Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia della lingua italiana, Marazzini (cap. I-IX), Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunto dei primi 9 capitoli (fino al Cinquecento) del testo di Marazzini.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 05/02/2021

alessandramma
alessandramma 🇮🇹

4.5

(173)

27 documenti

1 / 35

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia della lingua italiana, Marazzini (cap. I-IX) e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Riassunti della “Storia della lingua italiana” di Claudio Marazzini CAPITOLO UNO Il “De vulgari eloquentia di Dante”: La storia della lingua italiana è nata come disciplina autonoma solo recentemente, sebbene vada precisato che esistesse già da prima come sorta di punto di incontro tra la letteratura e la linguistica. Il legame con la letteratura è sì molto forte, ma d’altra parte riduttivo poiché la lingua è influenzata anche dalle classi popolari, gli illetterati, i mercanti, gli scienziati etc. La storia della lingua fa comprendere anche quella nazionale, la stessa unità d’Italia fu concepita prima dal punto di vista linguistico e poi da quello politico. La riflessione sulla storia dell’italiano si è incentrata principalmente sul definire regole e norme dell’italiano in una discussione nota come “questione della lingua”. Il primo a trattare temi storico-linguistici è Dante nel suo “De vulgari eloquentia” del 1303-1305. Il suo punto di partenza è il racconto biblico della confusione babelica dei linguaggi a seguito della quale la lingua non si sarebbe scissa in tante parlate locali. Questo non ci sorprende in quanto fino alla fine del settecento la teologia condizionerà notevolmente gli studi linguistici. C’è quindi la rassegna dei vocali italiani, un esame sulla tradizione poetica del tempo. Dante sottolinea soprattutto il problema del bilinguismo in Italia: da un lato c’è la lingua “gramatica”, che Dante non individua come naturale ma come creazione dei dotti, dall’altra il volgare “naturalis”. Osserva inoltre, e in questo si avvicina alle teorie più moderne, le somiglianze di parole tra diverse lingue e la probabile parentela tra queste: provenzale, francese ed italiano. Le teorie degli umanisti, le ricerche archivistiche ed epigrafiche, la lingua intermedia: Una vera tradizione sugli studi della lingua si ha però soltanto con gli umanisti del ‘400 che si iniziarono a porre il problema della situazione linguistica nell’antica Roma più che quello delle origini dell’italiano. Come parlavano gli antichi romani? Flavio Biondo: Per lui esisteva un unico latino il quale sarebbe stato corrotto solo con l’arrivo delle popolazioni barbariche, in particolare dai Longobardi. Da questa lingua sarebbe poi derivato l’italiano, individuato quindi in senso negativo come corruzione e contaminazione della lingua originale. Leonardo Bruni: Per lui invece il latino non era omogeneo già da prima che arrivassero i barbari, esistevano due livelli: uno dotto ed uno più popolare che sarebbe stato poi quello che si sarebbe evoluto nell’italiano. Da questa ipotesi si sarebbe poi sviluppata l’idea di “latino volgare”. Le loro ipotesi segnano un importante punto di scontro tra gli studiosi per molti secoli, cioè se attribuire o meno importanza alla componente germanica. Biondo sarà quello con più fortuna, la sua tesi sarà ripresa anche da Bembo. Quella di Bruni invece sarà tramandata anche in modo errato, prendendo il nome di “pseudo-bruniana”: si pensava che egli alludesse a due lingue coesistenti contemporaneamente e completamente autonome, latino ed italiano. Giambullari: secondo lui il toscano derivava dall’etrusco, tesi sempre marginale e di poco peso. Lodovico Castelvetro: (‘500): usa la moderna definizione di “lingua latina vulgare”. Questa lingua non differiva dal latino classico nella grammatica ma nel lessico. Le parole del latino volgare sarebbero poi state quelle sopravvissute nell’italiano. Il processo per cui si passava dal latino volgare all’italiano viene poi spiegato non solo più con le invasioni di goti e longobardi, ma anche per la presenza di imperatori non romani che non sapevano il latino dotto ma quello popolare e che ne avevano facilitato la diffusione. Celso Cittadini, Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua (‘600): Esclude l’importanza delle invasioni barbariche. Verifica la sua tesi attraverso le lapidi. Tramite documenti epigrafici individua errori nella scrittura risalenti ad un periodo antecedente alle invasioni barbariche, sia periodo arcaico che imperiale. Il latino aveva avuto vari mutamenti. Si abbandona l’idea di corruzione della lingua e si passa a quella più moderna ed oggettiva di semplice alterazione, mutamento. Ludovico Antonio Muratori: fu uno storico, Medioevo. Vuole trovare in area italiana un documento che testimoni una prima traccia di volgare italiano come il Giuramento di Strasburgo del 842 lo era stato per la “lingua romana” (lo dice Nitardo nel trascrivere il testo). Con lingua romana nasce l’errata idea di una lingua intermedia a metà tra latino classico, già in disuso e l’italiano del tempo, che fosse in realtà comune in tutta Europa. Muratori nel suo Antiquitates Italicae Medii 1 Aevi afferma la falsità della lingua intermedia e l’importanza dell’influenza germanica. Nella 32esima dissertazione espone l’evoluzione dei volgari e la supremazia del toscano, nella 33esima fornisce un saggio di dizionario etimologico. François Raynouard (‘800): la teoria della lingua intermedia è ancora accreditata, lui la identifica col provenzale. Fu tra i fondatori degli studi romanzi. Giulio Perticari: Ha un interesse filologico per testi antichi, precedenti a Dante, identificati come testimonianze della fase intermedia. Giuseppe Grassi: passaggio dal latino all’italiano in chiave nazional-risorgimentale, i barbari venivano individuati come gli antenati degli austriaci da combattere per l’unità nazionale. La storia linguistica era diventata parte della storia della civiltà nazionale, lo dimostra l’interesse di grandi del tempo quali Foscolo e Leopardi. Dalla linguistica prescientifica alla scientifica, Friedrich e August Schlegel: Studi non solo dell’italiano ma sulla famiglia di lingue a cui esso appartiene. “Sulla lingua e la sapienza degli Indù”, le lingue d’europa derivano dal sanscrito che è