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Storia della Letteratura Inglese dalle origini al settecento - Paolo Bertinetti, Appunti di Letteratura Inglese

Libro in digitale del Bertinetti. Manuale di letteratura inglese.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 01/04/2023

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Scarica Storia della Letteratura Inglese dalle origini al settecento - Paolo Bertinetti e più Appunti in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! Storia della letteratura inglese A cura di Paolo Bertinetti Volume primo letterature in inglese, letteratura internazionale di lingua inglese), le letterature sorte nelle ex colonie britanniche vengono studiate come un corpus unico; e non è da escludere che in una successiva edizione di questo manuale esse debbano essere ospitate in un volume a sé. Ma è pur vero che l’idea della federazione è comunque praticata per quanto riguarda le singole letterature «locali», australiana, indiana, canadese, africana, caraibica; e allora è forse piú affascinante l’idea di una federazione che tutte le comprenda accanto a quella della vecchia Inghilterra, della ex potenza coloniale non piú predatrice, ma felicemente «depredata» della sua lingua. PAOLO BERTINETTI Torino, 1° maggio 2000. Volume primo DALLE ORIGINI AL SETTECENTO I. M. Carlo Dionisotti ENRICO GIACCHERINI La letteratura medievale I. L’ETÀ ANGLOSASSONE. 1. La Britannia anglosassone. La storia della letteratura inglese prende le mosse da una produzione letteraria che, pur non potendosi chiamare propriamente «inglese», di quella costituisce l’indispensabile premessa. Per delinearne le caratteristiche, occorre dunque fare qualche passo indietro nelle vicende che, nel corso dei secoli, attraverso successive invasioni e insediamenti, hanno mutato il volto dell’antica Britannia. La letteratura alla quale si fa qui riferimento è quella prodotta sul suolo dell’Inghilterra storica propriamente detta – vale a dire a esclusione della Scozia (con qualche eccezione, come si vedrà), del Galles, dell’Irlanda. Ma, a iniziare dal VI secolo a. C., l’intera regione delle isole britanniche era stata occupata dalle avanguardie occidentali delle ultime grandi migrazioni indoeuropee, costituite da popolazioni celtiche: quelle stesse che la conquista romana avrebbe poi finito per sottomettere nel corso del tempo. Si trattò tuttavia di una occupazione di natura prevalentemente militare, che non riuscí mai a romanizzare del tutto la Britannia. Già verso la metà del IV secolo, gruppi di Picti e Scoti, tribú celtiche non sottomesse stanziate rispettivamente nell’odierna Scozia e Irlanda, attaccavano la Britannia romana spingendosi momentaneamente fino a Londra, mentre scorrerie di pirati, detti genericamente «Sassoni», da tempo infestavano le coste meridionali. Ma l’Impero romano era ormai minacciato da ogni lato dalle invasioni barbariche. Nel 409, alle richieste di aiuto provenienti dalle civitates britanniche, l’imperatore Onorio rispondeva che si difendessero da sole dagli invasori interni e d’oltremare, certificando cosí di fatto la rinuncia di Roma a esercitare il proprio dominio sulla Britannia. Quanto avvenne a partire da quel momento, è soltanto approssimativamente ricostruibile con l’ausilio delle principali fonti storiografiche coeve, in particolare la Historia ecclesiastica gentis Anglorum completata dal Venerabile Beda (673-735) pochi anni prima della sua morte. Sta di fatto che nel corso di qualche decennio ebbe luogo una vera e propria invasione dell’isola da parte di quelle popolazioni germaniche, ancora non cristianizzate, che premevano verso occidente in cerca di terre sulle quali stabilirsi. Si trattava, secondo quanto tramandato da Beda, di tre gruppi principali: Iuti, Angli e Sassoni, provenienti dalle coste oggi comprese grosso modo fra Danimarca e Germania, sulle due sponde dell’Elba, fino ai confini olandesi. Gli Iuti occuparono il Sudest, gli Angli le regioni centrali e settentrionali, i Sassoni l’Inghilterra sudoccidentale, dando cosí vita nel tempo a un frazionamento politico e territoriale destinato a durare fino al IX secolo. Il flusso di genti dal continente verso l’isola proseguí con fasi alterne fino al 590 circa: in quest’epoca, la germanizzazione della Britannia – l’evento determinante della storia inglese – è completata. È dunque giustificabile l’uso dell’aggettivo «anglosassone», dal nome delle popolazioni piú diffuse sul territorio, per designare l’insieme della Britannia germanizzata e della sua civiltà e letteratura – senza tuttavia dimenticare che assai presto (già dall’VIII secolo) l’espressione Engla Land, «terra degli Angli», e le forme aggettivali angeled englisc, «anglo», superarono i confini etnici e geografici cui si riferivano originariamente per venire assunte a designare l’insieme delle popolazioni isolane e la terra che queste abitavano. Meno corretto appare invece il pur radicato uso di «anglosassone» in ambito linguistico. In questo campo, si ricorrerà meglio ad «antico inglese» (Old English) a indicare la fase piú antica, seguita da quella del «medio inglese» (Middle English), di un divenire linguistico che ha condotto all’attuale inglese moderno, e che ha visto le prime due costituirsi a seguito di eventi altamente traumatici: invasioni, guerre e conquiste. Segna infatti una vera e propria soluzione di continuità il primo di tali eventi, a seguito del quale gli Anglosassoni sostituirono fisicamente le popolazioni celtiche preesistenti, e importando sul territorio britannico una lingua del tutto nuova; meno radicale è invece il secondo, coincidente con l’invasione normanna del 1066, che comportò una sostituzione limitata in massima parte all’aristocrazia dei piccoli e grandi feudatari e proprietari terrieri, perlopiú sottomettendo le genti anglosassoni senza tuttavia eliminarle. La lingua dei vincitori, in questo caso, si affiancò senza scalzarla a quella dei vinti – che si era nel frattempo autonomamente evoluta, assorbendo anche l’elemento scandinavo introdotto dalle conquiste vichinghe –, modificandola in profondità soltanto nell’aspetto lessicale, e limitatamente ad aree semantiche tutto sommato circoscritte. «Antico inglese» è dunque una indispensabile semplificazione convenzionale che cela la realtà della coesistenza di almeno quattro dialetti principali appartenenti alla famiglia linguistica del germanico occidentale, fra i quali emergerà nel X secolo, per motivi legati alla situazione politica, il sassone occidentale parlato nel Wessex. I profondissimi mutamenti intervenuti fra quest’epoca e la fine del XV secolo nella fonetica, nella morfologia, nella grammatica e nel lessico, fanno sí che l’antico inglese, nonostante la sostanziale continuità evolutiva, risulti una lingua quasi del tutto irriconoscibile anche al «parlante nativo» di epoca moderna. Un esempio – l’incipit del maggior monumento dell’epica anglosassone in versi, il Beowulf – varrà a dimostrarlo: Hwæt, we Gar-Dena in geardagum þeodcyninga þrym gefrunon, hu ða æþelingas ellen fremedon. [Attenzione. Sappiamo della gloria, in giorni lontani, | dei Danesi con l’Asta, dei re della nazione; | che grandi cose fecero quei principi, nel passato]. La Britannia romana aveva tuttavia consegnato agli invasori provenienti dal continente un retaggio non effimero: il cristianesimo. Fino all’inizio del IX secolo, la produzione e la promozione della cultura in Inghilterra sono prerogativa esclusiva dei centri monastici; il fine è teologico e didascalico, e il latino ne è il veicolo linguistico incontrastato, anche se sono attestate tracce assai precoci di una letteratura vernacolare, la piú antica, in effetti, che si conosca in madre dell’imperatore Costantino: lo stesso tema, cioè, che sta al centro dell’opera di maggior rilievo della poesia religiosa in antico inglese, i 156 versi di The Dream of the Rood (Il sogno della Croce), contenuto nel codice Vercelli, e in passato attribuito al medesimo Cynewulf. Qui, nel primo poema-sogno della tradizione poetica volgare inglese, l’autore costruisce con notevole efficacia drammatica una duplice struttura narrativa, tutta condotta in prima persona, ove la voce del sognatore che riferisce il proprio sogno fa da cornice al racconto della Croce stessa, che narra le proprie vicende attraverso i secoli, da quando sostenne l’abbraccio di Cristo fino a quando fu ritrovata dalla santa imperatrice. Questa sezione in particolare, il vero cuore del poema, si avvale di un linguaggio che coniuga semplicità, vigore e commossa partecipazione emotiva, mentre, ancora una volta, la storia sacra assume coloriture epiche. Alla ripresa finale il sognatore non può immaginare e rappresentare il paradiso che anela di raggiungere se non come il luogo dove «is dryhtnes folc | geseted to symle» [le genti del Signore | sono assise al banchetto]: cioè, come la trasposizione celeste del medo-heal, la «corte dell’idromele», la sala dei banchetti dove il comitatus guerriero anglosassone, riunito intorno al signore, al lord (dall’antico inglese hlāford, il «guardiano del pane», garante della sicurezza e del nutrimento) cui è stretta da legami di fedeltà e reciproca lealtà, celebra i suoi riti conviviali – e dove lo scop, il bardo, cantando soprattutto le imprese bellicose degli eroi di un tempo mitico, tramanda la memoria collettiva. 4. La poesia eroica. Fra le letterature di epoca medievale delle varie popolazioni germaniche che erano andate a occupare la fascia europea centrosettentrionale, a quella degli abitanti delle isole britanniche spetta un primato: ad essa appartiene infatti, con il Beowulf, il piú antico poema composto in una delle lingue volgari europee. La coloritura dialettale (in prevalenza sassone occidentale, ma largamente mista) dei 3182 versi del Beowulf – ripartiti in un Prologo e 43 fitts, o sezioni, di lunghezza irregolare – non rivela molto circa la sua provenienza. Si tratta, senza dubbio, di una copia di chissà quante copie precedenti, recante pertanto tracce di mani assai diverse, e redatta in una lingua poetica tutta convenzionale. Nessun accordo è stato finora possibile raggiungere nemmeno circa la datazione del poema, variamente collocata nell’arco di almeno duecento anni, fra la metà del VII secolo e la metà del IX, o addirittura oltre: in epoca, comunque, ormai pienamente cristiana. Analoga oscurità avvolge la figura dell’autore, ammesso che a un unico individuo si voglia pensare: come tipicamente accade per l’epica delle origini, anche in questo caso si presentano insomma problemi simili a quelli che hanno dato vita alla «questione omerica». Gli scenari dell’azione sono le regioni della Danimarca e della Scandinavia meridionale, e la storia si addensa attorno a tre nuclei narrativi (corrispondenti forse a tre «sessioni» di narrazione orale), che tuttavia, pur nella variazione delle situazioni, e inframmezzati da frequenti digressioni, ripropongono un identico schema di fondo, costituito dal combattimento fra l’eroe e il mostro. La reggia di Hrothgar, re di Danimarca, è infestata da un mostruoso orco, Grendel, che di notte lascia la sua dimora paludosa (la cui descrizione costituisce un paradigma della poesia descrittiva inglese) per divorarne gli uomini. Giunge in soccorso dalle terre dei Geati (l’estremità meridionale della Scandinavia) il giovane principe Beowulf che, dopo un combattimento corpo a corpo, mette in fuga il mostro ormai morente, e viene quindi festeggiato a corte. Il sollievo è però solo momentaneo, poiché la madre di Grendel giunge dalla palude per vendicare il figlio. Nuovamente Hrothgar prega Beowulf di soccorrerlo, e ancora quest’ultimo, immergendosi nella caverna posta sotto la superficie lacustre, dimora dei mostri, riesce infine a uccidere la creatura con l’aiuto di una spada magica. Tornato in patria, racconta l’avventura al suo re Hygelac. Nell’ultima sezione, Beowulf, divenuto a sua volta re dei Geati e ormai vecchio, deve affrontare un drago che, derubato di una preziosa coppa del tesoro di cui è a guardia, devasta quelle terre con il suo fiato infuocato. Per l’ultima volta Beowulf affronta il mostro; dopo una prima sconfitta, riesce a ucciderlo, ma solo grazie all’aiuto del giovane nipote Wiglaf, e non senza venirne prima ferito a morte. Il poema si chiude sul rogo funerario delle sue spoglie, che preannuncia cupamente il dissolversi della sua nazione, priva ormai del difensore. È palese, in un poema incorniciato da due riti funebri (Beowulf si apre infatti sulla descrizione dei funerali di Scyld, capostipite della stirpe di Hrothgar), il pessimismo tragico che sta al fondo della visione del cosmo, propria della cultura germanica. A confronto, sono evidentemente forze archetipiche: da una parte il Male, l’Oscurità, il Caos, la Morte, che si assommano nelle varie ipostasi mostruose – Grendel, la madre, il drago dell’ultima sezione; dall’altro il Bene, la Luce, l’Ordine, la Vita che regnano nelle corti danese e geata, ogni volta minacciate e ogni volta restaurate dall’intervento dell’eroe, secondo un andamento di continua alternanza delle sorti – che nondimeno vede infine prevalere, nel momento stesso della sconfitta del mostro che sta «fuori», il mostro imbattibile che si cela nelle profondità della condizione umana medesima. La strumentazione metrica, stilistica e retorica della quale si serve il poeta del Beowulf è tradizionale tanto quanto i materiali narrativi che intesse. Classico è il «verso lungo» a quattro accenti principali, costituito da due emistichi legati fra loro dall’allitterazione (secondo il tipico schema aa/ax), che esercita, inoltre, una rilevante funzione di collegamento sul piano semantico, oltre che metrico. La dizione, fortemente convenzionale, è contrassegnata dalla figura piú caratteristica dell’epica anglosassone, il kenning. Si tratta di frasi, o di composti prevalentemente nominali, che, mettendone in rilievo una qualità peculiare, designano in maniera spesso pittoresca una persona o un oggetto: cosí, ad esempio, l’oceano diventa la hron- rad, la «via della balena», oppure mæwes eþel, la «dimora del gabbiano», e il corpo è ban-hus, «la dimora delle ossa». Attorno al Beowulf il corpus della poesia eroica anglosassone non annovera che frammenti. Di epoca piú tarda sono due panegirici incastonati nella Anglo-saxon Chronicle, cioè The Battle of Brunanburh e The Battle of Maldon. I 73 versi del primo celebrano l’impresa vittoriosa del re Æthelstan del Wessex e dei suoi alleati di Mercia contro Scozzesi e «naviganti» vichinghi, mentre il piú lungo frammento del secondo (325 versi), ideologicamente e stilisticamente ben piú interessante degli altri, canta il nobile ma sfortunato scontro, e la morte eroica, dell’eorl Byrhtnoth presso Maldon, nell’Essex, nel corso di un episodio di guerriglia databile con precisione all’anno 991. La temperie eroica del poemetto ruota intorno alla fedeltà dei seguaci di Byrhtnoth, che scelgono di morire onorevolmente con lui (secondo un modello comportamentale che è però ormai lontano da quello delle origini germaniche) in una battaglia impari, e intorno, soprattutto, alla nozione – per altro controversa – di ofermod, «orgoglio», che ne caratterizza il protagonista. 