della loro condanna originaria (l’eccezione sono gli eletti e non i dannati: lo scandalo del cristianesimo sta nell’infinita misericordia di Dio che fa sì che alcuni uomini possano evitare la condanna che tutti meritano). Paolo: l’uomo non può interrogarsi oltre le ragioni di Dio, come se un vaso chiedesse al vasaio perché lo ha fatto così: il vasaio è padrone dell’argilla e può decidere se farne un uso nobile o volgare senza alcuna ragione particolare. Questo è il modello a cui A rimarrà fedele nelle pere successive. Per Lutero la libertà sta nel collocarsi nell’orizzonte della assoluta trasparenza del cuore e dell’animo di fronte a Dio: non sappiamo dal è la scelta divina su di noi (calvino: guadagno come segno della benevolenza). La colpa non è dell’argilla, ma non può nemmeno essere imputata a Dio. Questo è il modello che A utilizza anche nelle opere successive e può essere considerato un approdo. Ecco perché la risposta della filosofia è insufficiente e inadeguata a riscattare un’orizzonte della felicità (può darne solo l’illusione) è perché per quanto notevole è pur sempre una disciplina umana (non è una questione di contenuti l’inadeguatezza della filosofia: qualunque attività umana non è di per sé in grado di assicurare felicità e salvezza, che riposano solo su un gratuito dono di Dio). La filosofia da un punto di vista non è in grado salvare nessuno, mentre la religione pur non salvando tutti concede la grazia ai predestinati (differenza quantitativa). Anche la salvezza promessa del cristianesimo perde l’orizzonte della totale universalità: non è più alla porta di tutti, ma solo a quanti ricevono la chiamata irresistibile di Dio (coloro che si salvano lo fanno solo attraverso il volere divino e la mediazione di Cristo) Non può essere data una risposta oggettiva, una risposta esterna dall’orizzonte della mente divina, l’uomo non può risolvere questo nodo né parlare con certezza di salvati e dannati, ma può interrogarsi in prima persona su questo tema, sul discrimine tra predestinati e precondannati, provando a ripercorrere il profilo della propria vita a partire da questo punto di vista (l’unica riposta possibile è quella proveniente dalla soggettività, dall’interno). Solo dall’interno si può risolvere il nodo di ciò che siamo, sciogliere il paradosso della nostra responsabilità rispetto a ciò che siamo di fatto, della nostra libertà di divenire ciò che eravamo (eletti o reprobi), interrogarsi sull’essere salvati dando un segno e risposta alla propria vita. Un problema razionalmente insolubile, soluzione che non può essere detta ma mostrata. Questi libri lodano Dio per i miei mali e per i miei beni. Passaggio da una prospettiva di condanna a salvezza, grazie a un Dio giusto in grado di sollevare il percorso degli uomini, è tale percorso formativa si ripete ogni qual volta A legge i 13 li bei delle confessioni, in cui troviamo la storia di un percorso che non rende più inconciliabili 31 l’orizzonte del limite, dell’inquietudine e del disordine divino, e l’ordine divino. Quella di A può essere considerata come la confessione di un eletto, in quanto costruisce un percorsi di conciliazione tra disordine dell’Io e ordine di Dio: c’è un discorso di permanenza nell’Essere e di crescita dell’individuo-A e non della sua distruzione. La dottrina del peccato originale si traduce nella fenomenologia dell’ambiguità profonda della volontà umana. Non c’è linearità tra uomo e Dio: il desiderio della felicità appare minato all’origine dall’adesione a forme di amore inconsistente (esperienze dei sensi, l’orgoglio e l’ambizione del sapere mondano). In che misura il testo come “confessione di un salvato, eletto”? Confessione di una creatura profondamente grata per non averlo abbandonato, una creatura che Dio ha amato, avendogli concesso il privilegio della gratitudine, il potere di amare l’ordine di ciò che c’è, gratitudine dell’ordine e non del proprio disordine, ringraziamento con cui il libro si apre. Prologo tredicesimo libro: Pag 514-515: A ha risposto alla voce di Dio che lo chiamava, “rivolgendosi” (conversio) all’origine di quella voce; Tu hai cancellato le mie colpe, tu hai prevenuto tutti i miei meriti per retribuire i tuoi che con le tue mani hai dato origine all’essere. Esisto in grazie di una bontà che mi ha concesso di essere. Le fede non è qualcosa che l’uomo conquista, ma è un dono, che dipende dalla grazia: tutti dipende da questa chiamata di Dio: tutti dovrebbero essere condannati per la loro colpa originaria, tutti dovrebbero scontare questa pena, ma la grazia divina elegge non per merito (le ragioni dell’agire di Dio non sono indagabili). Più che entrare il dibattito teologico, è interessante il risvolto che questo ha nell’A matura (salvezza=felicità). In qualche modo possiamo leggere le confessioni nella chiave della confessione di un eletto (DE Monticeli): un eletto nel seno che c’è una corrente d’amore tra Dio e A, che Lo sente sempre presente (anche in una forma silente, non percepita): sentimento della gratitudine per questa presenza (non sappiamo se A possa essere annoverato tra coloro che sono stati eletti: A riesce a cogliere l’amore di Dio e pertanto a ringraziarlo). Che cosa si vede dal punto di vista dell’eletto? il figlio al prodigo che ritorna alla casa del padre: l’eletto vede una vita che ha un senso, una direzione e può essere letto in una prospettiva unitaria è l’unità, il filo rosso del senso della vita è l’unica cosa che manca al dannato e tale unità è già salvezza (salva è una vita he si è lasciata scrivere); nelle C possiamo ripercorrere una storia che ha una sua prospettiva unitaria e tale unità è quella che manca a coloro che non sono salvi e consegnati alla vita nel peccato Libro X (1.1-5.7): le ragioni di confessare il presente; prima di dedicarsi ad altri temi ritorna a considerare un percorso complessivo che con la morte di Monica si è consumato il momento narrativo; A si identifica con l’orientamento della sua volontà e quindi la sua capacità di provare amore per Dio. Non è più vicenda e narrazione, ma meditazione. Se il percorso per la felicità deve passare per la grazie e la salvezza, i filosofi non sono stati in grado di riconoscere questo nesso fondamentale, contando di poter fare affidamento solo sulle proprie forza (ostinata difesa della natura non corrotta dell’uomo e il suo libero arbitrio: hanno creduto che la felicità fosse alla portata della sola volontà umana e si sono così condannati all’eterna infelicità). La dottrina agostiniana della salvezza non conduce tuttavia a un esito irrazionalistico: A non mette in dubbio mai il valore della conoscenza razionale (deve essere impiegata anche in un percorso che riguarda la conoscenza di Dio): egli non ha in odio la ragione e la fede non ci impedisce di indagare ciò in cui si crede; ciò che conta è l’orientamento, il fine delle conoscenze. A distingue da un lato una conoscenza coltivata in vista dell’acquisizione di un sapere superiore, dall’altro la curiositas, una conoscenza vana, una ricerca senza cuore, priva di una struttura e un fine radicato nella ricerca di Dio, non possiede una spinta verso la conoscenza divina (fine a se stessa)- riflessione in X 35.54-57. La ragione nella sua ricerca può perdere di vista l’obiettivo e iniziare a vagar senza meta; ma tale obiettivo per A non è una questione filosofica generica, ma il preciso senso della verità, ossia la coincidenza di verità e Dio cristiano, non dei filosofi La ricerca e il sentimento della felicità (X 20.29-26.37): la felicità si trova in Dio, il problema è il percorso; non c’è nessun uomo che non la desideri, ma dove l’hanno vista per innamorarsene a tal punto (c’è differenza tra l’essere felici ora il vivere nella felicità). A cerca di capire se sia nella sua memoria e non sa se quel condizione fosse prepeccato. Non ne abbiamo memoria come ciò che si è potuto vedere: è invisibile agli occhi, ma la nozione che bene abbiamo ci basta per inseguirla, ma non per goderne. Allora questa memoria della felicità eè come la memoria che abbiamo della gioia? Sì: non si vede la gioia me si è vissuta ogni volta che si è rallegrati ed è nella memoria per poterla rievocare. È una felicità che sta in una memoria che occorre in qualche modo recuperare. Dobbiamo rivolgerci verso una conoscenza di un sapere superiore pe rinseguire la 32 intellettuale alla fine delle confessioni non può che tradursi in una nuova forma di meditazione: per compiersi e arrivare a quel tempo ritrovato si trasforma in esegesi biblica (non commenta un luogo a caso della bibbia): la “nostalgia” ricerca nella Scrittura il filo che può ricongiungerla a Dio (e che apre la via di ricongiungimento a Dio). L’intelligenza filsofocia si fa intelligenza ermetneutica: risposta dell’indagine strutturale (non è un semplice esercizio sofisticato di lettura, ma una chiave di lettura più avanzata rispetto alla precedente analisi filosofica). Inizio XI (1.3-4): una preghiera che introduce alla meditazione filosofica della parte più difficile. Per arrivare a quel tempo ritrovato di A, egli deve cambiare forma di scrittura, si allarga in suo spazio e si traduce in esegesi biblica (la nostalgia ricerca nella scrittura il filo che può ricongiungerla a Dio, l’ultima ciave che per quanto possibile apre la strada di questo percorso di ricerca: ultima risposta è la Scrittura). L’intelligenza filosofica diviene intelligenza ermeneutica (un punto che A condivide con altri Padri della Chiesa: l’ermeneutica biblica non è un esercizio sofisticato di lettura, ma una chiave più avanzata rispetto alla mera ricerca filosofica) Libro XI (7.9-8.10): intelligenza della Parola: parola di Dio permette un’apertura ulteriore nei confronti di Dio; tema della parola si collega al tema del tempo come successione e orizzonte creatura (nella Scrittura divina nessuna cosa viene detta per essere seguita da un’altra parola, ma tutte vengono dette eternamente: nessuna cosa finisce di essere detta per essere seguita da un’altra parola, non c’è passaggio ma si dicono tutte insieme eternamente). Nella parola di Dio nulla può venir meno, nulla può venir dopo; insufficienza della parola e creatura; tema del ritorno viene ripreso. Da un lato autosufficienza, eternità e compiutezza della parola divina, dall’altro mancanza, aplasia, limite della parola delle creature (lo vedo iprospn qualche modo, ma non so come esprimerlo). Signore ascolta questa mia preghiera e la tua compassione presta orecchio alla mia nostalgia: dammi le parole per poter direda creatura quello che è il sentimento della nostalgia del ritorno. Libro XI (2.2-2.4): insistenza sul tema della parola: A si fa veicolo e voce della parola di Dio, egli afferma la propria volontà già presente di dedicarsi alla meditazione della parola divina (esegeta biblico). Il signore ascolta la preghiera di A, che chiede le parole a Dio per potermi esprimere la propria nostalgia dal divino. A cita il luogo della potenza interpretativa della bibbia (2.8-9). Contemplare le meraviglie; l’interno delle tue parle si apra al mio bussare. Oh udire la voce della tua lode, abbeverarsi di te, contemplare le meraviglie della tua legge fin dall’inizio , quando creasti cielo e terra e fino al regno eterno con te nella tua santa città: la prospettiva della lettura biblica si estende per tutto l’arco della storia biblica: dal principio della genesi, con la caduta del paradiso terreste e il peccato originale, fino al suo termine ossia l’apocalisse (termini della meditazione agostiniana posti fra inizio e fine della Scrittura). É un tempo escatologico che conosce una fine ance grammatica; non è un tempo circolare della prospettiva classica e sopratutto platonica (tempo che avvolge e ripropone come immagine mobile dell’eternità); si tratta invece di un tempo lineare e irreversibile che da un inizio procede verso una fine con la successione delle vicende e dei destini temporale, completamente irripetibili ed è questo tema a dare credito alla nostalgia di A, di cui chiede pietà a Dio. Ogni vicenda e destino individuale è irripetibile: una vicenda che potrà essere ripercorsa, ma mai nelle medesime forme in cui sono state vissute A richiede comprensione dell’origine della nostalgia (XI 2.4) e senza interruzione chiede comprensione dell’origine del cielo e della terra: nel testo Einaudi desiderium non viene tradotto con nostalgia, ma in modo letterale. A cerca di comprendere dove nasca questa nostalgia in maniera imprevista, improvvisa ricomincia la riflessione sulla Genesi: la richiesta della comprensione della nostalgia senza soluzione di continuità si collegano alla richiesta di comprensione dei primi passi della Genesi (3.5: fammi capire e udire come in principio tu creasti il cielo e la terra) come se volesse trovare l’inizio del filo di questo suo sentimento e volesse ripercorrerlo non più dal punto di vista dell’individuo, ma su un piano metafisico. Mosè ne scrisse, ma anch’egli era di passaggio in questo mondo, perché da Dio dovette ritornare a Dio, altrimenti se fosse qui lo tempesterebbe di domande, ma questo non è il momento delle orecchie della carne, bensì di quelle dello Spirito. Solo dentro di sé e nella dimora del pensiero in una lingua che non corrisponde ad alcuna, senza rumore di sillabe Creazione dal nulla e concezione filosofica greca: la creazione cristiana è un atto che dipende radicalmente dalla volontà divina, una libera scelta e desiderio di Dio; un tempo lineare e irreversibile, in cui ogni evento e esistenza è irripetibile (continenza e corruzione delle creature: radicali del problema del male e della sofferenza); niente ha a che fare con la necessità dell’essere e l’assoluta sovrabbondanza dell’Uno (principio di dispersività che dipende dalla stessa essenza dell’uno plotiniano), ma consegue da un libero atto della volontà divina; pertanto il mondo (legato 35 alla temporalità e alla contingenza: si dissolve la necessità della filosofia greca) dipende radicalmente dalla sua volontà Pag 419: terra e cielo creati da Dio (“gridano”) perché mutevoli e soggetti al cambiamento: gridano il fatto di essere stati creati e di non essersi creati da sé ed è testimoniato dalla loro stessa contingenzae la successione, il passaggio; mentre tutto ciò che esiste, ma non è stato fatto (Essere), non conosce un prima e un poi, non ha variazioni; ma non sono né belle buone o esistenti come il loro creatore (indebolimento dell’essere) e non si possono neanche ridurre a una stessa Bellezza o Bontà ciò che riguarda Dio e quelle delle creature: quel poco che sappiamo rispetto alla conoscenza interna di Dio è ignoranza. Cosa significa Amare Dio? E qual è l’orizzonte ultimo di questo amore? Chiesto a terra e ha risposto non sono (la stessa confessione è stata fatta da tutto ciò che è in lei) , mare, abissi: cerca al di sopra di noi: parlatemi del Dio che non siete e a gran voce hanno gridato. Sono le cose stesse a dichiarare la loro dipendenza costante dalla creazione. La creazione non è un evento del tempo, ma è essa stessa a istituire e far partire il tempo in sé (il tempo parte dal momento della creazione). (XI 5.7: la creazione è un fare che si può definire solo negativamente, in relazione alle modalità umane di produzione: non è nel cielo e nella terra che Dio ha fatto cielo e terra neppure l’universo, perché non c’era spazio per un fatto, finché anche lo spazio fosse divenuto un fatto; si allontana da una prospettiva demiurgica. Che cosa faceva Dio prima di creare il mondo? I manichei sostengono che non facesse nulla, ma perché non si è ostinato a fare nulla (cosa gli ha fatto scattare la molla di creare un mondo? e se effettivamente si è verificato una cambio di direzione nell’Essere divino si può parlare di eternità?) e si può parlare comunque di eternità dato che la creazione è giunta in un secondo momento; se nella sostanza divina sorge qualcosa che non c’era prima non è vera l’asserzione che questa sostanza è eterna, se invece la volontà di divina creazione era eterna allora perché non è stato donata alla creazione quella stessa eternità? Perché non c’è una specularità tra il creatore e le creature: non capiscono le modalità di azione di Dio non riuscendo a uscire dall’orizzonte creaturale, il loro cuore svolazza nel tempo (pag 425-6). Per A il loro cuore svolazza nell’agitarsi delle cose invano, mentre cercano di arrivare alla comprensione dell’eterno: come si può fermare questo svolazzare nell’etano stare? Andrebbe fermato in modo che possa comprendere lo splendore dell’eterno stare; se l’uomo rimane fermo riesce a comprendere questa eternità in cui non c’è prima e poi: non si limita a riconoscere la difficoltà per gli enti creati a rientrare nell’orizzonte dell’eternità, ma vuole dare una risposta filosofica. Dà due risposte: la prima è che Dio è creatore e prima di creare non faceva niente (tutto ciò che vediamo e contempliamo è opera di Dio, tutto è opera di un principio del Bene e non c’è qualcosa che vediamo che rimandi a qualche altro principio -polemico in ottica manichea. Possiamo anche dire che non faceva niente, ma poi ha fatto tutto (Dio è creatore e prima di creare cielo e terra, non faceva cosa alcuna: tutto ciò che esiste è opera di Dio). Seconda risposta (più profonda e costituisce la vera innovazione metafisica): se qualcuno rimane nella prospettiva irreale in cui Dio onnipotente sia stato nel tempo deve essere fermato: il tempo non c’era al principio della creazione (Dio ha instaurato i secoli: non si può pensare a un lunghissimo prima antecedente alla creazione, perché prima della creazione non c’era tempo). Non ha nemmeno chiedersi pertanto cosa Dio facesse allora, perché nemmeno c’è un allora. Secondo A prima della creazione non c’è tempo e Dio deve essere pensato nella sua eternità sostanziale (il tempo è il modo di essere delle creature: anzi è esso stesso creatura; tempo comincia con l’universo stesso ed è effetto del lato creatore di Dio, che sta in una dimensione eterna che è altro). Come non siamo in grado di pensare le cose create al di fuori del tempo, ossia la condizione che è la loro e che tutte condividono, Dio non è pensabile al di fuori della sua eternità: tempo è creatura e modo di essere delle creature e comincia con l’universo stesso, effetto dell’atto creatore di Dio. L’atto creato sta nell’eternità, mentre i suoi effetti stanno nel tempo. Dio sovrasta l’avvenire perché è avvenire e una volta avvenuto sarà passato. Un giorno sono anni di Dio e il suo giorno non è un giorno qualsiasi, ma sempre oggi (nella prospettiva dell’eternità l’oggi è un presente sempre identico a se stesso e immobile, mentre nella prospettiva temporale l’oggi era un domani e sarà uno ieri, pertanto un presente fluente. Ora bisogna comprendere che cosa sia il tempo: chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Tralasciando i giochi retorici nell’esposizione agostiniana, l’unica cosa che si può dire del tempo è la sua caratteristica di poter essere misurato (Aristotele: il tempo è il numero del movimento secondo prima e poi; pertanto il tempo è ciò che è misurato e non ciò con cui misuriamo). Non c’è un tempo che possa essere coevo per Dio, perché permane. Non ci interroghiamo nemmeno quando un altro utilizza categorie temporale talmente è quotidiano e immediato, 36 pertanto se nessuno mi chiede cosa sia il tempo e di interrogarsi su questo io lo so benissimo cosa sia (adoperò coniugazioni temporale dei verbi senza nessun problema), ma se qualcuno mi chiede cosa sia e devo spiegarlo a quel punto non so che rispondere, come se non lo sapessi più, tuttavia se nulla passasse non ci sarebbe passato e avvenire. A ancora una volta rifiuta di dare una risposta che stia nell’orizzonte di un tempo umano che riudrai l’eternità che sia come un’apparenza dell’eternità; rimandando all’interno di quello che ha detto ossia che il tempo è creaturale. A non accetta di ridurre la natura del tempo all’idea platonica dello svolgersi del cerchio delle apparenze di una realtà eterna (XI 14.17). Affermo di sapere che se non fossimo nel tempo, se nulla trasocrresse, non potremmo nemmeno parlare di qualcosa che non c’è più e nemmeno pensare l’avvenire o stare nel presente. Ma che consistenza ha il tempo se il passato è qualcosa che non è più e il futuro non è ancora? Qual è l’orizzonte della loro consistenza? Il presente è fatto per trascorrere il passato (altrimenti saremmo nell’eternità): se il presente per stare nel tempo esiste per lasciare spazio al sopraggiungere allora come possiamo dire che in senso stretto esista se esiste semplicemente per non essere più? Problema del rapporto del tempo e del non-essere (il tempo sembra essere introvabile: il presente è inestexo, difficilmente collocabile e sempre al confine con il non-essere. Ad A interessa la labilità ontologica strutturale del tempo. Così il tempo-creatura come tutto ciò che è stato creato da Dio contiene in sé una manchevolezza di essere: per A tutte le cose del mondo sensibile, in quanto mutevoli propriamente non sono o sono quasi nulla, sempre frammiste di essere e nulla. Eppure noi percepiamo il tempo e lo misuriamo nell’anima, ma come potremmo misurare quel che non esiste? Quando stiamo nel tempo lo percepiamo dentro di Dio, ma se diciamo che è così vicino e partecipa al non-essere, come riusciamo a pensarlo? Il tempo sta dentro l’anima ed è una sua distensione o dilatazione (l’anima offre al passato, al presente e al futuro quell’estensione e quella consistenza che nella realtà esterna non hanno e non possono avere) dentro l’anima passato futuro e presente stanno nella coscienza del soggetto, ma non hanno una consistenza al di fuori di questo (l’anima è misura del tempo e in essa sta un “adesso”). Nell’anima rechiamo la memoria delle cose passate e questa è presente: l’anima è capace di permettere lo scorrere del tempo (misuro l’anima quando misuro il tempo): la concentrazione e dell’anima nel presente traduce il futuro in passato, visto come grande magazzino nel tempo e si alimenta delle cose che diventano e passano; tanto è cero che una volta consumato il futuro che questo diventerà passato (ma come fa a crescere il passato se non c’è più?). l’anima è capace di concentrare la propria attenzione sul presente ma allo stesso tempo di proiettarsi verso il futuro con l’aspettativa e verso il passato attraverso la memoria. Il futuro esiste come prospettiva dell’anima che guarda avanti e il Passato esiste nella mente in quanto memoria e ricordo (memoria come orizzonte della coscienza di quanto ci costituisce ricordo-immagine). Quello che perdura e rimane è il presente ossia l’attenzione. L’attenzione di una mente finita, a differenza i quella divina eterna, può concentrarsi su una molteplicità di oggetti solo attraverso questa distensione, soltanto in successione, protraendosi e distendendosi di cosa in cosa. Il protrarsi dell’anima per Plotino è il tempo stesso: il tempo è vita dell’anima (l’anima produce i suoi atti uno dopo l’altro, in una successione sempre variata; con un nuovo atto genera quello che segue e allo stesso modo di un atto di pensiero che segue il precedente, fa venire alla luce un evento che non esisteva prima. Così il protrarsi della vita dell’anima implica il tempo); A: il tempo lungo non può essere riferita al futuro, ma un lungo futuro è un’aspettativa dell’anima (XI 27.36-38): ex della canzone (prima di cantare tutto nell’attesa, ma incominciando a cantare quel tempo presente porta le prime strofe rientrano nella memoria e il ricordo accresce con il continuare dell’azione: l’attenzione è un protrarsi all’indietro alle cose già cantate, e un protrarsi in avanti verso le cose da cantare. XI 29,39: la grazia di Dio è al di sopra di tutte le vite; la vita del singolo uomo è distrazione nel senso di capacità non costante di stare in quell’attenzione e concertazione assoluta che permette di vedere le fila che uniscono passato e futuro, una vita non sempre perfettamente concentrata nell’orizzonte del tempo: Dio è stato capace di raccogliere queste vite distratte (mediatore tra l’Uno e i molti: in molte cose, per molte vie in che per mezzo suo (Cristo) mi afferri a questo che mi ha afferrato a dai giorni antichi io torni in me seguendo l’Uno e dimentichi il passato, non per farmi distrarre dalle cose che verranno e se ne andranno, ma per essere teso a quelle immobili davanti a me; l’uomo riesce ad afferrarsi a dio che lo ha afferrato; lessico filosofico nella riflessione filosofica). A cerca di guardare verso l’alto per trovare una felicità che non passa: nonostante abbia capito come arrivare a quella nostalgia i suoi anni piangono perché è immerso nel tempo e 37 demoni e spesso la loro lettura porta all’impoverimento. Esercizio non dogmatico della ragione. Attraverso questa forte componente autobiografica, ci sono testi moderni dal punto di vita filosofico: una critica della ragione classica di cui mostra limiti e errori, insieme a una critica dell’antropocentrismo (molta attenzione al mondo animale, inteso come mondo altro); riflessione sulla’esperienza della diversità e sui caratteri strutturali della natura. Capace di dire parole nuove su questioni portate avanti in una chiave moderna. La lettura di M porta alla ricostruzione di alcuni temi di fondo della condizione umana, filosofica, etica e politica: forte componente autobiografica, critica della ragione classica, critica antropocentrico, attenzione per il mondo animale e riflessione sulla’epserienza della diversità e due caratteri strutturali della natura umana. Rifiuta a dogmatismo, sicurezze, al rigore della ragione che indebolisce: una vita che è fatta di continui intrecci e configurazioni differenti. Anatomia dell’io, censura delle apparenze, ricerca della serenità e riconoscere il vero essere di ciascuno e adattarsi su questo aspetto (attraverso la costruzione di una condotta di vita che rispecchi questo nostro “vero essere”): può essere visto come un preciso metodo di liberazione del pensiero, che sono apparentemente si veste dei toni autobiografici. I Saggi inaugurano una dimensione critica della modernità: riflessione emancipata dal dogmatismo e in grado di gettare uno sguardo autonomo sui paradigmi classici Michel Eyquem, signore di Montaigne 1533-1592: si sposa in diverso d’università francesi (la più importante Tolosa per giurisprudenza). Consigliere della …, che viene poi unito al parlamento di Bordeaux. La biblioteca di M: fa scrivere sentenze sulle travi del soffitto della biblioteca (1572-80. Di queste sentenze 19 sono tratte dalle Scritture, le altre da classici greci o latini (molte da Sesto Empirico: ipotiposi pirroniane) e l’unica tratta un contemporaneo di M è di Michel de l’Hopital (“la nostra mente erra nelle tenebre, cieca com’è, non può discernere il vero”). La biblio conteneva diversi volumi e nel saggio Della Fisionomia (III, 12) ne indica il numero intorno ai mille disposti su cinque file in una libreria circolare. Egli è stato un grande elettore (soprattutto di testi antichi) e cita secondo un progetto e stile ben precisi, alcuni passaggi significativi inserendoli all’interno dei Saggi, come se fossero un “secondo autore”. Nel 1571, sentendosi annoiato e provato dalla “schiavitù delle cariche pubbliche” decise di riposarsi in seno alle Muse e in tale calma e sicurezza trascorrerà i giorni che gli restano nella speranza che il destino Gil permetta di portare a termine questa esperienza che egli ha consacrato alla propria tranquillità e libertà. Montaigne e lo scetticismo: un autore centrale è Girolamo Savonarola: punto centrale nella storia dello scetticismo: egli consigliava la lettura… Savonarola senza dar seguito… Si parla nel caso di M di uno scetticismo complesso, temperato e non nichilistico (fonti: Socrate in Platone, Academia di Cicerone, Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, Plutarco, Sesto Empirico). Sesto empirico costituisce l’ultimo e più lucido esponente della tradizione scettica antica. Nel ‘400 si verifica un recupero delle tradizioni del pensiero greco fra cui lo scetticismo, in articolare grazie alla traduzione latina delle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, la diffusione degli Academia di Cic e di alcuni manoscritti greci delle Ipotiposi pirroniane e Adversus mathematicos di Sesto Em. proprio con queste opere di Sesto tornano alla luce le più raffinate gnoseologia e epistemologie ellenistiche (Sesto: forte armamento polemico nei confronti della metafisica e della filovia dogmatica - in particolare aristotelica - con l’apologia della relativizzazione di ogni scala di valore. Lungo la linea inaugurata da Cicerone scettico, si delinea una nuova impostazione del sapere e della struttura del sistema delle scienze e del loro rapporto con la fede. La vera svolta della considerazione dello scetticismo avviene con Girolamo Savonarola (1452-1498), il quale consigliava la lettura degli scettici come introduzione alla fede cristiana e commissionò ai suoi seguaci la traduzione delle opere di Sesto (progetto che tuttavia non venne realizzato): sebbene non fosse riuscito a dar seguito a questo suo interesse aveva riconosciuto il loro potenziale contro una visione dogmatica e la possibilità di un loro utilizzo per esortare alla fede Cristina screditando la pagana.