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Storia della Filosofia - Vite dei filosofi, Diogene Laerzio , Sintesi del corso di Filosofia

Sintesi esaustiva delle "Vite dei Filosofi" di Diogene Laerzio (da Talete a Epicuro) con selezione dei principali filosofi trattati, approfondendone il pensiero

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Scarica Storia della Filosofia - Vite dei filosofi, Diogene Laerzio e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! STORIA DELLA FILOSOFIA DIOGENE LAERZIO (180 – 240) E’ stato uno storico greco antico, un grammaticus, un erudito vissuto sotto l'Impero Romano. La sua opera Vite dei filosofi è una delle fonti principali sulla storia della filosofia greca. Non ci è pervenuta alcuna notizia sulla sua vita; il nome Laerzio potrebbe derivare dalla città di Laerte, in Cilicia, l'odierna Alanya in Turchia; altri, attraverso deduzioni di carattere culturale, pur non pronunciandosi sulla sua origine, ritengono almeno che egli sia prevalentemente vissuto ad Alessandria. Diogene non dichiara esplicitamente la sua appartenenza a una determinata scuola filosofica; tuttavia dai giudizi espressi in alcune biografie traspare un'ostilità verso forme di pensiero superstizioso, la sua simpatia nei confronti di Epicuro e la sua difesa della scuola cinica. È noto come autore di un'opera in dieci libri: Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi. In essa esamina 83 figure di pensatori, dai Sette Sapienti a Epicuro, ove dispone le informazioni per scuole filosofiche, rispettando le successioni dei capi delle scuole filosofiche fissate dalla tradizione. La "Raccolta" ci è giunta mutila, in quanto il VII libro, dedicato agli Stoici, si interrompe bruscamente a metà del catalogo degli scritti di Crisippo; del resto, da indici manoscritti sappiamo che Diogene proseguiva la trattazione dello stoicismo almeno fino a Posidonio. Lo schema abituale usato da Diogene nel trattare di ciascun filosofo consiste in una biografia, spesso aneddotica, di una serie di massime del filosofo, dalla citazione delle sue opere e da una dossografia variamente estesa e precisa. Nella disposizione dei filosofi nel testo tiene conto della distinzione tra le due diverse scuole: ionica e italica, dandone una precisa CLASSIFICAZIONE; • Scuola ionica: comprende i filosofi provenienti dalla Ionia (attuale Turchia) nell’Asia Minore, colonizzata dai greci ionici. La filosofia si pensa iniziare ad Efeso, poi Diogene continua con l’elenco in base alla successione; • Scuola italica: comprende i greci dell’Italia meridionale. Diogene Laerzio non è l’unico che tenta l’impresa, ma la sua opera ci appare così tanto importante in quanto è l’unica pervenutaci di questo genere; di altre simili ne abbiamo solo alcuni frammenti. Con l’espansionismo di Alessandro Magno, la cultura classica si diffonde in Medio Oriente dando vita alla così detta Età Ellenistica che porta ad una contaminazione. Il nuovo centro culturale diverrà Alessandria, luogo di convivenza e incontro ove nasce un nuovo interesse per la storia della letteratura e della filosofia. Nasce in questo contesto la storiografia filosofica, che presenta 3 generi ben distinti: 1. GENERE DOSSOGRAFICO: raccolta delle opinioni/dottrine inaugurato da Teofrasto, allievo di Aristotele. Il metodo consiste nella raccolta di dottrine, organizzate per temi o argomenti. Il lavoro è sostanzialmente compilativo ma importante per conoscere e comprendere il pensiero antico. 2. GENERE BIOGRAFICO: inaugurato da Callimaco di Cirene, punto focale sono in questo caso le vite dei filosofi, di qui il riporto di aneddoti ad essi associati. Tale interesse è dunque già diffuso dall’età ellenistica ripreso ed utilizzato da Diogene Laerzio. 3. GENERE DIADOCHISTICO: da Diadoké = successione, consiste in un organizzazione dei pensieri in base alla successione maestro-allievo. I filosofi vengono spesso organizzati per scuole con la relativa successione dei singoli. Il suo iniziatore fu Sozione di Alessandria , a cui si fa risalire anche la distinzione tra scuola ionica ed italica. → L’opera di Diogene nasce come contaminazione tra genere biografico e diadochistico. E’ dunque in età ellenistica che si inizia a dare interesse agli stili di vita: la conoscenza della realtà è finalizzata al nostro vivere; il grande filosofo dimostra con il suo stile di vita di aver raggiunto la filosofia. Questa si presenta dunque come: (1) elaborazione dottrinale e (2) pratica di vita. I due punti sono tuttavia interconnessi in quanto il pensiero è legato allo stile di vita. Già in Aristotele convivevano due anime: • La ricerca delle cause prime (aspetto centrale del suo pensiero – METAFISICA); • Lo studio dell’individuale, del particolare (- HYSTORIA). Parte dal singolo per poi arrivare all’universale. Quando nasce l’interesse per la storia della filosofia? Nel Sofista di Platone vi è già un abbozzo di classificazione di filosofi suoi predecessori, così come nel Protagora. In Aristotele tale interesse appare già più forte: egli poneva all’inizio delle sue opere una rassegna delle dottrine dei suoi predecessori; avviene in particolare nella Metafisica, opera sostanzialmente speculativa. E’ nel libro I che compare tale rassegna che appare funzionale al suo discorso. TESTO 983 ab (si fa riferimento all’edizione critica di Bekker del 1831-1836) Il tema di fondo è la dottrina delle cause, distinte da Aristotele in 4 sensi: 1. Sostanza: ciò che fa sì che una cosa sia ciò che è; 2. Materia: ciò di cui la cosa è fatta; 3. Causa Efficiente: ciò che le dà movimento; 4. Fine: cioè il bene. Con tale dottrina Aristotele spiega il movimento, il divenire, il mutamento della vita/del bios. Tuttavia ne cerca l’esistenza indietro nel tempo, nei suoi predecessori; cerca di capire se già precedentemente a lui, qualcun altro le aveva individuate (verifica sul piano retrospettivo se le cause sono 4, più o meno ecc.). Da qui nasce la storiografia filosofica. I primi filosofi sono alla ricerca dei principi primi, dell’Arché, individuato inizialmente in cause materiali; a seconda del riconoscimento di una o più cause prime si opera la distinzione tra filosofi monisti e pluralisti. Per Talete (monista) principio primo era l’Acqua così come per i Poeti Teologi che riconoscevano in Teti e Oceano i padri fondatori del mondo. Dunque la filosofia nasce con Talete o prima, ove già si era individuato un principio primo? I filosofi monisti vengono a loro volta tripartiti a seconda dei diversi Arché individuati: • Acqua con Talete • Aria con Anassimene e Diogene di Apollonia • Fuoco con Eraclito I pluralisti elaborano la dottrina dei 4 elementi • Empedocle, legato ai precedenti per affinità • Anassagora con le omeomerie: elementi infiniti ma distribuiti in modo diverso Alcuni individuavano la causa efficiente/motrice, altri, come Parmenide ne negavano l’esistenza. Tuttavia è sempre la VERITA’ che spinge a cercare altre soluzioni, altre cause. Aristotele applica la sua visione ai predecessori con un operazione filosofica: per il filosofo le cause che riflettono la realtà sono 4, sia al suo tempo che al tempo di Talete, anche se questi ne aveva individuata solo una. VITE DEI FILOSOFI: Del testo, nell'Occidente latino, se ne ha notizia a partire dal XII sec. L'opera venne tradotta dal greco al latino da Enrico Aristippo, non ci rimane il codice di questa tradizione; l’unica notizia certa è che l’opera circolasse. Walter Burley se ne servì per la sua opera De vita et moribus philosophorum (’300). Nel corso del '400 il testo di Laerzio entrò nella cultura Occidentale, nella traduzione di Ambriogio Traversari (1433). L'interesse per gli antichi divenne molto forte. La prima edizione a stampa delle Vite dei filosofi in lingua greca avvenne nel 1533 (Editio princeps: prima edizione di un testo) a Basilea, edito da Froben (conosciuto come Frobenius). PROEMIO La domanda a cui Laerzio tenta subito di dare una risposta è: “quando e dove è nata la filosofia?” Sulle coste dell'Asia minore con Talete? (versione corrente). Nella risposta, Diogene Laerzio prende subito le distanze da alcune ipotesi, dicendo