5. La poesia elegiaca. Vengono in genere riuniti sotto la dizione di «elegie» un certo numero di componimenti in versi compresi nel manoscritto Exeter, talora frammentari, di intonazione lirica, nei quali trova espressione un diffuso senso di desolato sgomento e alienazione provocato dalla perdita di un passato che rappresentava stabilità e sicurezza. Risulterà evidente, nondimeno, la pretestuosità di una classificazione che porta a raccogliere sotto una medesima etichetta di «genere» letterario testi di ispirazione e argomento assai eterogenei. Widsith, dal nome-appellativo («Colui che ha molto viaggiato») del poeta immaginario che ne è il protagonista, e che parla in prima persona, è lo scop, la cui esistenza è quella del perpetuo errante. È il cantore di leggende eroiche, depositario di una sapienza tradizionale, ma conservata e trasmessa anche grazie all’esperienza e all’abilità artistica personale. Deor lamenta a sua volta in prima persona l’esilio cui è costretto, forse per essere stato soppiantato presso il suo signore da un altro scop, confrontando la propria attuale miseria con lo stato precedente. L’atteggiamento qui la pratica della confessione, e dunque dell’autoanalisi dei moti dell’animo: ci si apre cosí, in prospettiva, alla scoperta della psicologia dell’individuo, in un testo caratterizzato da una prosa fluida e ornata, impeccabilmente strutturata, la prima prosa inglese che possiamo definire consapevolmente artistica. Nel XIII secolo si affermano, sul continente cosí come in Inghilterra, gli ordini mendicanti dei francescani e domenicani. Fulcro della loro missione evangelizzatrice, rivolta in primo luogo alle masse illetterate, è la predicazione, come sostegno alla quale prende forma un ricco repertorio di testi destinati a fornire ai predicatori stessi materiale teologico ed esemplificativo, che assume ben presto un vero e proprio carattere narrativo. Persiste in quest’ambito una consistente produzione in versi, di cui fa parte il materiale raccolto ai primi del Trecento nel South English Legendary e organizzato secondo le scadenze del calendario liturgico, mentre negli stessi anni il canonico Robert Mannyng di Brunne compone gli oltre dodicimila ottonari dello Handlyng Synne (Trattato sui peccati). Il fine moraleggiante è qui bilanciato da un linguaggio semplice e da uno stile vivace, che fanno di questa raccolta di esempi, aneddoti e scenette di vita quotidiana forse il migliore esempio di realismo descrittivo inglese prima di Chaucer. Dotato di ben maggiori ambizioni è invece l’anonimo chierico che, alla fine del Duecento, compone i circa trentamila versi del Cursor Mundi, una eclettica parafrasi di materiale biblico che intende ripercorrere, dalla Creazione all’Apocalisse, l’intera storia spirituale dell’umanità: la natura del poema è dichiaratamente popolare, e anzi l’autore lo propone quale alternativa al genere romanzesco già cosí in voga al suo tempo. Di omelie in versi si potrebbe parlare nel tardo Trecento anche per Cleanness e Patience: ma di questi due poemetti si riparlerà meglio in relazione al cosiddetto «poeta di Gawain», al quale, insieme con il poema- visione Pearl, sono forse da attribuire. Quando si giunge al pieno XIV secolo, e ci si inoltra poi nel XV, la cultura si va sempre piú laicizzando; si accresce pertanto il ruolo dei centri secolari della produzione letteraria, mentre l’anglicizzazione politica e linguistica dei ceti dominanti libera il volgare inglese dalla marca sociale di inferiorità della quale soffriva in precedenza. L’esplosione dell’individualismo caratteristico di quest’epoca investe anche il mondo della religione; dunque, quella che era stata in quest’ambito una produzione vernacolare intesa soprattutto all’istruzione dottrinale e morale di vasti strati di fedeli incolti, si va ora sempre piú caricando di valenze emotive che, in forme piú o meno mascherate, dànno voce alle esigenze espressive degli autori stessi. Si affacciano quindi sulla scena letteraria, oltre ai Chaucer, Langland, Gower, al «poeta di Gawain», le grandi personalità dei mistici e contemplativi del tardo Medioevo inglese. Tra di essi spiccano Richard Rolle de Hampole (ca. 1300 - 1349), molto ammirato e imitato fra i contemporanei, e Walter Hilton (m. 1396), del quale si ricorda soprattutto The Scale of Perfection – la «scala», cioè, che conduce gradatamente alla contemplazione del Dio d’Amore e di Sapienza. Proveniente, come Hilton, dalle stesse contee centroorientali, ma dotato di ben piú robusta tempra di mistico, fu l’anonimo ecclesiastico autore, nella seconda metà del Trecento, di The Cloud of Unknowing, trattato destinato a un novizio già avviato alla vita contemplativa. Tutto giocato sul filo del paradosso è l’approccio teologico «negativo» dell’autore, che, prendendo atto della assoluta inconoscibilità della natura divina, ne fa nondimeno il requisito indispensabile per attivare quella tensione che permetterà, grazie a una scintilla d’amore, il contatto istantaneo con la nuda essenza di Dio: tuffarsi nella «nube della non- conoscenza» significa dunque rinunciare all’illusione di poter attingere la comunione con la divinità tramite la ragione. L’autore, che esibisce una straordinaria conoscenza dei meccanismi della psiche umana, costruisce un edificio impeccabilmente razionale che gli consente di innalzarsi fino alle supreme vette dell’antirazionale, il perfetto amore divino, e lo fa inoltre con una padronanza degli strumenti retorici e stilistici salda e raffinata, tale da fare di lui uno dei maestri della prosa inglese di ogni tempo. In analogia con quanto sta avvenendo nella stessa epoca nel resto d’Europa, spiccano con accenti personali, anche nel panorama inglese, le voci femminili. Quella piú importante appartiene sicuramente a Giuliana di Norwich (ca. 1342 - ca. 1416), che delle sue esperienze mistico-visionarie lasciò, a distanza di vent’anni l’una dall’altra, due relazioni di diversa ampiezza: l’ultima, di non comune qualità letteraria, è nota come A Book of Showings, oppure come Revelations of Divine Love. Malgrado la natura particolare dell’esperienza di cui è stata protagonista, Giuliana è dotata di una solida base teologica e razionale, e il suo misticismo è attraversato da una vena di pratico realismo tutto inglese. The Book of Margery Kempe, infine, è l’autobiografia dell’autrice, borghese del Norfolk, che fu pellegrina nei principali centri della cristianità. La personalità esuberante della Kempe allontana tuttavia la religiosità visionaria dell’autrice dalla sublimata spiritualità dei suoi conterranei maggiori, per avvicinarla piuttosto a taluni modelli continentali. 2. Produzione comica e lirica. Che una inedita, piú coltivata forma di civiltà, e una rinnovata stagione letteraria cominciassero ad affermarsi nell’Inghilterra degli anni a cavallo fra XII e XIII secolo, lo dimostrano i 1794 ottonari a rima baciata di The Owl and the Nightingale (Il gufo e l’usignolo). Dovuto a un autore sconosciuto, che assomma in sé il meglio della cultura accademica e cortese, latina e vernacolare, il poemetto articola un «contrasto» fra due contendenti appartenenti al mondo animale, il gufo e l’usignolo; il contrasto è modellato sui molti generi letterari allora assai in voga che, come il conflictus latino o la tenso provenzale, esprimono dialetticamente la forma mentis dell’epoca. Con l’umorismo e la sensibilità per il mondo della natura che siamo abituati ad associare alla migliore poesia inglese, l’autore caratterizza con freschezza e vivacità i suoi protagonisti, cui una convenzione plurisecolare ha attribuito una serie di associazioni simboliche di segno contrapposto, riassumibili in tutto ciò che è gioioso, spensierato, istintivo, perfino licenzioso, contro la seriosità, la solennità, la previdenza, l’ascetismo. Pregi e difetti dell’uno e dell’altro sono tuttavia sottolineati con grande imparzialità, e tanto l’usignolo quanto il gufo si trovano ora in vantaggio sull’avversario, ora costretti a una difficile difesa. Spinti da uno scricciolo che fa da paciere, si avviano infine a dirimere la contesa presso un saggio, onesto e povero giudice, Mastro Nicholas di Guildford, sul quale i due si erano già accordati in partenza, e nel quale è forse possibile identificare l’autore stesso di The Owl and the Nightingale – ma la cui sentenza il pubblico non apprenderà mai. L’unico altro esempio di favola animale della tradizione medioinglese è The Fox and the Wolf, un testo dei primi decenni del XIII secolo. Anche in questi trecento versi circa troviamo inscenato, come in The Owl, un contrasto, nel quale però l’azione drammatica svolge un ruolo piú considerevole rispetto al dibattito puramente verbale e ideologico di quello. La storia è quella della volpe che si trova intrappolata in un secchio in fondo a un pozzo, e persuade il lupo sopraggiunto a scendere a sua volta in un altro secchio, che, facendo da pendolo, permette alla prima di risalire. L’astuzia della volpe sta nel fingere con il lupo di essere morta, e di trovarsi in un paradiso di delizie, che gli descrive con tale dovizia di particolari entusiasmanti da indurlo a raggiungerla. Probabilmente The Fox and the Wolf nacque nell’ambito religioso degli ordini mendicanti. Una giocosa satira rivolta proprio contro i medesimi ambienti, che dipinge a sua volta uno scenario pseudo-paradisiaco dai contorni affatto terreni, è la duecentesca Land of Cokaygne: il diffusissimo tema folklorico del «Paese di Cuccagna» viene qui ripreso, in neanche duecento versi, da un «chierico vagante» probabilmente irlandese che, con una vena gustosamente parodica, descrive uno spensierato anti-Paradiso di leccornie abbondanti e piaceri carnali. In questo paese di Bengodi si ergono conventi di monaci e monache i cui abitanti si inseguono, e si raggiungono, dandosi insieme ai passatempi e alle «orazioni» che si possono immaginare, mentre sopra i cieli dell’abbazia, le cui mura sono pasticci di carne e pesce, storia inglese delle origini la figura emblematica di re Artú, che conserva per lui i connotati eroici del guerriero e del conquistatore, e non quelli pallidi ed evanescenti che venne ad assumere nella piú tarda tradizione cortese e francesizzante che ci è piú familiare. Intorno al 1260 compaiono i due piú antichi romances medioinglesi che ci siano pervenuti, King Horn e Floris and Blauncheflur. Mentre quest’ultimo narra, sia pure senza eccessivi sentimentalismi, le peripezie di due innamorati, con tanto di interventi magici e ambientazione orientale, King Horn intreccia situazioni romanzesche archetipiche con protagonisti, scenari e vicende vicini a realtà locali, e in tonalità piú epicheggianti. A questa tendenza sono riconducibili anche gli ancestral romances, vale a dire quei poemi che, narrando le avventure di immaginari eroi locali, tentano di accreditare i diritti sul territorio inglese di cospicue famiglie nobiliari di origini normanne – i cui legami con la madrepatria si vanno però sempre piú indebolendo – che di quei protagonisti si proclamano discendenti. La stessa tendenza epicheggiante, adattata però a materiali tratti dalla storia antica (la «materia di Roma»), mostrano poi i romanzi su Alessandro o sulla leggenda troiana. Eroi indigeni e tematica decisamente avventurosa caratterizzano invece agli inizi del Trecento i romances in assoluto piú popolari nell’Inghilterra tardomedievale, Guy of Warwick e Beues of Hamtoun, che inanellano i piú classici clichés romanzeschi, imprese amorose, vendetta, riconquista dei diritti regali ingiustamente conculcati. Sono gli stessi motivi tradizionali che ritroviamo ad esempio in uno dei piú interessanti romances del primo Trecento, William of Palerne, incentrato sul motivo del trovatello nutrito da animali selvatici: in questo caso, un lupo mannaro, che del poema è il vero protagonista. Intreccio amoroso e dimensione avventurosa sono qui collocati nella stessa atmosfera magica e fiabesca che, con connotazioni piú decisamente