(seconda metà 1500 viene tradotto: Adv math 1569 di Gentian Hervet con funzione anticalvinista) Montaigne e l’Apologia di Raymond Sebond (II, 12): regalo al padre intorno al 1540 dell’umanista Pierre Bunel, messo all’indice 1559 per il razionalismo estremo: testo troppo bilanciato dal punto di vista della ragione (ogni mistero poteva essere indagato senza fare ricorso alla rivelazione o all’insegnamento della Chiesa). Theologia naturalis (edito princeps: Liber creaturarum sive de 40 homine; costituisce un insieme di 330 brevi tituli, frutto dei corsi tenuti da Sebond all’uni di Tolosa: autonomizzazione della scienza naturale della teologia; tendenza verso il libero esame dei testi rivelati; slittamento verso forme di immanentismo incompatibili con il cristianesimo) di S (che fu medico filosofo e teologo catalano) non può essere fondata logicamente perché per M la ragione è debole e incerta. Per M quello con Sebond è un incontro/scontro e comincia ben prima della stesura dell’Apologia. M traduce la TN che viene pubblicata e ristampata con rilevanti modifiche di M). Il punto di confronto tra M e S riguarda propria la questione posta dalla stessa teologia naturale, ossia il rapporto ragione-fede, filosofia-teologia. M si serve dello scetticismo per spezzare il presupposto razionale di S (lo dichiara “non presupposto”), insieme al disegno di una teologia naturalis ormai senza alcun fondamento a causa della debolezza intriseca della ragione che è zoppa e incerta (“mi occorre vedere se è in potere dell’uomo trovare ciò che cerca”). Per M il corpo è un elemento fondamentale nella conoscenza e autoconoscenza: anima e corpo benessere da entrambe le componenti, ma è il percorso verso la tranquillità a essere importante e non si tratta di un tragitto semplice. Siamo vento e fumo: l’uomo possiede i mali (M insiste sulla malattie dell’uomo: dedica ampio spazio al corpo e al corpo nella malattia; egli soffriva di calcoli renali ereditati dal padre: esperienza di una malattia non mortale ma dolorosa che diviene una via per dire qualcosa al lettore) e i propri beni per immaginazione (le connotazioni positivi sono vento e fumo, ossia non hanno consistenza: è un limite ontologico dell’uomo). Arroganza del sapere Cicerone è l’esempio di un’umanità animale e disgraziata: occuparsi delle lettere ci possono concedere la comprensione della natura, delle religioni e sono in grado di strappare la nostra anima dalle tenebre. Cicerone però non parla ella condizione umana, ma di una conditio vitae: conoscere la natura, il progresso e la libertà che l’anima può conseguire per arrivare a conoscere tutte le cose; parla di una condizione vi vita che non è quella umana. Cicerone è un uomo altrettanto fragile e deboli come tutti gli altri: può proclamare grandi destino dell’uomo, ma in realtà lui stesso ha subito il limite. Allo stesso modo è impudente la formazione di Democrito che pretende di parlare di tutte le cose. Non ci offendiamo nel volerci paragonare a Dio, mentre ci offende molto il vederci paragonati agli altri animali; pertanto non abbiamo una visione complessiva della creazione. Si tratta di una vanità sciocca che non porta da nessuna parte: scuotere violentemente le fondamenta ridicole su cui si fondano queste false concezioni; l’uomo non riconoscerà mai quel che deve al suo Creatore finché penserà di essere nell’autonomia (sta nella finzione: declama un potere e forza che non possiede e finché crederà di averlo da sé non lo riconoscerà al suo padrone). Uomo denudato a cui viene tolta anche la camicia. Importanza del rapporto tra uomo e animali nell’Apologia di RS: la nostra malattia naturale e originaria è la presunzione, il collocare in un luogo dell’universo troppo alto per noi, non è quello giusto. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo e allo stesso tempo è la più orgogliosa: inchiodato nella putrida parte dell’ultimo piano di un palazzo che è il mondo, mentre con l’immaginazione si proietta oltre la luna dove stanno gli dei (è con l’immaginazione che l’uomo si attribuisce prerogative divine, separando se stesso dalla massa delle altre creature). Fa le parti degli animali che ritiene fratelli (colloca ognuno dove pensa che debba stare), ce vengono gerarchizzati secondo simpatia e affinità. Quando io gioco con la mia gatta chi sa che la gatta non faccia di me lo tesso passatempo che io faccio di lei: elemento della speculari e orizzontalità di rapporto con gli altri animali. Noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto ciò che sta sotto il cielo è sottoposto a una stessa sorte per M (bisogna costringere l’uomo dentro le barriere di questo ordine: il miserabile si sforza di superare tale barriera). L’uomo sta in una condizione assolutamente media, realmente oggettiva e essenziale: la sfrenatezza di pensieri è un vantaggio pagato a caro prezzo (forza dell’immaginazione rispetto ad altri animali) e ha poco di cui vantarsi perché da lì nascono i mali che lo affliggono. La conquista della solitudine, l’autoanalisi dell’individuo M che ha sia un valore personale sia per certi versi applicabile anche agli altri uomini non è un approdo sereno e automatico, ma c’è un elemento di turbamento profondo, ossia l’origine dei mali che affliggono l’uomo (incertezza, turbamento…). Abbiamo per parte nostra incostanza e incertezza, ma anche dolore e preoccupazione per le cose future È credibile che le leggi dell’universo siano le stesse per noi e per tutto il resto delle creature, ma in noi sono perdute: rapporto lineare semplice e diretto con l natura fondamentale, mentre per M i suoi contemporanei sono preda dell’artificio e di un rapporto con la natura falso; una parte importante della sua riflessione è il recupero di un rapporto lineare con la natura. Nei saggi Sui 41 Cannibali e Sulle Carrozze rimanda ancora a questo rapporto non edulcorato, non ancora corrotto con l’orizzonte naturale. Le leggi della natura in noi sono perdute perché la nostra ragione umana si impiccia di padroneggiare e comandare dappertutto offuscando l’aspetto delle cose, che sono guardate attraverso il filtro della vanità. Se contro la vanità M spende diverse pagine, il tema dell’incostanza in M non combatte, anzi lo cavalca mostrando come l’incostanza da un punto all’altro sia ciò che contraddistingue l’orizzonte dell’uomo e di tutti gli enti. Parte finale Apologia sulla possibilità dell’uomo di conoscere le parti più alte dell’Essere: fare il passo più lungo della gamba è impossibile contro natura (l’uomo non può forzare la cornice entro la quale sta): l’uomo potrà innalzarsi a Dio non perché ritiene di avere un ruolo onnipotente e vicino a Dio (come riteneva Cicerone), ma solo se Dio gli porgerà eccezionalmente la mano; si innalzerà abbandonando i propri mezzi lasciando sollevare da mezzi puramente celesti. L’uomo non può conoscere l’infinito: se proviamo a immaginare i saperi della vita divina, questi non sono comprensibili perché. I piacere terreni non hanno nulla in comune con l’infinita e pertanto noi non possiamo nemmeno degnamente comprendere o immaginare la prospettiva infinita; non possiamo fare altro che immaginarle assolutamente altro rispetto alla nostra condizione mortale. Per poter accedere all’assoluta felicità è richiesto un cambiamento radicale. Una natura calamitosa e fragile a differenza degli animali che non pretendono di essere la creatura più perfetta dell’universo e tantomeno simili a Dio. Il filosofo Pirrone, mentre correva in mare i rischi di una grande tempesta, non faceva altro che mostrare a colore che erano con lui, come esempio da imitare, la sicurezza di un porco che viaggiava con loro e guardava la tempesta senza spavento. Quando i veri mali ci mancano, la scienza ci presta i suoi: ossia un elemento di ipervalutazione che invece va reso consapevole. Le bestie con la loro naturalità ci mostrano che la malattia dell’uomo sono i moti dello spirito e l’agitazione dell’anima arriva a danneggiare, oltre a se stessa, anche il corpo. La follia come estrema elevazione della ragione: distanza impercettibile tra uno spirito giunto al suo massimo livello e la follia (es: Torquato Tasso, visitato al manicomio di Sant’Anna). Chi possiede uno spirito tanto vivace e forte, rischia di essere travolto da tale forza. Si tratta di un aspetto fondamentale della “condizione umana”: dalla curiosità, dall’ansia di chiarezza, dalla tensione razionale, si può cadere nella stupidità, cecità e oscurità della ragione (crollo nel contrario: i contrari sono separati da una distanza impercettibile). Quella di Tasso è una doppia perdita: sia rispetto a se stesso, sa rispetto alla propria produzione (il libro è lo specchio in cui l’autore si guarda) Non serve quindi potenziare al massimo la propria curiosità nel tentativo di elevarsi, come sostiene Bruno negli Eroici Furori (tentativo di forzare il massimo grado le facoltà intellettuali): questa è la via della rovina per M (il passaggio da un contrario all’altro è impercettibile e bisogna stare attenti nel non forzarlo, mentre per Bruno si tratta di fare proprio questo in una tensione incredibile verso l’infinito: per M questa è la strada che porta a Tasso). Se proprio dobbiamo avere a che fare con la stupidità è meglio instupidirci per diventare saggi e abbacinarci (accecarci) per saper dirigerci piuttosto che potenziare al massimo le nostre facoltà per poi crollare nella stupidità. L’agitazione dell’anima significa per M rischiare costantemente il crollo nella follia, mentre per Bruno è solo grazie al furore (una peculiare forma di follia) che è possibile arrivare a un orizzonte di verità (come Atteone) pur rimanendo all’interno dei limiti della condizione umana (per Bruno è possibile cogliere per un istante l’infinito mentre per M no e se anche fosse possibile il rischio sarebbe alto). Questi due giudizi differenti sulla follia sono dovuti a concezioni filosofiche opposte, testimoniate da opposte valutazioni sullo scetticismo. È necessario per M un confronto diretto con il limite. Per Bruno invece il furore ha senso perché la verità è una luce sempre presente nell’orizzonte dell’umanità (è un Sole che sempre illumina: solamente attraverso il furore la possibilità di cogliere tale luce si trasforma in realtà): è possibile che l’uomo non la veda, ma è una sua responsabilità il ricercarla e spingersi fino a trovarla. È una luce che non si allontana, ma bisogna trovare i mezzi per coglierla. Bruno pensa a un accecamento necessario: infinito è una strada che può essere percorsa; mentre per M laddove si sperimenta una condizione non umana, non si è più uomini. Insegnamento dei pirroniani: sospensione totale del giudizio (servirsi della ragione per indagare e discutere. Punto che distanzia M e Bruno, la cui posizione riguardo lo scetticismo è l’interpretazione di una rinuncia (non mettersi mai in gioco, non si conosce nulla ,non si può definire nulla e pertanto nella loro concezione i filosofi che asseriscono qualcosa delirano maggiormente di chi non prender eposiioni). Quella che per B era l’arroganza che la filosofia.. per M al contrario lo scetticismo è centrale. 42 capacità di saper ridere, ossia saper godere lealmente del proprio essere e anche saper rinunciar e considerare che tutto ciò che costituisce il nostro mondo (la vita al di fuori del retrobottega), ma anche il saper dare a tutte le cose il giusto luogo e peso. Noi abbiamo un’anima che, sebbene non possa arrivare a conoscere l’Essere, è capace di ripiegarsi su se stessa, può farsi compagnia e trovare in quello spazio la ricchezza stessa dell’anima. È una solitudine che non è oziosa o noiosa, ma ricca e piena. Saggio sull’ozio (I,8): Prima vedevamo il tema del turbamento che è connaturato all’anima stessa e in questo saggio M lega questo tra con quello della solitudine. Recentemente quando mi sono ritirato a casa mia, risoluto per quanto lo potessi a non occuparmi d’altro che di trascorrere in pace e appartato quel po’ di vita che mi resta, mi sembrava di non poter fare al mio spirito favore più grande che lasciarlo nell’ozio più completo, conversare con se stesso e fermarsi e riposarsi in sé medesimo: cosa che speravo potesse ormai fare più facilmente, divenuto con il tempo più posato e maturo. Ma non è tutto così semplice, perché in questa condizione la sua anima come un cavallo che non si riesce a domare, si procura più preoccupazioni ancora e genera quelle chimere e mostri fantastici (elogio di Nietzsche: un dio che è riuscito a superare tutti i suoi mostri e i suoi demoni - memore di questo passaggio). L’anima continua a esercitare l’immaginazione senza ordine o motivo e per contemplare la stranezza ha iniziato a mettere nero su bianco questo confronto con se stesso (sperando di far vergognare il mio spirito rileggendo). Non è una solitudine pacificata, ma attraversata da chimere e mostri fantastici. (Fausta Garavini: Mostri e Chimere: un complicato castello barocco con molteplici ingressi e stanze innumerevoli). Scrittura con tematiche apparentemente non lineare permette di dare forza a una dialettica tra luce della ragione e labirinti mostri e chimere, prodotti dall’immaginazione (è una scrittura che genera mostri e non tutti sono esorcizzati). Grande rapporto autore-lettore Solitudine attraversata da chimere e mostri fantastici (stimolazione dello spirito): mostri e chimere Saggio sull’amicizia (I,28): considerando il procedimento seguito da un pittore in un’opera che possiedo, mi è venuta la voglia di imitarlo. Egli sceglie il posto più bello e il centro di ogni parete per collocarvi un quadro fatto con tutto il suo talento; e il vuoto tutto intorno lo riempe di grotteschi, che sono pitture fantastiche le quali non hanno altro merito che la loro varietà e stranezza (non immediatamente classificabili o collegabili a quel dipinto). Che cosa sono anche questi (i Saggi) in verità, se non grotteschi corpi mostruosi, messi insieme con membra diverse, senza una figura determinata, senz’altro ordine legame né proporzione se non casuale? Questi saggi costituiscono pezzi di una scrittura vagabonda e irregolare che procede per associazioni e ulteriore riflessioni su se stessa senza un ordine un legame o un progetto (sono grotteschi perché assemblati fra loro, eterogenei e disarticolati). Opere bizzarre e slegate, disarticolate anche mostruose per alcuni aspetti che tenta di riprodurre qualcosa di inesistente. M istituisce un parallelismo tra il suo metodo di scrittura e la pittura di un pittore, che per esaltare la propria opera riempi il vuoto tutto attorno di figure grottesche, mostri chimere e fantasmi in cui il merito risiede nella stranezza e varietà.questi saggi sono grottesche: scrittura irregolare che procede per associazioni, senza ordine legame o proporzione senza progettualità Non procedono per temi, continuamente procede per frazionamenti (testo disarticolato che non procede per ordine tematico o un determinato progetto di evoluzione). Ibridazione: testo contaminato da inserti e tessere di un puzzle, in cui ci sono diverse voci oltre a quella di M (citazioni classiche spesso). Incompiutezza (programmatica perché non si arriva mai a una fine): testi che nascono incompiuti, ma che hanno in questa caratteristica un riflesso della tipologia di scrittura e il senso stesso di questa e del suo rapporto con l’autore. Non ho altro sergente di truppa per schierare i miei pezzi, se non il caso. Via via che le mie fantasie si presentano, le raccolgo; a volte si accalcano in folla, a volte si trascinano in fila. Voglio che si veda la mia andatura normale e consueta irregolare com’è. La varietà e l’incostanza sono gli elemtn che caratterizzato maggiormente la natura stessa, l’infinito prodursi e proliferare di sensazioni: la scrittura si delinea e riproduce necessariamente la forma di irregolarità che è l’unico modo per essere fedeli alla verità. Forse mi contraddico, ma la verità non la contraddico mai. Quella incompiutezza dell’individuo M, ma più in generale della natura stessa dell’uomo. 45 La scrittura dei Saggi La forma di scrittura è nuova (come fu nuova quella di A), una scelta innovativa che va messa in relazione al tempo in cui scrive M, ossia il termine dell’epoca umanistico-rinascimentale (si costruiscono in contrapposizione con la cultura del ME). Gli umanisti si costruiscono un’immagine di intellettuale e tradizione letteraria opposta a i secoli bui del ME (questa stessa concezione del ME che oggi ancora abbiamo è prigioniera di quella visione rinascimentale). Il saggio nasce dalla fine delsapere scolastico e nell’ambito di una cultura che ha dato le sue produzione ed è quasi l’anticamera di una nuova stagione, che dal punto di vista sia politico sia religioso si sta per aprire. Il saggio è una composizione libera che non ha uno schema prefissato o una lunghezza stabilita, bensì variabile (a volte breve e quasi aforistica, a volte molto lungo fino a raggiungere le dimensioni di un piccolo trattato). Questa libertà di scrittura si accompagna a una libertà di contenuti: dalla storia alla letteratura, dalla biografia di autori con elementi storiografici all’analisi della stessa interiorità e abitudini dello scrittore M. All’interno di questi contenuti M privilegia una strada incentrata su argomenti morali: è una scelta non obbligata dal genere (la materia p svolta sempre in maniera libera e aperta, tanto da rendere alcuni suoi argomenti “filosofici” per la prima volta, inserendoli così all’intento della tradizione. I vantaggi della forma libera e parta sono: l’approccio libero alla materia (privo di vincoli); atteggiamento sperimentale e problematico (saggio, ossia un esperimento in cui l’autore si pone tutt’altro che in maniera dogmatica, bensì interrogativa rispetto alla materia che affronta: non vuole fornire risposte, ma condividere con il lettore una serie di domande, portando la sua lettura ma senza imporre niente); un tono più diretto, aperto all’ironia e alla confessione personale (apertura personale e scelta di mettersi in gioco; una saggezza che si coloraanche dell’elemento ironico). M inventa il genere letterario degli Essais, ma non la parola che significa esercizio, prova, esperimento, tentativo (verificare, esporsi, tentare, uno sperimentarsi constante di fronte al lettore e di fronte a se stesso, esponendosi al pericolo della delineazione dell’uomo M). M sfrutta l’ambiguità del termine e la sua ricchezza semantica per piegare la propria scrittura, libera da costruzioni e forme codificate, per poter essere il più duttile, ospitale e aperta di modo che l’indagine filosofica non debb essere costretta entro limiti o confini). Si accompagna un precisa scelta stilistica e quasi poetica: la frammentazione riesce a dirci molto più di un trattato omogeneo (poetica del frammento: un labirinto di titoli, che sembrano prometterci una cosa e di fatto ne offrono un’altra). Rivendicazione del frammento: all’intento de testo si rischia di perdersi (ogni volta qualcosa di nuovo) , volutamente labirintica e tale da permettere percorsi diversi e sentieri interrotti. Molti saggi dedicati al Nuovo Mondo (dei cannibali, ma anche delle carrozze sebbene non lo s educa dal titolo). Molto spesso il filo tra titolo e contenuto è molto labile e qualche volta rischia di rompersi o perdersi; molto spesso l’argomento principale viene presto abbandonato, per seguire spunti o associazioni suggerite da una parola o da un concetto (sull’onda di questo pensiero che segue sollecitazioni altre, il filo si perde e si divaga come quando ci si mette a scrivere qualcosa e poi si è distratti e M sceglie si seguire queste divagazioni che molto spesso sono provocate da semplici assonanze o parole, che fa divertire il ragionamento e diviene il cuore vero di del testo). È una scrittura e lettura che ha bisogno di lentezza e di abbandonarsi al ritmo della riflessione: da un tema si presentano sotto- temi che acquisiscono pesi differenti nello svolgersi delle pagine. Ognuno di questi vengono richiamati all’osservazione del lettore in primo piano per poi essere nuovamente collocati sul fondale. Sono excursus che non fanno perdere il filo del discorso. La scrittura di M è una sorta di costruzione musicale che torna e ritorna sul tema che si è dato, via via allungando o accorciando la distanza dalla tonalità fondamentale. Gli studiosi hanno offerto una serie di immagini come il labirinto, la scrittura “a spirale”, “a circoli concentrici” e una architettura incompiuta. M lavora per costruire tale architettura incompiuta e la scrittura è un cammino (il movimento attiva anche il pensiero: non si studia bene stando sempre alla scrivania) senza una direzione precisa, ma che non è inconcludente e permette di arrivare sempre a un luogo non tanto distante da quello che ci si sarebbe prefigurati. Con mezzi diversi si arriva allo stesso fine (I,1): chi ci dice che la strada giusta sia una soltanto? La strada per arrivare a una concezione (di umanità e moralità in primo luogo) può essere sempre diversa, ma nessuno è in grado di darci la certezza del mezzo trattato e dell’unicità della sua efficacia. Dietro a questa frammentazione e incompletezza, c’è una precisa idea di filosofia e di come si debba esporre la propria proposta: il gusto del frammento è tutt’altro che fine a se stessa, ma quanto più aderente possiamo trovare rispetto all’oggetto dell’indagine, ossia l’uomo- M (uomo mediocre, esemplare non perfetto, ma in grado di dire qualcosa agli altri uomini). M è uomo che non può essere raccolto in una scrittura anche non corrisponda alla sua natura 46 frammentata, incostante e incompleta (legame forte tra scrittura e l’oggetto della scrittura). La scelta del frammento corrisponde al limite dello sguardo dell’uomo, il limite delle sue possibilità di comprensione, pertanto rappresenta una consapevole autolimitazione dello sguardo. Deve ridurre le sue ambizioni di riflessione e non può farlo in maniera compiuta: questa dichiarazione è necessaria per non cadere nell’arroganza e nella presunzione della nostra comprensione. Quando M parla del suo metodo di scrittura: prendo a caso ul primo argomento. Tutti mi vanno ugualmente bene. E non mi propongo di trattarli per intero. Infatti non vedo il tutto di nulla. E non lo vedono nemmeno quelli che promettono di farcelo vedere. Non solo può partire da punti di vista diversi, ma non pretende nemmeno di esaurire i temi trattati, proprio perché non potrà mai vedere tutto di un determinato argomento (e nessuno lo può fare, nemmeno coloro che dicono di farlo: stare nel limite, rivendicarlo e parlarci di questo). Rapporto con gli autori: la scrittura di M si costruisce in un dialogo con quegli autori della biblioteca di M (parte del luogo della sua anima). Egli parla di questi autori e li definisce voci rigorose che permettono a M di dire di più di quanto non avrebbe potuto fare da solo (legittimamente possono esser pensati come co-autori senza ai quali il testo di seccherebbe). Autori che condividono posizioni, con i quali si confronta e talvolta si scontra anche. Si tratta di una scrittura polifonica, un con-filosofare, che chiama a raccolta la tradizione aprendo vere e proprie finestre inter-testuali (non semplici da cogliere), per continuare a intrecciare con essa un dialogo profondo. Autori per la maggior parte classici (rapporto con la classicità già forte nella sua infanzia pretesa dal padre e sviluppata da lui con il tempo): su tutti Plutarco è “il mio uomo” con cui condivide un rapporto eccezionale; Lucrezio (molto presente il De rerum natura: presnete nella riscrittura dell’esemplare di Bordeaux e riferimento nel rapporto vita-morte circuito esistenza all’essere in ragione della morte di altri esseri; Diogene Laerzio, Cicerone, Cesare, Aristotele, ma anche Agostino. Non molti sono i moderni e contemporanei, ma di questi la maggior parte sono storici come Guicciardini e Bodin. A differenza di quanto acceda in A nel dialogo all’interno del testo, M convoca esplicitamente i suoi riferimenti letterari e testuali e la loro voce risulta in primo piano sia che diano sostegno alla voce di M, sia che costituiscano un controcanto (vedi pag 565 del giudicare della morte altrui). È un presenza più esplicita e disarticolata priva di quella risposta che invece A vuole fornire attraverso la sua vocazione a Dio. Se volessimo circoscrivere l’individuo a un unico profilo, non faremmo altro che stringere l’acqua del fiume in un pugno (appena lo si chiude, si perde) e pertanto l’unico modo per essere fedeli è la registrazione di questo passaggio. M ci avverte di non considerare filologico e sacrale il suo rapporto con i libri: leggere troppo, studiare troppo intristisce