che ALCUNI affermano che la ricerca filosofica ebbe origine dai barbari, visione che lui non condivide, infatti cita le fonti (Pseudo- Aristotele e Sozione di Alessandria). Tale ipotesi si rifà all’origine extra-greca della filosofia, ove si pensa essere nata nel Medio Oriente o addirittura al di là delle Alpi presso i Celti, o ancora in Fenicia con Oco (sapiente mitico), in Tracia e Libia con Atlante (figlio di Giapeto). Impiega diverse righe per illustrare una Tesi che non condivide; e ce lo dice subito dopo. Egli sostiene la centralità del popolo greco non solo per la nascita della filosofia ma per la formazione dell'intero genere umano (visione etnocentrista): Diogene non esita a rifarsi alla mitologia per affermare la superiorità del popolo greco, primato che poi associa ad alcuni nomi di sapienti antichissimi; ricorre al mito di Deucalione e Pirra (raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi). In modo molto corretto, continua esplicando le origini barbariche della filosofia dove, elemento presente centrale era la Magia, nera (goetia) e bianca (teurgia). Si pensa i barbari non conoscessero la magia nera. Terminati i Magi inizia con la filosofia degli egizi. Non poteva infine tralasciare il tema dell'invenzione del termine “Filosofia”: egli attesta che Pitagora è il primo ad utilizzarlo ed il primo a definirsi seguace/amante della sapienza. Anche i poeti erano chiamati sofisti, avevano anche loro il titolo di sapienti; ma non li si ritrova nel CANONE DEI FILOSOFI (ps: come Gli antichi filosofi greci si affidavano, per comunicare le proprie dottrine, sia alla parola orale, sia al testo scritto; ma di quest’ultima produzione gran poco ci è rimasto, abbiamo solo notizie o citazioni riportateci da filosofi più tardi. Non sappiamo poi inoltre se tali citazioni riportateci attingano direttamente al testo originale o siano trasposizioni di altri filtraggi; neppure conosciamo l’andamento né il contesto della frase originaria, e ciò potrebbe generare dei fraintendimenti. Ruolo primario nella memoria degli antichi filosofi lo dobbiamo al già ricordato Aristotele, che nelle sue opere discute le opinioni di coloro che lo hanno preceduto sulla via dell’indagine filosofica. Secondo lo stesso, i primi filosofi hanno maggiormente studiato la natura, interessati ad indagare i problemi del cosmo, i fenomeni naturali, le trasformazioni ed evoluzioni degli esseri viventi ecc. Ecco perché i primi filosofi vengono anche ricordati con l’appellativo di physiològoi, studiosi della natura. La ricerca dell’archè, principio che sta alla base di tutte le cose, venne per primo indagato dai FILOSOFI DI MILETO, colonia greca sulle coste dell’Asia Minore: Talete, Anassimandro, Anassimene. Il termine “principio” può essere inteso come ciò: • Che viene prima del tempo, ciò che precede nell’ordine di una sequenza; • Che è primo per importanza, ciò che sta a fondamento e spiega l’esistenza. Le biografie di Diogene si aprono con i SETTE SAPIENTI: personalità pubbliche dell'antica Grecia vissute in un periodo compreso tra la fine del VII e il VI secolo a.C., esaltate dai posteri come modelli di saggezza pratica e autori di massime poste a fondamento della comune sensibilità culturale greca. I più importanti sono Talete, come filosofo e matematico, e Solone, come legislatore. In tutte le liste pervenuteci sono citati Talete, Solone, Biante e Pittaco, nella maggior parte di esse poi compaiono anche i nomi di Cleobulo e Chilone. Già in epoca classica circolavano diverse narrazioni leggendarie relative alla prima redazione dell'elenco stesso. Esse furono in seguito raccolte da Diogene Laerzio nelle sue Vite. Elemento comune a esse era il tripode sacro ad Apollo, giunto dapprima nelle mani di Talete e da lui, che si giudicava indegno del suo possesso, venne tramandato agli altri sapienti. Oltre all’attività politica presso le loro città-stato, a contribuire alla fama dei Sette Savi fu il patrimonio di sentenze e massime (= osservazioni e consigli) a loro attribuite, che in seguito furono spesso citate nelle orazioni degli antichi. Del pensiero dei sette sapienti non ci è giunta d'altra parte alcuna opera organica, anche se è possibile identificare tratti comuni tra le singole sentenze, che si caratterizzano per la loro lapidaria laconicità. Tratti comuni, pur nella varietà delle situazioni di vita prese in considerazione, sono: • L'esortazione all'autosservazione e all'autovalutazione delle proprie scelte, compendiata nel celeberrimo motto delfico "conosci te stesso"; • L'esortazione alla mēsotes ispirata a giustizia (dike), alla scelta del giusto mezzo e alla moderazione, contrapposta alla hýbris: significativo a questo proposito il motto d'elezione di Solone "nulla troppo" (Kairos = opportuno, sarebbe avere il senso del momento giusto). TALETE (di Mileto, 640/25 a.C. – 547 a.C.) La tradizione ce lo presenta come uno studioso versatile, formatosi in contatto con la cultura del Vicino Oriente (egiziana e babilonese). Prima cosa importante per Diogene è la famiglia e la discendenza del filosofo: il padre e la madre erano fenici, fattore importante da cui ritorna il tema/domanda: “dove e da chi la filosofia ebbe origine?”. Non si hanno notizie certe sulla sua origine, Diogene ce le riporta così come gli sono state tramandate. Varie testimonianza ci documentano la sua attività di astronomo, matematico, fisico, progettista tecnico, ma anche avveduto consigliere politico che gode della considerazione dei suoi cittadini. La filosofia intesa come disciplina nasce dunque come sapere globale, quasi onnicomprensivo. Aristotele ce lo indica come il primo filosofo, perché per la prima volta, di fronte alla molteplicità e all’incessante divenire delle cose, egli cerca di individuare un principio comune in tutto ciò che esiste. Tale principio, che fa del mondo un tutto unitario, è per Talete l’ACQUA, elemento base di cui si compongono le cose, ciò che le alimenta e gli dà vita. Anche la Terra è un corpo che galleggia nell’acqua la quale la circonda da ogni parte. La natura nella sua totalità trae dunque origine dall’acqua. Anche Omero aveva fatto derivare ogni cosa da Teti e Oceano, divinità dell’acqua. L’acqua per Talete era dunque principio di tutte le cose in quanto principio di vita. La filosofia viene da Diogene presentataci come uno “stile di vita” assunto da chi la pratica in prima persona; essi erano sapienti ma riconoscevano i limiti del loro sapere. Si dice che sia morto assistendo a una gara atletica, al tempo della 58ª Olimpiade. SOLONE (di Salamina, Atene, 638 a.C. – 558 a.C.) E’ stato un legislatore, giurista e poeta ateniese, di nobile famiglia. Fin da giovane dovette dedicarsi al commercio ma si dilettava anche di Poesia; ben presto si dedicò alla filosofia morale mentre dimostrò, a differenza del contemporaneo Talete, con cui, comunque, strinse una profonda amicizia, uno scarso interesse per la scienza pratica in cui fu sempre assai ingenuo e antiquato. Sempre in questi anni strinse amicizia con Anacarsi il quale comunque, quando Solone iniziò a dedicarsi alla politica, prese a criticarlo. Si narra che, ancor giovane, abbia con un'elegia stimolato gli Ateniesi a riprendere ai Megaresi l'isola di Salamina. Eletto arconte ebbe l'incarico di redigere un codice di leggi. Dopo il suo arcontato Solone si recò all'estero: le leggende su di lui, dopo tale volontario esilio (incontri con Creso, ritorno in Atene per mettere in guardia i concittadini contro Pisistrato), sono probabilmente anacronistiche invenzioni. Solone scrisse poesie in distici elegiaci, trimetri giambici e tetrametri trocaici con stile e lingua prevalentemente ionici, con tono più oratorio che poetico; hanno valore come documento storico e umano. Dai suoi versi emerge una profonda fiducia nella giustizia, unita a sentimenti di profonda religiosità. Con le sue poesie Solone esercitò immensa efficacia educativa e per la serietà delle sue concezioni morali, il suo patriottismo e la sua opera di legislatore fu annoverato fra i sette sapienti della Grecia. CHOLONE (di Sparta, 549 – 570 a.C.) Egli nacque a Sparta da Damageto (Damagetas), e