quella sacra dell’India, si dice che nasca così il moderno comparativismo, cioè lo studio delle lingue basate sul confronto di diversi idiomi legati da parentela. Il sanscrito era da considerare più antica e strutturalmente perfetta. Rivoluzione nel metodo dello studio delle lingue. Con loro si distingue tra linguistica prescientifica, da loro individuata come quella a loro antecedente, molto negativa e la scientifica, disciplina appena nata. August Schlegel: Si interessa delle lingue romanze nello specifico, di conseguenza anche della formazione dell’italiano. Individua tre tipologie di lingue:1) quelle senza struttura grammaticale, come il cinese; 2) quelle ad affissi; 3) flessive. Individua la superiorità delle flessive che grazie al sistema radice e desinenza permette di esprimere molte idee con poche parole. Individua poi una distinzione tra lingue analitiche, cioè le moderne e le sintetiche, come il latino. Nelle analitiche sono presenti l’articolo, il pronome, gli ausiliari, le preposizioni e nascono dall’incapacità dei barbari di saper usare correttamente casi e desinenze del latino classico. La lingua intermedia era in realtà da individuare con più lingue differenti in base a periodo e luogo. Nasce la romanistica, studio della formazione e sviluppo delle lingue derivate dal latino. Graziadio Isaia Ascoli: “L’Italia dialettale.” Rielabora la teoria del sostrato, cioè dell’azione della lingua dei vinti su quella dei vincitori. Un esempio è quello del sostrato celtico per la u turbata presente in alcuni dialetti. Il sostrato è inteso come un vero e proprio condizionamento definibile come fattore etnico. Fonda la rivista “L’archivio glottologico italiano” 1873 nella quale chiarisce il rapporto tra il toscano e gli altri dialetti che fin quando non si era imposto dal punto di vista letterario era stato al pari delle altre parlate regionali. L’Italia era sempre stata infatti caratterizzata da policentrismo e vivacità dei singoli comuni. La storia dell’italiano non sarebbe mai potuta essere compresa senza un’analisi dei dialetti. Nascita di una nuova disciplina: XIX, la filologia romanza si sviluppa come disciplina autonoma. Studio delle lingue e delle letterature neolatine, è una disciplina comparativa ma di panorama più ristretto. La storia della lingua italiana come disciplina autonoma è invece più recente, la prima cattedra è quella a Firenze nel 1938 e spetta a Bruno Migliorini. Nel 1939 Giacomo Devoto e Migliorini fondano il periodico “Lingua nostra” nel quale Migliorini sottolinea l’importanza di tutti gli strati sociali nell’evoluzione della lingua, in risposta invece al grave danno che l’affermazione di Croce, che sosteneva che storia della lingua e della letteratura si assimilassero, aveva causato riguardo l’autonomia della storia della lingua come disciplina universitaria. Migliorini voleva scrivere la storia della lingua nazionale, idea innovativa poiché si sarebbe rivolto non solo alla formazione dell’italiano ma avrebbe fatto una sintesi di tutte le sue fasi storiche. Vuole che venga pubblicata nel 1960, millenario della nascita della lingua italiana (placiti campani 960). Struttura della “Storia della lingua italiana” di Bruno Migliorini: Schema per secoli tranne per i capitoli del passaggio dal latino e all’italiano e in quello riservato a Dante. Il suo libro vuole essere quanto più oggettivo e possibile, privilegia il dato concreto rispetto alla discussione metodologica. Ogni secolo è caratterizzato da una serie quasi identica di capitoli: la questione della lingua, lessicografia, grammatica, latino e italiano, lessico. 2 Tipi di scrittura dal Medioevo al Rinascimento: 1) gotica (dodicesimo-tredicesimo secolo), barbara, forme aguzze, criticata. 2) Minuscola cancelleresca (‘200-‘300), documenti notarili. 3) Mercantesca, conti e lettere di scambio. 4) Italica (‘400), elegante e raffinata, passerà alla stampa e diverrà il nostro corsivo tipografico. La dialettologia italiana: Nella fase più antica dell’italiano, come abbiamo già detto, non c’era una supremazia del fiorentino sugli altri volgari che erano invece posti sullo stesso piano. Il toscano impose poi la sua supremazia letteraria ma i volgari furono comunque usati a livello colto, letterario o extraletterario. La storia della lingua non può prescindere dalla dialettologia. L’italiano parlato non dà luogo ad una lingua omogenea ma agli “italiani regionali”, differenti a livello fonetico, lessicale e sintattico. Manuali: “Fondamenti di dialettologia italiana” Grassi, Sobrero, Telmon, classifica i dialetti italiani e descrive il loro uso nella società di oggi con la presentazione di metodi e strumenti della dialettologia moderna. “Profilo dei dialetti italiani” di Cortelazzo: Volumi su: Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Veneto, Friuli, Toscana, Lunigiana, Umbria, Abruzzo, Puglia, Lucania e Calabria. “Carta dei dialetti d’Italia” di Pellegrini, rappresentazione cartografica delle aree dialettali. Descrive anche l’italiano parlato dalla comunità giudaica e dagli zingari. La grammatica storica: questo tipo di grammatica, a differenza di quella normativa, non dà regole della lingua in atto ma compara fasi diacroniche analizzando gli sviluppi fonetici, morfologici e sintattici della lingua. Si è sviluppata come disciplina autonoma nella seconda metà dell’800, nel clima positivista, quando si stabilirono norme nella trasformazione linguistica. Il primo esempio di grammatica storica è da attribuire allo svizzero Meyer-Lubke. “La grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti” di Gerhard Rohfls: Fa viaggi in tutta Italia per approfondire in loco i vari dialetti. Sottolinea la differenza da Meyer-Lubke che si era basato principalmente su antichi testi pubblicati fino a quel momento, rispetto a lui che aveva avuto a che fare con testimonianze “vive” e facilmente reperibili. L’edizione italiana è del 1966-1969 ed è meglio organizzata dell’originale. È divisa in 3 volumi: 1) fonetica, 2) morfologia, 3) sintassi e formazione delle parole. Ogni parte ha un indice analitico che raccoglie tutte le parole citate nel testo, italiane e dialettali, l’onomastica e la toponomastica. La divisione è in paragrafi, gli studi presi in considerazione: geografia linguistica (cioè distribuzione spaziale dei fenomeni), la dialettologia, la tradizione scritta