il corpo. Lo studio può denutrite il corpo (tema 500: Erasmo da Rotterdam sugli umanisti del suo tempo: critica i grammatici e gli eruditi in senso stretto, con un latino ridicolo e caricaturale, una lingua chiusa in se stessa non capace di confonrtarsi e ritrovarsi nella realtà incapace di fornire conoscenza e socialità). Non a caso M scrive che egli non studia mai dopo cena. Lo studio può diventare un movimento languido e fiacco che non riscalda. Scegliere una sola parte e dedicarsi solamente a quello finisce con il denutrite il corpo. Libertà nel rapporto con i libri: non ho potrebbe vivere nel suo retrobottega, ma è libero nel suo rapporto con le fonti, se un libro lo annoia lo mette da parte e ne prende un altro e ci si applica solo in sei momento in cui la noia del non far niente comincia a prenderlo. Della fisionomia (III,12: importante perché descrive la figura di Socrate e offre le motivazioni per cui costituisce un punto di riferimento positivo per M): il titolo riflette e non riflette l’argomento , perché Socrate è una figura del tutto diversa da come le sue caratteristiche fisionomiche suggeriscono a primo impatto (brutto con il naso schiacciato, abbastanza repellente: invece Socrate forza la sua immagine e figura per divenir e qualcosa di altro). Questo saggio ad ogni modo riguarda anche il rapporto ce M intrattiene con le fonti e la sua scrittura. Le fonti non oscurano il suo proposito, ma anzi al contrario è il far parlare gli altri che gli permette di parlare di sé: quello che io voglio è fare mostra di ciò che fa parte della mia natura pertanto l’uomo M deve venir fuori e non si può nascondere nelle citazioni (potenziamento della voce grazie alle citazioni). Questo mio di ocnforntarsi con i classici è diverso da chi ci cita Platone e Omero senza averli letti. Ci sono testi di sole citazioni e queste sono un collage ma M disprezza questo genere di scrittura (non li sfoglio neppure): egli scrive un saggio (egli scegli il confronto con gli autori in quanto guida). Non è che lui voglia mettere autori e testi altrui per nascondersi, egli non ammette che questi sopprimano la sua voce. M prende a prestito testi altrui non per mostrare come si scriva un 47 Ponendo l’anima al centro delle se considerazioni, M si fa erede di A e Petrarca: ciò che viene meno è il modello pedagogico di matrice agostiniana. È un modello di conoscenza interiore differente dal modello agostiniano: viene meno l’idea di un percorso ascensivo che A propone; l’essere capaci di guardarsi indietro da quell’approdo (ossia passaggio tra IX e X libro), ossia riuscire a guardare le cose su quel limite che si dà tra tempo ed eternità (visione di ostia, paradigma illustrato attraverso quell’episodio e collocatosi nell’orizzonte della creazione, dove Dio può essere colto e abbracciato, lasciandosi rendere consistenti e persistenti, non rimanendo completamente immersi nella dimensione creaturale descritta da A nei primi nove libri). M sceglie la strada orizzontale del vagabondaggio e non può darci la risposta alla fine di un percorso, perché i percorsi sono molti e non è possibile rispondere senza ricadere in quella dimensione dogmatica che M respinge. M vuole essere osservatore, analista e narratore dell’uomo: “gli uomini sono diversi e tuttavia ogni uomo porta con sé i segni e i caratteri dell’umana condizione”. La differenza e la varietà infinita di forme è il modo di essere della natura e lo registriamo anche se non siamo in grado di riferirlo a un modo di agire divino (per le ragioni che abbiamo detto); ogni uomo può parlare accanto agli altri, condividendo questo atteggiamento con gli altri. M definisce i Saggi come consustanziali al suo autore: non c’è un’opera di M al loro interno, ma M stesso. Il libro diventa qualcosa di assolutamente altro rispetto alla carta e inchiostro di sei grammatici e filosofi che credono di sapere tutto, ma non sanno niente. RAPPORTO TRA AUTORE-SCRITTURA-LIBRO A pone la propria esperienza per mostrarla agli altri uomini, donando quasi una possibile via per il recupero del proprio essere, mentre M preferisce essere un osservatore e narratore dell’uomo, con la consapevolezza della diversità di ogni uomo rispetto agli altri, ma assumendo allo stesso tempo l’esemplarità di ogni uomo della condizione umana tanto varia senza aver la pretesa di farsi paradigma, ma legittimato a parlare agli altri uomini. Dell’esperienza (III,13) Il compito del filosofo non è comporre libri come sfoggio di cultura, ma di comporre i propri costumi (caratterizzazione morale: comporre la propria vita): no pretesa di essere qualcosa di diverso da ciò che si è; perfezione divina si raggiunge nel essere più aderenti possibile al nostro modo di essere (pretendano di essere divini perché non siamo in grado di essere uomini). Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si vive. È una perfezione assoluta, quasi divin, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre e usciamo fuori di noi perché non sappiamo cosa ci sia dentro. Così abbiamo un bel montare sui trampoli (ricerca di condizioni meta-umane), perché che sui trampoli bisogno camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo siamo seduti sul nostro culo (massimo riferimento alla concretezza della nostra esistenza). Non modello paradigmatico come in A: saper comunque con questi limiti e riserve costruire comunque modello comune e umano. Cercare di sfuggire alla condizione umana è follia (come per Bruno): invece di trasformarsi in angeli secondo le loro pretese, divengono bestie e M guarda con inquietudine questi amori “trascendenti” Del governare la propria volontà (III,10): Animucce nane e meschine che pensano di essere straordinarie e aver svolto un lavoro eccellente, di diffondere il proprio nome per aver fatto bene il proprio lavoro, per aver giudicato un fatto secondo giustizia, mostrano tanto più il culo quanto più sperano di alzare la testa. Questo minuto agir bene non ha corpo né vita, svanisce sulla prima bocca e non gira che da un orecchio all’altro (questo agire ha l’aspettativa di vita del passaggio da un crocicchio all’altro). Invece ha corpo e vita il saper vivere bene da uomini. Vedo alcuni che mutano la propria sostanza in quella di altrettante nuove figure e nuovi esseri per quante sono le cariche che assumono, e che s’impretano fino al fegato e agli intestini, e si portano dietro la loro carica fino alla latrina. Io non posso insegnar loro a distinguere le scalpellate che li riguardano da quelle che riguardano la loro funzione o il loro seguito, o la loro mula. Il sindaco e Montaigne sono sempre stati due con una netta divisione. Ossequi sempre alle cariche e mai alle persone (che ne rimangono privi nel momento in cui cedono la carica): M critica coloro che rivestono la loro persona delle cariche assunte, quanto in realtà queste, come gli ossequi che ne derivano, solo legati al ruolo e non all’individuo; mentre M ha cercato di non farsi travolgere dalle sue cariche e mantenere la propria dimensione. 50 In Dell’esperienza M scrive che le vite più belle sono quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e stravaganza. A partire dalle considerazioni sull’impossibilità del cogliere l’infinito, del rapporto orizzontale con le altre creature, ci è precluso il progresso verticale, mentre l’unico possibile è quello verso la propria anima. Mettersi fuori di sé e sfuggire all’uomo è pazzia (vedi confronto con Bruno e concezione del Furore come straniamento e alienazione da se stessi per arrivare alla contemplazione dell’assoluto); invece di trasformarsi in angeli si trasformano in bestie; invece di innalzarsi, si abbassano. Questi umori trascendenti mi inquietano, come i luoghi elevati e inaccessibile. Tendere le proprie facoltà intellettuali al punto di perderle come T Tasso; M dichiara persino la sua inquietudine nei confronti degli umori che guardano verso la trascendenza e un orizzonte di assoluto e infinito. Uno squilibrio che porta a perdere questo sguardo corretto ed equilibrato sul sé per provare a guardare oltre: necessario mantenimento di equilibrio di anima e corpo. Del pentirsi (III,2): quella che si mantiene in ordine fin nel suo intimo è una vita rara; un compito fondamentale ma non automatico: mantenersi in ordine sin nel profondo è il compito che ogni uomo dovrebbe realizzare, ma non è semplice. Maschera: è difficile essere sempre se stessi specialmente nella vita comunitaria (nei rapporti con gli altri), ognuno di noi ha parte in questa commedia (indossi una maschera che lo rappresenti: essere un personaggio onesto), ma interiormente (dove tutto è concesso e nascosto), qui bisogna mantenersi in regola: ognuno rappresenta una parte più o meno corretta, ma dobbiamo sempre essere trasparenti a noi stessi all’interno della nostra dimensione interiore (non fingere nemmeno con noi stessi). Il luogo in cui dobbiamo e possiamo essere assolutamente noi stessi è dentro il nostro petto, all’intento di una dimensione interiore che nessuno può imporci di mascherare; trascorrere la vita umana conformemente alla propria naturale condizione: scienza ben più universale, più grave e più legittima (della prospettiva di soggiogare il mondo: di coloro che si reputano eccezionali, o compatrioti di Dio). Il pregio dell’anima non consiste nell’andar in alto, ma nell’andar con ordine. Il rapporto tra morte e vita costituisce il suo orizzonte: dell’esperienza tematizza che il saper morire bene e vivere bene sono due facce della medaglia che è il compito che ci spetta. Nel saggio Filosofare è imparare a morire M svolge, recuperandolo in parte da Lucrezio (da cui recupera molti temi ma questo è fondamentale), il rapporto circolare tra vita e morte (circolarità di due opposti che appaiono polari, ma che in realtà si alternano formando un circolo, la dialettica dei principi contrapposti: la morte di un ente, di una sezione, di una figura che sta all’interno dell’universo è la morte per il singolo individuo, ma apre anche a nuove forme di vita (sia fine sia inizio). Non c’è una parte della vita che costituisce la crescita e maturità e successivamente si inizia a riflettere sulla morte (come se potessi costruirla bene nella ultime frazione della nostra vita) per M completamente diverso. Nel momento in cui ci si approccia alla vita si inizia a confrontarci con la morte: non appena si nasce si inizia a confrontarsi con la morte (si inizia a morire non appena si è nati: bisogna proiettare la consapevolezza nella scala dell’infinito, mai pienamente comprensibile dalla mente umana). Il rapporto tra morte e vita è strutturale. La varietà e ricchezza dell’universo non può essere esaurita completamente nella nostra comprensione (De l’infinito universo e mondi di Bruno: il cristianesimo ha costruito un sistema in cui la paura del dopo la morte mantiene all’ordine, mentre il sapere che non si muore del tutto e che si torna alla sostanza è fonte di felicità:ecco non parliamo di morte ma di mutazione che è ciclico e torna sempre su se stesso. Vera beatitudine dell’uomo nel riconoscersi come momento dello sviluppo della stanza e godersi di tale occasione data; libera l’uomo dall’angoscia cieca del futuro, facendolo godere del suo presente sebbene circoscritto e fragile. Mentre consideriamo l’orizzonte complessivo di una stanza che non si spegne mai, troveremo che in tale universo, non c’è morte perché la sostanza è conservazione totale dell’essere). La filosofia di Bruno libera l’uomo dalla paura di quello che accadrà dopo la morte: ecco la ragione per cui non dobbiamo temere che alcuna cosa si disperda o si annulli, o si diffonda in un vuoto che lo cancelli per sempre: nn si parla di morte, ma di una mutazione ciclica che ritorna sempre su se stessa per cui la vita della materia c’è sempre (la morte è solo dei singoli enti, mentre la sostanza non conosce morte a solo mutazione: per la mutazione la sostanza persevera sempre come una uguale a se stessa). Questa filosofia conduce alla vera beatitudine che può essere dell’uomo, ossia saper godere dell’occasione che ci è data, liberando l’uomo da un dolore cieco verso le cose future, facendolo godere della propria condizione sebbene sia circoscritta nel tempo e fragile; perché la providenza o fato o sorte, che 51 dispone della vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né permette che più sappiamo dell’uno che ignoriamo dell’altro: il non sapere osa succederà in questa ottica riesce a trasmettere un senso di tranquillità al posto dell’angoscia delle religioni. Mentre consideriamo più profondamente l’essere e la sostanza in cui siamo immutabili (orizzonte di una vita che non si spegne mai), troveremo non essere morte, non solo per noi ma né veruna sostanza; mentre nulla sostanzialmente si sminuisce, ma tutto, per infinito spazio discorrendo, cangia il volto. Non c’è più la morte nella sostanza, in cui nulla muore, ma tutto cambia nello spazio infinito (liberazione dell’uomo dal timore del castigo e gli insegna come sul dorso della sostanza si configurino enti che hanno un’occasione di vita irripetibile e fare quanto più per potenziarla). M sta all’interno di una prospettiva simile (dal punto di vista morale più da quello della struttura metafisica): il nostro orizzonte è quello della nostra vita e la nostra morte significherà la fine di tutto. Dobbiamo pensare la nostra vita come una estensione uguale tra timore e passato: abbiamo paura del futuro, ma non rimpiangiamo quel tempo passato in cui ancora non eravamo ancora nell’Essere. Dovremmo collocarci in un’orizzonte in cui la nostra morte sia inizio di altra vita. La morte è ordine di altra vita e ci sono similitudini nelle modalità con cui da un lato ci affacciamo alla vita e dall’altro ci avviciniamo alla morte: pianto, fatica, dolore fisico (entrando alla vita ci siamo spogliati del nostro antico velo, di ciò che eravamo prima e non saremo più quando saremo morti). Se saremo adeguatamente preparati, non dovremo avere paura della morte, perché si tratta di un istante; quello che conta è l’affacciarsi alla vita, non importa la sua durata (dal punto di vista della morte lunghezza o brevità della vita non sono metri di giudizio, perché non possono riferirsi alle cose che non sono più; Aristotele dice che sul fiume Ipani ci sono animali che vivono un solo giorno: quello che muore alle otto del mattino è giovane, mentre quello che muore alle cinque di sera è decrepito). È un problema di parametri e prospettive all’interno dei quali la vita è collocata. Chi non si burla di veder considerare fortuna o sfortuna questa durata in un istante? Se si conforta una vita lunghissima con l’eternità, o anche soltanto con animali che hanno una prospettiva di vita ben più lunga della nostra, la nostra esistenza è come quella degli animali che vivono sul fiume citati da Aristotele. Dagli imparare dobbiamo apprendere la tranquillità del rapporto con la morte. Filosofare è imparare a morire: affine a Bruno senza concetto di sostanza universale, ma lucrezianamente (fonte che entrambi condividono); abbiamo timore del futuro (non rimpiangiamo con dolore a quando ancora non eravamo stati presenti nell’essere: guardiamo solo avanti). La morte è origine di altra vita; non può essere dolorosa perché istantanea (vivere a lungo o poco sono unificati dal punto di vista della morte, per cui la lunghezza della vita non rappresenta un criterio). Mette in bocca alla natura un discorso rivolto all’uomo (voce della natura ritorna nel saggio sull’esperienza): saremo in grado di mitigare questa angoscia del futuro e quindi trovare un morte serena guardando ad esempio agli animali. La natura dice che bisogna uscire da questo mondo come ci siamo entrati: come siamo passati dal non-esser alla vita senza ricordare spavento, così dovremo avere la stessa attitudine nel passaggio successivo. La nostra morte è una componente della vita del mondo (cit Lucrezio: mortali vivono di scambi mutui: il sacrificio dell’ano è apertura alla vita dell’altro). Avere terrore della morte significa fuggire la condizione umana: assumere la condizione umana significa assumere questa presenza della morte in tutto il circolo della nostra vita (l’opera della vita è costruire la propria morte: la morte è condizione della vostra creazione, è una parte di voi; voi sfuggite a voi stessi). Quanto più si accetta questa circolarità tanto più si produce serenità. Questo vostro essere, di cui godete, è ugualmente ripartito fra morte e vita. Il primo giorno della vostra nascita vi avvia a morire come a vivere (…). La continua opera della vostra vita è costruire la morte(…). Siete morto dopo la vita, ma durante la vita ieri morente, e la morte colpisce ben più duramente il morente del morto (la sofferenza sta tanto più dentro l’orizzonte della vita stessa, in cui godiamo e soffriamo pienamente della nostra sensibilità) e in modo più vivo e essenziale. Se avete tratto dalla vita, ne siete sazio, andatevene soddisfatto; se non avete saputo usarne, se essa vi era inutile, che vi importa di averla perduta, per che farne la volete ancora? (Se non si è stati in grado di vivere adeguatamente perdere la perdita o il mantenimento della vita sono prospettive analoghe). La vita è un’occasione, una possibilità (non nell’orizzonte bruniano degli infiniti cicli infiniti: sentimento drammatico dell’unica occasione possibile che può essere spesa positivamente ed è nostro compito farlo; mentre M non ha una metafisica così strutturata): la vita può essere sede del bene e del male (non è né bene né male in sé), ma sta all’uomo decidere le proporzioni tra questi due poli. Un anno costituiscono già l’intero ciclo del mondo: quattro stagioni come quattro le fasi della vita (infanzia, adolescenza, virilità e vecchiaia del mondo: senescenza tema rinascimentale), dopodiché tutto tornerà: tutto fa la sua 52 uomini, pertanto promessa di vita ulteriore e possibilità di ricchezza anche dal punto di vista dell’accesso all’essere degli altri individui. Seneca epistole 61 e 77: non è un percorso che abbia bisogno di straordinarietà delle circostanze per essere un capolavoro, qualunque vota può essere straordinaria. Non è quel momento che ci rende capaci di contraddistinguere come eccezionale la nostra vita: la vita è tutta interni qualsiasi istante finisca e l’uomo è interno in ogni suo momento. Ciò che non è dovuto alle circostanze esterne è ciò di cui siamo capaci noi. L’uomo è tutto in ogni momento. Vita come giardino imperfetto. Limitata, circoscritta, ma anche continuità e pienezza, promessa di ulteriore vita e ulteriore perfezione nonostante il giardino. Come è possibile rappresentare la costruzione del giardino imperfetto e allo stesso tempo non essere circoscritti nell’orizzonte autoreferenziale. È la dialettica tra vita-morte (tema di fondo di tutto il De rerum natura) a fondare la descrizione del passaggio a cui M ritorna continuamente nei saggi. Tema del passaggio: nel saggio Del pentirsi ci presenta la sua anima a cui è affidato il compito importante come un’anima che non può mai stabilizzarsi (non può mai trovare un punto di consistenza definitivo)- in rapporto al tema dell’esperimento (del saggio), dell’analizzarsi fino in fondo. Se l’anima si potesse stabilizzare e fermarsi su un punto di consistenza definitivo, io verrei meno (verrebbe meno la stessa consistenza del saggio, dall’analisi del sé), perché verrei meno rispetto a quello che è l’ordine della vita e della natura, ossia continuo movimento e riconfigurazione: l’anima si scioglierebbe. Aderendo al ritmo dell’intera natura l’anima di M è sempre in cambiamento, si allena, si addestra sempre in prova. Il saggio è una forma di analisi, di indagine, perfettamente aderente al ritmo della realtà e dell’anima e l’unica possibile per offrire tale continuo mutamento. Se si potesse compattare verrebbe meno la stessa prospettiva del saggio. Il saggio ci restituisce la continuità variazione dell’anima di M: una forma letteraria che corrisponde all’oggetto che deve illustrare e descrivere. C’è però un’occasione particolare rispetto alla composizione degli Essais che rimanda a un’assenza, una perdita, quella dell’amico, Etien de la Boetie (che costituisce una figura importantissima). M lo conobbe al Parlamento di Bordeaux, era umanista, intellettuale, scrittore politico: M scrive che se non gli fosse mancato questo amico (improvvisamente e in giovane età) non avrebbe scritto gli Essais (Saggi, I, 40, Riflessione sopra cicerone). Mi sarebbe piaciuto scriver in forma epistolare se vessi avuto un amico a cui rivolgerle: ebbi un amico, un interlocutore reale perché non se ne fa nulla del discorrere al vento o con interlocutori fittizi. Amicizia breve che dura 5 anni (durata poco e iniziata tardi ma un legame umano eccezionale: 1558-1563), un vincolo inviolabile, l’unione di due anime. Dell’amicizia (I,28): un’amicizia così completa e perfetta che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile e, fra i nostri contemporanei, non se ne trova alcuna traccia: determinati rapporti sono tanto rari e richiedono il concorso di talmente tante cose che è già tanto se se ne verifica una ogni tre secoli. Il primo libro degli Essais viene elaborato per celebrare la memoria di Le Boetie: l’idea era quella di lasciare al centro un vuoto che sarebbe dovuto essere riempito da un testo di La Boetie, discorso sulla servitù volontaria (strumento di contrapposizione tra il sovrano francese e le linee a lui avverse: testo di carattere politico spiegato in funzione antitirannica, in cui contrappone la condizione dell’uomo libero e la servitù del cortigiano. Questo testo avrebbe dovutocostituire il ritratto intorno a cui M colloca le proprie grottesche (parete bianca con quadro bellissimo al centro e intorno decorazioni). Il progetto iniziale era questo: al centro l’opera di La Boetie che celebra l’opera e il genio di questo giovanissimo scrittore politico e magistrato (invece poi inserisce il testo che celebra l’amicizia) e intorno le bizzarrie, le variazioni (il cui unico merito consiste nella varietà e stranezza rispetto al testo dell’autore: no ordine particolare, perché devono incorniciare il cuore dell’opera) di M (Saggi, I, 28, Dell’amicizia); la voce di M sarebbe servita come contraltare a quell’opera. Non troviamo il discorso della servitù, perché nel frattempo il libretto era stato pubblicato senza consenso dei familiari (ne circolavano alcune copie manoscritte) dalla parte protestante in funzione antitirannica. M vuole prendere le distanze dall’uso politico del testo dell’amico, pertanto cambia idea e inserisce all’interno un elogio dell’amicizia (e sonetti dell’amico), ossia il legame più libero che possa darsi tra due individui e perciò inconcepibile in un regime tirannico; pertanto svolge in maniera più intima un tema che era stato caro a La Boetie (quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo, senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno, e che l’hanno mescolata ad altra farina del loro sacco). Nel 1576 il testo di La Boetie era stato pubblicato in un volume collettivo i scritti sediziosi contro la monarchia dei Valois con il titolo Le Contre Un. Legame che non può essere concepibile in un regime tirannico. Tema che era stato caro all’amico. 