che era già vecchio durante la 52ª Olimpiade (572 - 569 a.C.), tanto che morì nella città greca di Pisa, dopo aver abbracciato il figlio (Chilone di Patrasso) vincitore nella gara di pugilato ad Olimpia. fu eletto Eforo di Sparta durante la 56a Olimpiade (556 - 555 a.C.). Alcidamante riporta che fu giudice e che fece parte dell'assemblea di Sparta. Gli si attribuisce il merito di aver contribuito a rovesciare la tirannia nella città di Sicione, che diventò in seguito alleata di Sparta. La sua influenza fu anche decisiva per la svolta nella politica isolazionista di Sparta che portò alla formazione della lega del Peloponneso nel VI secolo a.C.. Contribuì ad isolare politicamente e militarmente Argo, preparando così le future vittorie contro questa città. Uomo di poche parole, sosteneva di non mai aver commesso nulla di illegale nella sua vita, ma di avere dei dubbi riguardo a un episodio: quando era giudice, per parte sua condannò un amico, applicando la legge, ma convinse gli altri giudici ad assolvere l'imputato, in modo che fossero salvi sia la legge, sia l'amico. Primo fra i sette sapienti fu per sapienza. PITTACO (di Mitilene, 650-570 a.C.) Partecipò alle lotte civili per il controllo del governo di Mitilene; guidò la congiura che rovesciò la tirannia di Melancro, intorno al 612 a.C. A capo di Mitilene subentrò Mirsilo, alleato di Pittaco, secondo quanto riferisce un frammento di un carme di Alceo. Alla morte di Mirsilo, nel 590, Pittaco gli succedette come esimneta, assumendo il potere in città e detenendolo per dieci anni prima di ritirarsi a vita privata. Si dice che abbia perdonato l’assassino di suo figlio Tirreo, dicendo che Il perdono è migliore del pentimento e abbia fatto rilasciare il poeta Alceo, suo avversario politico, dicendo che Il perdono è migliore della vendetta. Dimostrò disinteresse per le ricchezze: quando Creso, re di Lidia, gli offrì dei beni, rifiutò dicendo che aveva già il doppio di quanto gli bisognasse, avendo ereditato dal fratello, morto senza figli. Emanò una legge che raddoppiava le pene per i reati commessi in stato di ubriachezza; compose un’opera, In difesa delle leggi e circa seicento versi elegiaci. BIANTE (di Pirene, 600-530 a.C.) Fu brillante oratore e compose anche poesie, tra cui un poema sulla Ionia in duemila versi, citato da Diogene Laerzio. Diceva di preferire giudicare una questione fra due suoi nemici, piuttosto che fra due amici, perché nel primo caso si sarebbe procurato un amico mentre nel secondo caso uno dei suoi amici si sarebbe mutato in nemico. Sosteneva che la cosa più dolce per gli uomini è la speranza e la cosa di cui più si rallegrano è il guadagno; consigliava anche di amare gli altri come se fossimo destinati anche a odiarli, perché la maggior parte degli uomini è malvagia. Gli venne richiesto di scrivere una frase saggia sul frontone del tempio dell'oracolo a Delfi, e lui incise: "la maggioranza è cattiva". Erodoto narra (I, 27) che grazie ad un suo intervento il re della Lidia, Creso, strinse un patto di amicizia con gli Ioni che abitavano le isole. Morì durante un processo, in cui aveva difeso un imputato; pronunciato il verdetto di assoluzione, Biante fu trovato morto col capo reclinato sul grembo del nipote. CLEUBULO (di Lindo) Alcuni fanno risalire la sua stirpe a Eracle. Autore di poesie e di indovinelli. A lui è attribuito l'epitaffio di Mida e l'indovinello "dell'anno". PERIANDRO (di Corinto, 585-540 a.C.) Tiranno di Corinto della stirpe degli Eraclidi, successe al padre Cipselo; la sua tirannide è da collocarsi tra il 627 e il 585 a. C. Fu così saggio che alcuni lo annoverarono tra i sette sapienti (ma altri videro in lui un tiranno crudele). Sotto di lui, comunque, Corinto raggiunse la massima potenza politica, fondando le colonie di Apollonia, Epidamno e Potidea e recuperando Corcira; economicamente Corinto fu, al tempo di Periandro, la maggiore città della penisola greca per floridezza di industrie e di commerci. Fu il primo ad avere una guardi armata e il primo a mutare il potere in tirannide. ANACARSI LO SCITA Originario della Scizia, secondo Erodoto Anacarsi visse all’inizio del VI secolo a.C. e “viaggiò per molte terre, dando prova ovunque di grande saggezza”. Gli si attribuiscono una serie di detti o apoftegmi e dieci lettere apocrife, di cui nove redatte probabilmente nel III secolo a.C. e appartenenti al genere delle epistole ciniche. In molti tra gli apoftegmi e nelle lettere Anacarsi critica la civiltà dei Greci e loda la vita semplice, “secondo natura”, dei barbari Sciti. Scrisse un poema di ottocento versi sulle istituzioni degli Sciti e dei Greci con riguardo alla semplicità e frugalità della vita e ad argomenti di guerra. Per il suo franco parlare diede origine alla proverbiale espressione “Parlare come uno scita”. MISONE (di Chene) È citato nel Protagora di Platone; una leggenda riporta che l’oracolo di Delfi, consultato da Anacarsi, lo definì più saggio di quest'ultimo; anche Schopenhauer lo ha citato, ricordando che fu famoso per essere un misantropo, anche se non ha citato la fonte, che probabilmente è Diogene Laerzio. EPIMENIDE (di Creta) Si ricava da Diogene la notizia che Epimenide, da giovane, inviato dal padre a rintracciare una pecora nei campi, si fosse addormentato in una caverna e avesse dormito per cinquantasette anni: una volta risvegliatosi e tornato in quella che avrebbe dovuto essere la sua casa, non trovandovi più alcuno che conoscesse, si era imbattuto nel fratello, ormai anziano, comprendendo quanto era successo. Da quel momento capì di essere caro agli dei e di avere un legame particolare con loro, in particolare con Apollo delfico, di cui si fa interprete. Viene infatti considerato sommamente abile nella divinazione. Diogene fornisce una lista di opere attribuite a Epimenide, su cui permangono molti dubbi: avrebbe composto, in versi, la Nascita dei Cureti e dei Coribanti, la Teogonia, la Costruzione della nave Argo, il Viaggio di Giasone tra i Colchi, Minosse e Radamanto, e, in prosa, i Sacrifici e la Costituzione di Creta. Dalle testimonianze pervenute si può senza dubbio attribuire a Epimenide un forte interesse per il mito, che sottopone ad analisi critica. Ad Epimenide, esperto di cose sacre, iniziato ai misteri e interprete della divinità, sembra vada dunque ascritto il merito di aver applicato, per primo o tra i primi, il metodo dell'analisi critica alla tradizione e di porta a mettere in discussione qualsiasi cosa, egli, come un sofista, è in grado di rendere miglioreil discorso peggiore. Ma a differenza dei sofisti, egli rifiuta di ridurre al filosofa a retorica e si propone un’autentica ricerca della verità, superando il relativismo conoscitivo e morale. SAPERE DI NON SAPERE Ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista che si ritiene e si presenta come sapiente, perlomeno di una sapienza tecnica come quella della retorica. Le fonti storiche che ci sono pervenute descrivono Socrate come un personaggio animato da una grande sete di verità e di sapere, che però sembravano continuamente sfuggirgli. Egli diceva di essersi convinto così di non sapere, ma proprio per questo di essere più sapiente degli altri. Da qui le accuse dei suoi avversari: egli avrebbe suscitato la contestazione giovanile insegnando con l'uso critico della ragione a rifiutare tutto ciò che si vuole imporre per la forza della tradizione o per una valenza religiosa. Socrate in realtà (sempre secondo la testimonianza di Platone) non intendeva affatto contestare la religione tradizionale, né corrompere i giovani incitandoli alla sovversione. Da questo punto di vista, egli è un fiero nemico della tradizione, non accogliendo alcun principio che non si giustifichi da sé medesimo ma si richiami comunque a un'autorità; e in ciò è il suo nesso col grande movimento sofistico del sec. V, che gli è in parte contemporaneo e di cui quindi, in tali limiti, egli può esser considerato partecipe. LA SCOPERTA DELL’ANIMA UMANA Socrate fu di fatto il primo filosofo occidentale a porre in risalto il carattere personale dell'anima umana. È l'anima, infatti, a costituire la vera essenza dell'uomo. Sebbene