indigeno-insulari, caratterizza anche le piú brevi narrazioni modellate sul genere del lai bretone, quali Sir Launfal, Sir Degaré, Lai le Freine, e soprattutto il Sir Orfeo. Nei 600 versi circa di quest’ultimo splendido poemetto, composto forse nell’area londinese a cavallo fra XIII e XIV secolo, l’ignoto autore offre una originale e affascinante riscrittura del mito di Orfeo ed Euridice (del quale viene recuperata la versione ottimistica), ambientata nella luminosa Fairyland dell’immaginario celtico, fatta di verdi colline e acque scorrenti – ma nella quale non mancano tratti profondamente inquietanti. Il lieve incanto che fa il fascino tutto particolare del Sir Orfeo nasce dunque dalla rifecondazione del mito classico a opera della cultura celtica insulare, filtrate l’uno e l’altra da una sensibilità poetica che si muove a pieno agio nel clima spirituale e intellettuale dell’Inghilterra del primo Trecento. L’essenza stessa della tradizione romanzesca del Medioevo inglese si incarna, come in nessun’altra, nella figura di re Artú e dei suoi cavalieri. Ciononostante, dopo il Brut di Laӡamon il nome del leggendario sovrano britannico scompare dalla narrativa medioinglese per quasi un secolo. Vi si riaffaccia solo agli inizi del Trecento, per non uscirne piú, con l’incompiuto Arthour and Merlin e numerose altre opere, tra cui quella Morte Arthur detta «stanzaica», e almeno due capolavori: la Morte Arthure detta «allitterativa», e Sir Gawain and the Green Knight (Sir Gawain e il Cavaliere Verde), del quale si parlerà a parte. Se il poema «stanzaico» insiste sugli aspetti romantici e meravigliosi della leggenda arturiana, l’anonima Morte Arthure «allitterativa» (quasi 4350 versi), composta probabilmente intorno alla fine del Trecento, mostra caratteri profondamente diversi. In questo poema, che per molti aspetti richiama lo spirito del Brut, Artú è un protagonista a tutto tondo, figura di combattente e condottiero nel pieno della sua virilità, del quale si celebrano le imprese contro l’imperatore romano Lucius. Non v’è traccia dell’intrigo amoroso fra Lancillotto e la regina, che si schiera con il traditore Mordred per pura ambizione di potere, e ben scarso peso ha anche l’elemento meraviglioso. La rovina di Artú è determinata dalla sua desmesure, l’ofermod dell’epica anglosassone alla cui tradizione la Morte Arthure si apparenta; la cupidigia di conquista impedisce ad Artú di arrestarsi una volta sconfitto l’imperatore, ed egli non esita ad attaccare altri re e popoli cristiani. La condanna morale da parte dell’autore, prefigurata nello splendido sogno della Ruota della Fortuna, è inequivocabile – cosí come lo sono, d’altronde, il gusto e la baldanza descrittiva dei numerosi fatti d’arme che costellano questo romance, forte anche di un virtuosismo prosodico capace di avvalersi delle piú sofisticate risorse della tradizione versificatoria allitterativa insulare. 4. Il «Gawain-poet». Piú volte si è accennato al tipo di versificazione appena menzionato come a quello rappresentante la tradizione prosodica piú genuinamente autoctona dell’Inghilterra medievale. Resta dunque in larga misura ancora inspiegabile come ai primi del Duecento, dopo il Brut di Laӡamon, si spalanchi nella letteratura medioinglese un vuoto cronologico di circa centoventi anni, durante i quali la tecnica del verso sciolto allitterativo, che era stato del Beowulf, subisce una specie di inabissamento carsico, sparendo del tutto per ricomparire poi, quasi senza preavviso, in un nutrito corpo di poemi, concentrati nell’area provinciale del Settentrione e delle Midlands occidentali. A questo fenomeno (e alla controversa nozione di Alliterative Revival con il quale è conosciuto) sono riconducibili poemi-visione di impianto satirico-moralistico, agiografie in versi e romances quali la già ricordata Morte Arthure «allitterativa». Ma il capolavoro della rinascita allitterativa è senza dubbio Sir Gawain and the Green Knight, insieme con gli altri poemi convenzionalmente attribuiti al suo stesso autore, vale a dire Pearl, Cleanness e Patience. Per densità dei contenuti, penetrazione psicologica, tensione morale, elaborazione ed eleganza formale e stilistica, Sir Gawain and the Green Knight è un poema che si situa ai livelli piú alti del genere romanzesco non solo inglese, ma europeo. Nulla si conosce del suo autore, attivo nelle corti della nobiltà provinciale del Nordovest inglese fra il 1375 e il 1400, se non per prove interne al testo stesso, che conta 2530 versi, divisi in quattro fitts, e articolati in stanze di estensione variabile, formate da una sezione principale in versi allitterativi piú lunghi collegati (mediante un verso-ponte di due o tre sillabe detto bob) a una sezione fissa (detta wheel) di quattro versi brevi a rima alternata. Il poeta ha attinto assai liberamente a tradizioni prosodiche di diversa provenienza, combinando la solennità e il vigore ritmico propri dell’epica anglosassone con la forbita eleganza della narrativa cortese d’importazione continentale. Analoga disinvoltura emerge nell’orchestrazione del materiale tematico, che sa fondere con grande armonia, sensibilità ed economia, tematiche arturiane, gusto aristocratico per l’avventura, e un senso del meraviglioso nel quale l’elemento folklorico è filtrato al vaglio di una raffinata cultura letteraria. L’esplicita volontà di agganciare il proprio poema alla «materia di Roma», rivendicando l’origine troiana illustre della nazione inglese in apertura del poema, trasfigura cosí il primo dei due nuclei folklorici del Sir Gawain – il Beheading Game, la sfida a «giocare alla decapitazione» – traducendolo in un contesto descrittivo che fa del giovane re Artú e di Camelot altrettanti paradigmi di stilizzata cortesia. Cosí il misterioso sfidante, il Cavaliere Verde, che si presenta alla corte riunita per le festività natalizie brandendo un’ascia da guerra e un ramo di agrifoglio, esibisce nondimeno, nelle vesti e negli atti, le piú squisite virtú cavalleresche. A tale creatura «meravigliosa» appare connaturata anche una indubbia dimensione perturbante, che, prima ancora che nella sovrumana noncuranza con la quale essa si rialza e si allontana con la propria testa sotto il braccio dopo l’avvenuta decapitazione per mano del protagonista Gawain, risiede nel verde «disumano» da cui è connotata da capo a piedi. Ma tale dimensione viene subito neutralizzata, in primo luogo sussumendo appunto gli atteggiamenti del Cavaliere Verde in un ideale normativo etico condiviso da tutta la società che del poema costituisce allo stesso tempo l’espressione e il pubblico; in secondo luogo, sottolineando la natura di «finzione letteraria» dell’apparizione, che risponde in effetti a una precisa evocazione dello stesso Artú, il quale aveva fatto voto di non iniziare mai un pranzo festivo fintantoché non gli venisse essere parimenti beati nel Regno dei Cieli, è quanto Perla tenta vanamente di far comprendere al padre ricorrendo alla parabola evangelica dei lavoratori nella vigna (Matteo, 20, 1-16), che il poeta di Pearl parafrasa splendidamente. Il sognatore non può fare altro, al termine del dibattito dottrinale, che accettare con cristiana umiltà la verità illustrata da Perla, alla quale chiede nondimeno di mostrargli la Gerusalemme celeste dove ella dimora, ma dove a lui non sarà concesso entrare. All’interno della città, che riesce soltanto a intravedere a distanza, scorge l’Agnello di Dio seguito da una schiera di vergini, uomini e donne, ai quali si è riunita anche Perla. Commosso da quella visione beatifica, il sognatore non resiste alla tentazione di raggiungere la donna attraversando il fiume con un balzo. Lo sforzo stesso lo desta dal sogno; il gioielliere si ritrova cosí nel giardino dove si era addormentato, deluso, ma soddisfatto al tempo stesso che la sua Perla sia ora fra i beati al servizio di Dio. Pearl è dunque saldamente piantata nella stessa tradizione religiosa visionaria che, sottoposta a una profonda secolarizzazione nella Francia del Duecento, produsse con il Roman de la Rose il poema che forse piú di ogni altro influenzò la letteratura del tardo Medioevo europeo. Anche il poeta medioinglese, infatti, si rifà a questo modello nel combinare ispirazione religiosa e laica, sfruttando appieno, in termini di moltiplicazione dei punti di vista, tutte le potenzialità implicite nella convenzione narrativa del «sognatore». Perla è infatti una creatura scomparsa anzitempo, ma è anche una pietra preziosa, e molto di piú: è un’immagine metaforica nella quale si condensano sempre nuovi significati, fino a incarnare la purezza, l’innocenza, la grazia, l’umiltà, costituendo cosí l’elemento di continuità fra l’umano e il sovrumano, fra il mondo della veglia e quello del sogno. Per il sognatore, tuttavia, il tempo di entrare nel Regno celeste non è ancora venuto: la visione ultima gli è negata, il salto oltre il simbolico ruscello, come si è visto, fallisce. Nello stesso istante il sogno si interrompe bruscamente, lasciandolo – non senza contraddizione – nella consolazione e nel rimpianto, e, in definitiva, nella consapevole accettazione della volontà divina. Malgrado la mancanza di prove piú decisive di quanto non siano la contiguità nel medesimo, unico testimone manoscritto, e la comune patina dialettale, prevale comunque l’opinione che, oltre ai due poemi maggiori appena ricordati, anche Patience e Cleanness siano da attribuire allo stesso autore, del quale, tuttavia, rappresenterebbero la fase meno matura. Elementi a favore di questa ipotesi si possono individuare sia sul piano stilistico e figurativo, sia su quello tematico. È possibile rintracciare, con un grado crescente di articolazione lungo tutti e quattro i poemi, la presenza del tema della «virtú», che va dalla «pazienza» (o «sopportazione»), alla «purezza», in senso sia spirituale che corporale, alla piú complessa nozione di trawthe già ricordata a proposito del Sir Gawain. In modo del tutto caratteristico, tutti questi concetti vengono però elaborati da un punto di vista negativo, additando cioè le conseguenze che il mancato esercizio di tali virtú può provocare per l’uomo, il quale si trova posto costantemente a confronto – per restarne in definitiva sempre sconfitto – con un’istanza superiore, identificabile con il Dio cristiano. A questo ordine di motivi, aggiungerei la progressiva, vieppiú sofisticata esplorazione, nei quattro poemi, delle possibilità offerte dal sogno, nella sua dimensione linguistica, tematica e formale. Per il tono sermoneggiante e il forte risalto che è dato alla componente moralistica, tanto Patience quanto Cleanness, si era già osservato, possono essere definite delle «omelie in versi». Nei 531 versi del primo poema, la storia esemplare che lo occupa tutto è quella del Giona biblico, narrata con bonomia spesso umoristica, e con notevole sfoggio di virtuosismi tecnici nella descrizione della traversata per mare e della tempesta che precedono l’episodio piú memorabile, quello del soggiorno nel ventre della creatura marina. La «pazienza» che manca all’umanissimo profeta, è invece quella dimostrata da Dio nei confronti di Giona stesso e della peccatrice città di Ninive, risparmiata malgrado l’iniziale minaccia di distruzione. Nuovamente per contrario è il procedimento adottato in Cleanness (1812 versi), ma qui l’impalcatura narrativa è molto piú complessa. Tre sono infatti (introdotti dalla parabola evangelica delle nozze regali e dell’ospite malvestito) gli exempla principali, sempre di provenienza biblica, degli effetti catastrofici causati dall’ira divina per la fylþe, l’«impurità», la «corruzione», la «contaminazione»: Noè e il Diluvio, la distruzione di Sodoma e Gomorra, il Festino di Baldassarre e il profeta Daniele. Questi episodi maggiori sono poi collegati da un connettivo composto di exempla minori quali la caduta di Lucifero e quella di Adamo, Abramo e Sara con la storia di Lot, e la storia di Nabuccodonosor: ma è la figura di Cristo, inserita fra le ultime due sequenze principali, a fare da fulcro all’intero poema. 