55 Pertanto bisogna tenere presente come la voce non sia tanto quella di M all’interno del primo libro, quanto quella dell’amico. Dell’amicizia (I,28): quelli che chiamiamo amici e amicizie, sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza e vantaggio, per mezzo di cui le nostre anime si tengono unite. Nell’amicizia che mio parlo, esse si mescolano e si confondono l’una nell’altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovare più la cucitura che le ha unite. Ci dice che bisogna intenderci sul concetto stesso di amicizia, che non è familiarità, condividere luoghi di lavoro, ma un legame attraverso il quale le anime si uniscono, si mescolano e si confondono l’una nell’altra. Rapporto di assoluta indistinzione. La natura del sentimento non si può esprimere: se mi si chiede perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: perché era lui, perché ero io (aggiunto successivamente nella riscrittura dell’es di B). Solamente con l’esemplare di Bordeaux M cercherà di trovare l’espressione di tale sentimento, mentre in precedenza si limitava a definirlo ineffabile. Le nostre anime hanno camminato così unite, si sono considerate con affetto tanto ardente e con pari affetto si sono scoperte l’una all’altra fin nel più profondo delle viscere (quella parte più profonda e impenetrabile dell’anima anche e soprattutto per noi stessi), che non solo io conoscevo la sua come la mia, ma certo mi sarei più volentieri affidato a lui che a me stesso: questo passaggio rappresenta il massimo dello smascheramento. Il libro acquista un ruolo di interlocutore dell’autore stesso. Montaigne dice che tutti i saggi sono una cornice. Riflessione sopra Cicerone (I,40): gli sarebbe piaciuto pubblicare i saggi in forma epistolare perché pensa di essere bravo nella redazione di lettera; era necessario un interlocutore amico, che lo sostenne e attivasse, ed egli lo ha avuto. Non è possibile per lui costruire ragionamenti con interlocutori fittizi (amicizia che costituisce un alter ego): questo riprende il tema della volatilità e caducità di tutti i ragionamenti compresi quelli di M. Dell’amicizia (I,28): amicizia legame attraverso il quale si legano e mescolano le anime, confondendosi reciprocamente senza poter più trovare il legame che le ha unite; un rapporto talmente intrinseco che non si è in grado di ripercorrere i motivi per cui tale legame è nato. Quando riscrive e corregge l’ultima edizione dei saggi (solo nell’esemplare di Bordeaux). Mentre si consuma il vuoto dovuto alla morte dell’amico, percorre un’analisi dello specchio, ossia con chi parlare e con chi percorrere questo analisi di sé per togliersi la camicia: se il compito è lo smascheramento e l’interlocutore lo permette e lo facilita, nel momento in cui questo viene meno, il libro come specchio (e non più l’amicizia) diviene importante (presentare i saggi non più in forma epistolare, ma come uno rispecchiamento). Tema del cuore di cristallo, trasparente: esistono rapporti che rendono possibile fare il proprio cuore trasparente (non sono rapporti frequenti, ma unici che non vanno confusi con quei rapporti familiari con cui in qualche modo si mantiene sempre una maschera e si procede sempre con prudenza e precauzione perché il legame non è tanto annodato da non diffidarne). Esistono rapporto che rendono possibile rendere il proprio cuore trasparente, un cuore di cristallo, ma tali rapporti sono assolutamente unici e non vanno confusi con i rapporti di consuetudine. L’amicizia perfetta è un rapporto totale: possiamo avere molti amici ordinari, ma solo un rapporto di amicizia straordinaria. Nei rapporti ordinari si ama ognuno per determinate caratteristiche specifiche (bellezza, dolcezza dei costumi, liberalità, fraternità…), ma quell’amicizia che possiede e incatena la nostra anima deve necessariamente essere in un rapporto 1:1. Il segreto che ho giurato di non svelare a nessuno altro, posso comunicarlo a chi non è un altro: è un grandissimo miracolo il raddoppiarsi (in un rapporto di questo tipo nulla è inconfessabile). In verità se confronto tutto il resto della mia vita, che pure mi è trascorsa dolce facile e salve la perdita di un tale amico, esente da gravi dolori, piena di tranquillità di spirito, essendomi accontentato dei miei agi naturali e originali senza cercarne altri; se la confronto, dico, tutta quanta ai quattro anni in cui mi è stato dato di godere della dolce compagnia e familiarità di quell’uomo, essa non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa: questo saggio è costruito secondo un percorso ascensivo verso la celebrazione della straordinarietà di questo rapporto; la morte di La Boetie costituisce la cesura profonda della sua vita, poiché da quando lo ha perso non fa altro che trascinarsi languente; e perfino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il dolore della sua perdita. Di ogni cosa facevamo parte a metà; mi sembra di sottrargli la sua parte. Eravamo abituati a essere uno lo specchio dell’altro che ora mi sembra di essere dimezzato e aver perso parte di me stesso 56 (riferimento a Cicerone, Etica nicomachea di Aristotele e ode di Orazio: anima metà di me). M sembra aver perso una parte di se stesso, di essere dimezzato. Confronto saggio sull’amicizia e Confessioni libro IV, 4.7-10.15: nel IV libro A parla di un suo amico, coetaneo, cresciuto insieme: amicizia forte e dolce. Questo amico si ammala, colto da una febbre violenta e muore. Ricordo dell’amico e sentimento che A descrive: tristezza calò buia sul mio cuore, ovunque guardavo c’era morte. Il mio paese divenne un patibolo e la casa paterna mi era penosa e strana: tutto quello che avevo condiviso con lui , senza di lui si convertiva i uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano tra loro e non poteva più tornare (magna quaestio per me stesso: non riesce nemmeno più a interrogarsi sulla natura del sentimento e sul dolore dovuto a questa perdita). L’anima non sapeva rispondere sul perché fosse triste e non obbediva nemmeno se si affidava a Dio: perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. (Agostino non rinuncia a condurre un’elaborazione del lutto; è un affermazione strana e straordinaria di A; non c’è speranza in Dio che possa curare il dolore legato a una persona concreta e particolare: il dolore umano di A non è solo sperimentato ma offerto al lettore a cui confessa che in quel momento la speranza in Dio non era sufficiente; A è la complessità dell’animo umano). Non tempo di indagini ma confessioni: ero infelice come ogni mente conquistata dall’amore di cose mortali, perché quando poi le perde è fatta a pezzi; non soltanto sente l’assenza della perdita, ma è come se gli cadesse addosso tutta l’infelicità provata ancora prima di perderle (sperimenta la presenza della morte, ma peggio era non poter vivere con l’altro). Peggiore della morte era non poter vivere con l’altro: stupito che vivessero gli altri mortali quando lui era morto amato come un immortale. Stupirsi che ci possa essere vita o felicità quando muore chi si pensava immortale e sono vivo io che ero lui (la morte di A è la morte dell’altra metà di colui che aveva tanto amato). Follia non sapere amare gli uomini come uomini, sciocco l’uomo insofferente dei limiti umani e così ero io: furore, respiro, pianto e turbamento; mi portavo dietro anima mutilata e non trovava pace in nulla, tutto faceva orrore; persino la luce: qualunque cosa che non fosse lui era opprimente oltre ogni possibile sfogo di pianto. Il sentimento così forte e incancellabile che la morte non solo non riesce a cancellare, ma potenza era un sentimento sperimentato da chi non conosce risarcimento del dolore: non potevo stare in me stesso o allontanarmi da questo (ero luogo gravo a me stesso). La vita perduta dei morti che si fa morte dei vivi: ciò che nasce e declina, nascendo comincia a essere e raggiunge completezza, che ogni volta toccata muore (tutte le cose non possono che morire: questa è la misura che Dio ha concesso alle cose che si succedono a vicenda per formare l’universo, di cui sono tutte parte). Soltanto nella presenza di Dio in cui sono create possono comprendere e conoscere il proprio limite. Beato chi ama Te e ha in te un amico. La prospettiva in cui A è incentrato: le cose per il fatto stesso di essere carte non possono che morire e nemmeno la prospettiva del destino a cui è legata l’anima dell’anima affievolirà questa mancanza. Il dolore ineludibile dentro l’orizzonte delle creature (amore indissolubile verso qualcosa che è fugace e dissolubile). Un legame finito e dissolubile non può darci una felicità assoluta o vera, perché ancora all’interno della creaturalità in cui necessariamente tutto si dissolve: restano pur sempre rapporti fra creature (se A avesse detto che bisogna rassegnarsi alla perdita e cercare l’amore in Dio non sarebbe stato altro che una predica, mentre lui descrive prima il proprio dolore e poi la prospettiva divina senza giudizio). La questione della morte si lega a quella dell’amicizia. Nell’orizzonte del finito tutti rapporti sono destinati alla morte: egli non cancella o misconosce le cause per cui ha sofferto, le cose umane a cui si è legato nella prima parte della sua vita maggiormente rispetto a Dio stesso, ma ne riconosce il dolore legato all’affezionarsi a qualcosa che fa parte di un’orizzonte creaturale destinato a finire, mentre per perire meno bisogna legarsi a ciò che non finisce, dunque Dio. La risposta di A non diverge dal punto di arrivo delle Conf e ci permette di vedere come un elemento estremamente umano provato da A, come è l’esperienza del lutto, sia qualcosa che è legittimamente entro il margine delle creature. Narrazione orientata: i punti su cui far cadere l’accento sono pensati (racconta e mostra questa sua amarezza non dimenticata: morte che ci coglie quando si sperimenta il senso della morte e può essere riscattata se inserita nel contesto dell’eternità e la constatazione della nostra finitezza, ma questo recupero della prospettiva divina non ci rende non-uomini, è necessario il passaggio in questo dolore (comprendiamo l’inconsistenza del nostro passaggio, ma non possiamo non essere creature: l’esperienza va considerata all’interno dell’orizzonte creaturale). L’amicizia va oltre la morte, ma la si sperimenta al astio grado con la persona concreta presente: per A se non usciamo 57 da vera soffocata del tutto; tanto è vero che ovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane e frivole imprese. In questo confronto operato da M la concezione di differenza come inferiorità viene ribaltati: è l’uomo europeo a essere inferiore in confronto alla conformità con la natura e interezza armonica dei nativi su cui M fonda la sua antropologia (la cultura europea è anti-physis: si sono allontanati troppo dalla natura). Non solo gli indigeni sono portati allo stesso livello degli europei, ma nel confronto è l’Europa ad avere qualcosa da perdere. L’artificio dell’Europa del ‘500 non potenzia la natura, ma è luogo di corruzione; non a caso la tessitura semantica e linguistica dei Cannibali utilizza termini negativi: imbastardire, corrompere, alterare, inclinare, mascherare… mentre per contrasto M afferma che per gli uomini del nuovo mondo non esistono parole per significare la menzogna, il tradimento, la diffamazione, l’avarizia e l’invidia ben presenti nella cultura europea (sono le malattie della vecchia Europa). Questi popoli sono stati poco modificati dallo spirito umano e sono molto vicini alla semplicità originaria: sono governati da leggi naturali e non si sono ancora imbastarditi con gli artifici europei; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Un’umanità originaria, pura e corretta, aderente alla natura stessa che non merita di Veire a contatto con un’umanità che è quasi alla fine della sua storia di imbastardimento e menzogna. M auspica una sorta di utopia: l’incontro positivo di elementi di quel nuovo mondo con il mondo europeo, ma secondo M sarebbe stato meglio che gli antichi (es. Alessandro Magno) fossero venuti a contatto il nuovo mondo e sarebbe stato un incontro tra grandi modelli di umanità, mentre per noi si tratta di un rapporto troppo asimmetrico. La cultura europea è sotto il segno dell’artificio, della decadenza e della corruzione della ragione, sempre più dogmatica; mentre il Nuovo Mondo è aderente alla natura e la segue, ambisce a una adesione alla ragione universale ed è pienezza di umanità (questo seguire la natura per M vale sia per gli indigeni sia per gli uomini dell’antichità classica). M si concentra sul cannibalismo, ossia un uso “barbaro” giudicato con orrore dall’europeo: in realtà la pratica del cannibalismo sta all’interno di una precisa idea, poiché trattano bene i prigionieri con tutte le modalità che possono immaginare e poi li ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme e ne Ivano pezzi ai nemici assenti. Non lo fanno per nutrirsene, ma per esprimere una suprema vendetta. Ha a che fare con l’onore di questi popoli: si sta all’interno di un codice particolare di un orizzonte morale (e dato che non siamo in grado di comprenderlo lo etichettiamo come barbaro). M afferma che forse se qualcuno guardasse i nostri usi dall’esterno potrebbe attribuire la stessa barbarie che associamo al cannibalismo: c’è più barbarie nelle guerre di religioni francesi (la loro è una barbarie naturale, mentre la nostra è metodica e sistematica: siamo ciechi delle nostre barbarie). I selvaggi vanno a Ruhan e vedono il Re Carlo IX che cecante le bellezze della Francia e viene chiesto ai selvaggi stessi un giudizio su quanto avessero potuto vedere (essi hanno una maniera di parlare secondo la quale chiamano gli omini la metà degli altri: elemento della condivisione): notavano la stranezza di un re così giovane circondato da consiglieri così anziani (privilegio dell’età rispetto al privilegio del potere), c’erano fra i francesi uomini pieni fino alla gola di agi e che le loro metà stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà, e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia (tema dell’ermafrodito: necessario il complementarità delle due metà per trovare un’identità compiuta). Lo stesso cambiamento di paradigma sta all’interno di qualcosa che non è aderente alla natura degli uomini e pertanto per M non ha senso il cambiare tanto per farlo (senza tenere a mente le conseguenze future), ma vede molto bene le asimmetrie presenti all’interno della società francese e sono suscitate dallo sguardo dell’altro: la nostra disuguaglianza appare inaccettabile agli occhi di coloro che non sono ritenuti nemmeno uomini. Però purtroppo non portano i calzoni: sono nudi e pertanto non possono stare in società come noi. Delle Carrozze (III,6): alla descrizione della scoperta di un paese “infinito, ingenuo e fanciullo” segue il resoconto del genocidio di un mondo che, non appena trovato (non sono nemmeno 50 anni) è già quasi scomparso. Il nostro mondo esporta la malattia (non solo malattie virali, verso le quali erano completamente indifesi) e contagia quello nuovo con la sua corruzione morale e se anche avessimo insegnato loro qualcosa (abbiccì) lo hanno pagato a caro prezzo. Lo abbiamo fustigato e sottomesso non con disciplina e bontà ma con violenza (senza alcuna nostra superiorità in virtù naturali o di valori). Adorni di una pelle lucente e dura e di arma tagliente, contro di loro che per il prodigio dello splendore di uno specchio o di un coltello (…) aggiungetevi fulmini e tuoni di cannoni e archibugi contro popoli nudi (quella stessa nudità che prima significava l’originarietà e aderenza alla natura, ora rappresenta un elemento di fragilità): questi 60 popoli erano totalmente accecati dalla potenza e splendore; battaglia impari. Se gli antichi avessero conosciuto gli uomini del nuovo mondo ora il rapporto non sarebbe così asimmetrico e ci sarebbe stata la possibilità di comunione: non è avvenuto sotto mani che avrebbero dolcemente levigato e dissodato quello che c’era di selvaggio, e fortificato e fecondato i buoni semi che natura vi aveva posto, mescolando non solvato alla coltivazione delle terre e all’ornamento delle città le arti qua, nella misura in cui vi sarebbero state necessarie, ma mescolando anche e virtù greche e romane a quelle native del paese! Idea di una nuova umanità che sarebbe potuta nascere ma non è mai nata e si è verificato uno scontro violento e impari. Sarebbe stato progresso e miglioramento se i nostri esempi e modi di fare avessero indotto i nativi all’imitazione della virtù per poi stabilire un’intesa fraterna. Sarebbe stato facile giovare dallo scambio con anime nuove, desiderose di apprendere e in grado di restituirci le loro così belle disposizioni naturali. Ci siamo serviti della loro fanciullezza invece per indurli a ogni sorta di crudeltà, mostrando di noi solo quella faccia. Città rase al suolo, popolazioni sterminate, milioni di uomini passati a fil di spada e la più ricca e bella parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe. Vili vittorie. Questo mancato confronto costituisce un’occasione persa per l’umanità intera: quello scambio alla pari avrebbe davvero permesso un nuovo orizzonte di umanità anno superiore allo sforzo estremo degli antichi. La figura di Alessandro Magno (nominato 71 volte nei Saggi) serve a M pr affermare tale principio cruciale dell’Umanesimo: le culture non vivono se si ripiegano su se stessi, ma si sviluppano solo attraverso questo “sfregare” di anime e cervelli gli uni con gli altri, ossia attraverso circuiti di continui scambi; mentre l’isolamento rende una cultura sottilmente irrilevante ed esposte sia alla decadenza sia alla barbarie. Riflessione di grande intensità e modernità per mettere in crisi l’uso tradizionale della ragione (tema della consuetudine) e denunciare quasi l’asimmetria dei rapporti di forza esercitati dall’Europa. La presentazione di M invita il lettore a entrare nel gioco dell’autore e divenire “autori di autobiografie” nel tentativo di comprendere cosa sia questo “sé” che è oggetto della sua opera. Una complessità di modello e scrittura. Eric Auerbach afferma che quella di M non è né una tradizionale autobiografia né un diario (sebbene ci sia una scrittura quotidiana), ma è un testo che si costruisce su se stesso e volta per volta all’interno vincolato alla sua intrinseca incompletezza (riflesso dell’autore) e pertanto non è possibile uno sguardo retrospettivo, fondato su un’acquisizione certa, come quello agostiniano. Rispetto al tema delle grottesche e delle stranezze in Delle preghiere (I,56): propongo delle fantasie informi e insolute, come fanno quelli che prospettano questioni dubbiose da dibattere nelle scuole; non per stabilire la verità, ma per cercarla. Con atteggiamento dubbioso e scettico: è una ricerca e indagine di senso non per stabilire una verità (a differenze del modello della quaestio scolastica), ma per cercarla: luogo di ricerca e non di possesso (fantasie che non possono che essere informi e insolute perché il testo è un luogo di costruzione, non di proclamazione). Dell’esperienza (III,13): è debolezza personale della che ci fa accontentare di ciò che altri o noi stessi abbiamo trovato in questa caccia di conoscenza; uno più abile non se ne accontenterà: si tratta di una caccia/ricerca mai finita. C’è sempre posto per chi segue: c’è sempre qualcosa di nuovo nell’infinità e ci sono sempre strade diverse (per cui si può arrivare allo stesso risultato), c’è sempre un altro modo di fare o vedere le cose e non solo tra individui, ma anche in noi stessi: non c’è fine alle nostre ricerche; il nostro fine è nell’altro mondo. C’è sempre un altro noi che segue il nostro io di ieri: finché siamo all’interno della nostra dimensione umana, la nostra strada non può che essere una ricerca senza fine (la fine della ricerca si darà quando saremo qualcosa di assolutamente altro). È segno di grettezza di mente quando ci si accontenta o di stanchezza (il fatto che abbiamo deciso di arrenderci). Nessun ingegno generoso si ferma a se stesso: aspira continuamente ad altro e va oltre le proprie forze; se non avanza e non si sforza e non arretra e non si scontra, non è vivo che a metà: bisogna accettare questo movimento contraddittorio e incostante, altrimenti non accetteremmo una nostra stessa condizione intrinseca che rende le nostre ricerche senza limite e senza forma. M riprende il tema classico della meraviglia, che da Aristotele in poi diviene quasi il sentimento cardine della ricerca filosofica. Dobbiamo entrare dentro l’immagine di sé che M ci offre come una ricerca continua di se stessi che procede eternamente senza fermarsi, ma secondo moti irregolari senza modelli da seguire o scopi predefiniti da soddisfare. Questo è vivere pienamente (contraddistinto da meraviglia e ambiguità). La mente non fa che indagare girando senza sosta, tessendo e intricandosi nelle proprie cose e ci si soffoca (come bachi da seta). Un topo nella pece (cit Erasmo: rimaniamo soffocati come topi catturati che rimangono impigliati nella loro trappola). Crediamo di scorgere da lontano qualche segno di chiarezza che ci sembra 61 chiarita una volta per tutte, ma questa è illusoria e immaginaria. La ricchezza e la turbolenza dei nostri stessi pensieri la travolgono e mentre si corre incontro a tale chiarezza lontana, tante difficoltà tagliano la strada, impedimenti e nuove ricerche che la sviano e la ubriacano. Una ricerca della ragione ch era un lato h l’indagine come sua modalità naturale, ma allo stesso tempo una ricerca che non può essere lineare e qualsiasi acquisizione di verità non può essere che immaginaria: siamo noi problema a noi stessi e rischiamo di soffocarci in questo sistema di continue acquisizioni che non ci permettono di fermarci. Eccomi dietro a rifinire quest’uomo: attraverso questo lavoro di aggiunta e rifinitura, questa forma si trasforma in sostanza acquisendo consistenza e il contesto in cui ognuno di noi è immerso si trasforma in qualcosa di più definito (la sete diviene natura, imagine più ferma ma semplicemente perché c’è un lungo uso retrostante, un’acquisizione dei caratteri di sé che trovano una minor incostanza degli altri e non maggiore costanza). Anatomia dell’io Dell’affetto dei padri per i figli (II,8): se non mi salvano stravaganza novità, che sono solite dar pregio alle cose, io non uscirò mai con onore da questa sciocca impresa; ma essa è tanto fantastica e presenta un aspetto tanto lontano dall’uso comune, che questo potrà darle il salva condotto. È un umore malinconico, un umore quindi molto contrario alla mia indole naturale, prodotto dalla tristezza della solitudine nella quale qualche anno fa mi ero immerso, che mi ha dapprima messo in mente questa fantasia di mettermi a scrivere. M riconce di essere fuori dai canoni del bon-ton letterario: registra che l’umore dominante è quello della malinconia, essendo immerso nell’introspezione tanto forte da produrre tristezza e perfino depressione. Sprovvisto di ogni altra materia (e dello stesso La Boetie) ho presentato a me stesso me, come argomento e soggetto. È il solo libro lmodno della sua specie: disegno rozzo e stravagante. Non c’è altro da notare se non tale bizzarra (tema della diminutio). A un argomento tanto vano e vile il miglior artefice del mondo non avrebbe saputo dare una foggia che meriti che se ne faccia conto. Una scrittura strana pe run soggetto non particolarmente interessate: anatomia di carattere psicologico (M inaugura la tradizione dell’anatomia psicologica che troverà grand fortuna in Francia). È M stesso che usa tale lessico “anatomico” e i termini con cui definisce il suo progetto sono evocativi: sondare fin nell’interno, un continuo spiarsi più da vicino, ricercarsi nelle viscere, per penetrare le profondità opache delle sue pieghe interne. Una nudità che dove non può essere eseguita dal punto di vista corporeo, può essere indagata psicologicamente. M gioca sulla necessità di questo tipo di nudità: Dell’ineguaglianza che esiste fra noi (I,42): perché quando valutate un uomo, lo valutate tutto avvolto infagottato? Ci mostra parti che non sono sue e ci nasconde quelle sole attraverso cui possiamo giudicare davvero quanto valga. Misuratelo senza i trampoli (lessico che rimbalza da saggio a saggio: trampoli come condizione fondamentale dell’uomo, ma che deve tener presente che i piedi che stanno sopra sono i suoi; M tesse la tela attraverso spie lessicali, ma ci sono sempre strade diverse). In Dell’esercizio (II,6): uomini tra i più saggi e più devoti hanno vissuto sfuggendo ogni atto esteriore, campioni di una esposizione di pariticolari (negandosi all’esteriorità: parcellizzandosi e dissimulandosi dietro una rete di particolari incapaci di arrivare a quell’unità profonda, campioni di esposizioni e non di ricerca). Io mi mostro intero: uno skeleton dove appaiono le parti di quella figura, dove appaiono vene muscoli tendini, ogni pezzo al suo posto (è una struttura organizzata dove ogni particolarità è sì espressa, ma sempre all’interno del suo scheletro, all’interno del quale ha sede precisa e funzionale). L’atto di tossire ne rivelava una parte (dentro e fuori metafora: anatomia psicologia, ma anche una serie di verità o papprofnditmenti che troviamo da una parte all’altra); l’atto di impallidire o di avere palpitazioni del cuore, un’altra, e in modo incerto. Non sono le mie azioni che descrivo, ma me stesso, la mia essenza. L’anatomia c’è ma è differita, ossia assegnata a momenti e sezioni differenti; nella lettura dobbiamo riuscire a vedere l’uomo M in camicia e non limitarci a cogliere le sue particolari propensioni o azioni. Quando parla di microvicende relative a storia o biografia non sono mai puntini fini a se stessi ed isolati, ma si collegano e rimandano a peculiarità proprio dell’uomo M e devono offrire sempre un tratto dell’essenza dell’autore. Non è un registro di eventi, ma una descrizione di se stesso. Scrive bisogna tirar via questo sciocco cencio che ricopre i nostri costumi, che ricopre la nostra stessa verità, essenza. Si collega a due punti: complessità della natura umana (una natura che non si può scindere senza perdere l’unità complessa di uomo, che è anima e corpo; la dimensione fisica lo rende affine agli altri naturali - fa parte anche di quell’aderenza alla natura cui M tiene molto - e rinunciare alla corporeità significa tralasciare una 62 posseduta dal corpo e non come scienza applicata a descrivere e a manipolare il corpo. M sulla base dell’esperienza ha imparato che spesso siamo troppo impazienti: i mali hanno una vita un corso e una morte e le malattie hanno una struttura medesima a quella degli animali. Quando una malattia insorge si comporta esattamente come noi: hanno la loro sorte e i loro giorni limitati sin dalla nascita; chi prova ad abbreviarle imperiosamente con la forza, troncandone il corso, le allunga e le moltiplica, le irrita invece di calmarle. Anche la malattia inizia a morire con il suo nascere: bisogna cedere ai mali in modo naturale secondo la loro condizione e la nostra. Dobbiamo lasciare il passo alla malattia: trovo che si fermano meno da me, che le lascio fare. Mi sono liberato da alcune di quelle che si giudicano più ostinate per la propria estinzione, senza aiuto e senza arte e contro le regole. Si tratta di una posizione forte: si affida alla natura che comprende meglio li affari suoi. E non è la medicina che necessariamente ci salva dal corso della natura, quanti non hanno finito per morirne, pur avendo tre medici attaccati al culo? M elenca una serie di patologie che ha lasciato invecchiare e morire in se stesso di morte naturale: sono scomparse quando ha imparato a condividerle con il suo stesso corpo e sono diventati abitudini. Il corpo si ammala e invecchia: siamo fatti per essere anche malati a dispetto di qualunque medicina. Si tratta di un atteggiamento controcorrente rispetto al Rinascimento scientifico (che iniziava a godere dei primi sviluppi della descrizione del corpo umano e della chirurgia). Gli anatomisti confutano le affermazioni di Galeno e le superano con precisione, M si affida a un socratismo che vede nell’individuo stesso vivente la cura di regolare lui stesso gli aspetti della sua vita, respingendo le ambizioni quasi tracotanti della conoscenza del corpo oggettivato. M onora della medicina il suo proposito, ma la medicina che si è sviluppata non la può stimare, perché i medici si sono impossessati dell’esperienza del corpo e rendono malata la salute per impedire che uno possa sfuggire alla loro autorità. Pretendono di aver eil dominio completo della fisiologia e patologia del corpo e divengono giudici del corpo. M dice di essere riuscito a individuare le sue patologie da sé: è come ha assunto totalmente la malattia, ha fatto propria completamente anche la salute senza regole e altra disciplina che non fosse quella delle sue abitudini e del suo piacere. È falso anche il richiamo all’esperienza che la medicina rivendica: Platone aveva ragione nel dire che per essere medico delle malattie da curare si sarebbe dovute esperirle tutte sulla propria pelle (bene che prendano la sifilide se vogliono riuscire a capirla). I medici fanno la stessa descrizione dei nostri mali che fa un banditore di città che avvisa di un cavallo o di un cane perduto: tale peso, tale altezza, ma se glielo si fa vedere non lo riconosce di certo (il medico è come vincolato dall’astrattezza dei suoi protocolli e regole). Da un lato critica le leggi e i protocolli della medicina perché fissi e immobili, dall’altro sottolinea della natura e delle azioni dell’uomo il perenne mutamente: le leggi sono schemi triplo rigidi per aderire correttamente a una natura che muta perennemente, sono astratte e rigide incapaci di aderire alla cifra stessa della realtà, ossia la variazione. Perché M inizia con la legge e la critica? Nella Francia del suo tempo secondo lui ci sono centomila specie e fatti particolari e i legislatori ci hanno appiccicato centomila leggi, ma che cosa ci hanno guadagnato? La legge per quanto scelga di andare nello specifico non riuscirà mai a ricoprire l’infinità varietà di azioni umane e pertanto non aderirà mai perfettamente alla mutevole realtà. Questa rincorsa a individuare e legiferare (M insiste sulla capillarità della legge) su quello che l’azione umana può produrre è il segno dell’imperfezione e incapacità delle leggi di aderire alla variazione: la moltiplicazione delle nostre invenzioni non raggiungerà mai la varietà degli esempi; c’è scarso rapporto tra le nostre azioni, che sono sempre in perenne mutamento, e le leggi fisse e immobili. Questo esordio che M dedica nel