rappresentata anche da autori letterari. Tekavcic: analisi diacronica e sincronica alternate e fuse. D’Achille: si rivolge agli studenti, si preoccupa soprattutto di fonetica e morfologia più che di sintassi e lessico. “L’introduzione alla lingua poetica italiana” di Serianni (2001): non è una vera e propria grammatica ma si occupa in maniera interessante del profilo grammaticale dell’italiano poetico. È articolato nelle sessioni della “fonetica” e “morfologia e microsintassi” (cioè minimi fenomeni sintattici, ad esempio la trattazione dell’alternanza delle forme dittongate o meno, una storia dell’uso degli articoli). Data l’importanza della poesia nella storia della lingua italiana, questo libro, che tratta anche dei secoli successivi alla formazione della lingua, può essere usato in riferimento di grammatica storica. Castellani: tratta della formazione dell’italiano, del latino classico e volgare, degli influssi del galloromanzo e del germanico sulla nostra lingua, sulle varietà del toscano medievale. La grammatica descrittiva e normativa: I grammatici formalizzano ed ufficializzano quanto si è già affermato per altre vie. Ad esempio in Italia è nel ‘500 si è stabilizzato ed ufficializzato il successo di Dante, Petrarca e Boccaccio. In seguito poi si è riconosciuto l’egemonia toscana e fiorentina anche nel parlato per non limitare l’autorevolezza grammaticale alla sola letteratura. La grammatica dell’italiano di Serianni: Nella sua opera ci sono norme ed indicazioni pratiche sebbene i linguisti, diversamente dai grammatici, le evitassero per non cadere in scelte personali e di gusto a svantaggio dell’oggettiva descrizione dei fenomeni. Serianni invece riesce a conciliare grammatica normativa, con suggerimenti stilistici, e linguistica. Può essere usata anche come grammatica storica perché spesso inserisce anche notazioni relative all’uso del linguaggio nel passato. Altra importante grammatica era quella di Battaglia-Pernicione. 5 “La grande grammatica di consultazione” di Renzi e Salvi: prodotta da un notevole numero di specialisti. Nella presentazione Renzi traccia il panorama della grammatica del ‘900 che aveva subito un grave danno in seguito all’affermazione di Croce secondo cui tale disciplina non era altro che uno strumento didattico ed empirico, privo di dignità filosofica. Questo manuale si differenzia dagli altri in quanto parte dall’analisi della frase per poi muoversi verso le altre parti del discorso, procedimento opposto a quello tipico. Si presuppone che la nostra conoscenza si basi sulla distinzione tra le frasi, che sono grammaticali e le non-frasi agrammaticali. Le non-frasi sono diverse dagli errori che sono invece delle forme scorrette grammaticalmente ma esistenti e degni di grande interesse per il linguista che li analizza e spiega. Dizionari storici e concordanze: Documentano tutte le epoche, il passato della lingua, la sua storia ed evoluzione. Il “Grande dizionario della lingua italiana” di Battaglia: Battaglia ripropone un importante dizionario dell’800 ad opera di Nicolò Tommaseo. I primi volumi sono legati al precedente, con la nuova direzione dell’opera nelle mani di Squarotti il GDLI ha assunto la sua definitiva fisionomia. È diviso in 20 volumi, l’impostazione è letteraria, ci sono esempi di scrittori. L’uso letterario è infatti privilegiato rispetto ad altri generi di scrittura come quello scientifico o giornalistico, sebbene questa scelta fosse marcata soprattutto nei primi volumi. Ogni voce presenta attestazioni di autori di tutte le epoche della letteratura in ordine cronologico. Innovativo lo spazio dedicato anche al ‘900 e agli autori contemporanei, inusuale in un dizionario storico. Esempio: il lemma è in neretto, seguito da specificazioni grammaticali ed ambito d’uso della voce. La voce presenta uno o più significati ed è prevalentemente occupata da citazioni testuali. Alla fine c’è l’etimologia del termine. Le concordanze: Sono libri in cui sono raccolte tutte le parole usate da un determinato autore in ordine alfabetico. Molto utile a questo proposito il computer, “Letteratura italiana Zanichelli” di Stoppelli e Picchi su cd, ricerche velocizzate di tipo sintattico, lessicale. Grandi dizionari dell’uso: Informano sulla lingua moderna, allo stato attuale. Favoriscono dubbi di grafia, pronuncia, divisione sillabica, vari significati (anche metaforici), neologismi, forestierismi etc. Sono comunque obbligati a segnalare arcaismi, parole desuete e letterarie, dialettismi e parole gergali. Inoltre parte delle voci è dedicata anche all’etimologia nella quale non è raro trovare una data della prima attestazione del termine. Dizionari più noti: Zingarelli (Zanichelli), Devoto-Oli (Le Monnier), “Nuovissimo dizionario della lingua italiana” di Dardano, “Il dizionario della lingua italiana” di De Mauro etc. Dizionari più approfonditi: “Vocabolario della lingua italiana” di Aldo Duro o un altro di De Mauro “Grande dizionario italiano d’uso” in 6 volumi. Rispetto a quelli più comuni, questi presentano più esempi, sono più dettagliati nelle spiegazioni e più ricchi di vocaboli tecnici e specialistici. In quello di De Mauro c’è anche la data della prima attestazione delle parole, particolare presenza di lessico scientifico-tecnico. Presenta poi le espressioni polirematiche, quelle cioè i cui singoli termini non spiegano l’intera espressione. La caratteristica più importante è quella delle marche d’uso, cioè le possibilità di impiego delle parole. Sono 11: 1) italiano fondamentale, di altissima frequenza; 2) di alto uso; 3) di alta disponibilità, rari ma noti; 4) comune, livello medio-alto di istruzione; 5) di uso tecnico-specialistico; 6) di uso letterario; 7) regionale; 8) dialettale; 9) esotismo, cioè forestiere; 10) di basso uso; 11) obsoleto, non più usati ma presenti nei vocabolari. Informazioni analoghe sono contenute anche in alcuni dizionari comuni come ad esempio quello di Duro. Dizionari etimologici: 6 Dà conto dell’origine delle parole di una lingua. “Avviamento alla etimologia italiana” di Devoto, “Prontuario etimologico della lingua italiana” di Migliorini e Duro. “Dizionario etimologico della lingua italiana” di Cortellazzo-Zolli: Le informazioni sono concentrate. La struttura: ci sono prima citati gli autori in cui ricorre una parola nei suoi molteplici significati, e le date, infine la