5. Langland. La combinazione di tecniche versificatorie allitterative e di convenzioni formali e generiche connesse al dream-poem si ritrova nell’opera senz’altro piú ambiziosa e di maggiore impegno etico, religioso e sociale che la letteratura medioinglese abbia prodotto, The Vision of Piers Plowman (Piero l’Aratore). Se le caratteristiche dialettali hanno in larga misura contribuito a tenere a lungo relegati poemi come quelli del Gawain-poet in una immeritata dimensione di «localismo» provinciale, ciò non è invece avvenuto nel caso del Piers Plowman, composto in un dialetto sudoccidentale assai meno ostico al pubblico colto della capitale, dove, fra l’altro, l’autore visse a lungo. Insieme con l’interesse destato dalle problematiche religiose in esso dibattute, ciò ha garantito al poema una vasta popolarità, testimoniata dal numero eccezionalmente alto di manoscritti (oltre cinquanta) che ce lo hanno tramandato. Che, in quanto singola opera, il Piers Plowman rappresenti il maggior poema del Medioevo inglese, è convinzione diffusa, tanto che il paragone con la Commedia dantesca è divenuto ormai luogo comune. La sua grandezza e la sua profondità, tuttavia, si fondano anche su una complessità strutturale e una problematicità a piú livelli, tali da farne un testo di tutt’altro che facile comprensione; e soprattutto un testo che, a differenza della Commedia, è impossibile cogliere in un unico sguardo prospettico. Possiamo scorgere in questo un riflesso della relativamente scarsa qualità «visiva» di cui è dotata l’immaginazione del suo autore, se paragonata con quella, straordinaria, di tipo «verbale», che è tale da fare del Piers Plowman, come è stato giustamente definito, il «classico della parola» – una «parola parlata», modulata sui ritmi e sulle inflessioni del linguaggio comune, alieno da preziosismi ornamentali. Ma, soprattutto, ciò sarebbe inconciliabile con la struttura cumulativa e continuamente digressiva propria del poema, che ne fa un testo in progress come nessun altro nel suo tempo: l’interminabile lavoro di revisione cui venne sottoposto dall’autore ne offre un’evidente conferma. Poco e incerto è quanto sappiamo sull’autore, a cominciare dal nome: William Langland, probabilmente. Nato intorno al 1330 nelle contee dell’Inghilterra centrale, educato in un convento, visse a Londra e in campagna, fu forse chierico appartenente agli ordini minori, sposato e padre di una figlia, morí intorno al 1386. Nel corso dei suoi ultimi venticinque anni di vita, a partire dal 1362, Langland fu impegnato, come si è detto, in un costante lavoro di revisione della sua unica opera conosciuta: ne esistono infatti tre distinte redazioni, solitamente designate come testi A, B e C, piú una probabile quarta (Z), che costituirebbe un primo abbozzo. Il testo B, cui è stata riconosciuta la maggiore coesione strutturale, e che forma la versione da sempre piú diffusa, consiste di circa 7250 versi allitterativi lunghi (da due a cinque sillabe accentate, piú un numero variabile di non accentate), ripartiti in un Prologo e venti sezioni disuguali, chiamate con il termine latino di passus. Si parlava della natura di work in progress del Piers Plowman: e proprio il progress costituisce il modello visibile dell’azione drammatica del poema, vale a dire quello, cosí caratteristico dell’epoca, del viaggio, ma un viaggio le cui tappe (passus, appunto) sono momenti di una ricerca di risposte a interrogativi che si rinnovano continuamente. È perciò una quest destinata non già a concludersi (come ad esempio quella romanzesca) nell’appagamento di certezze acquisite una volta per tutte, bensí, come si addice a un’«opera aperta», ad aprirsi a un’ulteriore fase, solo temporaneamente sospesa: l’immagine finale somdeel to Piers the Plowman» [Uno [...] alquanto assomigliante a Piero l’Aratore] – ingaggia con la Morte sulla croce, Arbor Caritatis, simbolo dell’Amore Divino, lotta dalla quale emergerà infine trionfante, riscattando le anime dall’Inferno. 6. Gower. Per i nostri occhi di moderni è facile individuare il protagonista indiscusso della scena letteraria inglese alla fine del Trecento in Geoffrey Chaucer, artista e intellettuale europeo cui il bagaglio della tradizione non ha impedito di cogliere, metabolizzare e trasmettere alle generazioni successive i fermenti di irrequietezza e di innovazione provenienti dai settori piú avanzati della cultura europea del tempo. In questa prospettiva, è giusto trattare la figura del suo amico, e di lui poco piú anziano, John Gower (ca. 1330 - 1408), prima di Chaucer stesso, cui peraltro sopravvisse di qualche anno. Anch’egli operante negli ambienti della corte londinese di Riccardo II, Gower ne riflette i tratti culturalmente e linguisticamente compositi scrivendo le sue tre opere maggiori, il Mirour de l’homme (o Speculum meditantis), Vox clamantis, e la piú tarda Confessio amantis rispettivamente in latino, francese e inglese. La formula di moral Gower, per lui coniata proprio da Chaucer, ben ne riassume la caratteristica saliente; i quasi trentamila versi del Mirour sono infatti una disamina accorata, puntigliosamente organizzata, e condotta con largo ricorso alla tecnica delle personificazioni allegoriche, dello stato di degenerazione morale che travaglia l’umanità, cui solo l’intercessione di Maria può offrire motivo di speranza. Lo stesso impulso, orientato ora sul versante politico, detta anche gli accenti apocalittici della Vox clamantis, espressione di un animo terrorizzato dai disordini sociali della Peasant Revolt, i moti contadini del 1381, e dalla corruzione che, dilagando dalla corte reale, trascina con sé la nazione intera. La Confessio amantis, iniziata nel 1386, è l’opera della sua età avanzata; anche i suoi oltre trentatremila ottosillabi rimati muovono da una tensione morale, ma ora come attenuata e pacificata. La forma concreta che il poema assume è quella (destinata a ben maggiori fortune) della collezione di storie racchiuse da una cornice, che vede come protagonista Amans, alter ego dell’autore stesso. Questi prega Venere di liberarlo dalle pene d’amore, e la dea gli impone allora di confessarsi al suo sacerdote Genius (personificazione della «forza generatrice» dell’amore). È Genius che, confessandolo, passa in rassegna, secondo le norme convenzionali, i sette peccati capitali e relative suddivisioni, raccontando via via storie, tratte essenzialmente dalla mitologia greco-romana, in funzione esemplificativa. Alla conclusione, il protagonista si proclama libero dalla sua schiavitú, reso infine saggio dalla vecchiaia. È dunque ancora ben viva nella Confessio quella concezione dell’amore come «religione» che, partendo dalle corti occitaniche nel XII secolo, aveva conquistato l’Europa intera; altrettanto viva, nell’allegorismo diffuso, è l’eredità del Roman de la Rose, da cui il personaggio di Genius discende in linea diretta. Orientata verso il passato è forse, soprattutto, la sistematicità trattatistica dell’impianto generale del poema, cosí come l’ambizione enciclopedistica che informa il settimo degli otto libri della Confessio amantis. Ciò che riscatta Gower va individuato casomai nell’umanità autoironica con la quale egli si dipinge nelle vesti di amante sfortunato e consapevole dei propri limiti, che si riscatta nella finale rinuncia alle illusioni terrene, per trovare riposo e rifugio in un Amore piú alto. A questo, corrisponde uno stile narrativo che, se non conosce l’ampia escursione chauceriana dei toni e dei registri, si mantiene nondimeno fluido e lineare, melodioso e semplice, classico come i modelli di cui è nutrito. 7. Chaucer. Sebbene dunque altri, come il Gawain-poet e Langland, ci abbiano consegnato capolavori capaci di reggere qualsiasi confronto, nessun poeta inglese ha dimostrato di saper dominare la tradizione letteraria dell’Europa tardomedievale al pari di Geoffrey Chaucer (ca. 1343-1400), sia per la vastità degli orizzonti culturali, sia per la padronanza dei mezzi espressivi, fatta di varietà del linguaggio e degli accenti, precisione e profondità descrittive, attitudine all’immedesimazione psicologica, capacità di maneggiare, e di rinnovare, le convenzioni di genere e le forme prosodiche piú diverse. Nato a Londra, probabilmente fra il 1340 e il 1343, da una prospera famiglia del ceto mercantile (il padre era grossista di vini), divenne presto valletto al servizio della moglie di Lionel, uno dei figli di Edoardo III. La prosecuzione della sua carriera lo vide in armi al seguito delle spedizioni reali in Francia, dove fu fatto prigioniero e poi riscattato, quindi, via via, incaricato di missioni diplomatiche ancora in Francia, Spagna e Italia, sovrintendente alle dogane londinesi, giudice di pace, deputato al parlamento in rappresentanza della contea del Kent, dove si era trasferito, responsabile dei lavori di costruzione e della manutenzione di dieci residenze reali, fra le quali la Torre di Londra e il palazzo di Westminster, funzionario forestale. Fu sposato, ebbe discendenza maschile e femminile, conobbe qualche disavventura non solo finanziaria, ma anche giudiziaria, dalla quale uscí sostanzialmente indenne, subí le sorti altalenanti del favore reale: morí – per la soddisfazione dei periodizzatori – nel 1400, venendo sepolto, come era suo diritto, nell’abbazia di Westminster. Malgrado l’importanza che l’attività letteraria venne ad assumere nella sua esistenza, va dunque sottolineato che essa non costituí mai per Chaucer una fonte di sostentamento, se non nel senso metaforico dell’espressione. Rispondeva cioè a una necessità interiore di esprimersi attraverso tale strumento, e indubbiamente gli offriva un rifugio e un ristoro dalle incombenze quotidiane, come emerge dall’autoritratto, tipicamente venato di lieve ironia, che Chaucer ci propone per bocca dell’Aquila, uno dei personaggi di The House of Fame (La Casa della Fama). Nell’ambito del canone maggiore chauceriano, soltanto la prima opera, The Book of the Duchess (Il Libro della Duchessa), del 1368 o degli anni immediatamente posteriori, è stata indiscutibilmente concepita per un destinatario aristocratico, John of Gaunt, il feudatario piú potente del regno; e soltanto nella piú tarda The Legend of Good Women (Leggenda delle donne eccellenti) sembrano venire adombrati personaggi di rango reale. Per il resto, il pubblico al quale Chaucer si rivolgeva era costituito in prevalenza dalla medesima cerchia cui anch’egli apparteneva, fatta di funzionari e di gentiluomini della piccola nobiltà di corte: gli stessi, fra l’altro, per i quali il volgare inglese non era una mera lingua «di servizio», buona soltanto per la comunicazione quotidiana, ma poteva ambire a essere strumento di espressione letteraria dignitosa ed elegante – ruolo di cui, per l’aristocrazia, era depositario esclusivo il francese. In tutta la sua produzione letteraria, del resto, Chaucer si è sempre mantenuto entro una banda di oscillazione fondamentalmente mediana dal punto di vista sociale, e lo si può verificare dai Canterbury Tales (I Racconti di Canterbury). In un’epoca nella quale la necessità dell’ordine gerarchico era un presupposto non soggetto a discussione, in quanto riflesso su questa terra dell’ordine dell’universo creato e voluto da Dio, non sorprende scorgere, sotteso al vasto diorama dei Canterbury Tales, o meglio dei pellegrini- narratori che ne popolano la cornice, un assetto che comprende i tre ordini tradizionali della società medievale idealizzata – l’aristocrazia secolare, i religiosi, i lavoratori della terra –, insieme a un’altra composita categoria di artigiani e piccoli borghesi, legata invece alla realtà contingente dell’Europa occidentale del tardo Trecento. Ma all’interno di questo vasto spettro, le estremità risultano eliminate: il laico di piú eminente condizione è il Knight, esponente della piccola nobiltà d’armi e non certo dell’alta aristocrazia di corte; fra i religiosi, il personaggio piú spiritualmente elevato è il Parroco di campagna; fra i lavoratori, il Ploughman, figura altrettanto idealizzata, e non a caso fratello del Parroco, è comunque un uomo libero, piccolo proprietario di bestiame. Il favore critico incontrato dalla periodizzazione, interna all’opera chauceriana, in una «fase francese», seguita da una «italiana» e culminante in una «inglese», è stato pari alle accuse di superficialità irrisolta. Un testo boccacciano, il Teseida, aveva già fornito a Chaucer la traccia per un primo esperimento imitativo, Attelida and Arcite (abortito però quasi sul nascere), prima di riaffacciarsi nel Parliament, e di venire poi rielaborato con ben altra maestria nel Knight’s Tale (Il racconto del Cavaliere). Negli anni fra il 1382 e il 1386, Chaucer si rivolge invece a un altro poema boccacciano, il giovanile Filostrato – senza, notoriamente, mai citarne l’autore per nome, né qui né altrove –, per il primo capolavoro della sua piena maturità artistica, il Troilus and Criseyde (Troilo e Criseida). Adottando nuovamente la rhyme royal, l’autore tratta la materia legata alla leggenda troiana con il respiro adatto al genere romanzesco, da lui per la prima volta affrontato, suddividendo in cinque libri gli oltre 8200 versi che lo compongono. Nella plurisecolare tradizione incentrata sull’argomento, che ha in Omero il suo capostipite, gli attori principali del poema chauceriano – Troilo, Criseida, Pandaro, Diomede – erano stati poco piú che semplici nomi, mai correlati in una stessa trama narrativa prima che, verso la metà del XII secolo, il francese Benoît de Sainte-Maure non «inventasse» la sfortunata storia d’amore fra i due coprotagonisti in un episodio del suo Roman de Troie; ma fu Boccaccio il primo a fare della vicenda il tema esclusivo di un romanzo. Come già nel Filostrato, cosí anche nel Troilus and Criseyde manca del tutto quella dimensione «meravigliosa» che forse piú di ogni altra costituisce la cifra di questo genere letterario nella sua veste medievale. Resta centrale, invece, la funzione dell’esperienza amorosa, vero fulcro delle azioni e della psicologia dei personaggi. La quest avventurosa, che nel Troilus ha luogo in uno scenario esclusivamente interiore, coincide con la scoperta della natura esaltante e dolorosa di tale esperienza, passaggio indispensabile per la formazione della persona, salvo proporne infine il superamento in una prospettiva di piú matura e sublimata consapevolezza spirituale. Il percorso dell’azione si dipana secondo lo schema che per il Medioevo era quello della tragedia, esemplificato nell’immagine, di derivazione boeziana, della ruota della Fortuna: ascesa e caduta delle sorti dell’eroe, il cui double sorwe («doppio penare») – la sofferenza dell’innamoramento prima, dell’abbandono poi – è appunto l’argomento del Troilus, dichiarato fin dal primo verso. Un romance tragico costituirebbe tuttavia una contraddizione in termini; il lieto fine, che del romance è costitutivo, ribalta ambiguamente la prospettiva del Troilus da tragica in comica – nel senso della Commedia dantesca, che dall’inferno trascorre alla gloria celeste: non a caso la stanza conclusiva è direttamente ricalcata su alcuni celebri versi del Paradiso (XIV, 28-30). Lo spirito di Troilo ucciso, sollevato all’ottava sfera, contempla la vanità del mondo e ride delle sue passioni, partecipe ora di una superiore saggezza: ma solo il passaggio attraverso l’esperienza di questo mondo gli ha consentito di accedervi. Se la fonte boccacciana non è mai persa di vista nel Troilus, che in lunghi passi traduce, nel senso anche moderno del termine, il Filostrato, è anche vero che la trasformazione operata su un testo tutto sommato ancora di scuola, sia pure alta scuola, è radicale. Il montaggio, la sistemazione, le aggiunte, di poche parole o versi come di interi episodi, hanno come risultato una totale personalizzazione della storia, che si manifesta, nella maniera piú evidente e inedita, nella caratterizzazione dei personaggi, ben altrimenti sfaccettati e chiaroscurati che non nella fonte boccacciana. L’intensità del sentimento amoroso e la passione della sofferenza conferiscono infatti al Troilo chauceriano una dignità sconosciuta al Troilo del Boccaccio, mentre l’amico Pandaro diviene qui, una volta per tutte, l’epitome indimenticabile del savoir faire e del pragmatismo, saggio e ironico quanto basta, nei confronti di se stesso ancor prima che del mondo. Altrettanto sfumata e realisticamente attendibile risulta la psicologia della donna, nei confronti della quale, inoltre, il narratore confessa, nel gioco della finzione letteraria, di provare una simpatia umana tale da desiderare quasi di scusarne il tradimento. Il mutare dell’atteggiamento della bella, intelligente Criseida – dall’apparente alterigia iniziale alla lusingata attenzione verso il nobile innamorato, alla dedizione tenera e appassionata, al sincero dolore per la separazione inevitabile, al cedimento alla corte dell’irresistibile Diomede – viene scandito anche dalle ripetute descrizioni della protagonista che, caso eccezionale nella tradizione, si susseguono fino addirittura al libro conclusivo. E, ogni volta, un dettaglio piú preciso nel suo aspetto esteriore, o una notazione caratteriale prima sottaciuta, ci consentono di penetrare piú a fondo nell’animo del personaggio, fino all’ultima, in apparenza trascurabile osservazione – che però molto spiega, forse tutto – in chiusura di un ritratto convenzionalmente elogiativo: Criseida era slydynge of corage («per natura incostante», o se si vuole, piú alla lettera, «volubile di cuore»). Negli anni immediatamente successivi al Troilus and Criseyde, Chaucer si cimenta con nuovi problemi, e prospetta nuove soluzioni: prosodiche, che vedono l’adozione (destinata a essere, in sostanza, definitiva) del distico deca- o endecasillabico; organizzative, che risultano nella serializzazione di narrazioni brevi in combinazione con una cornice strutturante capace di conferire al tutto un’impronta unitaria. Il primo risultato è The Legend of Good Women, raccolta incompiuta di nove brevi racconti (o meglio, appunto, «leggende»), le cui protagoniste sono altrettante eroine di celebri vicende amorose. I racconti sono preceduti da un Prologo nel quale l’autore ripropone per l’ultima volta, con esiti poeticamente splendidi, la convenzione narrativa del sogno-visione. La funzione di questa è ora, tuttavia, soltanto introduttiva: se la Legend fosse stata portata a termine, la conclusione avrebbe indubbiamente visto il risveglio del narratore sognatore, ma alle singole storie manca un vero e proprio tessuto connettivo – quello, cioè, che costituisce la vera novità strutturale dei Canterbury Tales. Sebbene alcuni dei racconti poi destinati a confluire nei Canterbury Tales fossero già stati composti in precedenza, il progetto dell’opera inizia a prendere forma intorno al 1386-87, e la sua elaborazione si protrae, non sappiamo con quale continuità, forse fino alla morte stessa dell’autore. Ciò che ne possediamo – trasmesso, a testimoniarne l’eccezionale popolarità, da ottantadue manoscritti e sei antiche edizioni a stampa – ha una sua indubbia completezza: un Prologo generale, il Prologo per antonomasia della narrativa inglese di ogni tempo, e una conclusione, la Ritrattazione. Qui Chaucer, alla fine del suo pellegrinaggio letterario ed esistenziale, rinnega, nominandole una per una, tutte quelle sue opere che non abbiano un intènto e un contenuto morale e devozionale, dichiarando di volersi dedicare, da allora in poi, alla salvezza della propria anima. Tutto quanto è compreso fra quei due estremi, tuttavia, esiste in uno stato di disordinata incompiutezza, in parte dovuta alla mancanza di tempo, ma forse anche al fatto che Chaucer, nel suo tentativo di raffigurare la molteplice varietà della vita, dovette cammin facendo prendere atto che questa, pur dotata come egli credeva di un senso, manca al proprio interno di un disegno organicamente coerente. Cosí, se il piano iniziale enunciato dall’Oste Harry Bailly prevedeva un totale di centoventi racconti (due sulla via dell’andata e altrettanti per il ritorno per ciascuno dei trenta pellegrini, che a un certo punto diventano però trentuno), il progetto viene via via modificato, ridotto, dimenticato. Il risultato sono, oltre al Prologo, ventiquattro racconti solitamente raggruppati in dieci «frammenti», blocchi narrativi fra loro isolati e di dimensioni disuguali, composti talora anche di un solo racconto. All’interno di ogni frammento di piú racconti, invece, questi sono immersi in quel tessuto connettivo di cui si diceva, fatto di scambi, interventi, dialoghi e anche scontri fra i vari pellegrini-narratori – dei quali fa parte l’archi- narratore stesso, l’io narrante di Geoffrey Chaucer – sempre guidati, ossequiati, stimolati, rimbrottati e zittiti, quand’è il caso, dall’Oste. Sulla scorta del Decameron boccacciano, l’intelaiatura dei Canterbury Tales prevede dunque una serie di racconti dei partecipanti a un evento collettivo. La cornice narrativa ideata da Chaucer è quella del pellegrinaggio verso il santuario del vescovo martire St Thomas à Becket, nella città di Canterbury. Un giorno di aprile, dunque, una compagnia di ventinove persone si riunisce alla Tabard Inn, una locanda nei ancora una volta, la diffidenza di Chaucer nei confronti del romance di gusto popolaresco si rivela nella feroce parodia del Tale of Sir Thopas. Si tratta di un concentrato di sciatteria versificatoria e dei piú vieti luoghi comuni del genere, che appunto Chaucer, nelle vesti del Narratore, riserva ironicamente a se stesso, solo per farsi interrompere da un Oste sopraffatto dalla noia, e raccontare allora una storia ben diversa, e davvero «prosastica»: il Tale of Melibee, dove il racconto si confonde col trattato morale. Il Tale of Melibee si può accostare ad altri di natura religiosa, sia pure in un senso molto generico, come il Clerk’s Tale, dove Chaucer riprende la storia, popolarissima in tutto il Medioevo, e già narrata sia da Boccaccio sia da Petrarca, della «paziente Griselda», che sopporta cristianamente le prove cui la sottopone il marito. Di religiosità, in senso confessionale e convenzionale, si può invece parlare per l’agiografico Second Nun’s Tale, che narra la vita di santa Cecilia, e per il commovente Prioress’s Tale, riconducibile al genere dei «miracoli della Vergine» (da prendersi però con le molle per l’antisemitismo che, con tutta naturalezza, lo pervade). Il Parson’s Tale, sul quale si chiudono i Canterbury Tales, non ha, paradossalmente, una «storia» da narrare: non è un racconto, bensí un sermone, rigorosamente organizzato ed esaustivo, sul tema della penitenza, seguito da un trattato sui Sette Peccati Capitali. La Ritrattazione finale non ne è che la logica, inevitabile conclusione. 8. La generazione postchauceriana. Dopo la morte di Chaucer, molti dei letterati che si professavano suoi discepoli si rivelarono per essere poco piú che passivi imitatori. Del modello pur ammirato, celebrato ed emulato, la maggior parte di costoro – come ad esempio John Lydgate (ca. 1370-1450), che pure godette di grandissima considerazione presso i contemporanei quale il continuatore piú fedele del maestro – si dimostrò in effetti incapace di cogliere la spinta innovativa, e anzi per molti aspetti dirompente. Questa era implicita, da un lato, nel rifiuto di Chaucer – sia pur nella piena e orgogliosa coscienza di appartenere a una tradizione già gloriosa – di lasciarsi paralizzare da eccessivi condizionamenti nei confronti dell’antichità classica, consapevolmente ricostruita e rivissuta con gli strumenti linguistici offerti dal proprio volgare; dall’altro, nella sua rinegoziazione del concetto medesimo di auctoritas. Altrettanto infruttuosi rimasero, presso la maggior parte dei suoi successori, il nuovo senso della prospettiva storica che aveva distinto il letterato londinese, la sua audacia intellettuale, la volontà e la capacità di innovare anche sotto il profilo prosodico e stilistico. Non sorprende dunque, presso una generazione che in Chaucer scorgeva soprattutto il maestro di retorica e il moralista, l’altissima stima accordata a un Gower, o, come appena ricordato, a un Lydgate. Questi fu monaco benedettino e versificatore instancabile, che con il Troy Book, iniziato nel 1412, e nel Siege of Thebes, di una decina d’anni posteriore, pone i due popolarissimi cicli leggendari ispirati all’antichità classica al servizio di una concezione che scorge nella faziosità e nell’ambizione la causa di ogni male, cosí nel corpo dell’individuo come in quello sociale. Analoghe preoccupazioni Lydgate mostra in The Fall of Princes, massiccia raccolta di exempla edificanti a uso dei governanti per ammonirli contro i pericoli della malvagità e dei capricci di Fortuna. L’abbondante eloquenza e lo stile preziosamente decorativo fanno la forza di Lydgate, ma non ne compensano lo scarso realismo, il didatticismo e la ristrettezza degli orizzonti intellettuali. Al novero dei moralisti autori di specula principum appartiene anche Thomas Hoccleve (ca. 1368 - ca. 1430), egli pure ardente ammiratore del Chaucer piú convenzionale. Fu autore del Regement of Princes, del 1412, dove però alla dimensione esemplare e alla consueta deprecazione dei mali del tempo si accompagnano, specie nel visionario Prologo dove si inscena l’incontro con una figura di mendicante, intensi accenti autobiografici che ce ne offrono un inconsueto ritratto di melancolico con tratti patologici. Il contributo piú innovativo della generazione postchauceriana alla letteratura inglese del XV secolo non giunge dall’Inghilterra, bensí dalla Scozia, regno allora indipendente, altrettanto culturalmente vicino ai modelli d’Oltremanica quanto la nazione confinante, e anzi molto di piú dal punto di vista politico. Né costituiva un impedimento la lingua, dal momento che quella in uso nell’area dominante delle Lowlands scozzesi altro non era che una variante dialettale del Middle English con forte coloritura settentrionale. Già nel corso del Trecento la cultura scozzese aveva saputo esprimere accenti fortemente autonomi con John Barbour, autore intorno al 1376 del Bruce, cronaca eroicizzata, dagli accesi toni patriottici, della guerra per l’indipendenza dall’Inghilterra, conquistata nel 1314 sul campo di battaglia di Bannockburn. Di tutt’altra natura è invece l’opera del re di Scozia Giacomo I (1394-1437), che vicende politiche e belliche portarono a trascorrere in una dorata prigionia inglese tutti gli anni della formazione giovanile. Nel corso di questi ebbe modo di assimilare lingua e cultura degli ambienti della corte londinese, e la sua opera piú importante, The Kingis Quair (Il libro del re), redatta pochi anni prima della sua morte, risulta infatti imbevuta di moduli chauceriani. La materia può in parte riflettere esperienze autobiografiche, trasposte tuttavia in base a convenzioni letterarie che vedono il narratore insonne cercare conforto nel De consolatione boeziano, ed essere quindi spettatore non veduto dell’apparizione di una bellissima dama della quale subito si innamora, sulla falsariga del Knight’s Tale chauceriano. Le sue pene d’amore ricordano quelle del Troilus, mentre interviene in suo soccorso Venere che, in sogno, lo conduce in cielo e gli fa comprendere la vera natura dell’amore terreno e di quello celeste. Non manca la visione della Ruota di Fortuna, alla cui sommità questa dea benevolmente lo colloca, per poi destarlo alla felice realtà di un amore ricambiato. La cultura scozzese dell’epoca conosce altre figure di rilievo che è possibile etichettare come «chauceriani», quali Gavin Douglas (ca. 1475- 1522), autore di una splendida traduzione dell’Eneide (1513) in distici eroici, o William Dunbar (ca. 1456 - ca. 1513). Di lui si ricorda soprattutto l’estroso Tretis of the Tua Mariit Wemen and the Wedo, del 1508, che in 530 versi affronta con grande libertà di spirito il tema della condizione e dell’erotismo femminile sullo sfondo della dissoluzione del mondo medievale, rovesciando tutti gli stereotipi cortesi. Suo è anche il Lament for the Makaris, venticinque brevi stanze nelle quali l’autore, turbato dal timore della morte incombente, passa in rassegna la memoria dei grandi poeti (makaris, appunto) che lo hanno preceduto, con Chaucer in testa. Il piú interessante dei chauceriani scozzesi è Robert Henryson (ca. 1424 - ca. 1506), letterato di cui si conosce pochissimo. La tensione morale è il connotato saliente delle sue opere principali, tutte riscritture di storie e miti che la tradizione aveva reso già popolarissimi, a cominciare dalle Morali Fabillis of Esope the Phrygian. Si tratta di tredici amplificazioni di favole esopiche, tutte corredate da una moralitas conclusiva, i cui interessi spaziano dall’ambito