saggio dell’esperienza alla legge si proietta a un altro orizzonte che occuperà la restante parte del saggio: anche la medicina è legge e promuove procedure fisse e immobili che non si adatta alla variazione dell’esperienza corporea individuale e solo il malato può registrare e sperimentare. La regola ci corrode: è incapace di abbracciare la variazione e ci imbriglia in un orizzonte che per certi versi è assimilabile a quello della consuetudine. M rivendica la sua volontà di esprimere pezzo per pezzo il suo parere: ricerca una posizione di assoluta sincerità e aderenza alla nostra anima che non può conoscere perfetta conformità di sé a se stessa: non solo trovo scomodo college le nostre azioni le une alle altre, ma una per una trovo difficile definirle propriamente per qualche qualità principale, tanto esse sono duplici variegate e fluttuanti. M si vanta di abbracciare le comodità della vita (fa parte di una parte di società agiata e non nega mai di appartenere a questa e di volerlo fare). La tensione in base alla quale M costruisce il saggio è una rigidità che pretende di trovare stabilità dove stabilità, solidità sono caratteristiche non sue: siamo vento dappertutto; e il vento inoltre è più saggio di noi perché non 65 si dà da fare a mormorare, ad agitarsi, ed è pago dei propri compiti, senza bramare la stabilità, la solidità, qualità non sue. Anziché affidarsi alla medicina per i suoi malanni, M decide di proporre un registro della sua malattia, una memoria su carta e appena si aggiunge qualche nuovo sintomo, lo scrivo. Questa è l’attitudine con cui dobbiamo affrontare la prospettiva di scioglierci e sfuggire a noi (bisogna tendere bene l’anima per farle sentire come se ne scivola via: la prospettiva dell’amore può essere colta solo se si sta pienamente all’interno della prospettiva della vita; costruirla bene per farsene accorgere di quando viene meno): la mia vita espello poco a poco, non senza un po’ di naturale dolcezza, come un escremento ormai superfluo e ingombrante. Quando ballo, ballo; quando dormo, dormo, anche quando passeggio da solo in un bel giardino, se i miei pensieri si sono occupati di avvenimenti per qualche tempo, per un altro po’ li riporto alla passeggiata, al giardino, alla dolcezza di quella solitudine a me stesso. Concentrandosi su quell’attività presente che sia il ballo o la passeggiata: è importante saper riportare i propri pensieri all’attività che si sta compiendo per poterne godere a pieno. Amo la vita e la coltivo per come a Dio è piaciuto concedercela: M non desidera una natura differente da quella che ci è stata data. Io accetto di buon cuore e con riconoscenza ciò che la natura ha fatto per me, e me ne compiaccio e ne gioisco: non si può pretendere una natura differente da quella che Dio ci ha donato e tra le nostre malattie, la più inconcepibile è disprezzare il nostro essere, cioè voler essere altro da ciò che si è. Ignorare la vita e passare il tempo nel vocabolario di M hanno un’accezione negativa: passo il tempo, quando è cattivo e scomodo; quando è buono, non voglio passarlo, lo riassaporo, mi ci soffermo. Coloro che ricercano passatempi non pensavo di avere miglior frutto dalla vita che lasciandola scorrere, evitandola e ignorandola come una cavalcata nel tempo che ci lascia in mano l’assoluta inconsistenza. Per M la vita è apprezzabile anche verso la sua fine e ci sono state offerte tante circostanze favorevoli che se ci sfugge dalle mani dobbiamo compiangere solo noi stessi. Io mi preparo a perderla senza rimpianto: non dispiacersi di morire si addice propriamente solo a quelli che hanno il piacere di vivere. Questo saggio rappresenta il congedo di M dall’opera: vedo la mia vita breve nel tempo, voglio accrescerla nel peso, voglio fermare la rapidità della sua fuga con la mia rapidità nell’afferrala, e con l’intensità dell’uso compensare la fretta del suo scorrere; quanto più è breve il possesso della vita tanto più devo renderlo profondo e pieno. Non lascio arraffare il mio piacere dai sensi, vi associo la mia anima, non perché vi si impegni, ma perché vi si rallegri, non perché vi si perda, ma perché vi si trovi. Nel saggio dell’esperienza M assume come figura di riferimento Socrate, nel quale si trova la vera medietà. Celebrazione della figura di Socrate come compendio della moralità del filosofo mostrata da M. Rispetto a S, M costruisce un dittico negli ultimi due saggi del III libro, due saggi in cui S riveste un ruolo molto importante. Nel primo, Della Fisionomia, S è trattato in relazione al tema della fisionomia corporea e lo fa anche Bruno in due luoghi dei suoi dialoghi italiano, parlando della diversità che si dà fra la fisionomica schiacciata (S uomo brutto, con viso schiacciato e rispetto al quale Zopiro aveva predetto essere un’anima non nobile e dedita all’amore verso ragazzi, quindi quasi perverso; mentre la condotta socratica aveva rovesciato questa predizione). Bruno costituisce solo uno dei diversi autori he hanno sviluppato tale tema legato alla figura di Socrate; Cabala del cavallo Pegaseo: non si deve ave per universale, che l’anime seguano la complessino del corpo, perché può essere che qualche più efficace spiritual principio possa vincere e superar l’oltraggio che dalla grassezza o altra indisposizione di quello gli venga fatto. Bruno cita proprio l’esempio di S e la predizione di Zopiro che lo aveva giudicato in base alla mera struttura del suo corpo e volto come uomo stupido, effeminato, innamorato dei ragazzi e incostante: Socrate ne è cosciente, ma questa base di partenza negativa veniva temperata dallo studio della filosofia che gli permise di avere una base solida contro l’impeto delle indisposizioni naturali. L’esempio di Socrate ci mostra come non ci sia nulla che non possa essere superato dallo studio e dall’amore verso la filosofia. Anche in Spaccio de la bestia trionfante: S approvò il giudizio di Zopiro sulla sua natural inclinazione ma era comunque stato in grado di modificare s stesso e la sua natura. M in della fisionomia fa un discorso simile: S è stato esemplare perfetto in ogni grande qualità e mi rincresce che gli sia toccato un corpo così brutto e disdicevole alla bellezza della sua anima. La natura con lui è stata ingiusta: è vero che spesso tra corpo e spirito c’è una conformità, ma ci sono anche eccezioni (tra cui lo stesso Etien de la Boetie). Socrate sosteneva che la bruttezza del suo corpo rivelasse anche un tale corrispettivo nell’anima, se egli non l’avesse corretta con l’educazione. Mentre M non aderisce a questa affermazione: ritiene che egli nel dire questo scherzasse e la sua anima, tanto eccellente, dovesse essersi fatta da sola. Quindi se Bruno sostiene come lo studio possa far superare ogni indisposizione naturale del 66 corpo, M sottolinea il fatto che S costituisca una delle eccezioni in cui anima e corpo non sono conformi l’uno all’altro e non ha avuto bisogno di lavorare su di sé per mostrare questa differenza. L’elogio si pone sulla stessa lunghezza d’onda del discorso sul potenziamento della natura nei confronti dell’artificio (uomini nuovo mondo e questa è altra declinazione): a noi sembra che le cose buone sia solo quelle gonfiate artificialmente, mentre quelle che si celano nella naturalezza e nella semplicità sfuggono al nostro sguardo, perché ci lasciamo facilmente distrarre dall’artificio esteriore. Socrate fa muovere la propria anima con un movimento naturale e comune: ha in bocca persone semplici. Sotto una fora così vile non avremmo mai scorto la mobilia e lo splendore delle sue ammirevoli concezioni: M critica gli uomini del suo tempo, che non riescono a vedere la ricchezza a meno che non sia ostentata e ritengono basse tutte quelle dottrine che non sono elogiate; è un mondo fatto per l’ostentazione: gli uomini si gonfiano di vento e si muovono a balzi come i palloni (tutti talmente pieni di sé che non riescono a camminare e devono balzare come i palloni). Socrate come antimedicina e come antifilosofia: modello contro questa inclinazione all’ostentazione del suo tempo. Quindi Socrate rappresenta il superamento della linearità e conformità tra esterno e interno, aspetto esteriore e qualità d’animo. Socrate “sileno”: dignità boschive legate al mondo naturale che sta nella campagna e nei boschi, divinità di secondo livello associate a comportamenti burleschi e licenziosi, alla mancanza di moderazione e di equilibrio, avvinazzate, non particolarmente bello. Erasmo da Rotterdam negli Adagi (sono una raccolta di proverbi che E colleziona e commenta): i sileni di Alcibiade: l’immagine si Sileno può essere associata a una cosa che dall’aspetto appaia dozzinale e ridicola mentre risulta mirabile più da vicino, ossia una persona che dalla veste e dalla faccia dia ben poco a vedere della ricchezza che contiene del’animo. E fa riferimento a un luogo platonico, in cui Alcibiade parlando di Socrate dice che questo è un esempio classico ci cileno, perché nei mercati venivano vendute tali figurine di legno, che rappresentavano Sileni (brutti), ma erano delle custodie e aperte rivelano un’immagine divina. Nel simposio quando Alcibiade fa l’elogio di socrate, lo paragona a quei sileni, perché quando lo si guardava da vicino S rivelava l’asimmetria della sua anima rispetto alla bruttezza esteriore. Erasmo: Chi avesse valutato Socrate, come si dice, dalla buccia, non l’avrebbe pagato un soldo. Aveva una faccia da bifolco, un’aria bovina, il naso schiacciato e pieno di moccio. L’avresti detto un buffone tardo e ottuso. Vestiva in modo trasandato. Parlava un linguaggio semplice, dimesso, da uomo del popolo: non aveva mai in bocca nient’altro che cocchieri, artigiani, lavandai e fabbri (fonte di M: uomo che parlava del popolo perché era del popolo). Aprendo questo Sileno, si sarebbe visto qualcosa di più simile al divino che all’umano: Erasmo porta avanti un confronto tra il suo tempo, quello di Socrate e come quest’ultimo sarebbe potuto essere modello per i contemporanei, in cui ogni angolo pullula di sapiente (un sapere sofistico): chi nulla sapeva fu giudicato più sapiente di chi si vantava di nulla ignorare, anzi proprio per questo fu giudicato più sapiente degli altri perché era il solo che nulla sapeva. Erasmo sottolinea la grande qualità naturali di chi ha valori veri: nascondere nell’intimo la propria eccellenza, ostentare e mettere in evidenza la faccia meno pregevole, occultare il tesoro sotto una corteccia da due soldi e tenerlo lontano dagli sguardi sacrileghi. Chi ha un aspetto seducente è Sileno al contrario: i valori più alti sono al tipo stesso i più riposti e i meno accessbili agli occhi profani (paragone tra Socrate e Cristo). M conosce benissimo questa fonte e topos filosofico (disimmettria proporzionale tra esteriorità e interiorità): S non è stato uno di quei palloni gonfi, ma ha fornito precetti che servissero davvero alla vita. Esempio comparato di M: la vita di Catone mostra come egli abbia voluto innalzarsi al di sopra delle altre vite, mettendosi su un piedistallo; S invece rimane con i piedi per terra, tratta gli argomenti più utili e si avvia alla morte. Negli ultimi due testi M si fa garante di umanità e umiltà accettata e di una vigilanza inflessibile. La sua scienza consiste nel prestare attenzione a tutti gli altri della vita comune. Non si tratta di un uomo separato dal mondo, o posto su un piedistallo, bensì uomo vivo, mortale, una coscienza contenta di sé. È importante questa chiusura su S: la sua lezione riconduce il lettore a se stesso, non potenza alcunché dell’esteriorità, ma potenzia la pregnanza del conosci te stesso. Nel confronto tra Socrate e Alessandro Magno (Del pentirsi III,2): se si domanderà ad Alessandro ciò che sa fare risponderà: ”Soggiogare il mondo”; se lo si domanderà a Socrate, egli dirà: ”Trascorrere la vita umana conformemente alla propria inclinazione naturale”; scienza ben più universale più grave e legittima. Il pregio dell’anima non consiste nell’andare in alto, ma nell’andar con ordine. La sua grandezza non i esercita nella grandezza, ma nella mediocrità medietà: saper stare in equilibrio). nell’assoluta valorizzazione dell’autorità classica di Alessandro, dovendo scegliere tra i due M esalta la scienza socratica (M si rivolge a lui come “maestro dei maestri, modello e forma di perfezione, esempio di vita pieno e pura, buon maestro interprete 67 allo stesso tempo acquisendo caratteri propri dell’Essere: permanenza, stabilità, pienezza e sostanza che ci trovano dalla parte di ciò che è altro. Per M non ci sono mediatori incarnati (Cristo) e nega la possibilità di un’ascensione a Dio attraverso l’analogia (uguaglianza sulla base di strutture di pensiero condivise), perché nella strada verso il divino è presente un salto, un abisso. L’uomo è nudo e vuoto, un foglio bianco. Quella umana è un’esistenza vulnerabile e incapace di partecipare all’Assoluto e da questo punto di vista il posto peggiore in cui possiamo collocarci è noi stessi. La scrittura deve essere capace di rappresentare tale fragilità, la continua agitazione e modificazione dei pensieri, elemento di inconsistenza. “Per giudicare un uomo, bisogna seguire a lungo e con attenzione la sua traccia”, e lui esemplificativamente mostra la sua. Annotare la propria vita attraverso le azioni significa scrivere di sé ma anche delle cose esteriori. M predilige la riflessione nella propria interiorità. Della vanità (III,9): chi non vede che ho preso una strada per la quale, senza posa e senza fatica, andrò finché ci sarà inchiostro e carta al mondo? Una prospettiva di scrittura che non si completa mai definitivamente, finché c’è vita c’è inchiostro sui fogli. Non è possibile annotare la propria vita attraverso le azioni, quindi la rappresentazione della mera biografia dal punto di vista cronologico (cosa facciamo e come ci comportiamo) dice di noi fino a un certo punto, perché è soggetta a tutto ciò che esterno a noi (dagli altri individui fino alla Fortuna). Molto più utile è annotare la vita attraverso la nostra interiorità, ossia attraverso i nostri pensieri (ognuno si può raccontare come meglio crede: M fa esempio di un tale che si raccontava attraverso le operazione del proprio ventre e che quindi mostrava i propri vasi da notte). M paragona la propria scrittura a una modalità più raffinata per la produzione dei propri escrementi di un vecchio spirito, ora duro, ora molle e sempre indigesto (continua metafora). Gioco retorico sul valore effettivo della scrittura, paragonato a un escremento, e tuttavia capace di raccontare non solo con sincerità ma anche assiduità tale continua modificazione. Della presunzione (II,17) - scrittura di sé che si intreccia con il tema della maschera: sarebbe una prova di totale mancanza di coraggio e una disposizione servile contro se stessi il nascondersi sotto una maschera e non osare farsi vedere quali si è. Un cuore generoso non deve nascondere i suoi pensieri; deve farsi vedere fino nell’intimo (esigenza delle viscere e dell’intimità). Se non tuto via buono, quantomeno tutto rientra all’interno della condizione umana. L’indagine sul sé conferisce compattezza e organicità alla materia dei Saggi, non certo l’organizzazione interno del testo: i saggi non sono infatti costruiti con l’idea organica di un libro suddiviso in capitoli (non procede in modo cronologico e non c’è compattezza nemmeno all’intento dello stesso saggio, ognuno dei quali rappresenta a pieno la continua modificazione ed eterogeneità dei pensieri). Il gusto del frammento non obbedisce tuttavia solo a una scelta stilistica, più o meno confuso, ma c’è un legame forte tra la forma della scrittura e l’oggetto da indagare (proprio per questo motivo la frammentarietà della scrittura riveste un valore filosofico ben preciso). L’ontologia, la interpretazione della realtà, di M è di carattere qualitativo (al pari di altri filosofi del Rinascimento, come Bruno): gli occhi con cui indaga il reale non sono di carattere quantitativo (differente dimensione dalla rivoluzione scientifica e meccanicismo: rivendica oggettività della misurazione e e ripetibilità come criterio di saldezza della realtà). Per M è la qualità, pertanto la caratteristica individuale e la differenza ad essere adottata come cifra del reale (la dissomiglianza è carattere fondamentale dell’essere; Bruno, che scrisse anche testi di matematica, rifiutava il concetto stesso di misura, che non ci permette di conoscere alcunché dell’essere della cosa). Il mondo che ci circonda è dominato da una diversità e molteplicità tali da impedirci di individuare, una volta per tutte, quale sia il nucleo centra della nostra vita e della nostra conoscenza (la varietà delle cose diviene l’unica costante incostante della realtà, non accettando griglie quantitative per l’interpretazione della realtà). Dell’esperienza: la ragione non è solo quella che conosciamo, ma manifesta mille sfaccettature e compito della filosofia è proprio liberarla dalla rigidità in cui la si tende a rinchiudere (tutte differenze legittime che non sono gerarchizzabili: cannibali e uomo europeo sullo stesso piano). Non si possono trarre conseguenze dalla somiglianza di avvenimenti diversi, proprio perché questi per quanto confrontabili sono sempre dissimili (differenze nella malattia, nei reati). In questa immagine delle cose non c’è alcuna qualità così universale come la diversità e la varietà; la somiglianza non rende tanto uguale quanto la differenza renda diverso (asimmetria: differenza è più incisiva della parvenza di somiglianza). La natura si è obbligata a non fare due cose che non fossero dissimili: l’uguaglianza/identità è qualcosa che non ha luogo nella natura. Non solo non si sono mai dati giudizi identici di due 70 uomini su una stessa cosa, ma questo non avviene nemmeno nello stesso uomo in momenti diversi; M diventa sempre più radicale: differenza in tutto, dissomiglianza che esperimentiamo anche quando consideriamo noi stessi (diversità, varietà e cambiamento sono la cifra della realtà). Per M la varietà della realtà e i limiti della conoscenza umana costituiscono due facce della stessa medaglia con cui egli porta avanti l’analisi di se stesso. Non possediamo la verità assoluta, neppure la verità di fatto ha il privilegio di essere praticata in ogni momento e maniera e il suo uso, per quanto sia nobile, ha le sue restrizioni e limiti. L’uomo non potendo arrivare a una verità definitiva non procediamo per una via retta, ma vagabondiamo, giriamo qua e là in una dinamica che necessariamente implica il ritorno sui nostri passi. Io temo che la nostra conoscenza Asia debole in ogni senso, non vediamo né molto lontano né molto indietro, vive poco è breve nel tempo e nell’estesione (carrozza). Quelli che si appollaiano sul epiciclo di mercurio e vedono tanto in là nel cielo, mi fanno rizzare i capelli. Sarebbe bello se il percorso della nostra vita fosse ascensivo, mentre il nostro è un andamento titubante, da ubriaco, preso da vertigine, siamo giochi che il vento fa muovere a caso. Contraddizione: non solo sperimentiamo il cambiamento, ma anche la tensione di cose che vanno in direzione opposte Dell’incostanza delle nostre azioni (II,1): quelli che si esercitano a esaminare le azioni umane non si trovano mai così impacciati come nel metterle insieme e presentarle sotto la stessa luce, perché le azioni umane non sono soltanto varie, ma anche contraddittorie (tanto da sembrare impossibile che un solo uomo abbia dato vita ad atteggiamenti così incompatibili fra loro). Non solo siamo diversi momento per momento, non solo vagabondiamo senza seguire un percorso ascensivo, ma simao anche diversi rispetto a noi stessi fino alla contraddizione. Trovo trano vedere persone d’ingegno affannarsi per coordinare questi frammenti, visto che l’irresolutezza mi sembra il difetto più comune ed evidente della nostra natura. Siamo fatti di pezzetti anche difficilmente componibili fra loro. Ci sono tratti comuni nella vita di un uomo e quindi possiamo giudicarlo in base ad alcune costanti della sua vita, ma considerata l’instabilità dei nostri costumi e delle nostre opinioni, mi è spesso sembrato che gli stessi autori abbiano torto di ostinarsi a tracciar di noi un insieme stabile e solido. Questi autori, anche classici, scelgono un modello universale e in base a tale immagine adottata costruiscono il personaggio (assunti a modello di una prospettiva di vita) reinterpretandone le azioni e quando non riusciamo a far rientrare all’interno dello schema tale interpretazione diciamo che il personaggio non si è comportato in maniera sincera. Non è così: negli uomini io credo più difficilmente alla loro costanza che ad ogni altra cosa e nulla più facilmente che alla loro incostanza. Ci si troverebbe più vicini alla verità nel giudizio di ogni singolo frammento, pezzo per pezzo. Una scrittura frantumata e non armonica è una scrittura adeguata a questa idea (più vicino alla verità di chi “adatta il fenomeno allo schema”, invece del contrario). Per A l’incostanza è un limite strutturale delle creature, che è possibile superare nel momento in cui si riconosce che le creature sono tali e ci si colloca nella prospettiva della conversione, guardando a Dio e collocandoci come momenti della sua creazione e capaci di riattingere a quell’unità da cui siamo arrivati. Per M questo circuito di restituzione al primo principio non può essere adottato e l’incostanza rimane un carattere ineliminabile della realtà, degli uomini e delle cose. Per A il riscatto si dava nel guardare a Dio come sue creature, mentre in M questo riscatto non c’è. L’inquietudine dell’anima di A si placa nel colloquio con Dio, luogo della stabilità delle forme, nella nostra anima ospitiamo un struttura triplice riflesso della Trinità divina e la Confessione è il luogo del cammino; questo percorso ascensivo si perde in M: la verità è diversa in ogni momento e la realtà si frantuma in tali momenti. Sul punto della contraddizione M chiama in soccorso Seneca: per comprenderne la nostra vita in una parola e per abbracciarne le regole essa è volere e non volere sempre la stessa cosa (“regola”: la tensione di contrari è in grado di definire la nostra vita in un’espressione). Orazio: ciò che l’uomo ha voluto lo disprezza, rivuole ciò che poco fa ha lasciato andare; fluttua, e tutto nella sua vita è contraddizione. Si nota come queste citazioni classiche vengono utilizzate da M per esprimere quella che è la sua opinione. Il vento ci trascina a seconda delle occasioni, ci muoviamo seguendo le inclinazioni de nostro desiderio che procedono in tutte le direzioni. Pensiamo a quello che vogliamo solo nel momento in cui lo vogliamo, e cambiamo come quell’animale che prende il colore del luogo in cui viene messo. Testo del camaleonte di Pico: l’immagine del camaleonte era chiarissima hai lettori dell’epoca grazie proprio al De homini digitate di Pico della Mirandola. Dall’inizio dell’umanesimo (da seconda metà ‘400) a M si delinea una parabola per cui il camaleonte cambia configurazione. Alla 71 disputa conciliatrice epifania 1487, che non avverrà (le tesi che Pico voleva discutere erano considerate eretiche dai recensori ecclesiastici), Pico fa precedere la pubblicazione di tale testo. Per mostrare il ruolo dell’uomo all’interno dell’universo presenta una lettura delle Genesi (in cui Dio crea e colloca ogni essere). L’unico ente che non ha ancora un suo luogo verso il termine della creazione è l’uomo, perché non rimarrà vincolato a uno spazio, ma godrà di una sua libertà di potersi muovere lungo la catena dell’essere (da uomo può abbassarsi a bruto, ma anche innalzarsi al di sopra attraverso un’ascesa di carattere conoscitivo). L’uomo si sceglie e si fa ciò che vuole. La felicità e dignità dell’uomo sta nell’essere ciò che vuole, mentre nell’uomo nascente il Padre infuse semi di ogni tipo e germi di ogni specie di vita e se si sarà in grado di coltivare questi semi, potrà goderne i frutti. L’uomo è un camaleonte perché ha la possibilità di trascorrere per tutti i livelli dell’essere e di scegliere quello più adatto alle sue potenzialità (non a torto Asclepio ateniese disse che per la sua natura cangiante e metamorfica era simboleggiato nei misteri da Proteo). Camaleonte come segno di eccellenza. M rovescia l’immagine di Pico: non scegliamo, ma siamo trascinati dal momento e cambiano non perché possiamo, ma perché siamo spinti. Quindi l’eccezionalità dell’uomo di Pico, il suo poter trascorrere ad ogni livello dell’essere, per M si trasforma un’oscillazione e incostanza necessaria. I nostri umori, quindi il nostro stesso assetto corporeo, cambia al trascorrere del tempo: non vogliamo nulla liberamente, nulla assolutamente, nulla fermamente. Questa nostra incostanza e contraddizione ha fatto pensare alla possibilità di due anime in noi (antropologia luterana: soggetti come cavalli le cui redini sono tirate ora da Dio, ora da Satana e non mai mai “scosso in senso del palio”). Duplici e contraddittori per natura: siamo doppi in noi stessi giudichiamo in negativo: non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione: noi siamo doppi in noi stessi e questo fa sì che quello che crediamo non lo crediamo; e non possiamo liberarci di ciò che condanniamo”. Mi guardo in modi diversi, perché sono modi diversi: io do alla mia anima ora un aspetto ora un altro secondo la parte che la volgo. Tutti i contrari si ritrovano in me per qualche vero e in qualche maniera: allo stesso tempo è ogni cosa e il suo contrario (timido insolente, casto lussurioso, chiacchierone taciturno, ingegnoso stupido, stizzoso bonario…: i due poli compongono un solo blocco - no virgole). M afferma di non poter dire niente di sé senza confusione o mescolanza, né in una sola parola. Il nostro agire non sono che frammenti messi insieme; ecco perché, per giudicare un uomo, bisogna seguire a lungo con attenzione la sua traccia. Bisogna accettare la mancanza ontologica di fermezza e se è la diversità delle cose a far cambiare il passo, bisogna lasciarlo correre seguendo il vento. La vita non è un bersaglio fisso dove noi dobbiamo limitarci a scoccare una freccia: i nostri propositi si fuorviano perché non hanno né indirizzo né scopo. Siamo fatti tutti di pezzetti: c’è altrettanta differenza tra noi e noi stessi che fra noi e gli altri (Seneca: magnam rem puta unum hominem agire). Questo camaleonte è l’immagine drammatica del rischio costante di perderci a noi stessi. Inafferrabilità dell’io: non solo la continua varietà e variazione, ma l’impossibilità di raccogliere tutti i pezzetti di cui siamo composti in un unico puzzle una volta per tutte. Perfino il linguaggio che noi abbiamo è inadeguato, perché troppo preciso e puntuale quando si tratta di descrivere la fragilità dell’uomo e secondo M occorrerebbe un nuovo linguaggio per dire quanto detto finora. Per M la consapevolezza della nostra inafferrabilità, se riconosciuta e accettata, può trasformarsi da limite ontologico insuperabile a norma