vera e propria illustrazione etimologica. Caratteristiche: attesta una data di prima attestazione delle forme lemmatizzate, il materiale documentario è molto vasto, la trattazione dell’etimologia è legata alla storia delle parole e gli etimi discussi sono accompagnati da una biografia. Fornisce una breve storia delle parole e della loro evoluzione, se quindi si analizza il rapporto tra etimo originario e parola italiana, le osservazioni sono di grammatica storica, se ci si sofferma sull’evoluzione dei significati si entra nel campo della semantica storica che si ricollega a mutamenti extralinguistici. “Lessico etimologico italiano” di Pfister: le parole sono classificate in base all’ordine alfabetico della base di partenza, anziché della parola italiana. Trattazione più ampia dell’altro, si interessa molto ai dialetti. Ci sono riferimenti a scrittori moderni e a lingue romanze. Linguistica e terminologia: La linguistica è considerata una scienza, per questo è caratterizzata da un lessico tecnico che può variare di studioso in studioso. Per comprenderli si prende in considerazione il “Dizionario di linguistica” di Zanichelli. Per comprendere meglio le caratteristiche della linguistica si consultino Simone e Graffi-Scalise. CAPITOLO TRE Volgari, dialetti e spinte regionali Centro e periferia nella storia linguistica italiana: Con centro si intende ovviamente la Toscana da cui si ha avuto l’idioma nazionale che si è poi esteso alle altre regioni, la periferia. Il toscano non si impone grazie alla politica statale e alla burocrazia ma grazie alla cultura ed al generale consenso degli altri parlanti d’Italia che lo riconoscevano come lingua di Dante, Boccaccio e Petrarca. Il Piemonte quando estende i suoi modelli giuridici ed amministrativi adotta il toscano, situazione anomala rispetto ad altri paesi europei nei quali la capitale politica coincideva con quella linguistica. Gioberti definirà “fochi dell’ellisse italiana” Firenze e Roma per sottolineare il policentrismo della cultura italiana. Volgari e dialetti: in una prima fase tutti i dialetti potevano aspirare alla supremazia sugli altri, ad esempio in Sicilia nasce la prima scuola poetica italiana elevando ad uso illustre il volgare siciliano. Prima del ‘400 quindi è improprio parlare di dialetti perché senza contrapposizione a lingua tale concetto è inapplicabile. Si parla di “volgari italiani”. Letteratura dialettale “spontanea” e “riflessa”: è un concetto elaborato da Benedetto Croce secondo il quale la “riflessa” si oppone coscientemente alla lingua. La “spontanea” non ha invece consapevolezza. Essendo precedente alla letteratura nazionale non può in realtà nemmeno essere definita dialettale. Si presenta in forma di cultura popolare vera e propria, canti, fiabe. Prende coscienza solo dal ‘600, dopo la piena affermazione della letteratura in lingua. Policentrismo e varietà linguistica: da sempre la pluralità linguistica è stata una riserva da cui hanno potuto attingere gli scrittori. Ci sono tre tipologie fondamentali di testo: 1) quello in dialetto, 2) quello che lo utilizza in un contesto non dialettale, a fini espressivi, mimetici, parodici etc., 3) il testo che rifiuta totalmente il dialetto. Beccaria sottolinea la differenza dell’italiano rispetto ad altri paesi. In Francia non si sviluppa mai una letteratura dialettale “riflessa” perché da subito si afferma la lingua nazionale dell’Ile-de-France, unico volgare utilizzato poi nella letteratura. In Spagna la forte centralizzazione della vita culturale non ha consentito uno sviluppo di una letteratura regionale, così come in Inghilterra la lingua nazionale soppianta i dialetti che scompaiono anche dall’uso scritto. In Germania si afferma la lingua di Lutero. In Italia manca una capitale linguistica e culturale accentratrice, la storia è quella dei comuni che per secoli mantengono cultura, politica e lingua autonome. L’azione delle lingue straniere: 7 L’italiano popolare: I documenti di italiano popolare presi in considerazione furono soprattutto quelli recenti proprio perché, come si è visto, solo dall’unità le masse furono coinvolte nel fenomeno della lingua nazionale. Negli anni ’70 De Mauro presenta in un saggio delle lettere di una contadina di Taranto che erano state raccolte da Rossi con un presupposto etnografico e che poi avrebbero avuto uno sbocco linguistico grazie alla collaborazione tra i due. Altra testimonianza è quella delle lettere della grande guerra di Spitzer che però furono studiate in chiave psicologica e non linguistica. La categoria di italiano popolare risale quindi a questo periodo ed è intesa come “parlata degli incolti di aspirazione sopradialettale ed unitaria” da De Mauro e “il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto” da Cortelazzo. Sebbene queste due definizioni si riferiscano al parlato, oggetti di studio di questo periodo furono documenti scritti. Già nel ’60, in realtà, De Mauro nella “Storia linguistica dell’Italia unita” si poneva il problema della lingua collegata anche a fattori sociali, extralinguistici, e l’importanza delle maggioranze in questo procedimento. La scrittura pratica ed utilitaristica del popolo: Quando si parla di popolo preunitario va però specificato che è sbagliato considerarlo tutto analfabeta, almeno per quanto riguarda il periodo tra Umanesimo e XIX secolo. Petrucci (’70-’80) ha scoperto un quaderno di conti di una pizzicarola trasteverina del primo ‘500. Ci sono le registrazioni autografate di 102 scrittori tra debitori e creditori. Molto particolare non solo perché individua la capacità di scrivere tra popolani ma anche perché questi ultimi erano tutti concentrati in una zona specifica. I più ignoranti sono 4 caciai che hanno difficoltà a scrivere. Comprendiamo che il livello di alfabetizzazione e di conoscenza di una scrittura almeno elementare erano maggiori rispetto al previsto. In questo periodo si diffondono infatti scuole private familiari (anche in botteghe) e scuole religiose per i meno abbienti. Ci sono anche altre testimonianze di questo periodo che mettono alla luce l’esigenza dei semicolti di scrivere per fini pratici ed utilitaristici. Il popolo e i dialetti: Le classi subalterne sono interessanti anche per lo studio dei dialetti, i quali sono regolati da norme uguali a quelle della lingua che può essere intesa anch’essa come un