sociale, a quello religioso, a quello semplicemente domestico. Il linguaggio è piano e vivace, spesso venato di umorismo, come nella favola, celebre, del topo di campagna e del topo di città. Piú interessante risulta al lettore moderno The Testament of Cresseid: qui, la dipendenza dal maggiore poeta inglese è dichiarata, ma, al tempo stesso, problematizzata. Se chauceriani sono la cornice onirica e lo spunto narrativo, il tradizionale locus amœnus primaverile dell’esordio cede alle cupe e gelide atmosfere settentrionali; quel che è piú significativo, è che Henryson in effetti non riscrive il Troilus and Criseyde, ma subentra al maestro inventando quanto la fonte aveva taciuto, cioè il destino di Criseida dopo aver abbandonato Troilo per Diomede – e dopo essere stata abbandonata da questo. La donna infedele maledice Cupido per averla ingannata; in uno splendido pageant descrittivo, il consesso degli dèi planetari le si presenta allora in sogno per sottoporla a processo per l’offesa ricevuta, al termine del quale la donna viene punita con la lebbra. Allontanata in un lazzaretto, Criseida, sfigurata e irriconoscibile, vive da mendicante, e un giorno incontra l’ignaro Troilo, che torna vittorioso e acclamato da uno scontro con i Greci. Nessuno dei due riconosce l’altro, ma un vago ricordo commosso induce Troilo a farle l’elemosina prima di proseguire. Saputo chi era quel guerriero, Criseida, sul punto di Spiccano nell’opera valori tipicamente cortesi e cavallereschi, quali onore, fedeltà, nobiltà d’animo e dei comportamenti, in una prospettiva piú terrena che spirituale e oltremondana. È difficile, allora, non scorgere una profonda ironia nella contraddizione fra l’ideologia cosí proclamata e il poco che pare invece accertato circa l’uomo Malory, personalità a dir poco irrequieta, accusato di una serie di reati minori e maggiori, fra i quali furto, violenza, stupro e tentato omicidio: anche se la corrispondenza fra stili di vita da un lato, e dall’altro ideali e aspirazioni espressi nell’opera d’arte, non è affatto una costante. Ma lo stesso atteggiamento dell’autore nei confronti della propria materia è fonte di potenziale ambiguità. Nel momento in cui il travagliato presente pare costringere a prendere atto dell’irrimediabile declino del mondo a paragone di un’epoca trascorsa, intesa quale modello ideale e tuttavia non piú replicabile, Malory esibisce infatti accenti elegiaci, di vagheggiamento nostalgico. Si potrebbe leggere, in tutto ciò, una forma di regressione consolatoria, una disperata evasione nelle regioni della fantasia; ma è altrettanto legittimo scorgervi, alternativamente, una (magari ingenua) professione di fede nella possibilità di far effettivamente rivivere, sul piano individuale e collettivo, quegli stessi modelli e valori. La versione maloriana della leggenda di Artú è quella che si è fissata piú a fondo nell’immaginario popolare, e non solo in quello anglosassone; la ricezione del tema arturiano nel romanticismo europeo ne è stata largamente condizionata, e di conseguenza anche quella dei moderni. Il contributo piú personale di Malory sta tuttavia nel rinnovamento da lui operato sul tessuto linguistico della prosa d’arte inglese fra Medioevo e Rinascimento: la sua dizione semplifica infatti la debordante retorica tipica dello stile «aureato», per tornare a lessico e ritmi assai piú aderenti alle spontanee movenze del parlato elegante, cui contribuisce non poco un’allitterazione naturalmente discreta. Come la sintassi narrativa di Malory interviene drasticamente sulle contorte tecniche a intreccio proprie del romanzo continentale tardomedievale, cosí la sintassi della frase viene resa a sua volta piú scorrevole, leggibile e gradevole, grazie anche a una imagery sobria, ma fresca e vivace al tempo stesso. 10. Il dramma medievale. Nel corso degli ultimissimi decenni, gli studi dedicati al teatro inglese medievale hanno conosciuto una straordinaria crescita, grazie soprattutto all’azione trainante esercitata dai molti agguerriti tentativi di indagarne e ricrearne «dal vivo», con strumenti filologicamente affinati, le condizioni di effettiva rappresentabilità scenica. Ci si trova tuttavia di fronte a delicatissimi interrogativi che investono non soltanto il piú vasto problema delle origini del dramma medievale europeo – un campo nel quale molte certezze di un tempo, legate a una sua presunta filiazione diretta dalle cerimonie liturgiche elaborate nella Chiesa occidentale intorno al X secolo, sembrano sempre piú traballanti –, ma anche la nozione stessa di «letterarietà», applicata a una materia che, soprattutto in quell’epoca, a tale categoria resta perlopiú irriducibile. Lo conferma il dato cronologico: mentre i piú antichi accenni indiretti all’esistenza di una drammaturgia religiosa in volgare inglese rimandano al pieno secolo XIV (età già assai tarda, rispetto al resto d’Europa), i primi manoscritti contenenti testi scenici non compaiono che verso il primo quarto del secolo successivo. Per fare un solo altro esempio, la composizione dei piú importanti cycle plays che vanno sotto il nome dei Towneley è attribuita al tardo Quattrocento, e il manoscritto che ce li ha conservati è, probabilmente, addirittura dell’inizio del Cinquecento. Esigenze di brevità impongono comunque di limitare l’esame ai fenomeni piú appariscenti, in un contesto che resta tuttora in gran parte oscuro. Sebbene, come si è già constatato, i testi piú remoti nel tempo a noi pervenuti siano di natura secolare (l’Interludium de clerico et puella), il corpus teatrale di gran lunga piú significativo del Medioevo inglese è di carattere religioso, e comprende soprattutto i drammi ciclici e le moralities. Va comunque sottolineato che, dal punto di vista quantitativo, la produzione insulare è tutto sommato ben povera, se raffrontata a quella continentale, e in primo luogo a quella francese. Si può affermare che il dramma religioso in volgare nasce, all’interno della Chiesa, dall’intento di trasmettere dei contenuti di ordine istruttivo e moraleggiante, servendosi di forme e strumenti espressivi tali da riuscire comprensibili, e graditi, anche al pubblico meno sofisticato. Le sequenze di rappresentazioni cui è stato dato il nome di cycle plays mettono in scena i momenti salienti della storia sacra narrati nell’Antico e nel Nuovo Testamento, dalla creazione del mondo alla Resurrezione di Cristo. Questa tendenza verso la comprensività e l’organicità strutturale resta una caratteristica specificamente inglese, e trova una singolare analogia in talune piú antiche narrazioni cicliche di tenore religioso, quali il già ricordato Cursor Mundi. L’origine dei drammi ciclici veniva tradizionalmente collegata con l’istituzione, ai primi del XIV secolo, della festività del Corpus Domini (per gli Anglosassoni, Corpus Christi). Proprio dalle processioni comprendenti tableaux vivants, rappresentazioni statiche di episodi sacri tipiche di tale festività, possono in effetti aver preso le mosse i primi sviluppi dialogati, poi smisuratamente ampliatisi a formare alcuni – ma non tutti – dei cicli drammatici conosciuti: sono invece gli episodi collegati con la Passione di Cristo a formare il nucleo della maggior parte di tali cicli. Nei centri piú importanti dell’Inghilterra del tempo, questi divennero spesso strettamente collegati alle principali guilds, o corporazioni artigianali, a ciascuna delle quali veniva affidata la realizzazione di una o piú sezioni. In certi casi, è poi documentato che le rappresentazioni avessero luogo su strutture mobili che si spostavano lungo un itinerario urbano, a varie tappe prefissate, e a ogni sosta la recita si ripeteva, in maniera tale da consentire a tutti i cittadini di assistere all’intera sequenza. Il primo ciclo in ordine di tempo del quale si abbia documentazione appartiene in effetti a una regione e a una lingua non inglesi, ma celtiche (i cosiddetti Ordinalia cornici); cicli completi, ancorché comprendenti un numero assai variabile di testi, ci sono invece pervenuti da quattro località inglesi: tre del Settentrione, York, Wakefield e Chester, la quarta collocabile nelle contee orientali dell’East Anglia. Quest’ultima sequenza è nota dai documenti come «ciclo di N-Town»: si tratta, probabilmente, di una casella vuota, che la compagnia itinerante che l’aveva in repertorio integrava di volta in volta con il nome della città dove la rappresentazione si svolgeva. Testi isolati, o frammenti di cicli andati perduti, appartengono poi a città quali Norwich, Coventry, Newcastle- on-Tyne e altre ancora. Una menzione particolare meritano i drammi di Wakefield (meglio noti come «ciclo di Towneley», dal nome della famiglia che ne possedeva il manoscritto), dal momento che al loro interno è stato isolato un gruppo di cinque, e forse sei, testi, nei quali si è riconosciuta la mano di uno stesso autore. Pur essendo del tutto sconosciuto, il «Maestro di Wakefield» (come per convenzione viene chiamato) si rivela per un artista di notevole statura e originalità, soprattutto per la varietà dell’invenzione verbale, la ricercatezza delle rime, la padronanza di registri lessicali e stilistici assai diversi, al servizio di una visione comprensiva e caldamente partecipe nei confronti della varia umanità che agisce nei suoi drammi. Di questo atteggiamento è componente essenziale l’umorismo semplice ed efficace che caratterizza ad esempio la Secunda Pastorum, o Second Shepherds’ Play, il capolavoro del dramma ciclico religioso inglese. In un episodio, che costituisce peraltro la parte piú rilevante della Secunda Pastorum, e non solo per le sue proporzioni, la splendida figura del ladro di bestiame Mak mette in scena, con la moglie e i suoi compari pastori, una parodia della narrazione evangelica della Natività tanto comicamente realistica quanto commovente per la sincera religiosità che vi aleggia. Tutto ciò acquista importanza particolare nel contesto di una forma artistica, quella del teatro religioso, ciclico e non, la cui natura resta in ogni caso squisitamente orale, volta alla rappresentazione viva sulla scena ben piú che alla lettura, ed è pertanto il prodotto dell’interazione di una collettività, piuttosto che dell’invenzione di un che la forzata insularità comportava – provincialità culturale e irrilevanza politica – nella loro maggiore fortuna. Si trattava ora, piuttosto, di unificare l’isola annettendovi il Galles e la Scozia, che rimaneva ancora indipendente, e l’Irlanda, tenacemente ribelle e sottomessa solo in una piccolissima parte. Approfittando con somma spregiudicatezza della posizione marginale dell’isola di fronte alle grandi controversie che attraversavano il continente, sciupandone le risorse, Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Corona inglese dalla Santa Sede e con l’Atto di supremazia nel 1534 si proclamò capo della Chiesa d’Inghilterra. Il monarca inglese usò con tempestivo opportunismo le nuove idee che erano tumultuosamente prodotte nella Germania di Lutero e clandestinamente importate in Inghilterra, al solo scopo di appropriarsi delle cospicue ricchezze ecclesiastiche da distribuire ai suoi alleati e per affermare il potere assoluto sul suo regno, e sulla sua vita privata. Fu una storia lunga e travagliata quella della Riforma in Inghilterra, intimamente intrecciata con la nascita della sua autonomia politica e culturale. La Riforma distrusse tradizioni e consuetudini, abbazie e libri, ma permise una rivoluzionaria modernizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo e il decollo orgoglioso di una nuova cultura politica e letteraria. In ogni caso per essa caddero molte teste, sia di quelli che la vollero, sia di quelli che le resistettero. Di questa storia conviene seguire l’evolversi attraverso le vicende turbolente dei protagonisti dell’accesa polemica che ne determinò il ritmo e il respiro. 