di vita. M ha svuotato l’uomo da ogni pretesa di conoscenza metafisica (ap RS), pertanto la nostra frantumazione non ci consente di entrare in relazione con qualsiasi verità stabile (persino quella del nostro stesso io); M prova a restituire all’uomo a una possibilità di pienezza: la nostra indagine pur non concedendo la visione di una verità stabile, ci offre la piena misura della presenza a noi stessi, al nostro io empirico, l’adesione al nostro stesso essere empirico. Quello che possiamo conoscere nei nostri limiti è una forma di conoscenza di cui si può godere: M invita a non ricerca la conoscenza di Dio o dell’Essere, ma star dentro la nostra condizione di esistenza (tenendo ben presenti i nostri limiti). Quella lontananza dalla metafisica produce un’intimità accresciuta dell’uomo con se stesso e con la propria condizione (provando ad averne un’utilizzazione completa). Non rimane altro che volger eil nostro sguardo a quello che siamo in grado non tanto di afferrare, quanto sperimentare e saggiare: il nostro io. Siamo immersi nei fenomeni, uniti d essi da una solidarietà che ci apre al mondo e che ci coinvolge interamente nel suo oscillare. La realtà stessa, non solo l’uomo, è una successione rapida di istanti che si succedono e contraddicono, senza che alcuno di essi sia tanto stabile da dare un supporto sia all’essere sia all’apparire. Come piangiamo e ridiamo di una stessa cosa (I,38): nessuna qualità ci riveste totalmente e universalmente. Si dice che la luce del 72 tensioni formulata da M egli spinge per il polo intimo e personale, mentre il mondo per quello opposto menzognero. Non come un costruire sulla sabbia, un muro senza pietra, fabbricare libri senza scienza e arte? M afferma di conoscere un modo di adesione alla regola, nessun uomo ha mai trattato un soggetto che conoscesse meglio di quanto io faccia con quanto ho iniziato: ognuno di noi è il più competente a comprendere se stesso. Egli non ha nascosto niente nella scrittura dei Saggine e ha seminato ogni minuzioso particolare. Solitamente l’artigiano produce qualcosa che è altro da sé, mentre qui sono la stessa cosa. Io e il mio libro andiamo allo stesso passo e d’accordo: non si può distinguere l’autore dalla sua opera (consustanzialità). Chi giudicherà male questo libro senza aver compreso (senza aver aderito a quella verità come registro) e attraversato pieno a questo libro darà torto all’opera e all’autore (e viceversa se lo si coglie in toto). In queste memorie se si guarda bene, è stato detto tutto e anche quello che non si può esprimere (per motivi di pudore ad es), ci si limita a dirlo o indicarlo. M afferma di aver detto e indicato tutto all’intento del libro (Lucrezio: per uno spirito sagace questi scarsi indizi sono sufficienti per scoprire da solo tutto il resto). M ci consegna un testo potenzialmente infinito con le cui allusioni si può giocare. I Saggi costituiscono un libro in movimento, e questo serve ad afferrare l’inafferrabile, ossia l’essenza liquida della realtà dell’Io: il raggruppamento della contraddizione può darsi solamente in un libro scritto in questo modo. C’è unità di un libro che mostra tutta la dimensione della molteplicità: le alterità non sono soppresse, ma inglobate senza mitigarle. L’uomo non ha più il dovere di mostrarsi unico e il dovere di unità viene trasmesso al testo. M evidenzia una forma di genitorialità eccezionale nei confronti del testo di cui è padre e madre (produzione di un figlio, totalmente affine a sé, più di uno naturale). Si tratta di una generazione dell’anima e della mente nelle sue parti più nobili, tale produzione costa più caro di un figlio vero, ma porta anche più onore. Un figlio è se stesso e solamente in parte eredita i caratteri del padre o della madre; del prodotto della mente, tutta la bellezza, tutta la grazia e il pregio è dell’autore, sicché essi ci rappresentano e ci ritraggono ben più efficacemente dei figli. Si cede qualcosa in modo irrevocabile e questo libro può sapere cose diverse che l’autore non sa più, possiede quello di cui M si è spossessato e che come un estraneo dovrebbe prendere a prestito. Ci è una ricaduta del libro nella struttura dell’uomo M: lo sguardo di chi leggerà è fonte di solidificazione, un qualcosa che aiuta a rendere il nostro essere più solido. La descrizione ha portato a un abbellimento di sé non artificioso, ma naturale, tanto è vero che tale modello M si è rassodato pur rimanendo liquido. Dipingendomi per gli altri, mi sono dipinto con colori più netti che non fossero i miei primitivi. Non sono tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto me, consustanziale al suo autore, di utilità personale, membro della mia vita; non avente per fine l’utilità di terzi estranei come tutti gli altri libri. Azione retroattiva del testo sull’autore. La mia coscienza è contenta di essere quella che è: non insegnano racconto. Il modello su cui vogliamo costruire la nostra figura è tutta interiore e non bisogna basarsi sull’approvazione altrui, in quanto costituisce un fondamento incerto. Il modello deve essere costruito dall’intimo e nostro in basa al quale giudicare noi stessi (leggi e tribunali interni: non ci siete che voi a sapere se siete vili o crudeli, leali o devoti; gli altri non vi vedono: vi indovinano per congetture incerte; vedono non tanto la vostra natura, quanto la vostra arte: non attenetevi al loro giudizio ma al vostro). Se secondo A c’è chi può vedere la parte più intima e profonda di noi stessi, ossia Dio, per M nessuno può vedere nelle profondità dell’anima altrui. Una vita capace di mantenersi in ordine nell’intimo è rara, ognuno può rappresentare una parte nella commedia, ma l’importante è essere privi damascherei nel nostro intimo, dove tutto è permesso e lo guardo degli altri non arrivo: è qui che bisogna mantenni in regola (di conseguenza è importante essere in ordine in casa propria nelle proprie attività abituali di cui non dobbiamo rendere conto a nessuno). Trovare l’ordine oggi è una virtù oscura, mentre rientra nell’ordine delle virtù solo ciò che è esterno e ala vista di tutti (condurre ambasciata, governare un popolo): non cedere e non smentirsi è cosa rara difficile e notevole. Una trasparenza di sé a noi stessi che non è disgiunta dalla possibilità di comprendere anche gli altri, non nelle profondità della loro anima. Indole indagatrice che aiuta a giudicare anche gli altri passabilmente: negli amici rivelo dal loro modo di fare le inclinazioni interne non per categorizzare tali atteggiamenti o sentimenti, perché non è possibile ed è un’operazione da scienziati. Io senza regola presento le mie idee in generale e a tentoni. Esprimo il mio parere pezzo per pezzo come qualcosa che non si può dire una sola volta e in blocco. Gioco continuo tra l’impossibilità di dire definitivamente di se stessi e la reciprocità di questa indagine e analisi (non egoriferita, ma anche capace di sondare le vite altrui). M si ferma al riconoscimento della varietà e della fluttuazione. Per A l’orizzonte delle creature rimane disordinato e l’unico orizzonte di ordine è quello di Dio, mentre per M l’anima dell’uomo può conquistare un suo ordine. Il pentimento non fa parte di questo orizzonte: non possiamo pentirci di non essere 75 qualcosa di diverso da un uomo (al massimo il rimpianto). Nel pensare che sarei potuto essere una delle tante creature più nobili, non miglioro in niente; se questa immaginazione di essere altro producesse pentimento, dovremmo pentirci in continuazione. Agire con ordine significa non tradire se stessi: non ho inteso attaccare la coda di un filosofo alla testa di un uomo perduto e ho voluto presentarmi e farmi vedere da ogni parte in modo uniforme. Io rinuncio a riforme fortuite e dolorose: non rimpiange di non essere stato altro, non rimpiange il passato e non teme il futuro (sarebbe inutile e controproducente). Sebbene sia nella vecchiaia e intraveda direttamente la prosttiva della morte, è contento di aver vissuto con ordine umano che ne ambisce nè si pente di non essere stato qualcosa di diverso. La complicità che M richiede ai lettori finisce con il costituire una forma di solidarietà, nella coscienza della fragilità comune. L’uomo è stato privato di un ruolo privilegiato nell’universo e dell’accesso alle forme dell’Essere, perchè non è altro che una coscienza limitata, ma allo stesso tempo trova la sua fortuna nell’incontro e il confronto con altri della sua stessa natura. M invita l’uomo a far crescere la dimensione soggettiva e quella intersoggetiva, entrambe ineliminabili. L’Apologia è il luogo della rinuncia alla metafisica, ma rivela anche la ricchezza e fecondità di quello stesso universo, sebbene non lo possiamo cogliere fino in fondo. Lo spazio aperto e infinito costituisce uno spazio di possibilità infinite colmo di forme viventi che si offrono al nostro sguardo. Di fronte al mondo, l’uomo sa di essere una creatura finita, con tutti i suoi limiti, in un mondo infinito con tutta la sua ricchezza. Il sapere posseduto è nulla, ma l’orizzonte dell’infinto gli si apre davanti nella sua vastità. Il confronto dell’uomo non sta nel vedersi incluso in questa natura, né nella speranza di innalzarsi, ma nel sentire che di fonte all’immensità dell’universo la sua coscienza possiede la risorsa di una libertà fragile e allo stesso tempo invincibile. All’universo infinito corrisponde nella coscienza un infinito di iniziativa: la possibilità mai esaurita di un lavoro su di sé (andrò finché ci sarà inchiostro e carta nel mondo). Questo cammino infinito non è un cammino solitario: infatti ogni parola è per metà di colui che parla, per metà di chi l’ascolta. Ecco perché l’elemento della sincerità è collante sia dell’identità privato sia di quella pubblica. I criteri fondamentali di conoscenza dell’io e del modo in cui dobbiamo porgerci agli altri sono l’assoluta capacità di introspezione, il saggiarsi (fare esperienza di sé) pe non risolversi e mostrarsi con sincerità per quanto possibile integralmente (Bonne foi) L’uomo come luogo peculiare della creazione per M alla verifica non tiene: non conosce nemmeno se stesso l’uomo, come può conoscere ciò che lo eccede come Dio o l’ultraterreno. Noi guardiamo l’universo da una cantina (tu non vedi altro che l’ordine e il governo di questo posto in cui sei alloggiato; e la d’invito h una giurisdizione infinita al di fuori di questa cantina: questo frammento, l’uomo, non è niente a paragone con il tutto): che cosa dovrebbe parlare se non di quella cantina che è l’unica cosa che conosce. Non si può parlare forse per questa ragione di antropocentrismo in M. La massima e unica cosa che possiamo provare a comprendere siamo noi stessi: nessuno può provare a dire cose di M rispetto a quelle che lui può dire di sé. Rousseau R dedica l’ultima parte della sua produzione letteraria e della sua vita, sono infatti opere che verrano pubblicate postume: Confessioni (1759-70), Dialoghi di R giudice di Jean-Jacques (1772-76) e Fantasticherie di un passeggiatore solitario (1776-78). Oltre a questi testi, che nel loro carattere letterario sembrano esse di un atro tempo (non certamente nel pieno sviluppo illuministico), R scrive un ritratto di sé molto penetrante nelle quattro lettere a Chretien Guillaume de Malesherbes e dice che queste contengono il vero quadro del suo carattere e i motivi ispiratori della sua condotta di vita. Le confessioni di R intrattengono dei rapporti con A e M: confessioni richiamate nello stesso titolo e rapporto importante anche con i Saggi. Parlando di A si è già fatto riferimento all’incipit delle confessioni, uno stampo gettato sulla vita di R confronto con Dio e giudizio finale rispetto al quale R dice di presentarsi cin il suo libro in mano e l’assoluto modello della sincerità. Gli uomini divengono uditorio di queste sue confessioni (raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili, ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie). Le confessioni di R si aprono oncuna scena in cui è messa in atto proprio la secolarizzazione del triangolo autore/lettore/Dio e anche R come A si rivolge in apertura al giudice supremo, ma in una prospettiva completamente diversa: non si tratta di instaurare un dialogo con Dio attraverso la tensione eterna della redenzione, ma R chiama Dio a testimone muto del suo monologo (un lettore tra gli altri), obbligandolo ad ascoltare quanto ha da dire. Dio ascolta come tutti gli altri: grande rilievo del soggetto R e grande insistenza sull’autenticità o un’inautenticità del soggetto che si racconta. Il garante delle verità delle confessioni non è più Dio, ma il soggetto stesso. L’umanità è chiamata a essere responsabile della propria autenticità 76 o no in una radicale immanentizzazione dei problemi. R non si riconosce in nessuna comunità e fa della sua solitudine una forza in contrasto con la folla innumerevole e indistinta (rispetto a cui R si pone con la sua capacità di distinguersi e svettar rispetto a loro). Confessione che non è più una lode a Dio, ma un’apologia del soggetto R che dichiara di essere indipendente da qualsiasi autorità e si pone di fronte a Dio con un’opera dove è presente tutto ciò che ha fatto, pensato ed è stato. Venuta eno la dimensione della trascendenza, R prova a riscrivere le confessioni con linee guida differente da quelle di A, in particolare dal primato del cuore, mette in evidenza la sua sensibilità ed espone la sua vita a partire dal cuore senza ala pretesa di arrivare alla verità delle cose, ma facendo forza sulle immagini delle cose più che dalle cose stesse (violenta desacralizzazione dello spazio dell’io). Caduta dello spazio di Dio e desacralizzazione dello spazio dell’io, rivendicato con grande forza a partire dalla condizione della sensibilità. Ancor più dichiarato è il rapporto tra R e M, con cui si pone in una linea più omogenea rispetto alla frattura con A. Si collegano sul punto della sincerità: necessaria fondamentale (per M complicato nodo che tiene insieme anche la scrittura) e assoluta; tema della caduta della maschera ripreso da R. Ma non è sufficiente, perché dal punto di vista di R, la sincerità di M deve essere superata: M dichiara di essere sincero, ma per come è interpretata da R la sincerità non si limita alla sola possibile esplorazione dei territori dell’io (con sfumature diverse: riflessive, malinconiche o leggere) non basta quella descrizione dell’io momento per momento potenziata da quella scrittura frammentaria, non basta nemmeno il tentativo di far cadere la maschera attraverso l’amicizia . R segue M dal punto di vista del rigore della sincerità, ma non basta: dalla sincerità bisogna arrivare all’assoluta trasparenza e leggibilità per tutti. Il cuore di cristallo è un’immagine presente nell’epistolario e nelle confessioni: rivendica trasparenza e dice che il suo cuore è per i lettori trasparente come il cristallo, assoluta aderenza della rappresentazione e della scrittura alla sensibilità (sento il mio cuore e lo rendo manifesto per gli altri). R ricerca una sincerità con sfumature differenti rispetto a quelle di M: una sincerità che divenne trasparenza attraverso la radicalizzazione, portandola all’elemento massimo di forza (M era quasi nudo, mentre R vuole superare la parvenza borghese di nudità, che deve essere totale e arrivare fino all’inconfessabile, dire ciò che non è accettabile nemmeno per noi stessi). In questo superamento R mette in evidenza anche le contraddizioni interne di M (che ha portato una dichiarazione di sincerità a parole, ma non è riuscito a realizzarla pienamente) e lo rende esplicito in un brano contenuto nel manoscritto di Neuchatel (1764), che contiene dei lavori preparatori dei primi tre libri delle confessioni a cui sono state sottoposte modificazioni (era anche presente una sez introduttiva che non è stat inserita nell’edizione a stampa): M sta alla stessa dei falsi sinceri che proclamano di idre la verità e alla fine anche loro sono ingannevoli. M si mostra con difetti, ma si attribuisce difetti minimi e amabili e non c’è uomo che non ne abbia di odiosi (non è possibile che ne sia privo: si è rappresentato di profilo e non sappiamo quel che c’è nell’altro che M non ci mostra). M ci ha mostrato solo quello che ha voluto: ha mostrato aspetti non gradevoli della sua personalità, ma non ha portato alla luce quel fondo oscuro, la dimensione inconfessabile, che come una cicatrice nascosta avrebbe potuto continuamente mutare la sua fisionomia). Una linea da seguire, ma con mezzi e forme differenti da quello di M per non ricadere nella falsa sincerità. Si perde l’equilibrio in R ed è voluto: insiste su un piatto della bilancia, ossia quello della sgradevolezza e odiosità. Occorre insistere e mostrare molto di più quello che c’è di odioso e inconfessabile: evoca una figura sugli aspetti della vita di R che chiunque terrebbe nascosti (quella rivendicazione di unicità si riferiva anche a questo). Nessuno ha avuto il coraggio di mostrarsi in una maniera così sgradevole come ho fatto io una volta e solo questa per R è l’aderenza all’assoluta sincerità e il cuore diviene di cristallo: non ci sono equilibri intermedi che possano funzionare. Intus et in cute: anatomia non solo più psicologica e rimanda alla Satira III di Persio (ego te intus et in cute novi): R porta all’estreme conseguenze: oltre la nudità, guardare se stessi con uno sguardo scarnificante, che scortica e spella; l’altro motto è ripreso dalle satire di Giovenale “dedicare la vita a ciò che è vero” (vitam impendere vero), un’impresa totale di verità. Si tratta di una rivendicazione estrema e inquietante (intus et in cute) ed è stata giudicata nel suo radicalismo talmente estremo, una forma di esibizionismo alla rovescia, estremismo della cicatrice e dell’inconfessabile. Quesì rivendicazione costituisce un tratto che ha a che far con l’uomo R: parlando di R Hume dice che è come se fosse un uomo non svestito ma spellato (viene investito senza avere un filtro o una difesa dal basso mondo, dalla violenza e dal conforto con una visione che ha elementi di rudezza capaci di ferire un uomo tanto nudo e aperto) Hume e R: la vicenda del rapporto tra H e R ha inizio nel giugno 1762, quando a Parigi viene emana un mandato di cattura a causa della pubblicazione dell’Emilio, considerato sedizioso e 77 specie di storia che giovi a comprenderla. Traccia una storia della sua sensibilità dilaniata tra opposti (pigrizia e infiammabilità): questi contenuti della seconda lettera a Malesherbes (1762) diventeranno il filo rosso delle Confessioni. Un bambino che legge molto (Plutarco a memoria a 8 anni): un cuore attratto dal romanzesco e dall’eroico, cresciuto al punto da provare disgusto a tutto ciò che non teneva il passo delle sue follie. Un mondo interiore forte e capace di costruire un doppio rispetto al mondo esterno. La chimera del passeggiatore solitario è già presente. In gioventù credeva di poter trovar Enei libri la chiave di lettura del mondo e che quei personaggi costituissero persone concrete di quel mondo romanzesco che si era creato: traduceva la follia nel mondo esterno e questo lo ha portato a grandissime delusioni. In ognuno di questi mutamenti (gusti, affetti, progetti) provava mota fatica, destinato alla delusione perché cercavo ciò che non esiste. Con l’esperienza ho perso la speranza di trovare quel mondo e quindi lo zelo di cercarlo. Inserito dalle ingiustizie subite, presi in odio il mio secolo e i miei contemporanei, comprendendo che non avrei trovato tra loro uno stato che potesse soddisfare il mio cuore. Inattualità di R rispetto al suo tempo: presi i suoi contemporanei che non davano risposte sufficienti a quelle teorie, sapendo che in loro non avrebbe trovato soddisfazione del cuore, pertanto si distaccò dal mondo degli uomini e creazione di una realtà parallela romanzesca immaginaria (in grado di comprenderlo e accoglierlo), fonte di incanto, sempre intatta e fidata, che non era fonte di delusione, imprevisto o sofferenza (passi delle fantasticherie del viaggiatore: capacità di attingere quell’orizzonte chimerico in certe condizioni come il contatto con la natura; R riesce a innescare il rapporto con l’orizzonte chimerico). L’elemento di autocoscienza (il saper dilagare se stesso): assolutamente in grado di parlare di sé in termini nudi e essenziali. Quando si è reso conto che gli altri lo ricercavano e che non lo giudicavano sciocco, e tuttavia il suo disagio cresceva, si era accorto che la causa del disagio non era il potersi vedere rispecchiato fedelmente (non era il bisogno di riconoscimento), ma era illuso spirito indomabile di libertà (uno Spirito di libertà che si nutre di pigrizia, tanto forte da rifiutare i minimi doveri della vita civile - una lettera, una visita- , una libertà che oscura ogni affetto della vita, ogni ricchezza o fama). Nell’amicizia intima viene meno il dovere. La trasparenza è regina e domina le relazioni tra amici: cade dimensione del dovere e dell’esteriorità. Difficile accogliere la figura di R come gli altri illuministi. Da un certo punto di vista l’opera di R rapprenta uno dei risultati più importanti del percorso della ragione critica rischiaratric, finalizzata alla trasformazione dell’individuo e della società e (acuto nello smascherare i mali della società: lottare contro i limiti della superstizione nel tentativo di far fare un passo in più alla società stessa), ma d’altro canto R non condivide molti aspetti di coloro che rappresentano l’ambiente importante anche della sua stessa formazione originaria e l’opera costituisce una lucida messa in discussione delle posizioni dei contemporanei da ci R si vuole distanziare anche sul piano personale. Collaborò anche nella redazione di alcune voci dell’Enciclopedie (Diderot definirà R come una fonte di inquietudine, un’anima dannata che non vuole più rivedere: consegnato all’incomprensione e incomponibilità con gli altri). Voltaire ha un’antipatia personale nei confronti di R e porta avanti una polemica contro la sua strategia intellettuale e individualista, pericolosa e capace di portare danno all’intero orizzonte degli illuministi. Testi di R che Voltaire possiede e su cui annota personalmente: V non ama né le opere di R né l sua persona, non gli interessa conoscere gli “affari suoi” (parla troppo di sé), non è utile il suo continuo citarsi per una stupida vanità (inizi parlando di te e parli sempre di te, credi che l’universo si occupi di JJ), pensa che tutto l’universo parli di lui. Accusa gravissima di non essere così trasparente e cuore di cristallo, bensì è mosso da una propensione alla menzogna: tu menti senza pudore, mescolando elemento di protagonismo e confusione delle sue stesse idee nel parlare di sé: non si sa cosa vuole e nemmeno lui lo sa (esibizione di sé non solo eccessiva ma anche inconcludente e vana). Idea che R si senta perseguitato, ma non perché siano gli altri a causare questa sensazione, ma perché ci si un elemento deviato, maniacale e autolesionistico (ti ferisci con le tue stesse mani e non vedi che ti discrediti quando dici che tutti ti sono contro?) della sua stessa personalità, com se si costruisse i suoi stessi nemici. Quando R scrive che li suo unico bene è un’amicizia completamente trasparente, V gli dice che una tale relazione lui non ce l’ha in virtù dello stesso atteggiamento dissennato di R, un mostro di vanità e contraddizione, d’orgoglio e bassezza, un pazzo cattivo e disgraziato. La follia che R sottolineava nella caratterizzazione della sua persona viene presa e rovesciata da V in maniera dura e violenta. Il problema è anche quello del confuso metodo di scrittura di R, esageratamente retorico ed eccessivamente ricco di declamazioni, sofismi ed evidenti contraddizioni. 80 Queste critiche fanno parte di una strategia filosofica ed editoriale: non troveremo mai nei suoi testi un V in prima persona, che guida la sua opera parlando di se stesso, ma Voltaire si costruisce diversi alter ego (a volte paradossali e ironici): V attraverso queste figure voleva richiamare una certa riconoscibilità di sé (non dichiarata) attraverso la modalità di scrittura di questi pamphlet anonimi (modello più sottile). R invece è sempre al centro della scena e addirittura in Dialoghi con il giudice JJ la sua figura si duplica in giudice e accusato L’antipatia non è l’unica chiave di lettura con cui leggere il rapporto V-R: V ritiene R pericoloso (con il suo narcisismo) per la causa illuminista da difendere dopo la morte di Montesquieu. Lo definisce a più riprese un Giuda che non ha voluto essere Paolo e vive di fatto l’atteggiamento di R come un tradimento duplice, personale e collettivo. Confessioni 1759-1770 Dialoghi con il giudice JJ Rapporto tra Voltaire e R: non sono antipatia personale, ma è forte la polemica contro il suo atteggiamento eccessivamente individualista di R. Nell’articolo di Ginevra di D’Alembert: V sottolineava la necessità di vigilare sul contenuto delle commedie affinché non fossero troppo scandalose e non corrompessero i costumi (questo avrebbe reso Ginevra esempio di buoni costumi teatrali). R critica questo articolo e si fa costruire un teatro nella sua tenuta. 