dialetto impostosi al di là dei suoi confini geografici. Ne risulta che la storia dell’italiano è strettamente connessa a quella dei dialetti e viceversa. Si pensi alla Roma del ‘500 che assume una parlata toscana per la presenza di molti forestieri, mentre prima si avvicinava di più al meridione. Il notaio: Molti dei primi documenti dell’italiano volgare furono scritti da notai. Ricordiamo l’atto di nascita dell’italiano “Placito capuano” del 960. Importanti anche i “Memoriali bolognesi” del 1265 nei quali si dovevano registrare contratti privati. Negli appositi registri bisognava riempire gli spazi bianchi per evitare manomissioni, furono inseriti proverbi, preghiere e versi. Questo avveniva per la tendenza tipicamente medievale di economizzare il materiale scrittorio e grazie a queste testimonianze troviamo versi di Cavalcanti, Dante e scopriamo che la poesia del tempo era apprezzata non solo dai letterati. Il mercante: Mentre il notaio era bilingue, poiché scriveva in latino gli atti d’ufficio ma sapeva il volgare per avere a che fare con i testimoni, e aveva inoltre un’educazione di grammatica e logica, il mercante non conosceva letteratura e grammatica e aveva un’impostazione maggiormente pratica, poteva infatti conoscere eventualmente un’altra lingua straniera ma non il latino. Boncompagno da Signa nel XIII testimonia l’uso dei mercanti del volgare o di un latino corrotto. Un anonimo romano ci informa che usavano un volgare molto semplice stilisticamente. Branca fa emergere l’importanza mercantile per la diffusione di Boccaccio che quindi risultano non estranei alla cultura del tempo. Nelle loro biblioteche si trovavano Dante e Boccaccio, dalla metà del ‘400 con l’Umanesimo anche Petrarca. Per la loro professione dovevano saper scrivere per documentare movimenti di merci, rapporti coi conti, lettere con corrispondenti. A questo proposito Tavoni ricorda Francesco Datini che ebbe corrispondenti da più di 30 paesi del mondo, anche Cina e India. Anche in questo caso gli studiosi si rivolgono soprattutto ai mercanti toscani. Il primo documento in volgare fiorentino è un libro di conti del 1211. Di particolare interesse anche l’area veneta. Stussi ne sottolinea la varietà linguistica grazie al vastissimo commercio marittimo che permise di entrare in contatto con greco, slavo, bergamasco. Ci sono lettere di mercanti anche da Siena, Zara, Lecce, Macerata, Fabriano. Queste fonti non sono documenti dialettologici puri perché influenzati comunque anche dal corrispondente. 10 Oltre alle lettere abbiamo le pratiche di mercatura: assegni, quaderni del carcere in cui troviamo: problemi di matematica, tariffe, nozioni astronomiche, proverbi, ricette mediche etc. Altri documenti sono poi i libri di famiglia, molto curati in Toscana. Nel ‘500 il mercante inizia man mano a perdere la sua importanza. Sebbene abbiamo comunque testimonianze di Bernardo Davanzati Bostichi e i viaggi documentati da Carletti, interessati per i forestierismi. Scienziati e tecnici: L’egemonia del latino: Il latino fu la lingua scientifica a lungo, teologia, matematica, filosofia, astronomia, geometria, medicina. Con Dante abbiamo un tentativo di trattazione di temi scientifici in volgare nel “Convivio” ma negli altri suoi trattati utilizza il latino. Affermazione di un linguaggio scientifico italiano: Nel ‘500 il volgare si inizia ad affermare nei settori di scienza applicata per risolvere problemi pratici: architettura, metallurgia, ricette alchemiche. Nelle università, invece, le lezioni continueranno ad essere in latino fino al ‘700. È Galileo il protagonista della svolta culturale che portò all’imposizione della lingua volgare anche in ambito scientifico. Prima di lui Niccolò Fontana (Tartaglia) aveva tradotto in volgare gli “Elementi” di Euclide. La traduzione riveste un ruolo fondamentale per piegare l’italiano al rigore necessario nelle scienze. La specificità scientifica fu comunque molto lenta perché spesso la poesia fu in forma didascalica e la scienza divulgata in discorsi non proprio tecnici. Caratteri dell’italiano scientifico: Attualmente c’è una scarsa comunicazione con i “non addetti” poiché il linguaggio tecnico è estremamente codificato, concentra infatti molti tecnicismi e risulta così economico nell’esprimere i concetti fondamentali. Spesso al di fuori delle scienze umane si usa l’inglese e questo fa sì che ci sia una progressiva perdita del linguaggio scientifico italiano. Il linguaggio fa uso della matematica, formula, formalizzazione. Si usano procedimenti di suffissazione (- paro, che genera; -patia, sofferenza) o composti. Tutti questi termini sono privi di incertezze evocative. Fin dall’inizio l’italiano scientifico fece ricorso al cultismo coniando vocaboli su basi classiche. Questo ha portato ad un europeismo scientifico, cioè alle somiglianze di termini nelle varie lingue a livello europeo. Un incontro tra letteratura e scienza si ha nella poesia didascalica. Con Dante nella Commedia con termini astronomici (sfera, equatore, meridiana), con Marino nel ‘600 quando usa termini dell’ottica e dell’anatomia nell’Adone, nel ‘700 con “Le farfalle” di Gozzano, che trascrive in versi esperimenti scientifici e descrizioni naturali. Nel passato questa tendenza era invece molto comune (De rerum natura di Lucrezio). La forza della norma: i grammatici Prime grammatiche italiane: Tra ‘400 e ‘500 si avviano i primi esperimenti di stabilizzazione di norme linguistiche. La “Grammatichetta Vaticana” è la prima grammatica italiana, è un codice apografo (copia dell’originale) della Biblioteca Vaticana. La copia autentica era nella biblioteca di Lorenzo il Magnifico ed è da attribuire a Leon Battista Alberti tra 1434 e 1454. Si sofferma sul confronto tra italiano e latino, esamina il greco e il latino come lingue le cui regole grammaticali sono quelle da utilizzare per poter scrivere correttamente. Verifica poi se anche il volgare potesse essere grammaticalmente strutturato come il latino, a dimostrazione di come la grammatica e le sue regole fossero dimostrazione del valore della lingua. L’opera ebbe poco successo. La prima grammatica a stampa è del secolo successivo “Regole grammaticali della volgar lingua” di Fortunio 1516. Nel 1525 è di Bembo “Prose della volgar lingua”, fondamentale per i secoli successivi, nella terza e ultima parte si trova una vera