la tradizione orfica e pitagorica avessero già identificato l'uomo con la sua anima, in Socrate questa parola risuona in forma del tutto nuova e si carica di significati antropologici ed etici. Mentre gli Orfici e i Pitagorici consideravano l'anima ancora alla stregua di un demone divino, Socrate la fa coincidere con l'io, con la coscienza pensante di ognuno, di cui egli si propone come maestro e curatore. Non sono i sensi a esaurire l'identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l'uomo non è corpo ma anche ragione, conoscenza intellettiva, che occorre rivolgere a indagare la propria essenza. IL DEMONE SOCRATICO Socrate affermava di credere, oltre agli dèi riconosciuti dalla polis, anche in una particolare divinità minore, appartenente alla mitologia tradizionale, che egli indicava con il nome di dáimōn. Il dáimon era un essere divino inferiore agli dèi ma superiore agli uomini che possiamo intendere anche con il termine genio. Socrate si diceva tormentato da questa voce interiore che si faceva sentire non tanto per indicargli come pensare e agire, ma piuttosto per dissuaderlo dal compiere una certa azione. Socrate stesso dice di esser continuamente spinto da questa entità a discutere, confrontarsi, e ricercare la verità morale (Kant avrebbe successivamente paragonato questo principio "divino" all'imperativo categorico, alla coscienza morale dell'uomo). LA MAIEUTICA Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o "dell'ostetrica"), di qui l’importanza delle madre e del suo mestiere: “Come mia madre era levatrice dei corpi, così io voglio essere levatrice delle anime”. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice, il mestiere di sua madre: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della parola come facevano i sofisti. Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi (brachilogia) in opposizione ai lunghi discorsi (macrologia) del metodo retorico dei sofisti. L’intento socratico è quello di far “partorire le idee”, che non va intesa come trasmissione di una propria verità ma come la conquista personale della verità. IL MALE, PRODOTTO INVOLONTARIO DELL’AGIRE UMANO Colui che conosce che cosa è il bene, e quindi anche che cosa è bene per se stesso, non può non farlo; colui che conosce il bene è per ciò stesso virtuoso; colui che agisce male lo fa solo perché non conosce il bene, in altre parole nessuno fa il male volontariamente. Se ciò capita è perché capita agli uomini scambiare il bene con ciò che non lo è. Viene così confermata la necessità di liberarsi dalle false conoscenze. Né il sistema democratico rappresentato da Atene, né quello di Sparta riescono a superare il sistema frammentato delle poleis, dando stabilità politica alla Grecia e assicurandone una tranquillità duratura. Le città-stato non sono in grado di dar forma ad un organismo unitario in grado di opporsi ai pericoli esterni. Per Atene, il V sec. Si apre all’insegna della democrazia, una democrazia conservatrice però la quale si rende ben presto colpevole della morte di Socrate, di colui che aveva posto il problema di salvaguardare il bene della città attraverso l’automiglioramento dei cittadini. Il trauma per la morte del maestro colpisce maggiormente i suoi estimatori, che avvertono come il suo appello, in tale contesto, sia destinato a sfumare nel vuoto. Il tentativo di impegnarsi nella salvezza dello Stato è intrapreso dal più brillante degli allievi di Socrate, Platone, che ha circa vent’anni quando conosce il maestro. ARISTIPPO (di Cirene, 435-366 a.C.) Nato a Cirene, nell'odierna Libia orientale, verso i diciannove anni si recò in Grecia per le olimpiadi. Qui un uomo di nome Iscomaco gli parlò del filosofo Socrate, che subito Aristippo volle conoscere, e presto entrò a far parte del suo circolo d'amici e allievi. In viaggi successivi, conobbe anche Platone e fu alla corte di Dionisio il vecchio a Siracusa. La scuola filosofica dei Cirenaici ha in Aristippo il suo fondatore, ossia colui che ha posto il piacere come fine primario dall’esistenza. Il piacere vero è sempre e comunque dinamico (non l’aponìa epicurea = “assenza di dolore”) ed è il vero motore positivo dell’esistenza di una persona, che è successione discontinua di istanti e va vissuta solo nel presente, ignorando il passato e il futuro. Aristippo ammette l’esistenza di due movimenti: Piacere e Dolore, dove lo scopo è evitare il dolore e ricercare il piacere, da Aristippo inteso come quello fisico, innalzato a fine supremo. La “teoria del piacere” sarà ripresa, con diverse sfaccettature, anche da Epicuro, per il quale però il vero piacere sarà quello duraturo, l'assenza di passioni. Manca in questi filosofia la CARITA’ e SPERANZA. PLATONE (di Atene, 428-348 a.C.) Era di famiglia agiata e nobile, si pensa discendere dal legislatore Solone dalla parte materna; la tradizione racconta che gli era stato inizialmente imposto il nome del nonno, Aristocle, e che quello di Platone gli fu dato più tardi con scherzosa allusione al suo esser "largo". Già nel periodo della giovinezza venne in contatto con la filosofia, come dimostra il fatto che ebbe Cratilo tra i suoi maestri. All'originaria influenza eraclitea che gli veniva da Cratilo sarebbe comunque ben presto subentrata quella di Socrate, che pare abbia conosciuto all'età di vent'anni. Studiò filosofia prima in Accademia, seguendo le teorie eraclitee, per poi mettere insieme le teorie di Eraclito (teoria del sensibile = i sensi ci offrono un continuo divenire), Pitagora (teoria dell’intelligibile) e Socrate (filosofia politica). Platone fu colui che attinse a fonti diverse elaborandole poi in un suo pensiero originale; non era dunque filosofo in senso stretto ma possedeva una grande apertura mentale. Trasse giovamento anche dalle commedie e dalla composizione di testi tragici. L'influsso determinante di Socrate sul suo pensiero è documentato dai moltissimi scritti in cui la figura del maestro viene idealizzata e il suo pensiero presentato in forma drammatica. Dopo la morte di Socrate si recò, insieme con altri condiscepoli, a Megara presso il socratico Euclide, da dove tornò presto ad Atene. Rimastovi qualche tempo, iniziò il primo dei suoi viaggi maggiori, che secondo la tradizione lo condusse anche in Egitto, e a Cirene, dove sarebbe venuto a contatto col matematico Teodoro. Platone visitò la Magna Grecia e la Sicilia, e fu a Siracusa alla corte di Dionisio il Vecchio. A Siracusa strinse amicizia col giovane cognato di Dionisio, Dione, che restò per sempre conquistato ai suoi ideali filosofici ed etico- politici. La libertà delle sue critiche e delle sue esortazioni morali non incontrò tuttavia il favore del tiranno, che si sbarazzò, in modo non chiaro, della sua presenza: e il nobile filosofo ateniese, finì venduto schiavo sul mercato di Egina, dove fu però riscattato da un Anniceride di Cirene. Tornato ad Atene vi fondò, nella forma d'una comunità religiosa dedicata al culto delle Muse, un centro di discussione e di studî, che dalla sua sede, la quale traeva il nome dal mitico eroe Academo, si disse ᾿Accademia”. Al primo viaggio ne successero altri due, dall’esito non comunque favorevole. Da allora in poi Platone, dedito esclusivamente ai lavori dell'Accademia, non si mosse più dalla sua città, ove si spense. OPERE Platone è il primo pensatore di cui sono disponibili le opere complete: 34 dialoghi, 1 discorso e un corpo di 13 lettere. Con l’eccezione dell’Apologia di Socrate (in un lungo discoro continuo) e le lettere, la forma espositiva adottata da Platone nelle sue opere è quella del dialogo, forma strettamente legata alla sua concezione filosofica che si richiama al dialogare socratico. Dialogo che si evolve nel corso della riflessione platonica: dapprima inteso come dialogo tra due persone via via diventa dialogo interiore, dialogo dell’anima con se stessa che sfocia infine nella ferma contemplazione della verità. Secondo una linea interpretativa piuttosto datata: • I primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo gruppo) ove questo si impegna a dare scacco matto ai suoi interlocutori inducendoli ad ammettere, mediante una serie di domande, la falsità delle tesi sostenute; • Quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo) Socrate cambia atteggiamento, non più intento alle strategie dialettiche, ma espone con ordine le sue idee; • L'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo), la figura di Socrate appare defilata, o addirittura scompare. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità, ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta interrogata non risponde. Il dialogo platonico dunque muta e si evolve seguendo il percorso filosofico del maestro e costituisce anche una vivace testimonianza dell’ambiente ateniese di IV sec. Singolare è l’utilizzo che Platone fa del mito, al fine di rendere più facilmente accessibile, grazie all’usi di immagini, un contenuto che è comunque oggetto della riflessione razionale o una tesi non ancora pienamente elaborata dal punto di vista teorico; affrontare un problema che va oltre ai limiti della conoscenza umana, offrendo possibilità di giudizio anche sul difficile terreno di ciò che non può essere dimostrato. Il mito viene quindi utilizzato come esemplificazione per spiegare qualcosa nel modo più semplice possibile. LA DOTTRINA DELLE IDEE Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile". La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro organicamente appartenente alla polis. Vero e proprio centro del pensiero platonico, presente in quasi tutti i dialoghi, è la così detta “teoria delle idee”, che cerca di rispondere alla tipica domanda socratica del “che cos’è x?”. Tale essenza universale è vista da Platone nell’idea. L’IDEA è per Platone ciò che si vede, la forma di una determinata realtà; si tratta però del vedere con gli “occhi” della mente. L’idea è dunque l’oggetto dell’intelletto, è una forma intelligibile, elemento universale e identico presente in diverse realtà particolari. Tali valori di cui Socrate andava in cerca (il bello, il bene, la giustizia, la virtù ecc.) senza tuttavia giungere a darne una definizione, sono idee, essenze conoscibili della mente, non dai sensi. Affinché tali valori abbiano carattere universale, è necessario ammetterle come realtà vere e proprie, realtà immutabili che non vengono mai meno (= l’idea di bellezza non viene mai meno, rimane sempre uguale a se stessa). Le idee platoniche sono dunque realtà veramente esistenti, che stanno al di sopra delle cose sensibili. Si delinea così un dualismo ontologico, una divisione dell’essere in due piani: • Realtà intelligibile (le idee); • Realtà sensibile (il mondo dell’esperienza). Secondo Platone le idee sono anche modelli perfetti delle realtà particolari, nelle quali una certa caratteristica si realizza sempre in modo imperfetto, limitato. Affinché io possa riconoscere nella realtà sensibile le cose belle è necessario tener sempre a mente l’idea di bellezza come modello al quale commisurare tutte le cose. L’idea di bello è quindi paradigma di tutte le cose belle, in quanto rappresenta il grado più alto della bellezza, della bellezza perfetta. Ciò che nel mondo sensibile risulta bello, è tale in quanto imita, seppur imperfettamente, il modello di bellezza costituito dall’idea di bello. Le idee, in quanto modelli, sono causa dell’esistere delle cose, ci sono idee per tutto ciò che esiste nel mondo sensibile, ciascuna delle quali è all’origine, in quanto modello, di tutti gli individui. Le idee sono dunque il criterio in base al quale si giudicano le cose e la causa del loro esistere; sono cioè principi della conoscibilità e dell’essere delle cose. Le idee sono per Platone in sé e per sé, sono in assoluto e valgono come principio di riferimento per misurare/paragonare le cose del mondo sensibile. Il complesso delle idee viene indicato nel Fedro con il termine iperuranio (= luogo sopra il cielo); le idee in quanto oggetto del pensiero, come tali abitano in un luogo che è fuori dal mondo sensibile. Il rapporto che intercorre tra idee e realtà sensibile è indicato da Platone come mimesis (= imitazione), per cui le cose sensibili riflettono, in maniera imperfetta, le idee di cui sono la realizzazione. Ma le cose sensibili PS: La logica è intesa non come scienza a sé stante ma come organo di tutte le discipline, cioè propedeutica ed essenziale. IL MONDO FISICO Delle cose sensibili, del mondo fisico, della natura (physis), Aristotele vuole cercarne i principi primi, secondo il modello platonico, ma con un atteggiamento del tutto nuovo rispetto al maestro, il quale non riconosceva alla fisica il valore di scienza. Caratteristica degli oggetti di cui si occupa la fisica è di essere divenienti, sottoposti al movimento: • mutamento sostanziale • mutamento qualitativo • mutamento quantitativo • mutamento di luogo Mutamento è il passaggio di una certa cosa da uno stato di assenza di una determinata caratteristica alla sua acquisizione. In questo passaggio c’è qualcosa che rimane identico e qualcosa che muta; iò che rimane identico è il sostrato soggettivo, “ciò che sta sotto”, che permane identico nel succedersi delle determinazioni. Lo stato iniziale è la privazione (il non essere, l’assenza) di una forma, lo stato terminale è il raggiungimento di quella forma. Potenza: è la possibilità della materia di assumere una determinata forma che ora non ha; Atto: è la realizzazione di una piena potenzialità. L’intervento dell’agente esterno, che Aristotele chiama principio o movimento o causa motrice (efficiente), consente di spiegare perché si mette in moto il processo che porta al mutamento. Bisogna dunque ammettere, oltre che alla ausa motrice, anche una causa finale (télos), dove il fine del processo è la forma, dare forma alla materia. Aristotele individua così quattro tipi di cause: 1. Causa materiale (la prima ad essere scoperta da Talete); 2. Causa formale (cosa fa sì che un ente è quello che è); 3. Causa efficiente (causa motrice); 4. Causa finale; Tutto ciò che diviene e cambia riceve la forma da un essere che già la possiede: gli oggetti che sono prodotti dal lavoro umano dall’artefice, gli essere viventi da altri esseri viventi tramite la generazione; non è però possibile andare indietro all’infinito nella ricerca di cause motrici, in tal modo non si arriverebbe mai ad individuare un principio, una causa prima del mutamento in grado di spiegare tutti i mutamenti che si verificano nella realtà. Deve quindi esistere un motore generatore di movimento ma al tempo stesso non mosso: un motore immobile, già pienamente realizzato, in forma priva di materia, dunque una realtà oltre la fisica per cui la scienza che se ne occupa non può più essere la fisica, bensì la filosofia prima. METAFISICA Il mondo della fisica non esaurisce la realtà, che comprende anche ciò che sta al di là della natura, oltre la fisica = metafisica (metà tà physikà, termine introdotto da Andronico di Rodi), essa si pone come la scienza prima, l’attività conoscitiva più alta. Tale disciplina si rivolge alla realtà tutta intera, la filosofia si pone come prima e fondamentale rispetto a tutte le altre scienze ciascuna delle quali si occupa di non tutto l’essere, ma di un determinato settore della realtà. Della metafisica, Aristotele da quattro definizioni intrecciate: 1. La filosofia prima è la scienza che indaga le cause e i principi primi; 2. La filosofia prima è la scienza che indaga l’essere in quanto essere; 3. La filosofia prima è la scienza che indaga la sostanza; 4. La filosofia prima è la scienza che indaga dio e la sostanza soprasensibile. La filosofia prima ricerca le cause dell’essere in quanto essere, di un essere chesi dice in molti modo, il primo dei quali è la sostanza. Tutti i cieli trattati da Aristotele nelle Fisica sono mossi ciascuno da un motore immobile; ciò implica l’esistenza di varie sostanze immobili eterne e incorruttibili quante sono le sfere celesti. Tra loro esiste però un ordine gerarchico al vertice del quale sta il motore immobile che muove la prima sfera celeste, la sfera delle stelle fisse, che risulta prima perché coinvolge le altre nel suo movimento. Esso muove in quanto causa finale (e non come causa efficiente); pur rimanendo immobile genera