17 giugno 1760: R risponde a V con toni accesi e violenti: avete rovinato Ginevra per ripagare gli applausi che io vi avevo tributato tra di loro: siete che voi che mi rendete insopportabile il soggiorno nel mio paese, siete voi che mi farete morire in terra straniera. Una lettera apparentmente sovradimensionata all’ordine della questione, che era semplicemente la possibilità di Ginevra di ospitare rappresentazioni teatrali, ma la situazione precipita con una serie di altre polemiche. V reagisce con il lessico della pazzia (gran pazzo disgraziato), fa una parodia della nouvelle Heloise. Nelle Lettere della montagna R scrive qualcosa di molto grave agli occhi di V: dice che a Ginevra vengono tollerate opere che a stento si possono leggere senza indignazione che si scagliano contro il cristianesimo e che sebbene anonime sono unanimemente attribuite a V (accusa pericolosa). V risponde in un testo anonimo: costui è un uomo che porta ancora i segni delle sue mollezze (segni malattia venerea) e mascherato da saltimbanco, trascina con sé la poveretta di cui ha fatto morire la madre e di cui ha esposto i figli alla porta di un ospizio, rigettando la responsabilità nei loro confronti propria di una persona caritatevole e abiurando tutti i sentimenti retti della natura (sentiment de citoyens). Rappresenta un punto estremante delicato della vita R: il rapporto con la madre dei suoi 5 figli, Therese Levasseur, donna di umili origini e vicenda dell’abbandono dei 5 figli all’orfanotrofio. Personalità dello stesso R: egli ne parla nel VII delle confessioni. Teresa, lavandaia presentata come giovane cameriera del posto dove R è solito andare, ragazza di buona famiglia che aveva subito dei fallimenti e quindi bisognosa di denaro. Modesta in un ambiente poco signorile (frequenti le offese dai commensali): prende le difese della fanciulla, e le cose da passatempo diventano una cosa seria (afferma che per quanto fosse possibile lo ha reso felice). All’inizio volli coltivare la sua mente: cultura e principi non attecchiscono, non ha mai saputo leggere bene e non me ne vergogno, non si ricorda i mesi dell’anno in ordine, non sa contare il denaro, non riesce a leggere l’ora (registra un elenco di cui cantonate), ma una persona così ineducata e stupida è comunque la fonte migliore dei consigli e vede cose che io non vedevo: le sue risposte e la sua condotta le sono valse la stima universale e complimenti che sentivo con necessità. Descrizione in chiaroscuro: tutto quello che Teresa non possiede dal punto di vista dell’educazione e della conoscenza (non sa leggere, contare, non ricorda i mesi dell’anno e non sa leggere l’ora), viene riscattato e accentuato per contrasto da queste doti del cuore, un saper vedere ancor più profondo dello stesso R, che ha permesso a questo di superare grandi diffcoltà della sua vita (viene derisa talvolta in società, ma queste sue doti le valgono sinceri complimenti e apprezzamenti). Vicenda dei figli (VII): la gravidanza di T non è voluta e vissuta come un impiccio, così sotto consiglio di alcuni amici, T viene affidata a un’allevatrice per partorirvi; R andò più volte a trovarla e affidò una cifra per il figlio che venne lasciato in un orfanotrofio. L’anno successivo stesso inconveniente e stesso stratagemma (tranne la cifra, trascurata). Questa scelta viene ripetuta per 5 volte. R decise così di sottoporre il proprio rapporto con i figli e la loro madre al tribunale delle leggi di natura, della ragione e della giustizia. Descrive il proprio animo (cerca nel libro): nell’adesione a quel ritratto (benevolenza per i simili, amante del grande del vero del bello, legato a tale tribunale) non c’è decisione che risulti incoerente. Riconosce la non condivisibilità della sua 81 scelta e proprio per tale disdicevolezza preferisce non esporre tutte le sue ragioni, affinché altri giovani non lo seguano. Affidando i miei figli alla pubblica educazione, destinandoli a diventare operai, contadini o cacciatori di dote, ho creduto di compiere un atto di cittadino e di padre, considerandomi in questa scelta come un membro della Repubblica di Platone, dove i figli sono allevati dallo stato e non hanno la possibilità di rintracciare la loro discendenza. Il sentimento di padre rivendica ragioni che rimangono diverse da quella della ragione: se il sentimento ha condannato la sua condotta, la ragione ha celebrato il gesto da lui compiuto di allontanarli (se gli avesse affidati ad altri non sa se sarebbero stati più felice, ma sa che avrebbero preso in odio i genitori: è cento volte meglio che io non li abbi conosciuti). Fu talmente convinto della decisione di mandarli all’ospizio che se non se ne vanto pubblicamente fu solo per riguardo verso la madre. R introduce un elemento di scissione dispiacere condiviso con T, ma rivendicazione di un percorso. Differenza di battaglia intellettuale nel rapporto tra il portabandiera dell’illuminismo e lo stesso V, che giudica R pericoloso per la causa: non si limita a criticare l’eccessivo individualismo, rimprovera la strategia della firma (Spinoza scriveva in latino, non in francese e non si firmava mai). Gli rinfaccia la pericolosità delle sue idee, mettendo in crisi rispetto all’autorità l’intera causa illuminista. Per V si tratta di un tradimento duplice sia personale sia collettivo perché porta avanti tesi pericolose alla causa illuminista. Un rapporto che si deteriora alla fine degli anni 50: spartiacque importante e frattura violenta. R rompe con tutti gli illuministi (d’Al e V), mantiene contatti non densi solo con gli Buffon, Condillac di cui apprezza l’antropologia fisiologica, non politica ma biologica. Sebbene costituisca un illuminista sui generis, R condivide alcuni temi centrali della corrente: battaglia contro i pregiudizi, importanza dell’educazione e fiducia nella perfettibilità dell’uomo. In più anche la critica alla società e il richiamo alla religione naturale. Questi stessi temi vengono sviluppati da lui in modo differente, in qualche caso divergente: la critica illuminista alla società appare a R insufficiente, in quanto interna all’accettazione di meccanismi e regole dell’esistente. D’altra parte l’esigenza di R di un rigenerazione globale dell’uomo, naturalmente propenso alla continua modificazione, viene giudicata da D’Al, Did e V come un mio fondato su una cattiva metafisica, un’utopia inutilizzabile in una battaglia concreta di riforma. Quella di R è una differenza tanto diversa da portare R alla rottura con l’ambiente: diversa critica alla società, l’esigenza di una rigenerazione dell’uomo, l’impronta religiosa nel pensiero di R e una diversa interpretazione ne giudizio valutativo della storia R entra in contrasto con l’illuminismo sulla direzione della storia: epoca che pensa in termini di rischiaramento e luce della ragione nel tentativo di coltivare l’idea di progresso come certezza che il passato è ormai finito e gli uomini sono all’inizio di un’ epoca di novità positive (discorso introduttivo dell’Ency); luce della ragione rivendicata prima nel Rinascimento (aurora rispetto ala tenebre del ME) e l’illuminismo rappresenta la luce piena: gli uomini sono all’inizio. R sottolinea la profonda ambiguità insita nella nozione stessa di progresso e quanto un progresso che riguarda alcuni aspetti della vita dell’uomo (scienza e tecnica) possa rivelarsi problematico non appena di volge lo sguardo ad altri elementi positivi della vita sociale. L’epoca presente non è simbolo di lacuna superiorità dei moderni sugli antichi o della natura progressiva della storia: il presente è l’epoca della falsità, dove la verità delle cose è ormai del tutto nascosta e probabilmente irraggiungibile. Scienze, lettere e arti non sono mezzi di illuminazione o liberazione, ma occultamento e ingiustizia, dipendenza e intolleranza (vele inghirlandate). Gli illuministi prendono posizione della superiorità del presente, mentre per R la storia non è sempre progressiva, ma in realtà è un trionfo di opacità e la verità delle cose è nascosta e imprendibile probabilmente nel nostro tempo. R nasce sotto il segno della morte e del dolore: egli è il frutto triste del ritorno del padre a Ginevra: nacqui debole e malaticcio e la madre morì poco dopo aver partorito per febbre perpuerale e suo padre non si riprese mai da questa perdita. Non mi abbraccio mai senza che io avvertissi dai suoi sospiri e dalle sue strette convulse che un rimpianto amaro si mescolava alle sue carezze (p7). La morte della madre influenza inevitabilmente il rapporto con il padre. Rapporto con il padre: non negativo, ma segnato dall’assenza drammatica alle sue carezze si mescolava un rimpianto amaro. Artigiano di educazione modesta, lo avvicina ad alcune letture e appartenenza a Ginevra (Plutarco sua lettura preferita). Nei primi capitoli delle confessioni troviamo la descrizione di una gionvinazza e adolescenza difficili, errabonde e descritte con molte sfumature di carattere introspettivo 82 forse addirittura nudi come gli uomini del nuovo mondo di M; essere e apparir sono scissi nella società contemporanea “opaca” in cui la comunicazione degli uomini è distorta, impossibile e ogni relazione è coperta da un velo uniforme e perfido di cortesia. Questa è la conseguenza perversa della società, mentre prima che l’ingiustizia fosse resa legittima gli uomini trovavano la loro sicurezza nella facilità di penetrarsi vicendevolmente. R prosegue la sua critica sostenendo che non sia sufficiente denunciare il carattere iniquo della società, ma sia altrettanto necessario denunciarne le cause. V critica profondamente l’interpretazione di R affermando che non è mai stata impiegata tanta ingegnosità per renderci simili alle bestie e leggendo l’opera viene voglia di camminare a quattro zampe. V continuerà a giocare su questo tema. Nel secondo discorso R metterà a punto le cause che hanno portato a questa società iniqua (Prefazione al Narciso: è una decadenza che riguarda non tanto l’uomo in sé, ma l’uomo mal governato e afferma di individuarne le cause). La fonte prima del male è la disuguaglianza, da cui sono venute le ricchezze, da cui lusso e ozio e da questi rispettivamente arti e scienze. Con il Secondo discorso, nato anch’esso da un quesito dell’accademia di Digione: l’indagine di R si amplia e non riguarda solo più le scienze, ma la stessa storia collettiva dell’uomo. Non nega l’evoluzione della cultura, ma vuole mettere in luce un fondo oscuro che era celato. Secondo R come individuo e specie l’uomo sta in un ordine naturale che è originariamente buono: la natura è armonica, colma le sue differenze e h aut ordine buona: tutto è bene uscendo dalle mani dell’autore delle cose, tutto degenera tra le mani dell’uomo. Mentre la storia porta con sé la rottura dell’ordine naturale delle cose (questo è il passo ulteriore del secondo discorso). R esonera Dio da ogni responsabilità sul male, perché nella natura, che è la sua opera, il male è solo apparente, mentre storia e società, il cui male è reale, sono opera dell’uomo. È stato il passaggio storico, casuale e non necessario, dallo stato di natura alla società civile, a condurre alla degenerazione dell’uomo. La società, una volta entrata nella storia, è luogo di ineguaglianza, violenza e sopraffazione: amo strato la sua faccia iniqua. Esperimento non verificabile ma esplicativo: caso funesto, le cose sono andate in maniera non positiva con il passaggio da stato di natura a società civile. Certamente l’uomo nello stato di natura era primitivo, ma mantenga equilibrio in se stesso e con gli altri in virtù dei pochi bisogni da soddisfare (autosufficienza). La libertà è costituita da un nucleo di autosufficienza. Gli uomini naturali erano liberi, capaci di vivere in equilibrio con se stessi, con pochi bisogni fondamentali . Ma con la società viene meno tale libertà individuale, caratterizzata dall’autosuffiicenza nel soddisfacimento dei propri bisogni, perché si è costretti a stare in nuclei interdipendenti, che non solo vincolano, ma corrompono. Entrando in società gli uomini rompono l’equilibrio della natura e delle loro relazioni reciproche, che non rappresentava una possibilità della loro costituzione naturale. La storia è un piano differente di rapporti causali rispetto alla natura: attraverso una storia congetturale R prova individuare quali potessero essere i rapporti nello stato di natura e per quali vie abbiano assunto forme diverse fino ad arrivare alla condizione attuale. Lo stato di natura è presentato in forma ipotetica: uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito e che probabilmente non esisterà mai. R critica l’atteggiamento naturalistico di alcuni pensatori che hanno proiettato nella descrizione dell’uomo naturale idee prese invece dalla società civile (passioni, timori, orgoglio e la stessa disuaguaglianza) Diversi filsofi hanno considerato le caratteristiche dell’uomo di pura natura, considerandolo all’interno di una società civile, ossia un insieme di elemento che non è pura natura, ma storia. Si tratta di uno sguardo non neutro e pertanto non in grado di individuare uno stato naturale. Esiste una disuguaglianza fisica, ossia naturale, che è indiscutibile (ma anche minima): è autosufficiente e nutre pochi bisogni da soddisfare (nutrimento e riproduzione). In realtà non è un animale naturalmente politiche (critica ad Aristotele) e nemmeno homo homini lupus, poiché non è naturalmente predisposto a imporsi sugli altri: vive in una condizione solitaria e si confronta solo con pochi bisogni primari Nell’animo umano esistono due principi fondamentali: l’amor di sé (autoconservazione e il rispetto di del proprio corpo e della propria mente) e la pietà (elemento di empatia relazionale). Questa pietà sostituisce la legge e la regola nello stato di natura: non si può disobbedire a qualcosa che si sente (è una prerogativa immanente). Accanto a questi due nuclei fondamentali dell’uomo naturale è inoltre presente la perfettibilità, ossia una caratteristica tipicamente umana che consiste nel saper cambiare se stessi. E proprio a questa attitudine nasce la tendenza a stabilire delle leggi: questa tendenza dà avvi aa un processo di socializzazione scandito da diverse tappe (nascita dei nuclei familiari, delle nazioni sulla base di uno stile di vita condiviso e la formazione delle leggi). Nella vita sociale nascono sentimenti e 85 relazioni nuove come quelle coniugali o familiari. Si definiscono così diffenreze ulteriori rispetto a quella naturale: differenza di genere, secondo cui uomini e donne svolgono attività differenti. Le aggregazioni di festa come canti e danze sono l’inizio della perdita dell’innocenza (ognuno cominciò a ocniderare gli altri e a voler essere considerato pure lui e la stima pubblica ebbe un pregio. Chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, eloquente divenne il più stimato; nacquero vanità e disprezzo, vergogna e invidia). Poiché nascono sentimenti e giudizi fra le persone: lo sguardo degli altri su di noi inizia a essere importante (la stima divenne un pregio). Così si formano nuove differenze: ci sarà chi è più abile a ballare a cantare, la bellezza e la bravura sono esaltate (che oscurano altri e anche anche loro qualità). Così si generare vanità, disprezzo, invidia: composti funesti che leniscono felicità e innocenza. L’amor di sé che esprimeva il diritto naturale alla vita di ogni uomo si trasforma in un sentimento artifiacle, ossia l’amor proprio, che fa prevalere l’apparire sulla’essere. Da una disuglianza naturale diviene così accompagnata da una disuglianza politico/morale. Così nessuno è più in grado di bastare a se stesso e nasce la divisione sociale del lavoro (ognuno non è più autosufifcnete e quindi nemmeno libero). Da queste prime forme di vita sociale si genera uno sviluppo e moltiplicazione dei bisogni che rendono impossibile la condizione di autosufficienza e quindi libertà: nasce la divisione sociale del lavoro Il proliferare di attività produttive insieme al caso funesto ha istituito la proprietà privata delle terre: punto di non ritorno. Chi rivendica una proprietà privata è un impostore, perché i frutti della terra sono di tutti. L’idea di prieità non si è formata di un tratto, ma è arrivata con il progresso intellettuale e tecnologico (lumi aumentati e trasmessi che hanno condotto all’istituzione della proprietà privata, punto limite in cui arriva alo stato di natura). Non è sufficiente solo un impostore che affermi “questo è mio”, ma un insieme di persone che credano a questa affermazione: il loro consenso disinformato ha legittimato questa iniqua recinzione. Forse è stata una vicenda più lunga e probabilmente questa aide dai probità non si è formata d’un tratto, ma si è costruita su progressi, aumento di industria e lumi aumentandoli fino a decretare la fine dello stato di natura. La tutela della proprietà ha finito con il sancire la disuguaglianza istituita dall’impostura di colui che ha decretato la proprietà del bene. Movimento che porta lumi, ma anche il prezzo di questi: nemmeno i selvaggi americani sono a quello stato primitivo, ma già nella storia. Non si può tornare a quattro zampe (non ci si può chiamare fuori completamente dell’orizzonte sociale). Il processo di civilizzazione è un movimento irreversibile, ma casuale e non necessario. R considera la naturalità come una serie di norme ideali a cui tendere, ma è anche consapevole che la realizzazione dell’individuo al suo grado più alto di può dare solo all’interno di un orizzonte sociale. Si instaura in tutto il pensiero di R una tensione tra natura e artificio: il passaggio dallo stato di natura alla società civile ha da un lato inaugurato la libertà morale dell’individuo e dall’altro anche l’artificio che ha corrotto tale moralità. Dove c’è degenerazione, c’è anche l’elemento della scelta e quindi è anche il tempo e il luogo dell’esercizio del bene: nella società c’è l’esercizio della libertà morale che invece l’uomo di natura non conosceva. Nella società si dà l’esercizio della libera scelta morale, che invece l’uomo nello stato di natura non possedeva. R non vuole operare un ritorno alla pura natura o un annullamento totale dell’artificio, ma formulare l’idea di un individuo che sia capace a rimanere nella storia e nella società (l’artificialità della condizione sociale è inevitabile), rimanendo per quanto possibile fedele alla naturalezza originaria. Non si può tornare indietro, ma bisogna lavorare sull’individuo contemporaneo in modo che possa comprendere l’elemento di artificio e corruzione nel tentativo di recuperare parzialmente e per quanto concerne la società francese settecentesca L’uomo da libero e indipendente che era prima, a causa di una nuova quantità di bisogni, asservito a tutta natura, e sopratutto ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schivo anche quando ne diviene il padrone: se è ricco ha bisogno dei loro servizi; se è povero ha bisogno del loro soccorso. Prima l’uomo era solo asservito alla natura, mentre con la società civile gli uomini diventano servi gli uni degli altri. Non basta essere ricco, perché non può fare a meno di essere servito: così il ricco deve trovare o vantaggio nel suo, o il povero dev’essere ben diposto verso chi gli può permettere una sopravvivenza che non può garantirsi. Non basta essere dal lato favorevole della disuguaglianza e pertanto bisogna che ognuno cerchi di interessare gli altri alla propria sorte, di fare in modo che trovino il loro vantaggio nel lavorare per il suo (chili povero si renda ben disposto e amabile da chi fornisce aiuto). L’ambizione divorante ispira tutti gli uomini una triste inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia tanto più dannosa perché per agire con più sicurezza, si 86 mette spesso la maschera della benevolenza: sempre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a danno degli altri. R non solo ha individuato tale naturalezza ordinaria in contrapposizione all’artificio sociale in cui siamo immersi, ma ritiene anche di possederne le chiavi per un recupero di questa nei limiti del possibile. Opera autobiografiche, ultima parte della vita di R pubblicate postume: in tutte e tre c’è il riemergere del meccanismo della memoria e del ricordo (riemergere dei residui dell’infanzia), la traccia di un momento aurorale dell’individuo R, l’infanzia: una condizione non immune dal dolore (morte della madre alla sua nascita e rapporto con il padre compromesso sotto certi aspetti), ma R in questo tempo tende a porre le caratteristiche originarie della sua natura; innocenza e trasparenza che la vita e la storia non hanno ancora rovinato. Tentativo di recupero di innocenza e orignirarietà. La memoria (e anche l’immaginazione) sono facoltà capaci di innescare un recupero dell’autenticità originaria e di innocenza. La rivendicazione che troviamo con accenti diversi in tutte e tre le opere è quella della propria marginalità. R si definisce un essere a parte e pensa di avere uno sguardo altro e porsi al di fuori del suo tempo e della sua società per far emergere l’elemento di luce, opposto all’ombrosità dell’apparenza della maschera artificiosa e afferrare i diritti dell’io, percorrere gli spazi della soggettività, esaltare contro un male opaco, le luci delle illusioni e delle chimere. In queste opere si commistionano diversi registri e codici: storico, politico, memoriale (capace di recuperare innocenza e innescare l’illusione) e chimerico R mette in movimento una grande scrittura: vertice letterario con registri stilistici diversi. Confessioni: tanti registri diversi: dal pittoresco e avventuriero al drammatico, più angosciato e oscuro, leggero e salottiero a tratti con interiorizzazione della vicenda (come la vicenda dei figli) Dialoghi: toni concitati e angosciati (testi con lunga fortuna storiografica: si manifesta in forma più estrema la mania persecutoria di R), presenta una discussione in tre tempi: lui è da un lato filosofo e uomo e dialoga con un francese, rendendo conto delle critiche fatte a un autore tanto estremo; il francese smettere di credere alle persecuzioni: tema del complotto Fantasticherie: registro crepuscolare e malinconico, legame e riflessione con un orizzonte di innocenza e verità Confessioni: tendenza al sentimentalismo (non più settecentesco, ma che apre a una passionalità romantica), amore per la natura e condanna della condizione urbana, esaltazione dell’ingenuità e dell’innocenza (un filo rosso che si può osservare all’interno dello stesso R) e allo stesso tempo rimpianto per le occasioni e illusioni perdute (consumate all’interno di un orizzonte tanto oppressivo e artificioso da tradursi in peccato in senso morale), come quella’innocenza si è tradotta in peccato (morale) Tratti letterario e romanzesco sebbene siano autobiografia: segmentate da uno stile personale e morale (cambio di registro, spesso inaspettato e contrastante; non riconducibile ad alcuna costruzione retorica e qualcosa che risieda non nell’individuo R, proprio come lotta al paradigma: l’unica dottrina di R è l’individuo R). L’unico paradigma è proposto dall’individuo stesso: essere fuori dalla corruzione che lo condanna alla solitudine (presente in tutti e tre i testi: destino di ciò che R rappresenta oltre a se stesso all’intento delle Confessioni); rappresenta l’uomo naturale, isolato, sincero, buono, integro (per questo isolato). Cesura fortissima tra prima (I-VI) e seconda parte (VII-XII) in toni e atmosfere: la seconda parte si apre con la riproposizione dello stesso incipit (intus et in cute: nuovo spellamento ma con toni diversi). Prima parte: emerge il tema dell’innocenza e integrità del giovane R, che essendo nella naturalità (che consiste in quella pietosa e amor di sé) è anche fragile (un adolescenza luminosa e vulnerabile allo stesso tempo, segnata ad ogni modo dalla tendenza al bene): si confronta con l’errore della società del tempo, ma ne esce bene con rinnovate energie (luce che caratterizza la mess ain prova di R con le persone e la società del suo tempo). Cesura drammatica che annulla la via di mezzo della maturità adolescenziale, così si passa dalla giovinezza, che passa con la parentesi parigina, alla senilità, dominata dal fantasma della persecuzione e del complotto, una solitudine non di chi non è integrato, ma di chi è spiato da occhi che attraversano tutti i muri (da ogni parte c’è qualcuno che guarda con occhio sinistro questa ultima parte: un mondo che trama contro i modi di comportamento di R). Doppio registro che si intreccia. Nella seconda parte le avventure esistenziali si dileguano, lasciando spazio ai segni di una predestinazione: la sopraffazione del giudizio negativo del costituirsi come perdete, oggetto di persecuzione della persona naturale, empatia e innocente che R reputa di essere. 