e propria grammatica italiana esposta in forma dialogica. Le norme fissate dai grammatici erano tutte ricavate da Dante, Petrarca e Boccaccio. Grammatiche toscane: Il primato nel fissare norme grammaticali spetta ai grammatici fuori dalla toscana. Tra ‘500 e ‘600 in Toscana c’è il riconoscimento del parlato fiorentino parlato. La norma si basa sui modelli antichi, limita la libertà di scrittura perché conservatrice ed arcaizzante, mentre la lingua è in continuo divenire, la grammatica necessita invece di punti fermi. La grammatica come strumento didattico: nel ‘500 le grammatiche furono utilizzate soprattutto dai letterati. Nel ‘700 con le scuole superiori pubbliche diventano anche strumento didattico fondamentale. La grammatica non è solo strumento normativo e scolastico, il grammatico può essere anche osservatore di un mutamento al quale egli può decidere di rimanere neutrale o meno. 11 Lessicografi ed accademici: Nascita del vocabolario italiano: L’altro presidio della norma linguistica sono i vocabolari. Al giorno d’oggi quelli d’uso sono aggiornati regolarmente per accogliere neologismi e prestiti. In passato invece erano caratterizzati da un corpus chiuso di vocaboli, basato principalmente su quelli utilizzati dai grandi del ‘300. Lessicografia toscana ed Accademia della Crusca: anche in questo caso la lessicografia nasce al di fuori della Toscana poiché nelle altre regioni il toscano non era lingua naturale e spontanea. Alla fine del ‘500 viene fondata l’Accademia della Crusca. Nel 1612 pubblica un vocabolario di autorevolezza notevole. Gli accademici aspiravano al totale controllo sul corpus del vocabolario, non ci fu una registrazione oggettiva ma un’impostazione su un modello linguistico chiuso: fiorentino e arcaicizzante. Si pensi che decisero di eliminare Tasso. Il modello della Crusca fu così forte che l’Accademia si identifica per secoli con il vocabolario, di cui furono pubblicate altre 3 edizioni oltre a varie versioni camuffate ed imitazioni. I vocabolari specchio della cultura: Ricordiamo alcuni che si distaccano dall’esempio della Crusca. Il “Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana” di Francesco D’Alberti di Villanova tra ‘700 e ‘800, che prevedeva francesismi, regionalismi e tecnicismi. Il “Dizionario della lingua italiana” di Tommaseo, fondamentale lessicografo, e Bellini nel 1861, in coincidenza non casuale con l’unità d’Italia. Manzoni progetta un vocabolario coerente con la sua scelta del fiorentino vivo, il “Giorgini-Broglio”, dal nome dei curatori. Anche ai vocabolari spetta il ruolo di strumento didattico. La burocrazia e la politica linguistica degli stati: La situazione particolare della Toscana: la lingua si diffonde principalmente grazie a letteratura e cultura. In Italia abbiamo visto che l’unità geografia è posteriore a quella linguistica. La situazione in Toscana è peculiare perché è l’unica regione in cui il parlato era vicino allo scritto, al letterario. Il potere politico era dunque più propenso all’accettazione del volgare: Lorenzo il Magnifico nel ‘400 e Cosimo I nel ‘500, che promuove una politica culturale finanziando l’Accademia fiorentina e chiedendole di occuparsi dei problemi della lingua e di definire regole per il toscano. A Firenze il volgare, dice Nencioni, “non è lo strumento di una casta di letterati o di alti funzionari, ma la lingua dell’intero popolo.” Le cancellerie degli stati: nel ‘400 il volgare si diffonde nelle cancellerie signorili. Le cancellerie erano delle segreterie addette ad atti legislativi e giuridici, dove si scrivevano norme e bandi, corrispondenze epistolari con l’estero. In questo periodo si forma una lingua che definiamo koinè, un italiano superregionale dovuto ai contatti che la cancelleria aveva in tutta Italia. I cancellieri erano prevalentemente notai. Motivazioni per la scelta del volgare: Il volgare viene utilizzato nelle cancellerie di Mantova, Milano per volontà del principe Filippo Maria Visconti, a Urbino con Federico di Montefeltro. Era in origine usato per bandi e gride, con funzione divulgativa. Successivamente anche per corrispondenze e procedure di giustizia. Dalla metà del ‘500 Emanuele Filiberto introduce il volgare nei tribunali piemontesi, suscitando numerosi disaccordi che sfoceranno in un editto un decennio dopo che stabiliva sanzioni per gli inadempienti. Le sue motivazioni erano da un lato poiché il popolo non conosceva il latino ed era vittima di notai e avvocati che poteva anche ingannarlo, dall’altro seguiva l’esempio francese di Francesco I che nel 1539 aveva sostituito il francese al latino. L’adozione di una lingua come scelta di campo o come simbolo nazionale: Scegliere una lingua ufficiale o un’altra può significare una scelta di campo, di grande portata storica. Ad esempio durante il periodo napoleonico, fu introdotto il francese al posto dell’italiano e questo fenomeno sarebbe terminato solo dopo la caduta dell’impero. Ci si identificava con una potente nazione. Quando la lingua diventa simbolo nazionale (Romanticismo), questa funge come difesa sia contro l’esterno che contro le diversità interne della lingua della stessa nazione. Questo ha portato durante l’unità all’opposizione al bilinguismo del Piemonte o della Valle d’Aosta che solo con l’imposizione dello statuto speciale di regione del ’48 ha visto terminare questo conflitto. Durante il fascismo ci si impuntava contro le minoranze tedesche del trentino, slovene della Venezia giulia. 