una forza attrattiva che fa sì che le cose si muovano verso di lui come fine di tutta la realtà. Il primo motore assume il ruolo di Dio supremo, al quale dipendono tutte le cose esistenti ed in quanto pensiero Dio non può pensare altro che sé stesso; ma il Dio aristotelico non è plasmatore della realtà, di fronte a lui sussiste da sempre l’universo, come lui eterno. La filosofia per Aristotele è dunque prima teologia, scienza di Dio e della sostanza immutabile. INDAGINI DI BIOLOGIA E DI PSICOLOGIA Elemento comune a tutti gli esseri viventi è il possesso dell’anima, la presenza cioè di un qualcosa che da forma a un corpo materiale, il quale ha la vita in potenza. Consente ad un corpo di essere vivo in atto. Al contrario di quanto affermato da Platone, per Aristotele l’anima non è un qualcosa di indipendente dal corpo è piuttosto il principio organizzativo del corpo e non sussiste separato da esso. Tre sono le funzioni dell’anima: • Funzione nutritiva e riproduttiva; • Funzione sensitiva; • Funzione razionale, che distingue gli uomini dagli animali. L’ETICA Ogni attività umana si compie in vista di un fine ma ve n’è uno più alto di tutti, ricercato solo per se stesso e non come mezzo per raggiungerne un altro: la felicità, a cui tendono tutti gli uomini. Il bene supremo per l’uomo è il bene in sé, un bene immanente, a portata dell’agire umano. Tale bene deve consistere nell’attività che è propria dell’uomo, che lo qualifica e lo distingue dagli altri esseri: la ragione. La buona o la attiva condotta dipendono dalla scelta dei mezzi per raggiungere il fine. La felicità è il frutto di una vita attiva pienamente realizzata. Aristotele distingue tre diversi tipi di bene: • Dell’anima (quelli più importanti); • Del corpo (buona salute, forza, bellezza..); • Esterni (ricchezza, nobiltà di nascita, fama..). Ciò non significa che i beni esteriori, i beni del corpo, siano indifferenti per l’uomo che tende alla felicità; la loro presenza, anzi, rende più facile la vita virtuosa, mentre la loro assenza la rende più problematica. All'anima sensitiva egli assegna le cosiddette virtù etiche, che sono abitudini di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare sugli impulsi, attraverso la ricerca del «giusto mezzo» fra estreme passioni. Essendo l'uomo un «animale sociale», l'equilibrio è ciò che deve guidare i suoi rapporti con gli altri; questi devono essere improntati al giusto riconoscimento degli onori e del prestigio derivanti dall'esercizio delle cariche pubbliche. Le diverse virtù etiche sono quindi tutte riassunte dalla virtù della giustizia. All'anima razionale Aristotele assegna le cosiddette virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. • Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica: l'arte (tèchne) ha un fine produttivo, la saggezza o prudenza (phrònesis) serve a dirigere le virtù etiche, oltre a guidare l'azione politica. • Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sé (sophìa). A questa virtù suprema concorrono le due facoltà conoscitive della gnoseologia: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l'intelligenza (nùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni. Aristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un sapere che non serve a nulla, ma proprio per questo non dovrà piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero. Le virtù non sono tra loro connesse reciprocamente, un uomo può possedere solo alcune di esse. Inoltre afferma che il filosofo indulge alle passioni ma moderatamente. Successivamente i Cinici e gli Stoici radicalizzeranno il tema delle virtù affermando che il filosofo deve essere immune ad ogni passione e deve esercitare uniformemente tutte le virtù. L’AMICIZIA per il filosofo è una virtù, un’esperienza fondamentale nella vita dell’uomo; grazie ad essa si può trovare conforto nei momenti difficili e si può aiutare l’amico nelle difficoltà. Aristotele distngue: • Amicizia tra parenti (si amano reciprocamente, vogliono l’uno il bene dell’altro); • Amicizia tra amanti (si amano reciprocamente per il piacere); • Amicizia tra ospiti (si amano reciprocamente in vista dell’utile). CINISMO – I cinici sono i seguaci della scuola filosofica fondata da Antistene e Diogene di Sinope nel IV secolo a.C. Il nome potrebbe derivare o dalCinosarge, l'edificio ateniese che fu la prima sede della scuola, o dalla parola greca kyon = "cane", soprannome di Diogene, che ne fu l'esponente più importante, o forse appellativo che gli fu dato in senso dispregiativo dalle correnti filosofiche avversarie. I cinici professavano una vita randagia e autonoma, indifferente ai bisogni e alle passioni, fedeli solo al rigore morale. L'interesse della scuola fu prevalentemente etico, e il concetto di "virtù" assunse un nuovo significato in una vita vissuta secondo natura; l'ideale era l'autosufficienza. La tesi fondamentale di questa corrente di pensiero è la ricerca della felicità come unico fine dell'uomo; una felicità che è una virtù, e al di fuori di essa sussiste un disprezzo per ogni cosa che richiama comodità e agi materiali effimeri. Concetto base del cinismo: • Intende contrastare le grandi illusioni dell'umanità, ovvero la ricerca della ricchezza, del potere, della fama, del piacere; • Ricerca la felicità, una felicità che sia vivere in accordo con la natura; • Esalta l’’AUTARCHIA; • Lo scopo della vita consiste nel raggiungere l'Eudaimonia e la lucidità mentale per liberarsi dall'ignoranza e dalla follia e si acquisisce tramite il vivere in armonia con la natura così come compresa dalla ragione umana; • Raggiungimento dell'Eudaimonia e della lucidità mentale tramite l'ascesi, la quale consente all'individuo di liberarsi da influenze come la gloria, il potere o la ricchezza, che non hanno nessun valore in natura. Tra i vari esempi si può citare Diogene di Sinope, che viveva in una botte e camminava scalzo d'inverno; • Impudenza e mancanza di vergogna nel denigrare e disprezzare la società, le sue regole, i suoi costumi e le sue convenzioni che la maggior parte delle persone considera scontate. ANTISTENE (di Atene, 444-365 a.C) Discepolo, in età matura, di Socrate e, già prima, di Gorgia e d'altri sofisti, Antistene fu il fondatore della scuola che chiamarono dei Cinici. Era legato a Socrate come nessun altro; non lo lasciava mai; fu presente alla morte del maestro e ne ascoltò gli estremi insegnamenti; e pose, si può dire, a dogma fondamentale della sua scuola, la forza e l'energia che aveva mostrate Socrate in vita e in morte. Antistene adotta lo spirito critico del maestro; ma vuole agire immediatamente sulla realtà, sui fatti, disgustato com'è del carattere artificiale e della corruzione della società nella quale vive; ai mali della società urge provvedere; la definizione socratica non serve allo scopo, è un vano esercizio dialettico. Il suo metodo vuol essere, come altri ha detto, un empirismo concreto. La scuola cinica ha soprattutto un ideale che mira a ridurre in atto: la lotta contro la società civile e il ritorno allo stato di natura. Al lusso, ai bisogni artificiosi, alla mollezza, allo snervamento dell'uomo civile fanno un singolare contrasto la parsimonia, l'indipendenza, la sobrietà degli animali e degli uomini primitivi: a questi bisogna tornare. Condanna ogni forma di reggimento politico; il democratico non meno del tirannico e dell'aristocratico; non secondo le leggi scritte si governa il saggio, ma secondo quelle della natura. Antistene accentua massimamente nel suo disdegno contro i beni esterni e di fortuna, contro le ricchezze, gli onori, la gloria. Antistene è come il filosofo della volontà; a questa forza dominatrice egli riduce addirittura tutta la morale; ciò ch'egli ammira più in Socrate, il maestro, s'è visto, è appunto la forza di volontà ch'egli metteva a dominarsi; l'uomo è soprattutto forza e volontà. Per questo Antistene inveisce contro il piacere; non solo egli nega che il piacere sia un bene, ma lo considera come il peggiore dei mali; preferirebbe al piacere la pazzia; il piacere vuol dire soggezione alle passioni, schiavitù, annientamento della volontà, quindi annientamento dell'uomo: se v'ha un piacere legittimo, è quello solo che deriva dalla fatica, dallo sforzo, dall'esercizio della volontà; a rigore, il piacere vero e proprio non esiste; esiste soltanto sotto forma di scampo, di liberazione dal dolore. Antistene nega l'oggettività sostanziale del concetto socratico, riducendolo a un mero prodotto soggettivo della riflessione dell'uomo sulla realtà circostante, disgregando il valore dell'idea platonica: in particolare col suo motto divenuto celebre, «vedo il cavallo ma non la cavallinità», intende contestare l'essenzialismo di Platone. Ne consegue una forma di nominalismo: la conoscenza della realtà è limitata al puro nome, che, essendo proprio di ciascun oggetto, vieta di formulare predicazioni, cioè giudizi. DIOGENE IL CINICO (di Sinope, 412-323 a.C.) Singolare è l’origine familiare, egli fu figlio del banchiere Icesio, ma ben presto, Diogene individua in Antistene il suo maestro. Visse ad Atene e divenne ben presto l'esempio del sapiente cinico, che mira alla completa autosufficienza (autarkeia mediante l’ATARASSIA = respingere le passioni) rispetto ai bisogni indotti dalla vita in società. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto, ma intorno alla sua figura fiorì una vasta letteratura di aneddoti, dalla quale è possibile inferire i tratti dominanti del suo insegnamento. Diogene individua i modelli di vita naturale nel comportamento degli animali, dei mendicanti e dei bambini. Con Diogene emerge, forse per la prima volta sullo scenario greco, l'idea che il bambino rappresenti una natura buona non ancora corrotta dai bisogni artificiali prodotti dalla vita associata. Diogene rifiuta drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni e i tabù sessuali e alimentari (per esempio, cibarsi di carni non cotte), oltre che i valori correnti come la ricchezza, il potere, la gloria. Il cinico si addestra a ciò con un duro esercizio fisico e morale – basti ricordare che Diogene per dimora aveva una botte - e non attraverso indagini teoriche, che egli svalutava completamente, sulla scia del fondatore del cinismo (Antistene). In tal modo, egli - oggetto di non preferenza; Distinzione ulteriore tra: - Azioni perfette: le riesce a compiere il saggio; - Azioni convenienti (= doveri): le compie il cittadino comune. PITAGORA (di Samo, 570-495) Fu scolaro di Ferecide e di Anassimandro. Un dato di rilievo è il suo trasferimento dalla Grecia in Italia meridionale (forse intorno al 529 a.C.) dove fondò, a Crotone, una celebre scuola filosofica - che è considerata fonte e origine della cosiddetta «filosofia italica» - nelle forme di una comunità religiosa con intenti di rigenerazione morale e politica. La dottrina che caratterizza, più comunemente, la filosofia pitagorica è quella che considera il numero come essenza di tutte le cose, in quanto ogni aspetto del reale veniva ricondotto a una reciproca relazione o armonia di quantità numerabili (modello per eccellenza era ritenuta la concordanza dei suoni, la synphonia, realizzata nella musica attraverso intervalli matematici). Tutti i numeri, per i Pitagorici, erano suddivisi in due classi, dei pari e dei dispari (una terza era quella del parimpari, individuata nell'uno-monade). A Pitagora e alla sua scuola si deve la distinzione tra logistica e aritmetica, cioè tra le regole pratiche di calcolo sui numeri (interi) e la scienza dei numeri. Pare certo che a Pitagora e ai pitagorici siano da attribuire: • la distinzione dei numeri in pari e dispari; • la definizione dei numeri amicabili e dei numeri perfetti; • la rappresentazione geometrica dei numeri interi mediante gruppi di punti disposti in modo da formare figure geometriche regolari, che permise ai pitagorici di conseguire risultati importanti relativi ai quadrati perfetti, alla somma dei termini di una progressione aritmetica, ecc. Quanto alla geometria, oltre al famoso teorema di Pitagora, alla scuola pitagorica deve essere attribuita anche, e soprattutto, la fondazione della geometria razionale. Il desiderio di dare una giustificazione rigorosa e generale, non empirica né limitata a pochi casi, del teorema di Pitagora, spinse Pitagora e i suoi allievi a ordinare la geometria in catene di deduzioni che, partendo da verità semplici ed evidenti, condussero gradualmente alla scoperta di proprietà sempre più riposte. Teorema di Pitagora: uno dei primi teoremi della geometria classica, secondo il quale il quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti; Altre teorie tipiche del pitagorismo sono la reincarnazione o metempsicosi, e la dottrina cosmologica. La metempsicosi era la credenza nella trasmigrazione delle anime da un corpo a un altro - anche di diversa specie - dopo la dissoluzione. ERACLITO (di Efeso, 535-475 a.C.) L’aspetto centrale del suo pensiero è l’affermazione che esiste un punto di vista comune, al di là delle diverse impressioni prodotte dei sensi e delle diverse opinioni degli individui. A questo punto di vista comune, Eraclito dà il nome di logos = parola, discorso, linguaggio, pensiero, ragione, conoscenza razionale più alta e sicura rispetto a quella basata sui soli sensi. La vera sapienza, che si esprime nel logos, consiste nell’intendere che tutte le cose sono governate da una legge comune. Il divenire delle cose non si sviluppa in modo irrazionale o caotico, ma attraverso ritmi precisi. Anche a tale legge comune che governa il divenire della cose Eraclito dà il nome di logos, indicante la stessa struttura del mondo reale, l’ordinamento universale; e tale ordinamento è identificato con il FUOCO sempre vivo (la sua guizzante mobilità richiama l’incessante divenire delle cose). Esso è considerato come principio di ogni cosa, dal quale derivano tutti gli altri aspetti del reale; per gradi successivi di condensazione deriva l’aria, dall’aria l’acqua e da questa la terra, e mediante il principio opposto si torno al fuoco. Secondo tale principio si differenziano anche le anime umane: alcune più fredde e umide perché tendenti all’acqua, altre più calde e secche perché vicine al fuoco. Ogni cose nel mondo è strettamente legata al suo opposto e non può esistere ne manifestarsi pienamente senza di esso. PARMENIDE (di Elea, 515-544 a.C.) Parmenide nacque in Magna Grecia, ad Elea, da una famiglia aristocratica. Della sua vita si hanno poche notizie. Secondo Speusippo, sarebbe stato chiamato dai suoi concittadini a redigere le leggi della sua città. Secondo alcuni fu discepolo del pitagorico Aminia, per altri fu probabilmente discepolo di Senofane di Colofone. Ad Elea fondò inoltre una scuola, insieme al suo discepolo prediletto Zenone. L'unica opera di Parmenide è il poema in esametri intitolato Sulla natura, ove Parmenide sostiene che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e afferma, contrariamente al senso comune, la realtà dell'Essere: immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno. La narrazione si snoda intorno al percorso intellettuale del filosofo che racconta il suo viaggio immaginario verso la dimora della dea Dike (dea della Giustizia) la quale lo condurrà al «cuore inconcusso della ben rotonda verità». La splendida donna, in quanto tutrice dell'ordine cosmico, sarebbe vista in tal senso anche come garante dell'ordine logico, cioè del corretto filosofare. La dea mostra al filosofo la via dell'opinione, che conduce all'apparenza e all'inganno, e la via della verità che conduce alla sapienza e all'Essere. Pur non specificando cosa sia questo essere, Parmenide è il filosofo che per primo ne mette a tema esplicitamente il concetto; su di esso egli esprime soltanto una lapidaria formula, la più antica testimonianza in materia, secondo la quale «l'essere è, e non può non essere», «il non-essere non è, e non può essere». Con queste parole Parmenide intende affermare che niente si crea dal niente, e nulla può essere distrutto nel nulla. La vera natura del mondo, il vero essere della realtà, è statico e immobile. • L'Essere è immobile perché se si muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe. • L'Essere è Uno perché non possono esserci due Esseri: se uno è l'essere, l'altro