87 su cui possa contare ed è il concatenarsi dei sentimenti che hanno contrassegnato la successione de mio essere e, attraverso di essi, quella degli avvenimenti che ne furono causa o effetto. Ogni tassello è posto di forno al lettore nello stesso ordine consegnato dal recupero dell’interiorità, afifnhcè il lettore possa ripercorrere la ricostruzione di un’intera esistenza e valutare la precisione delle connessioni (mentre altri autori preferivano celare queste suture). Primato del concatenarsi causale dei sentimenti su quella delle vicende. La cesura nelle conf è una cesura nella stessa concatenazione dei sentimenti, c’è la perdita della lei dai equilibrio possibile e si sbilancia su un lato: luogo buio e non riferibile, c’è fedeltà nel mostrare questa voragine. La cicatrice nascosta da M, R la evidenzia: quella rappresenta la più vistosa, ma sono numerose le cicatrici che sapranno garantire la veridicità delle Confessioni (cicatrici del corpo e della storia). Questo sono l’indice e la garanzia di verità: R gioca la carta dell’inconfessabile, ciò che si tende a dimenticare e non raccontare viene invece esposto. Presentazione di questo punto nel man. di Neuchatel: chi riesce a portare di fonte agli altri i luoghi più oscuri della propria anima e gli episodi più neri della vita è pronto a confessare tutto. Questa è la prova dura ma certa della mia sincerità: sarò veritiero senza riserve, dirò tutto. Sarò fedele al mio titolo e mai la più timorosa delle devote ha compiuto un esame di coscienza migliore di quello a cui mi preparo: anche in questo caso orizzonte della confezione tradizionale, ma secolarizzazione di questo. La confessione dell’inconfessabile (episodio spia nel II libro: un’orribile bugia detta nella prima giovinezza): evento accaduto quando R era servitore nella casa di una signora a Vercelli. Alla morte della signora R dice: non sono uscito da quella casa come ero entrato. La colpa di un ragazzo ha avuto conseguenze nefaste: aver fatto morire nell’ignominia una giovane che era stimabile e onesta. Alla morte della signora Vercelli, lealtà dei domestici era tale che non si trovò nulla di mancante nell’inventario, tranne un nastrino: lo ha rubato R. Non ebbe l’accortezza di nasconderlo (tema dell’ingenuità) e glielo trovarono subito: lo “interrogano” e lui mente dicendo che gli era stato dato da Marionne, una giovane cuoca della signora Vercelli, aveva un’aria di modestia e dolcezza, fedele e graziosa oltre che onesta. Tutti si stupirono quando fece il suo nome. Egli era stimati tanto quanto lei e si dovette decidere chi tra i due fosse il colpevole: R la accusa in modo sfrontato e le lei legato uno sguardo che avrebbe disarmato un demonio. Con impudenza infernale R conferma la sua versione e Marionne in lacrime risponde dicendo che lo credeva un uomo buono, mentre in realtà la resa infelice e non vorrebbe essere lui. Ricade il peso della colpa su R: è stata tradita dalla sua mitezza e soffocata dall’arroganza sfacciata di R. Entrambi vengono licenziati e il padrone di casa afferma che la coscienza del colpevole avrebbe vendicato l’innocente (predizione non vana). Ancora oggi R afferma che nel sonno lo rimprovera la stessa figura di M come se avesse commesso tale peccato ieri: ci ha pensato meno, ma nel pieno di una vita tempestosa riemerge e toglie la più dolce consolazione degli innocenti perseguitati, posizione sostenuta in tutto il testo, e afferma l’inconfessabile: è stato anche lui persecutore (non può fregiarsi fino in fondo di essere l’alfiere dell’innocenza perseguitata, perché egli stesso si è fatto veicolo di una forma di persecuzione). Questo episodio rievoca e rinforza quell’intento di autenticità e sincerità assoluta. Si parla di questo stesso episodio anche nella IV passeggiata della fantasticherie, che verte principalmente sul rapporto tra menzogna e verità: si apre con una riflessione che riguarda l’insegna stessa di R, ossia il dedicare la propria vita alla ricerca e racconto della verità. Egli afferma che il conosci te stesso di Delfi non era una massima tanto facile da seguire come aveva creduto nelle confessioni. A partire dal ricordo di questo episodio R comincia a riflettere sul tema dell’avversione verso la bugia, la quale secondo lui deriva dal rimorso per aver mentito in tale circostanza tanto delicata. Comincia un esame di coscienza. Qual è la differenza che ci porta a dire verità o menzogne? È sempre necessario dire la verità? Oppure ci sono deroghe possibili senza inficiare la pretesa di sincerità del racconto? R afferma di aver letto che mentire è celare una verità che si deve manifestare. Ma qual è allora il criterio della necessità della manifestazione? Nella quarta passeggiata R redige una specie di classificazione della menzogna: - Impostura: quando si mente a proprio vantaggio - Frode: quando si mente a vantaggio altrui - Calunnia (peggiore): quando si mente con l’intento di nuocere, quando si sa che il proseguire nella menzogna porterà danno a qualcuno (Marionne nel caso di R) R afferma l’esistenza di un altro ordine di menzogna, una “bugia innocente”, che lavora per sottrazione o deformazione di una cosa priva di utilità o che non arreca nessun danno: mentire 90 senza profitto, né pregiudizio di sé o. Di altri, non è mentire: non si tratta di una menzogna, ma di una finzione. La finzione può essere di due tipi: - Favole o apologhi: hanno intento morale e l’unico scopo è offrire verità utili in una forma piacevole, gradevole sensibile. Chi offre la verità in questa conformazione non mente affatto - Racconti e romanzi: non hanno mira di nulla se non del divertimento e se chi li scrive prende che siano reali verità, allora sono verità mal restituite al lettore; ma tuttavia chi riuscirebbe giudicare colpevole la menzogna all’interno di un romanzo? Sono opere che a differenza delle favole non hanno uno scopo morale, ma sono scritti con con il solo scopo di divertire. Questo schema generale lo applica al proprio caso a partire dal suo comportamento nella vita quotidiana e ribadisce che non è disposto a giudicare menzognero l’orizzonte letterario appena descritto. Afferma di essere abituato alla solitudine e quando si trova in società è timido, impacciato, arrossisce facilmente e inciampa nei propri discorsi e così inventa storie per non rimanere muto. Ha cura che le sue finzioni non diventino menzogne: inventa storie per imbarazzo: non gli vengono in mente abbastanza in fretta verità divertenti così ricorre alla finzione. Ma quando R è da solo, non pressato da alcun obbligo mondano, né tradito dalla timidezza, né costretto davanti a un foglio bianco, era per lui possibile stare ai suoi soli ritmi: non ho mi detto di meno (pag73). Nelle confessioni non ha mai detto di meno, al massimo di più ed è strato frutto dell’immaginazione; la memoria spesso mancava: quello che è svanito dal ricordo è stato riempito con dettagli immaginari e resi legittimi proprio grazie all’immaginazione. Si trattava sempre di dettagli ininfluenti e mai in contrasto con la sostanza del sentimento provato (non ha mai sottratto, al massimo aggiunto e mai nei fatti, ma nelle circostanze). R aveva appena sostenuto di essere stato diverso da M, di non aver nascosto o deformato nulla, mentre ora è costretto a riconoscere che qualche volta può essergli accaduto di comportarsi proprio come M. Se per istinto involontario ho nascosto il lato deforme dipingendomi di profilo queste reticenze sono giustificate da reticenze ben più bizzarre: ha nascosto il lato deforme e si è dipinto di profilo come M (quella rivendicazione assoluta di diversità da M gli appartiene solo in parte, compensata dal fatto che spesso ha taciuto il bene e mai il male). Nell’episodio di Marion e anche di altri due che vengono recuperato nella quarta passeggiata. Ha descritto tutta la giovinezza senza dar sfogo al bene fatto per non tessere il proprio elogio nel confessioni. Afferma di aver omesso nelle confessioni almeno due episodi in cui aveva taciuto per non recare danno a chi lo aveva in qualche modo fisicamente ferito. R ammette di essere ricorso all’aggiustamento di qualche passaggio, sebbene a suo giudizio non abbia inficiato il significato e la verità degli avvenimenti e sopratutto dei sentimenti delle Conf. Forse questo è davvero un vertice di sincerità, ossia l’ammettere che anche la sincerità assoluta non può non includere a suo interno qualche aggiustamento, ma che non tocca la verità profonda. Giacomo Casanova 1788 afferma di non poter più chiamare la propria autobiografia Confessioni perché infradiciata da uno stravagante, ma la sua storia sarà una confessione. R ha dato un taglio inaccettabile al termine: un paradigma di verità assoluto non accettabile. L’autobiografia è tanto più imparziale quando recupera in maniera asettica senza il rilevo della propria persona. Sono trascorsi pochi anni dalla pubblicazione delle Confessioni e il paradigma di assoluta veridicità proposto da R viene proclamato impraticabile e inadeguato. Per nessun motivo il racconto autobiografico, secondo Casanova, può arrogarsi il diritto di intraprendere uno scavo compiaciuto dell’io, abbandonando l’imparzialità del resoconto asettico di avvenimenti. In R giudice di JJ (dialogo III): dove mai il pittore e apologeta della natura, oggi così sfigurata e calunniata, può aver preso il suo modello, se non nel proprio cuore? L’ha descritta come la sentiva dentro di sè. Le Fantasticherie di un passeggiatore solitario (1776-78) sono l’ultima opera realizzata da R e la decima passeggiata incompiuta è stata scritta ad aprile, due mesi prima della morte improvvisa di R: una sorta di testamento spirituale. Rimane un quaderno con le prime sette passeggiata e attraverso gli appunti vengono ricostruite anche le ultime tre pubblicate postume nel 1782. Nella terza lettera a Malesherbes R scrive: la felicità è opera mia. Qualunque cosa si possa dire, sono stato saggio perché sono stato felice per quanto la natura mi ha permesso di esserlo: non sono andato lontano a cercare la felicità, l’ho cercata vicino a me e lì l’ho trovata. La dimensione dell’esteriorità è di incomprensione. Ci addentriamo nel percorso della fantasticheria, diverso da un percorso di razionalità discorsiva: attraverso la reviere il ritorno a se stessi non è un atto irrazionale. Secondo Strarobinski per R rientrare in se stesso vuol dire avvicinarsi a colpo sicuro a una maggiore chiarezza razionale e a un’evidenza immediatamente sensibile, in contrapposizione 91 al nonsenso che regna nella società. L’attivazione del meccanismo della fantasticheria non è puramente irrazionale o propria della sola dimensione del sentimento: contrapposizione tra la chiarezza che si può riscontrare all’interno di in stessi e la confusione dell’esteriorità. Se questo ripiegarsi su se stesso permetteva ad A di svelare la presenza del divino all’interno dell’anima, quelle di R sono un atto di ricerca dell’autenticità dell’io, della sua natura, condotto in un contesto di vita dominato dall’inautenticità e dall’opacità delle relazioni fra gli individui, oppressione di un orizzonte sociale che cancella quella trasparenza che R ricerca (opacità tanto forte da gettare ombra sulla capacità dell’individuo di conoscere se stesso). Secondo Strarobinski R mette in contrapposizione questi aspetti di opacità, ombrosità dell’esteriore e trasparenza, limpidezza interiore: ha bisogno di questo sfondo di tenebre per far risaltare la figura luminosa della sua innocenza e felicità. Un complotto cupo e impenetrabile, definitivo è costruito per contrasto. La solitudine di R sono certamente questo sfondo importante, ma insieme alla persecuzione e disperazione sono la materia con cui lavora nella produzione della fantasticheria producendo questo passaggio nell’anima di R dall’oscurità e isolamento alla riconquista della propria luminosità. Questo è il movimento delle fantasticherie: passaggio da dolore in felicità; in ognuna si verifica una metamorfosi che illumina progressivamente il dolore trasformandolo in gioia (ogni passeggiata ricopre un tema specifico: la quarta su verità e menzogna). In ogni passeggiata si presenta una metamorfosi: inizia con toni cupi e drammatici e man man si assiste alla trasformazione di dolore in gioia (una conquista di autenticità e trasparenza che inizia da un fondale opaco). Nella quinta passeggiata viene affrontato il tema dell’acqua: può essere letto come esempio di trasparenza e fluidità che R contrappone all’opacità oscura e indistinta delle azioni umane (in A l’acqua simboleggia l’inconsistenza delle singole creature che tentato di tornare alla dimensione divina). Si svolge sulle rive del lago di Bielge, dove l’acqua è un elemento di limpidezza e trasparenza, fluidità contrapposto alla torbidità delle azioni degli uomini (valore salvifico dell’acqua a differenza di A). Nel corso delle Confessioni R aveva costruito l’elemento introspettivo per la propria giustificazione, dell’apologia di un’innocenza cancellata dalla cattiveria del mondo, il meccanismo lavora attraverso una polarizzazione: il racconto che R fornisce nelle conf è quello di uno sconfitto, di un uomo oppresso (nella seconda parte specialmente dalla cattiveria del mondo), ma raccontando quegli eventi è possibile e ripercorrendoli interiormente, è possibile risarcire la sconfitta attraverso la scrittura, recuperare il dato biografico per potere vedere da un altro punto di vista la vicenda già conclusa. Il racconto è in grado di risarcire attraverso la scrittura quanto è consegnato al passato. Il giudizio degli altri condanna R, che è un incompreso (condizione che si genera non appena si passa dall’individuo isolato all’individuo sociale che è costretto al confronto, paragone e giudizio) e oggetto di ingiustizia e per lui giustizia e verità sono sinonimi e indifferentemente li usa l’uno per l’altro (IV pass). Come impone R il proprio punto di vista? È un marginale, non ha titoli, non è uomo di rango e ha avuto una vita difficile, ma è una figura molto particolare rispetto a quello’orizzonte opaco e indistinto: rivendica doti interiori straordinariamente diverse dagli altri uomi e tali da rovesciare il dato della marginalità sociale: non sono fatto che nessuno di quelli che ho incontrato; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Si tratta di una eccezionalità rivendicata dall’interno e che elimina la propria condizione sociale segnata dalla solitudine e sconfitta: per quanto oscuramente abbia potuto vivere, se ho pensato più e meglio dei re, allora la storia del mio animo è più interessante della loro. La complessità del meccanismo autobiografico di R: marginalità subita, e rivendicata allo stesso tempo e che dunque diviene una scelta volontaria. Si tratta di una marginalità imposta nel giovane vagabondo, cacciato dalla città natale e costretto a sperimentare la povertà; imposta nell’intellettuale debuttante che dalla periferia si affaccia al gran mondo parigino dei letterati. Arrivato al successo, vissuto con gli altri philosophes nei salotti, R si mostra incerto, imbarazzato e spaesato (non era adatto). Anche nel momento di massimo successo R mantiene sempre i tratti del marginale anche nei legami familiari con una donna semianalfabeta e l’abbandono dei figli. Dopo il 1756 avviene la rottura e la marginalità diventa voluta: copiare musica per vivere, divorzio violento con l’ambiente dei letterari (fase tanto delicata da non volerne parlar nelle confessioni), le proibizioni e sequestri delle sue opere, condanne all’esilio, rinnovati vagabondaggi e la ricerca fallita di nuove radici a Ginevra. In tale marginalità c’è una profonda ambiguità: si sente straniero nel mondo e questo sentimento rappresenta sia un destino dolorosissimo sia un privilegio, eccezionalità della sua figura collegata a quella del suo sentimento e della sua capacità di addentrarsi nelle profondità del proprio animo. La sua solitudine, il rigetto della società, apre a una possibilità di conoscenza maggiore non solo per l’eccezionalità sentimentale dell’individuo R, ma anche la prospettiva di ricerca dell’essenza 92 Le FdPS rappresentano una sorte di diario di un uomo perseguitato e respinto al di fuori da qualunque ordine, ma che proprio per questo può diventare il modello su cui costruire un ordine umano più legittimo. Nelle dieci passeggiate si ricerca la perfetta integrazione (quasi identificazione) tra io e mondo naturale, in cui R è allo stesso tempo scrittore, protagonista e unico destinatario (Strarobinski: il libro dell’estrema felicità e insieme della più alta felicità concessa all’uomo quaggiù). Le passeggiate ci mostrano come si innesca e che cosa si prova in quella fusione tra io e mondo naturale. Nella seconda passeggiata R presenta la propria vita come innocente e felice, che sta declinando. Un’anima ancora ricca di sentimenti forti, che sta appassendo per la tristezza: ero nato per vivere e stavo morendo senza aver vissuto. Si inteneriva su queste sue riflessioni, ripensando alla sua giovinezza e alla sofferenza subita quando lo hanno esiliato dalla società umana. I toni cupi della seconda passeggiata si convertono nel procedere del cammino; R incrocia un grande cane danese, che lo travolge e si fa abbastanza male: sensazione deliziosa derivata dall’immersione nel cielo, rapito nell’attimo presente non si ricorda di nulla, vedevo scorrere il mio sangue come vedevo scorrere un ruscello… dal dolore al risarcimento e ci permette di capire il sentimento di fusione con la natura (Carte: soltanto io al mondo mi alzo ogni mattina con l’assoluta certezza di non poter provare nessuna sofferenza nuova durante il giorno e di non poter coricarmi più infelice). Livello di infelicità assolutamente compiuto tanto che nessuno può più fare del male a R Le fantasticherie si aprono su un estrema infelicità: solitudine assoluta, complotto universale, sottratto all’orizzonte di tutti gli altri uomini. Ma separato da loro e da tutto che sono io? Questo debbo ancora cercare. Una generazione intera si è divertita a sotterrarmi ancora vivo: tema della morte. Tutto è finito per me sulla terra (morto-vivente): un altro mondo è quello di R: completa alienazione. Trova pace soltanto in se stesso: non devo né voglio occuparmi di altri che di me. In questo stato d’animo riprendo l’esame severo delle Confessioni. Consacro i miei ultimi giorni a studiare me stesso e a preparare in anticipo il conto che non tarderò a rendere di me. Mi dedico alla dolcezza di conversare con la mia anima, l’unica cosa che gli uomini non possono togliermi. Riflettere sulle mie condizioni interne cercando di correggere i residui di male. Questo è reso possibile dalla passeggiata che sono orizzonte di contemplazione: scrive quello che può provare (diario di sentimenti) e rinnoverà tale sentimento ogni volta che ne leggerà (doppio R: scrittore e lettore). Diario informe delle mie fantasie: con poco collegamento come le idee della veglia e quelle del giorno dopo (dimensione del sogno). Conoscenza di sè attraverso i sentimenti e pensieri di cui il suo spirito si nutre: ci legittima a considerare questo testo come un’appendice delle Confessioni, ma si tratta di ogni differenti; non c’è più un interlocutore esterno, non ci sono uomini e quindi non ha senso nemmeno confessarsi. Rinuncia all’interlocutore e ai lettori che erano evocati nell’esordio delle Conf. Si vuole liberare del corpo. Farà su di sè quello che i fisici fanno Fano sulla’aria, applica il barometro alla sua anima in modo da fornire dati di conoscenza certa come i loro. Non vuole costruire un sistema, ma semplicemente registrare. Le fantasticherie appaiono sia come prosecuzione delle Conf sia come una rinnovata occasione di confronto con i Saggi di M: nelle F viene meno la narrazione lineare a favore di una scrittura che ritorna sempre su se stessa. Non c’è un filo narrativo continuo, ma costituiscono un autoritratto composto con tocchi sparsi (ricordano per questo più i Saggi che le Conf): il vagabondaggio di M della riflessione e della scrittura divengono un vagabondaggio onirico in R, connotato dal trasognamento (M scriveva per l’altro e fondava la sua scrittura sulla presenza di lettori, mentre R scrive le F solo per sè: protagonista, scrittore e lettore unico del testo). La rilettura del testo gli permetterà di innescare la memoria immaginativa s sarà in grado di recuperare non solo la dolcezza a contatto con il mondo delle chimere, ma anche quella provata nello scriverle (ci sono un sacco di R nelle fantasticherie: chi passeggia, chi scrive, chi rilegge, il R vecchio prossimo alla morte: come se vivesse con il R più giovane. R o sceglie di tacere o si deve creare un’alterità di lettore e la trova ragionando sulle alterazione che l’io subisce, sul prima e sul dopo , un R memo vecchio e uno decrepito: la stanza temporale permette a R di rivolgersi a se stesso come a un altro, pur riconoscendosi e ripercorrendosi con gioia; essere sè e un altro, ma riconoscendosi sempre. Questo libro nella solitudine totale rimanda a un solo lettore: si tratta dell’unico circuito in cui R può essere sicuro di essere compreso davvero e poter consegnare una verità estrema con modalità estreme. L’io autore e io lettore coincidono nella solitudine circolare dell’isola, immagine che ricorre spesso nella scrittura di R ed è sull’isola (Saint-Pierre nel lago di Bienne, che egli trascorre uno dei momenti più intensi e felici della sua vita (episodio descritto nella Quinta pass). Tema del silenzio: parla solo la natura. 95 Breve periodo su questa isola ma ci sarebbe per tutta la vita senza stancarsi mai, senza lasciar nascere nell’animo il desiderio di una condizione differente (considero quei due mesi il periodo più felice della mia vita, talmente felice che mi sarebbe bastato per tutta l’esistenza senza lasciar nascere per un solo istante nell’animo il desiderio di una condizione diversa). La felicità consiste principalmente nel prezioso far niente (il mio soggiorno fu l’occupazione deliziosa e necessaria di un uomo votatosi all’ozio). Sviluppa conoscenza botanica e cammina ovviamente. Si reca in mezzo al lago con una barca: mi lasciavo andare lentamente alla deriva, in balia delle onde, a volte per parecchie ore immerso in mille fantasticherie confuse ma deliziose che senza avere alcun oggetto determinato o costante risultavano mille volte più gradite dei piaceri della vita. L’essere vicino all’acqua lo tuffavano in una dolce fantasticheria (il mormorio delle onde ed il movimento dell’acqua arrestavano i miei sensi, scacciavano dal mio animo ogni altra agitazione e lo tuffavano in una deliziosa fantasticheria. Il flusso e riflusso dell’acqua, il suo sciacquio continuo ma ad intervalli più forte mi colpivano senza posa le orecchie e gli occhi, supplivano ai movimenti interni che il sogno spegneva in me… è un sentimento puro della propria esistenza che non necessita di un’annessa riflessione. Il tempo veniva trascurato. Ha la consapevolezza di stare in un tempo senza tempo, una distensione, una durata e non vivacità. Tema del flusso continuo inizio IX e V (tutto sulla terra è in flusso continuo): non abbiamo quaggiù che tempo che passa, e pertanto dobbiamo catturare quegli istanti fuori dal passaggio che durano per sempre. La felicità non è quello stato fuggevole che ci ascia il cuore inquieto e ci consegna al rimpianto: la felicità è equilibrio stabile, non distendersi vero passato o futuro, ma stare in un tempo senza tempo in cui il presente dura sempre. La gioia è data dall’attingere se stessi e la propria esistenza, puro sentimento dell’esistenza, di contentezza, pace, premio sufficiente da solo a rendere questa esistenza chiara e dolce, laddove si è in grado di allontanare tutto ciò che tende e distrarci- R lavora su questo lessico religioso: in questo mondo, quaggiù, su questa terra… costruisce una dimensione di differenza e alterità rispetto all’esistenza futura. Su questa terra siamo in grado di arrivare a un elemento di autosufficienza paragonabile a quella divina (fin tanto che dura questo stato si è sufficienti a se stessi come lo è Dio) Terza Lett M: credo che se avessi svelato tutti i misteri della natura, mi sarei sentito in una condizione meno piacevole di quell’estasi inebriante alla quale la mia mente si lasciava andare senza opporsi. Una forma di felicità che ha a che fare con il divino, senza amarezze, noie, rimpianti. La passeggiata come forma di metamorfosi, un progressivo cambiamento di dolore in voluttà e approdo all’animo più profondo di R, dove risiedono felicità, bontà, innocenza. Prima: i miei nemici non mi impediranno di gioire della mia innocenza e di finire i miei giorni in pace; Settima: dubito che vi sia altro uomo ne mondo che abbia realmente compiuto meno male di me; Ottava: io rido di tutte le loro trame e godo di me stesso. Dal complotto universale al decreto eterno di Dio. Questo accordo universale troppo perfettamente congegnato, straordinariamente congegnato al punto di non dubitare che il suo pieno successo sia scritto nei decreti eterni. Questa idea lo consola: non arrivo al punto di A, che si sarebbe consolato anche di essere dannato se fosse stata la scelta di Dio, la mia rassegnazione deriva da un altro motivo: Dio è giusto: vuole che soffra e sa che sono innocente. Ecco il motivo della mia fiducia. Lasciamo dunque fare gli uomini e il destino, impariamo a soffrire senza mormorazioni: tutto deve infine rientrare nell’ordine e il mio momento verrà prima o dopo. Impariamo a soffrire lavorando su questo meccanismo di felicità. Lezione Carannate Trinità importa nitida nella nostra anima, grazie alla quale l’uomo avere una qualche concezione della divinità: grazie all’impronta di Dio nell’uomo, questo può partire per la ricerca della divinità. De venatione sapientiae: NC passa in rassegna gli autori che lo hanno stimolati, in forma di caccia, in cui una figura chiave è Agostino (cacciatore di sapienza). A ha avuto ed è stato capace di sottolineare che cercare la spaxieza significa ricercare l’uno al di là del molteplice. A rappresenta per NC un riferimento tra testo sacro e interpretazioni platinoniche. Il dogma della trinità è in contrasto con la nostra esperienza quotidiano, ma le si può NC ritiene di essere un prosecutore di A: continuità sostanziale sulla possibilità di rendere omogenei la tradizione sacra, in particolare il testo biblico, e la tradizione platonica e neoplatonica. 96 Con Ficino, progetto filosofico che NC aveva intrapreso, si procede: F commenta e traduce opere di Platone, Plotino e Proclo (divulgatore del pensiero platonico): porre la filosofia platonica come principale riferimento filosofico per articolare una sorta di rilettura della fede cristiana (ripensare il rapporto tra teologia e filosofia). All’insegna dell’autorità di A, si apre la Teologia Platonica di F: egli sottolinea come A abbia scelto di imitare tra tutti i filosofi, platone considerato come cristiano (se non ci fossero necessità storiche); A scrive ch enessuno come i platonici tra. Pagani si è avvicinato alla rivelazione cristiana. A diventa il modello a cui improntare una pia filosofia: F si ispira a lui nella sua opera filosofica; da A F trae le conclusioni sull’immortalità dell’anima, le sue facoltà e come essa può conoscere Dio. F concordanza tra filosofia platonica e cristianesimo: aristotelismo insegnato nell’epoca di F, i erano fatte strada interpretazioni che concludevamo con asserti in contraddizione con il cristianesimo specialmente sulla’immortalità dell’anima (il riferimento a PL permette di restituistuire più correttamente il crisitnaeismo); immortalità dell’anima può essere discussa e analizzata attraverso argomenti platonici (utilizzabili a sostegno della dottrina cristiana, attraverso la mediazione di A: anima razionale indipendente in parte dal corpo). L’anima di estende per tuto il corpo: l’anima è presente in ogni angolo del corpo, ma tuta in ciascuna sua parte (intensificazione vitale). F cita quasi eternamente una epistola 166 che A dedica ll’orgine dell’anima. Per F A colui ch export I misteri platinici all’intento della trattazione cristiana. La verità ultima alberga nell’animo del’uomo. Se i plaoici avevo correttsmrtne compreso l’immanenza dell’anima: gli aristotelici avevano negato che l’anima albergasse all’interno dell’uomo. Non è necesario andar fuori di sé per ricerca la verità, ma bisogna sprofondare dentro di sé A dottore della chiesa platonico (sempre appellativo platonico ‘400). Con il ‘500 preoccupazioni che attengono questioni legate all’ambito religioso: testi di A rimessi in stampa, seconda edizione curata da Erasmo da Rotterdam: egli ci introduce alla questione della spaccatura tra il mondo della riforma protestante e i fedeli della chiesa cattolica. Lutero era ispirato ai principi degli scritti di A, su cui si riversa tale spaccatura. A era stato letto da Lutero, Calvino come uno di quegli autori che sembravano portare avanti una lettura delle scritture con primato grazie e aspetto secondario delle opere. Erasmo cura le opere di A per sottolineare che per quanto A fosse utilizzato dai riformati, comunque non poteva essere piegato agli socpi della riforma e E cerca di trovare in A anche un terreno di dialogo con i riformati. Giordano Bruno: lezioni prima di entrare in convento di un certo Teofilo, agostiniano. Ruolo fondamentale: contatto presto con scritti di A e con i testi della tradizione platonica. Per Bruno l’uomo è una creatura al pari di tutte le altre e per avere una qualche concezione della verità bisogna individuare strade nuove: ruolo fondamentale tradizione platonica. Divinità simile all’Uno plotiniano, forza produttrice che si manifesta nell’universo infinito: a questa diventa si può accedere attraverso un lungo ascesa attraverso intelletto e volontà, o meglio volontà e amore, ch epermottono di unirsi immediatamente con Dio. Per A contatto con Dio basato sulla volontà, sull’amore sulla sfera emotiva, poiché Dio non può essere conosciuto in modo esaustivo e completo ma può essere comunque amato. Ricerca strutturalmente infinita di Dio: anche quando si pensa di aver trovato Dio, bisogna cercarlo ancora (DE trinitate: ricerca che non giunge a compimento per la differenza ontologicadei due poli). È la volontà anche per B ciò che permette all’uomo di appropriarsi in un certo senso della divinità). B utilizza l’autorità di A per risolvere dubbi riguardo la trinità: inquisitori che lo interrogano sulìi suoi dubbi riguardo le “3 persone della trinità”: ammette di aver dubitato intorno al fatto che Figlio e Spirito possano non essere dubito persona (di cui non comprende esattamente il significato, ma anche A aveva riversato dubbi sul concetto di persona, a cui B attinge). B si inventa una citazione di sana pianta di A, ma allo stesso tempo sapeva che ne de trinitate c’era uacosa che andasse in questa direzione (VII libro: 97
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