1. Isole reali, isole ideali: More, Tyndale. «Utopia» è una parola coniata sul suolo inglese da Thomas More (1477? -1535). È il titolo della sua opera piú nota, pubblicata in latino nel 1516 e tradotta in inglese solo nel 1551. «Utopia», che vuole dire non-luogo oppure luogo del bene, dal greco ou («senza») o eû («bene») e tópos («luogo»), è il nome dell’isola visitata da Raphael Hythlodoeus in una località indefinita del Nuovo Mondo. Un’isola che contiene 54 città-stato, «tutte spaziose e magnifiche, identiche nella lingua, tradizioni, costumi e leggi». Avendone conosciuta una se ne conoscono tutte. Qui More stabilisce la sede di uno Stato ideale dove non esistono proprietà privata, né denaro, né differenza di rango, dove la guerra è sconosciuta e tutti lavorano sei ore al giorno, dove la famiglia condivide beni e figli con la comunità e non c’è posto per l’ambizione personale o il conflitto politico, né per lo spreco del lusso, né per il privilegio o il sopruso. Qui i desideri privati sono attenuati in nome dell’interesse comune e della convivenza civile. Uniformità e giustizia, sane relazioni sociali e abbassamento dell’aggressività dell’io: queste sono le principali caratteristiche di Utopia. Ispirata sia alla Repubblica di Platone sia ai resoconti dei recenti viaggi di esplorazione verso nuove terre che offrivano una prospettiva inedita sul vecchio continente, la sobria e retta isola di Utopia sembra voler essere la rappresentazione e contrario dell’attuale isola d’Inghilterra, rigidamente divisa da gerarchie sociali, smodatamente teatrale, vanagloriosa e pretenziosa, ingiusta e violenta, mal governata dalla folle ingordigia dei potenti. L’Utopia di More costituisce forse il primo esempio di critica della società contemporanea che adotta come strategia retorica un punto di vista esterno e «razionale» (Hythlodoeus e la sua Utopia) da cui risaltano in filigrana i difetti e le assurdità della storia presente. L’Utopia, insomma, serve piú a stanare i vizi del reale che a decretare le virtú dell’ideale. Solo fino a un certo punto, infatti, Utopia rappresenta per lo stesso More quello che una società ideale dovrebbe essere. Controllata da un’oligarchia di uomini pii e saggi e da un fantomatico principe eletto con il consenso generale, Utopia è una società troppo virtuosa per essere probabile o persino desiderabile. Nel primo dei due libri il dialogo fra il troppo integro Raphael Hythlodoeus (che significa «dotto in nonsenso») e un raffinato e semiserio Morus (o, secondo l’etimologia greca «matto»), mette in luce i dubbi e le perplessità sul pericolo che l’abolizione della proprietà privata costituisce per il possesso interiore dell’individuo. Principalmente, tuttavia, il dialogo tra Hythlodoeus e Morus mette in scena il dilemma cruciale dell’umanesimo europeo: può il sapere (o la filosofia) agire sulla prassi civile? Può il sapiente (o il filosofo) avere un ruolo nella vita politica del suo paese? Un dilemma che occupò un posto centrale nella carriera pubblica e letteraria di More e che assumerà una forma concreta appena dopo il 1516, la data di pubblicazione di Utopia, quando Enrico VIII offrí a More l’incarico di Lord Chancellor, la carica piú importante del governo. Questi anni segnano il passaggio dal More umanista al More teologo e polemista. More era approdato al suo capolavoro politico/filosofico dopo aver tradotto The Life of Johan Picus Erle of Myrandula (La vita di Pico della Mirandola, 1505), il neoplatonico fiorentino convertitosi alle idee radicali del monaco dissidente Girolamo Savonarola, e molti dialoghi di Luciano, scelti, insieme con il suo amico, l’umanista olandese Desiderius Erasmus (1467?-1536), tra quelli che maggiormente attaccavano l’avidità e l’abuso dei potenti, la superstizione, l’ignoranza e la cupidigia del clero. Laureatosi in giurisprudenza all’università di Oxford, More ricevette una educazione interamente imbevuta dell’umanesimo importato dall’Italia in Inghilterra negli ultimi decenni del Quattrocento dagli ecclesiastici William Grocyn (1446- 1519) e Thomas Linacre (1460-1524). Entrambi gli studiosi avevano frequentato i circoli umanisti italiani e avevano studiato il greco sotto la guida del neoplatonico Angelo Poliziano (1459-1494). Fu grazie al loro entusiasmo per il «nuovo sapere» che nei curricula dell’università di Oxford furono inseriti, sebbene in notevole ritardo rispetto all’Italia, lo studio della letteratura greca, della filosofia e delle scienze. Sulla base di un analogo entusiasmo, il decano della cattedrale di St Paul, John Colet (1466- 1519), fondò la scuola di St Paul a Londra ispirandosi ai principî umanistici con l’intento di riformare l’educazione della futura classe dirigente del paese. Fu in questo clima di rinnovamento culturale che Erasmo arrivò in Inghilterra nel 1499 per risiedervi poi dal 1509 al 1514. Insieme con Erasmo, che gli dedicò il piú arguto dei suoi scritti, l’Elogio della follia (1511, in latino Morae encomium, dove morae, «follia», gioca foneticamente sul nome di More), More fu il promotore del piú eloquente e brillante programma di riforma del cristianesimo che avrebbe costituito un riferimento fondamentale per il futuro sviluppo della cultura laica e religiosa di tutta l’Europa. Fu proprio questa brillante erudizione che Enrico volle mettere al servizio della sua causa politica negli anni turbolenti che videro lo scisma da Roma. Lusingato probabilmente dalla visibilità che offriva la scena pubblica, seppure esitante e consapevole dei pericoli che comportava diventare il consigliere del tirannico e imprevedibile Enrico, More accettò l’incarico: «I miei pensieri e il mio cuore erano a lungo stati disposti a una vita ritirata, quando improvvisamente, senza avviso, sono stato gettato in una massa di affari di vitale importanza», scriveva a Erasmo nel 1529. Ma i suoi progetti erano ora messi in pericolo da un oscuro monaco tedesco, professore di teologia all’università di Wittenberg. Quando Martin Lutero, dopo aver fatto circolare le sue celebri 95 tesi nel 1517, fu scomunicato (1521) e dichiarato fuorilegge da Carlo V, il programma di rivitalizzazione del cristianesimo dal suo interno si era trasformato in un attacco dall’esterno. 1.1. Guerra di libri. Lutero non rimase passivo di fronte alla scomunica. La prima reazione fu la pubblicazione di La prigionia di Babilonia, un trattato in latino indirizzato a un clero colto in cui, partendo dalle stesse premesse di Erasmo sulla ignoranza e prepotenza della classe ecclesiastica, proponeva la liberazione della spiritualità cristiana dalla corruzione delle istituzioni della Chiesa cattolica. Inoltre, respingeva la validità di tutti i sacramenti a eccezione del battesimo e dell’eucarestia (a cui conferiva un diverso significato da quello della Chiesa). Se Lutero da una parte destituiva il clero di ogni potere sulla vita spirituale del fedele (il solo principio di autorità sono le Sacre cinque libri della Bibbia) nel 1530, e applica gli «esempi» alla tua situazione immediata. La Bibbia non era piú testo di pochi ma guida morale e spirituale della vita quotidiana di tutti. Il dibattito tra More e Tyndale è stato definito la classica controversia della Riforma, contraddistinta, come è stato detto, da una «monotona verbosità». «Verboso» e «tedioso», il dibattito tuttavia è la voce piú alta ed esaustiva di quella «guerra linguistica» che percorrerà tutto il secolo e oltre in un paese ormai decisamente diviso, e che sfocerà in una vera e propria guerra civile. Tyndale fu giustiziato per eresia nel 1536, ma il suo Nuovo Testamento continuò a essere letto. Per ironia della sorte, la traduzione della Bibbia che venne autorizzata dallo stesso Enrico nel 1537, e in seguito, la famosa Bibbia di Ginevra del 1560, cosí come quella del 1611, la Bibbia di Giacomo I, si avvalsero a piene mani, senza mai riconoscerlo, di quella di Tyndale. Non fu l’interpretazione della Bibbia che divise radicalmente More e Tyndale, ma l’interpretazione del potere del sovrano. Quando, per confutare le accuse di istigazione alla disobbedienza civile lanciate dalla propaganda cattolica che faceva capo a Enrico ed eloquentemente rappresentata da More, Tyndale pubblicò The Obedience of a Christen Man (L’obbedienza dell’uomo cristiano, 1528), la «fede» del cattolico re d’Inghilterra cominciò a vacillare. Disobbedire alle leggi del clero, scriveva Tyndale, non significava disobbedire alla legge di Dio. Il re governa lo Stato per diritto divino. Come vicario di Dio egli ne detiene anche l’autorità spirituale. Poiché è suo dovere punire il male, egli dovrebbe cominciare col punire il clero che ha usurpato le sue funzioni giuridiche e si è arricchito a spese dei suoi sudditi. L’autorità del clero va limitata alla predicazione, e le sue leggi vanno soppresse. Né Tyndale né i suoi confederati erano convinti sostenitori della supremazia del sovrano. Tyndale la difese al solo scopo di affermare la massima supremazia: la sua interpretazione della parola scritta di Dio. Ma Enrico fu ovviamente attratto da una teoria che lo liberava dalla sottomissione alla regola ecclesiastica. Tyndale non assecondò mai il divorzio del re – questione giuridica cruciale della Riforma – e con questo rifiuto pose il sigillo sulla sua vita. È stato detto, tuttavia, che l’ispirazione dell’Obedience si può rintracciare in ogni atto del Parlamento che condusse alla Sottomissione del clero e all’Atto di supremazia del 1534. 1.2. Ragioni di Stato. L’Inghilterra divenne una nazione protestante non tanto per motivi di fede religiosa quanto per motivi dinastici. Enrico voleva a tutti i costi divorziare da Caterina d’Aragona, che non aveva dato alla luce un erede di sesso maschile. E voleva a tutti i costi sposare Anna Bolena. Il papa Clemente VII esitava a concedere quello che in altre occasioni aveva concesso, e che infine negò per il solo motivo che Caterina, figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, aveva nel papa un potente alleato. La corte di Enrico si divise allora nettamente in due fazioni, una filocattolica che faceva capo a Caterina, l’altra filoluterana che faceva capo ad Anna Bolena. Con l’aiuto di Thomas Cromwell, potente segretario di Stato, e dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer, Enrico privò gradualmente il clero di tutti i diritti acquisiti nei secoli. Con l’Atto di sottomissione del clero nel 1531, esso perse ogni autorità spirituale e giuridica. Con l’Atto di supremazia (1534) Enrico si arrogò ogni diritto giurisdizionale sul suo paese, compreso quello spirituale. Nacque cosí la Chiesa inglese (piú tardi chiamata Anglicana Ecclesia). Enrico divorziò da Caterina, e Cranmer incoronò la nuova regina Anna Bolena nel 1533. Cromwell mise in moto il dissolvimento di circa settecento conventi tra il 1536 e il 1539. I beni di settemila monaci, suore e frati furono confiscati e venduti o donati agli esponenti della piccola e grande aristocrazia alleata, o diventata, per effetto dei benefici ricevuti, alleata del re. I luoghi dedicati ai santi, mete dei pellegrini, furono distrutti insieme ad altari, organi, effigi religiose, biblioteche storiche. Le tradizionali comunità religiose furono estinte. Fu imposta una nuova liturgia. Consapevole ormai del giro di boa dell’imprevedibile Enrico, More rassegnò le dimissioni nel 1532. Fu rinchiuso nella Torre di Londra, dove venivano detenuti i prigionieri politici o le persone di rango, per essersi rifiutato di prestare giuramento all’Atto di supremazia, di riconoscere cioè Enrico come capo della Chiesa d’Inghilterra. Qui scrisse le sue ultime opere: Dialogue of Comfort upon Tribulations (Dialogo di conforto nei giorni di tribolazione), Treatise to Receive the Blessed Body of Our Lord (Trattato per ricevere il corpo benedetto del nostro Signore), Treatise upon Passion (Trattato sulla Passione). Abbandonato ogni argomento politico e cosciente della morte imminente, More ritornò alla sua voce interiore cercando nella coscienza individuale l’ultima roccaforte in un mondo che aveva invano tentato di cambiare. Gli eventi che si susseguirono vorticosamente dal 1521 al 1535 furono per More la prova concreta che il progetto umanistico di riformare l’Europa cristiana rieducandola era fallito. L’arbitrio del potere si era mostrato piú forte della ragione. Il fatto è che, come si rivelerà in seguito, l’unità del cristianesimo che More aveva difeso insieme al potere supremo del pontefice doveva cedere il posto alle esigenze storiche della nascita dei nuovi Stati, e cioè di nuove entità giuridiche. Le ragioni di Stato non potevano piú sottostare a quelle della religione, e la religione che pretendeva di essere universale divenne religione nazionale. Tuttavia, se la politica e la religione furono le due piú grandi preoccupazioni dell’uomo di lettere del Rinascimento, Utopia e Dialogue of Comfort rimangono due opere supreme in entrambi i campi e rappresentano le punte piú alte della carriera letteraria di More come umanista e come teologo. More fu decapitato nel 1535 per alto tradimento. 2. Poeti alla corte di Enrico: Skelton, Wyatt, Surrey. Sebbene per Tyndale la lingua inglese fosse all’altezza del greco e dell’ebraico, non tutti erano della stessa opinione all’inizio del secolo. L’inglese era ancora lingua fluida e indeterminata allo stesso modo in cui fluida e indeterminata era ancora la cultura che testimoniava. Le insistenti dichiarazioni di imbarazzo per la condizione «barbara» in cui versava il vernacolo percorrono quasi tutto il secolo. Se ne lamentavano soprattutto i poeti, e per primo lo fece John Skelton (1460?