12 anche i ceti dirigenti di regioni più periferiche potevano essere semicolti. Anche gli studenti di oggi (architettura a Roma, Bruni). La varietà diastratica bassa è legata anche a varietà diatopiche. La varietà diatopica: varietà geografica. Si basa soprattutto su un’analisi novecentesca. De Mauro dimostra che l’italiano di oggi non è uniforme, presenta infatti differenze sia sul piano fonetico e fonologico che su quello morfologico e lessicale. Ad esempio nel settentrione non c’è differenza tra la “e” e la “o” aperte o chiuse, che hanno invece valore fonematico a Firenze e a Roma. Le varietà diatopiche non sono solo tra regioni diverse ma possono dividere una stessa regione, non si tratta solo dei dialetti ma anche del modo in cui quotidianamente si parla il dialetto. Quanto più è basso il livello di cultura dello scrivente, tanto più è difficile distaccarsi dal dialetto (varietà diastratiche). Da sempre la storia della lingua italiana è stata una battaglia contro i regionalismi a vantaggio della formazione di una lingua omogenea. Dante condanna i volgari plebei e locali. Dal ‘300 si tentò sempre di imitare il modello delle tre corone, poi teorizzato da Bembo. Caso a parte la poesia, la quale si fa “maniera” e rende facile lo scrivere in una lingua omogenea. Nella prosa di tipo pratico le differenze sono molto accentuate per la presenza di termini tecnici di artigianato e delle arti, o quotidiano. Nei “Libri di maneggio” del ‘700 troviamo oggetti domestici indicati con dialettismi, queste fonti non sono di ambito plebeo ma dell’amministrazione nobiliare piemontese, non essendo però testi letterari e ufficiali non venivano controllati e risentono dell’uso regionale. Spinte al superamento delle differenze geografiche nel linguaggio comune e familiare: questa tendenza si ebbe solo nell’800, con la diffusione delle idee linguistiche di Manzoni. De Amicis ne “L’idioma gentile” suggerisce toscanismi relativi a oggetti della tavola, dell’arredo, della casa. Importanti i dizionari nomenclatori e domestici, impiegati nella didattica. Quest’esperienza pedagogica è posteriore all’unità. In precedenza il livellamento dell’italiano non era considerato un grave ostacolo perché si utilizzava a livello medio-basso, per la comunicazione interregionale, un linguaggio definito da Foscolo “itinerario”, cioè dettato dalla necessità e che eliminava tutto ciò che era strettamente regionale. Già nel ‘500 Guazzo nel trattato “Della civil conversazione” aveva teorizzato una lingua del genere, riservata al parlato delle classi medio-alte, accettando parole non toscane. Livellamento letterario per due spinte: 1) principio estetico-letterario (Dante, Bembo) che investe la lingua letteraria, 2) principio pratico e sociale, più impellente dopo l’unità e che riguarda la lingua quotidiana. Le esigenze della chiesa: prima dell’unità gli ecclesiastici si erano posti il problema dei predicatori che dovevano parlare ad un pubblico di regioni diverse. Il predicatore Francesco Panigarola racconta di come il generale dei Francescani Luigi Pozzi (1560-1570) facesse soggiornare tutti i giovani destinati a essere predicatori a Firenze per farli avere a che fare con la lingua viva e far eliminare loro un colorito dialettale e regionale dalle loro parlate. Il mistilinguismo: si intende la mescolanza di elementi linguistici diversi, volontaria o involontaria. Questo succede per la particolare situazione italiana, nella quale il parlante non toscano viveva una situazione di diglossia in cui era presente il dialetto d’uso quotidiano e una lingua letteraria da esso diversa. Nella storia linguistica ci sono casi molto accentuati di mistilinguismo in vari settori: prosa narrativa, predicazione, prosa cancelleresca (koinè). Contini individua addirittura il mistilinguismo come “categoria- guida” per delineare un filone stilistico tipico di tutta la tradizione letteraria italiana. Varietà diafasiche: differenze linguistiche relative al registro, allo stile della comunicazione che si svolge a vari livelli. Scala ideale: livello aulico, colto, formale, medio, colloquiale, informale, popolare, familiare, basso-plebeo. Ad ognuno di questi stili corrisponde una forma linguistica diversa per scelte sintattiche e lessicali. Molte tendenze innovative dell’italiano di oggi si manifestano a livello diafasico medio-basso: 1) “gli” al posto di “a lei” “a loro”, 2) “lei, lui, loro” come soggetti, 3) “ci” davanti ad “avere”, 4) “che” polivalente, 5) dislocazione a sinistra es. “Carlo l’ho visto” anziché “Ho visto Carlo”, 6) imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà o indicativo anziché congiuntivo nelle dipendenti. CAPITOLO CINQUE Dal latino all’italiano: L’italiano, come tutte le altre lingue romanze, deriva dal latino volgare. 15 Il concetto di latino volgare è un po’ equivoco e discutibile, lo si può spiegare riferendosi dapprima ad una componente sincronica, che riguarda cioè i vari livelli linguistici che esistevano già nel latino anche classico, dove gli autori distinguevano i vari sermo plebeius, sermo militaris, rusticus etc. Si spiega riferendosi anche allo sviluppo diacronico che vede emergere nella tarda latinità sviluppi linguistici all’origine di quelli successivi romanzi. Non bisogna sottovalutare la componente diatopica del latino che in un impero così vasto non poteva essere uniforme. Si prenda in considerazione la diffusione del comparativo analitico al posto dell’organico, in Francia e in Italia si diffonde l’analitico “plus”, in Spagna e in Romania “magis”. Questo fenomeno è spiegato dalla teoria di Bartoli secondo cui le innovazioni più recenti che si ebbero a Roma non fanno in tempo a diffondersi nelle aree più laterali. I Romani e i rapporti con le altre lingue: guardavano con disprezzo le lingue delle popolazioni barbare (bar bar lingua incomprensibile), riconoscevano il prestigio solo del greco. Castellani descrive i rapporti tra Romani e Germani. Nel 9 d.C. subirono la disfatta di Teutoburgo ad opera del generale Arminio, Tacito nel II libro degli Annales ci racconta un aneddoto secondo cui il generale parlava latino. Dimostrazione dell’influenza dell’esercito sulla diffusione della lingua. La Germania non fu latinizzata ma entrarono parole latine e viceversa, es. werra. Castellani, prospettiva sociolinguistica: differenze tra lingua scritta, a cui si avvicinano latino classico e latino parlato dalla classe dirigente di età repubblicana, e lingua popolare dei ceti bassi, si passa al vero e proprio volgare quando anche l’aristocrazia imperiale si avvicinerà al parlato popolare. In una prima fase l’influenza tra livello letterario e popolare era reciproca, nella fase dell’impero, invece, il latino è ormai già regolarizzato da grammatici e quindi meno oggetto ad influenze esterne. Prospettiva storica: si prende in considerazione l’espansione del latino sia in età repubblicana che imperiale. Quello delle province era in partenza più omogeneo, man mano si distacca dal centro e differenziandosi inizia un processo di mutamenti, favorito anche dalle espansioni barbariche, che porta alla nascita delle lingue romanze. Conoscere il volgare, la comparazione: per ricostruire elementi del volgare all’origine degli sviluppi