non sarebbe il primo, e sarebbe quindi non-essere. • L'Essere è eterno perché non può esserci un momento in cui non è più, o non è ancora: se l'essere fosse solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe, e si avrebbe contraddizione. • L'Essere è dunque ingenerato e immortale, poiché in caso contrario implicherebbe il non essere: la nascita significherebbe essere, ma anche non essere prima di nascere; e la morte significherebbe non essere, ovvero essere solo fino a un certo momento. • L'Essere è indivisibile, perché altrimenti richiederebbe la presenza del non-essere come elemento separatore. Fuori dell'Essere non può esistere nulla, perché il non-essere, secondo logica, non è, per sua stessa definizione. Il divenire attestato dai sensi, secondo cui gli enti ora sono e ora non sono, è una mera illusione (che appare ma in realtà non è). La vera conoscenza dunque non deriva dai sensi, ma nasce dalla ragione . Pensare il nulla è difatti impossibile, il pensiero è necessariamente pensiero dell'essere. Di conseguenza, poiché è sempre l'essere a muovere il pensiero, la pensabilità di qualcosa dimostra l'esistenza dell'oggetto pensato. Gli uomini si lasciano guidare dall'opinione (doxa), anziché dalla verità, ossia giudicano la realtà in base all'apparenza, secondo procedimenti illogici. L'errore in definitiva è una semplice illusione, e dunque, in quanto non esiste, non si può trovargli una ragione. Compito del filosofo è unicamente quello di rivelare la nuda verità dell'Essere nascosta sotto la superficie degli inganni. DEMOCRITO (di Abdera, 460-370 a.C.) Allievo di Leucippo, fu cofondatore dell'atomismo, teoria che anche a distanza di secoli, fu giudicata una delle visioni più “scientifiche” dell'antichità: l'atomismo democriteo infatti fu ripreso non solo da altri pensatori greci, come Epicuro, ma anche da filosofi e poeti romani (Lucrezio) nonché da filosofi del tardo medioevo, dell'età rinascimentale e del mondo moderno. La struttura profonda della realtà è composta dal pieno, l’essere, e dal voto, il non essere (ciò che è diverso dall’essere). Il pieno è composto di ATOMI, particelle indivisibili così piccole da non poter essere percepite attraverso i sensi, ingenerate e indistruttibili, dunque eterne. Gli atomi differiscono tra loro per la loro forma e la loro distribuzione nello spazio. Questi si muovono incessantemente in ogni direzione; nel movimento essi si scontrano, ora respingendosi, ora attraendosi. L’unione di più atomi determina la formazione dei corpi. Ma a differenza di Anassagora, Democrito non pone alla base un principio regolatore (noùs), i principi di aggregazione avvengono in maniera meccanica grazie al moto spontaneo degli atomi. Tutto può essere spiegato come prodotto di tale movimento. L’ANIMA, afferma Democrito, è costituita da atomi di forma sferica, perciò mobilissimi. PROTAGORA (di Abdera, 480-400 a.C.) Le fonti raccontano che a trent'anni cominciò a dedicarsi all'insegnamento sofistico, il che lo portò a viaggiare per tutta la Grecia e a soggiornare più volte ad Atene. Egli viene considerato come padre della sofistica. La filosofia di Protagora è riassumibile in una sua famosa asserzione: « L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono ». Con "uomo" (secondo l'interpretazione dell'asserzione fatta da Platone) Protagora intese il singolo individuo e con "cose" gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Quindi, molto semplicemente, il sofista voleva dire che la realtà oggettiva appare differente in base agli individui che la interpretano: «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io». Non esistono di conseguenza percezione vere e percezioni false in assoluto, l’esperienza individuale è il metro su cui misurare la realtà delle cose; tutte le opinioni sono vere ed ugualmente valide, dipende dall’abilità di chi parla convincere a coloro a cui si rivolge la sostenibilità dell’argomentazione. Ogni verità è relativa, cioè dipende dal punto di vista e dal modo con cui chi la enuncia guarda alle cose. Delle cose di cui l’uomo non ha esperienza sensibile non può dire nulla: così è per il problema degli dei, dei quali è difficile dire e fare supposizioni a causa della difficoltà dell’argomento e della breve durata della vita umana (affermazione che gli costa la condanna di empietà). PIRRONE (di Elide, 365-275 a.C.) È solitamente considerato come il primo filosofo a mettere in atto la skepsis, il metodo critico che avrebbe dato poi il nome di scetticismo all'indirizzo filosofico che ne faceva uso sistematico. Questo metodo non va confuso con quello della sofistica, a cui Pirrone si dichiarava ostile. Nato fra il 365 e il 360 a.C., Pirrone, secondo Diogene Laerzio che cita Apollodoro, fu inizialmente un pittore e alcune sue pitture erano visibili nel ginnasio di Elide. In seguito si indirizzò alla filosofia entrando in contatto dapprima con i maestri delle Scuole socratiche (in particolare con la dialettica megarica tramite Brisone, allievo di Stilpone) e poi con l'opera di Democrito, grazie ad Anassarco. Il principio essenziale del suo pensiero è espresso nella parola acatalepsia, che implica l'impossibilità della conoscenza delle cose nella loro intima natura. Contro ogni affermazione, un principio contraddittorio può essere espresso con egual ragione. Secondariamente, è necessario per questo fatto mantenere un atteggiamento di sospensione dell'intelletto, o, nessuna proposizione può essere conosciuta come migliore di un'altra. In terzo luogo, questi risultati sono applicati alla vita in generale. Pirrone conclude che, dato che nulla può essere conosciuto, l'unico atteggiamento adatto alla vita è l'atarassia, "libertà dalle preoccupazioni". L'impossibilità della conoscenza, anche riguardo alla nostra stessa ignoranza o dubbio, dovrebbe indurre l'uomo saggio a ritirarsi in sé stesso, evitando qualsiasi eccessiva propensione o partecipazione per una attività particolare, e praticando il controllo sulle emozioni, che non hanno fondamento nella realtà e appartengono al mondo delle vane fantasie. Questo scetticismo drastico è la prima e più totale interpretazione di agnosticismo nella storia del pensiero. I suoi risultati etici possono essere confrontati con la tranquillità ideale degli stoici e degli epicurei. La via propria del saggio, diceva Pirrone, è di farsi tre domande. 1. Per prima cosa dobbiamo chiederci cosa sono le cose e come esse sono costituite. 2. Secondariamente, ci chiediamo come noi siamo legati a queste cose. 3. In terzo luogo, ci domandiamo come dovrebbe essere il nostro atteggiamento nei loro confronti. Riguardo a cosa sono le cose, possiamo solo rispondere che non sappiamo nulla. Noi sappiamo solo come le cose ci appaiono, ma sulla loro essenza intrinseca siamo ignoranti. La stessa cosa appare differentemente a persone differenti, e di conseguenza è impossibile sapere quale opinione è corretta. La diversità di opinioni fra i saggi come fra gli ignoranti, dimostra ciò. Noi possiamo avere opinioni, ma la certezza e la conoscenza sono impossibili. Di conseguenza il nostro atteggiamento verso le cose (la terza domanda) deve essere la completa sospensione del giudizio. Non possiamo essere certi di nulla, neanche delle affermazioni più banali. La conquista dell’Oriente da parte di Alessandro Magno segna l’inizio di un’epoca, indicata come Ellenismo, durante la quale la civiltà greca si diffonde nel mondo mediterraneo fino alle terre romane. Epicureismo, stoicismo, scetticismo costituiscono le tendenze filosofiche emergenti dall’età ellenistica, capaci di esprimere, pur con modalità diverse, le aspirazione e le inquietudini del loro tempo. EPICURO (di Samo, 341-270 a.C.) Discepolo dello scettico democriteo Nausifane e fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana, l'epicureismo, che si diffuse dal IV secolo a.C. fino al II secolo d.C., quando, avversato dai Padri della Chiesa subì un rapido declino, per essere poi rivalutato secoli dopo dalle correnti naturalistiche dell'Umanesimo, del Rinascimento e dal razionalismo laico illuminista.
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