-1529), il piú vecchio dei poeti della corte di Enrico, che denunciava l’insufficienza della lingua di Gower, di Lydgate e persino di Chaucer. Nella sua poesia Phyllyp Sparrowe (Il passero Phyllyp, ca. 1505), la protagonista, Dame Margery si duole di non poter comporre un epitaffio per il passero nella sua lingua madre: «Our naturali tong is rude, | and hard to be ennuede» [La nostra lingua naturale è rozza | e difficile da invidiare], il suo vocabolario è povero, piatto, goffo. Nemmeno il metro di Chaucer è in grado di esprimere una sensibilità piú moderna. Per qualche tempo tutore del giovane Enrico VIII, Skelton è una figura di poeta in bilico tra Medioevo e Rinascimento. Incerto sulla sua identità di poeta in una altrettanto incerta corte, Skelton non sembrò assorbire le novità culturali che venivano importate dall’Italia da More e da Erasmo, ma, al contrario, assunse posizioni conservatrici sulla cultura e sullo studio del latino. Da Oxford e Cambridge ricevette il titolo di «poeta laureato» per le sue qualità di retore e traduttore e prese gli ordini nel 1498. La sua educazione e i suoi studi, tuttavia, e la dichiarata insoddisfazione per i modelli poetici dei suoi predecessori quattrocenteschi non gli impedirono di utilizzare il vernacolo in uno «stile semplice» per le sue poesie satiriche. Il suo verso, famoso per la travolgente vitalità e il ritmo mozzafiato, sembra essere stranamente adatto alla satira impetuosa ed energica della corte e dei suoi abitanti in quello che è considerato il suo capolavoro: The Bowge of Courte (1499). Ma le note piú aspre e aggressive Skelton le riservò per il cardinale Thomas Wolsey, il potente e avido ministro di Enrico che guidò quasi del tutto indisturbato la politica interna ed estera dell’Inghilterra fino alla morte. La pompa e la ricchezza di cui Wolsey amava fare sfoggio gli valsero il titolo di alter rex («secondo re»). Ed è come «secondo re» che Skelton lo attacca in Speak Parrott e Why Come Ye Not to Court? (1521-22). Di quest’ultima poesia sono rimasti celebri i versi tipicamente brevi e sincopati: «Why come ye not to court? | To tangere, for Ceasar’s I am» [perché appartengo a Cesare] è una chiara ingiunzione contro ogni desiderio di possesso. Non è piú un’irraggiungibilità metafisica che impedisce il congiungimento degli amanti, o la natura stessa del desiderio amoroso che non può fermarsi, né la fredda crudeltà dell’amata, bensí il fatto tangibile che la cerva inseguita appartiene a «Cesare», a qualcuno, cioè, immensamente piú potente del poeta. È stato scritto che la cerva alluda a Anna Bolena con la quale sembra che il poeta avesse avuto una relazione amorosa prima che ella divenisse amante del re e poi sua sposa, e che il «Cesare» della scritta alluda quindi a Enrico VIII. Che sia o no allusivo, il sonetto dimostra la duttilità di Wyatt nell’adattare il testo originale e prestigioso alle circostanze concrete della vita di corte, qui e ora, e nel forgiare la vita interiore del poeta dentro un triangolo amoroso – poeta amata-sovrano – che include il pericoloso contatto con il potere. È alla cinica politica della corte che è dedicata la sua poesia piú importante They Flee from Me, scritto questa volta nella rhyme royal, prediletta da Chaucer. Qui il poeta lamenta la legge impietosa che muta i rapporti tra gli uomini secondo il posto che essi occupano nella gerarchia di corte: «They flee from me that sometime did me seek | with naked foot stalking in my chamber» [Fuggono da me coloro che un tempo mi cercarono | inseguendomi furtivamente nella mia camera a piedi nudi]. Una volta cercato, ora, per il voltafaccia della fortuna, fuggito, il poeta non può che costatare con amarezza la mutabilità e l’imprevedibilità del mondo cortese. Un mutamento repentino e arbitrario che riguarda tanto i rapporti con i suoi rivali a corte quanto i rapporti con una capricciosa amata. Eros e politica sembrano seguire le medesime spietate leggi di sottomissione e dominio. Nella sua lettera in versi all’amico John Poins (Mine Own John Poins), basata sulla decima satira di Luigi Alemanni, Wyatt esprime il desiderio di fuggire dalla «pressione della corte» (press of courts) e di ritrovare la pace dell’anima e la verità della filosofia. Ma il desiderio di fuga è tanto forte quanto ambiguo. Wyatt sembra tristemente consapevole che la corte è il solo luogo da cui può scaturire e dentro cui si può consumare, nel bene e nel male, il desiderio d’amore e di potere. Fu Henry Howard, conte di Surrey (1517-1547) che per primo riconobbe il merito di Wyatt di aver rinnovato il verso inglese attraverso l’uso ingegnoso del modello italiano, se non altro perché, di quindici anni piú giovane, ne continua la lezione «traducendo» anch’egli alcuni sonetti di Petrarca. Figlio del duca di Norfolk, Surrey apparteneva a una famiglia della vecchia aristocrazia cattolica. Fu un guerriero, come tutti gli aristocratici che si rispettano, e probabilmente le leggende sul suo contegno altezzoso e sulle sue scorribande notturne insieme con il figlio di Wyatt non sono del tutto false. Di sangue regale da entrambi i rami della sua famiglia, Surrey crebbe insieme con il figlio illegittimo di Enrico VIII, il duca di Richmond. La sua fortuna fiorí quando la cugina, Catherine Howard, andò in sposa al re, e decadde quando Enrico decise di sposare Jane Seymour, madre del futuro Edoardo VI. Anch’egli conobbe la prigione nel 1537 per un litigio a corte; di questa esperienza rimane una splendida poesia: Prisoned in Windsor, He Recounteh His Pleasure There Passed (Imprigionato a Windsor, racconta il tempo piacevole ivi trascorso) dove il poeta rammenta il tempo dell’infanzia trascorso piacevolmente con il suo coetaneo il duca di Richmond nello stesso luogo, Windsor, in cui è ora tenuto prigioniero. Ma a differenza di Wyatt, Surrey fu decapitato in seguito a un’accusa di alto tradimento dieci anni piú tardi. Surrey mise a punto la forma definitiva del sonetto inglese che verrà usata nella grande stagione sonettistica degli anni Novanta del Cinquecento da Sidney a Donne: tre quartine e un distico finale con rima abab cdcd efef gg. Inoltre, inventò il verso che ebbe poi una notevole fortuna nei successivi quattro secoli: l’endecasillabo sciolto, il famoso blank verse, un pentametro giambico non rimato, verso che usò nella traduzione del secondo e quarto libro dell’Eneide. La fama di Surrey si deve, direi ingiustamente, meno alla qualità delle sue poesie che alle sue invenzioni prosodiche e metriche. È soprattutto nel confronto con Wyatt che Surrey appare meno audace e profondo. Il paragone è inevitabile perché spesso Surrey traduce i medesimi sonetti di Petrarca; per esempio entrambi riadattano in inglese il Sonetto in vita 91. Rispetto a quelli di Wyatt i sonetti di Surrey presentano una forma piú regolare e musicale; il loro effetto, però, è meno vigoroso. Ma è proprio nell’avere seguito l’esempio di Wyatt che sta forse il merito maggiore di Surrey. Nel riconoscerlo come precursore e modello, Surrey offriva al futuro della poesia inglese un albero genealogico che, mentre rifiutava l’inglese di Chaucer, affondava le sue radici nella grande poesia italiana e latina. Né Wyatt né Surrey pubblicarono le loro poesie in vita, per il semplice motivo che esse erano destinate al ristrettissimo pubblico di corte presso il quale circolavano comunque in forma manoscritta. Esse furono pubblicate solo nella famosa raccolta di poesie dal titolo Songs and Sonnets, Written by the Right Honorable Lorde Henry Howard Late Earle of Surrey, and Other (1557), comunemente nota come Tottel’s Miscellany. Richard Tottel è il nome dello stampatore che decise di raggruppare 97 poesie di Wyatt, 40 di Surrey, 40 di Nicholas Grimald, e 94 di «autori incerti» in un’antologia che esercitò una enorme influenza sulla generazione successiva di poeti. Nella epistola al lettore che apre il libro, Tottel dichiara esplicitamente che lo scopo della pubblicazione è quello di rendere onore alla lingua inglese mostrando che essa è in grado di competere con il latino e l’italiano. L’importanza della Tottel’s Miscellany non sarà mai sottolineata abbastanza. Fu questo libro che diffuse la poesia del Rinascimento europeo fuori dell’ambiente cortese e che rese possibile ai poeti inglesi delle generazioni successive di sentirsi eredi di un passato prestigioso. 3. Gli umanisti: educazione e traduzioni. Elyot e Ascham. L’umanesimo significò innanzitutto il recupero del sapere dell’antichità. La qual cosa poteva avvenire solo attraverso la traduzione dei testi latini e greci e la loro collocazione nella storia. Il disseppellimento della cultura antica non avvenne però all’insegna di un puro interesse antiquario, ma allo scopo di forgiare il presente alla luce dell’esempio del passato. Con l’umanesimo nacque la filologia, la riflessione sulla lingua, sulla politica, sulla storia, sull’arte. Dante, Petrarca, Boccaccio, Valla, Bruni, Salutati, Ficino, Pico della Mirandola: sono solo alcuni dei nomi piú noti degli esponenti significativi di questo cruciale e vasto fenomeno intellettuale e culturale della storia dell’Occidente al quale si fa comunemente capo per spiegare la nascita dei concetti moderni di individuo, di storia, di politica. Uno degli aspetti costanti dell’umanesimo europeo fu l’enfasi posta sulla pedagogia. L’importanza attribuita all’educazione implicava la fiducia nella capacità del sapere di plasmare la mente degli individui e di influire sulla formazione delle strutture sociali. Si poteva insegnare a governare, a comportarsi correttamente a corte, a pregare, a danzare, a scrivere poesia, a cavalcare, a cucinare. Per questo i maggiori umanisti furono spesso tutori di re e di aristocratici. Thomas Elyot (1490-1546) visse alla corte di Enrico VIII e a lui dedicò l’opera piú nota The Book Named the Governour (Il libro del Governatore, 1531) il cui scopo è quello di dimostrare, in linea con il pensiero umanista europeo, che il buon governo dipende da una buona educazione dei giovani rampolli della classe dirigente. Pur non negando all’aristocrazia il diritto di governare, Elyot consiglia che essa arrivi al suo compito equipaggiata dei mezzi necessari per farlo. Naturalmente, sappiamo che nessun principe 0 esponente dell’aristocrazia seguí mai davvero le buone proposte degli umanisti europei, che l’istruzione non fu mai una virtú aristocratica, e che le regole del gioco di corte erano dettate dalla competizione o semplicemente dalla sottomissione al potere piuttosto che dalla buona creanza, come aveva già amaramente constatato Thomas Wyatt. E tuttavia, l’educazione delle classi piú alte della società inglese, come di quella europea, nel Cinquecento venne sicuramente gestita dagli studiosi del sapere dell’antichità classica. La qual cosa contribuí a formare dei principî morali e comportamentali, o per lo meno delle buone abitudini, sulla base dei quali misurare la condotta reale degli individui che si arrogarono il diritto di regnare. Questi furono strettissimi alleati della trasmissione della cultura e del suo rapidissimo rinnovamento. Oltre che a diffondere il nuovo sapere tradotto dall’italiano, dal latino e dal francese, oltre che a far conoscere la parola di Dio tradotta dall’ebraico e dal greco, e a permettere a chiunque sapesse leggere la lettura diretta della Bibbia, oltre che a diventare strumento della propaganda politico-religiosa, ora il libro diventa per la prima volta merce e occasione di profitto. Esso può essere un costoso e prezioso oggetto, quasi manufatto artistico, per pochi, oppure un semplice in quarto (un libro fatto di fogli piegati due volte che formavano cosí otto pagine) per molti. In ogni caso, il libro entra a far parte dell’inventario del mercante. Certo, non esisteva all’inizio quello che oggi chiamiamo diritto d’autore. Anzi, l’autore aveva un ruolo secondario nell’impresa libraria, della quale erano gli stampatori i veri protagonisti. Una volta venduto il manoscritto per cifre a volte irrisorie, l’autore cedeva loro ogni profitto. In Inghilterra la stampa fu introdotta da William Caxton (1422- 1491), stampatore, traduttore e autore che l’aveva appresa e praticata nei Paesi Bassi. Fu proprio la lunga residenza in Belgio che permise a Caxton di tradurre romanzi cavallereschi dal francese. A lui si deve la pubblicazione del piú importante romanzo arturiano inglese Le Morte Darthur di Thomas Malory. Furono pubblicati 26 000 libri tra il 1475 e il 1640: libri di devozione e polemica religiosa innanzi tutto, ma anche romanzi, libri d’istruzione o di condotta, pamphlets, ballate, poesie, e cosí via. La maggior parte degli stampatori e dei rivenditori di libri operava a Londra dove, nel cortile della chiesa di St Paul, era situato il centro del mercato del libro. Il numero degli alfabetizzati crebbe in Inghilterra vistosamente dal venti al sessanta per cento nei primi trent’anni del secolo. Una tale rivoluzione culturale non poteva che mettere in allarme le autorità. La censura fu la triste contropartita dell’esplosiva diffusione della parola scritta in una società che era stata per secoli organizzata sulla alfabetizzazione della sola classe dirigente, o per lo meno di coloro che la circondavano e la consigliavano. Abbiamo già visto come la censura si esercitò con particolare impeto sulla traduzione in vernacolo dei testi sacri. Ma non furono solo questi ultimi (tradotti) a finire sul rogo. Né riuscivano a sfuggirvi talvolta gli autori e gli stessi stampatori. Entrambi, autori e stampatori dovevano sottostare a rigidissime regole: qualsiasi cosa scritta doveva passare il vaglio dell’arcivescovo di Canterbury e del vescovo di Londra oltre che del Consiglio privato della Corona, la piú alta autorità politica dopo il sovrano. Le stamperie, inoltre, non potevano superare un determinato numero, e nulla poteva essere stampato al di fuori di Londra o delle università di Oxford e Cambridge. Oggetto della censura furono, come si può immaginare, soprattutto gli scritti di carattere religioso, poiché la religione cristiana forniva l’unica legittimazione del potere politico. Ma lo erano anche scritti che esprimevano apertamente un dissenso politico oppure pamphlets satirici. Mettere penna su carta era pericoloso per chiunque: John Stubbs fu punito con il taglio della mano per aver scritto un pamphlet dal titolo The Discovery of a Gaping Gulf (La scoperta di un golfo abissale, 1579) nel quale manifestava la sua disapprovazione per il programmato matrimonio di Elisabetta I con il francese duca d’Alençon. Per lo stesso dissenso espresso in una famosa Letter to the Queen (Lettera alla regina, 1579), Sir Philip Sidney fu bandito dalla corte. Fu dunque anche a causa della censura che poeti, filosofi e drammaturghi del periodo che stiamo prendendo in esame dovettero scrivere in maniera volutamente oscura e, facendo di necessità virtú, usarono un linguaggio altamente metaforico e poetico. Ne riparleremo presto a proposito di Sidney, Spenser e, soprattutto, del teatro elisabettiano. 4. I figli di Enrico: Edoardo, Maria, Elisabetta. Enrico VIII morí nel 1547 lasciando il trono al figlio Edoardo VI avuto dalla sua terza moglie Jane Seymour. Giovanissimo (aveva nove anni), precoce e malato, Edoardo salí al trono per regnare solo sei anni sotto il
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