romanzi possiamo comparare le lingue neolatine. Nel volgare troviamo parole presenti nel classico e attestate nello scritto, parole non attestate, parole già esistenti il cui significato slitta (es. da caput a testam, che era il vaso di terracotta, sfumatura ironica che si perde). Renzi schematizza il fenomeno della contaminazione tra lingue, importante oltre alla derivazione diretta latina. Es. “domus” in latino, “casa” italiano, “maison” francese. L’italiano ha anche “magione”, antico gallicismo che dimostra la parentela delle lingue. Testi scritti: oltre a libri di materie pratiche che si sottraggono alle norme del classico, ritroviamo testimonianze volontarie di latino non letterario anche nelle lettere di Cicerone, nei testi teatrali, in particolar modo Plauto. Il Satyricon di Petronio è fondamentale: utilizza unus come indefinito, coesistono forme come pulcher, formosus e bellus. Bellus si ritrova anche in Cicerone, Catullo e Plauto, era l’equivalente affettivo-familiare di pulcher. Come in questo caso, è comune che le forme di questo genere prendano il sopravvento su quelle colte. Anche negli autori cristiani delle origini il latino è umile e popolare: “Vetus latina” della Bibbia, “Vulgata” di S. Gerolamo. Importanza delle scritture occasionali, Pompei fondamentale. Ad un graffito particolare fanno riferimento Castellani e Del Popolo, traendolo dal “Corpus inscriptionum latinarum”, e notano: la caduta della –t finale, la e atona intervocalica che si tramuta in i. In un altro graffito sempre a Pompei si ritrova l’uso del termine “pupa” e errori grafici in cui si rendevano scempie delle doppie. Grazie alle lettere del soldato del II sec. d.C. Claudio Terenziano o di Rustio Barbaro, notiamo la tendenza non costante all’elisione della –m dell’accusativo. Particolare rilievo ha l’Appendix Probi, chiamata così perché segue gli Instituta artium di un grammatico di nome Probo. È una lista di 227 parole o forme o grafie che si distaccano dalla buona norma. La lista è forse del III-IV sec. o V-VI, un maestro registrava le forme errate dei suoi allievi e le affiancava a quelle corrette. Notiamo la fondamentale importanza degli errori, deviazioni della norma portatori di tendenze innovative che se generalizzate diventano esse stesse norma. Il fenomeno del sostrato: influenza della lingua dei vinti sui vincitori. Si spiega così la presenza delle vocali turbate nel settentrione col sostrato celtico, con quello osco-umbro l’assimilazione di –nd->-nn- e –mb->- 16 mm. Al sostrato etrusco si riconduce la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche in toscana, che dà luogo a fenomeni che rientrano nella gorgia toscana. Il superstrato: le influenze sono da parte del dominato sul vincitore. Oggi si dà meno importanza all’influenza dei germanismi durante le invasioni barbariche, si tratta anche in realtà di distinguere i germanismi in base alla popolazione trattata. 1) Goti: 489 Teodorico in Italia per volontà dell’imperatore che voleva eliminare Odoacre. Il regno termina con la guerra greco-gotica (fonte: Procopio di Cesarea). Dominio breve, la lingua è nota soprattutto grazie ad una traduzione della Bibbia ad opera del vescovo Ulfila nel IV sec. Meno di 70 termini: astio, bega, melma, nastro, stecca, strappare. 2) Longobardi: dominio VI-VIII sec. invasione brutale e violenta. Le ripercussioni si notano anche dalla toponomastica della regione della Lombardia, in origine i bizantini definivano in questo modo tutti i territori longobardi in contrapposizione ai loro, Romania. Le parole sono più di 200. Il longobardo era caratterizzato dalla seconda mutazione consonantica che caratterizza ora il tedesco meridionale. Toponimi in –ingo, - engo, Gualdo (bosco), Fara (insediamento militare o agricolo). Guancia, stinco, nocca, stamberga, panca, gruccia, scaffale, federa, palla etc. Termini giuridici o tecnici: guidrigildo, faida, gastaldo. Verbi concreti ed espressivi: arraffare, ghermire, russare, schernire, scherzare, spruzzare, tuffare. 3) Franchi: diverso insediamento poiché numero ristretto di nobili coi loro seguaci, oltre a quelli di stirpe franca anche alamanni, bavari, burgundi. È difficile distinguere i prestiti franchi da quelli successivi del francese antico. Sicuramente di questo periodo: bosco, guanto, dardo, biondo. All’influsso franco germanico, per Castellani, va collegato anche quello gallo-romanzo poiché i nobili erano probabilmente bilingui. Del periodo carolingio sono termini di organizzazione politica e sociale: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, vassallo. L’adstrato: influenza della lingua dei popoli confinanti. Quando nasce una lingua: il problema dei primi documenti: come già sappiamo il passaggio dal latino al volgare è stato molto lungo e avviene per via orale. Il volgare in questa fase non è ancora scritto ma lo si trova nel cosiddetto “latino medievale”, che è a sé stante rispetto al classico e al volgare stesso, caratterizzato da numerosissimi errori e volgarismi. “Breve de inquisitione” del 715 è una verbalizzazione giudiziaria, il latino notarile utilizzato è molto libero, si aboliscono ad esempio le desinenze dell’accusativo, unus è articolo indeterminativo e ci sono nuovi termini. Il volgare scritto: La dignità delle lingue romanze viene loro conferita nel momento in cui venivano messe iscritti. Mettere per iscritto una lingua solo parlata era molto difficile dal punto di vista tecnico in quanto bisognava basarsi su approssimazioni, le scelte erano di tipo culturale. Solo nel XIII secolo si ha la sistematicità delle lingue volgari grazie alle tre corone. Il volgare era in realtà già presente in documenti di minore importanza caratterizzati dalla casualità di realizzazione, e a volte di ritrovamento. Sabatini nel suo studio sul graffito della catacomba di Commodilla individua la rusticità come elemento linguistico fondamentale per l’affermazione del volgare. La disposizione psicologica dei primi documenti: Da tenere in considerazione è poi la disposizione psicologica. Ad esempio nei giuramenti di Strasburgo dell’842 c’è l’intenzionalità di utilizzo del volgare in ambito pubblico e ufficiale. Possiamo paragonare all’atto di nascita del francese quello del volgare italiano, cioè il Placito Capuano del 960, vi riscontriamo un’analogia, cioè il fatto che anche questo sia una formula connessa ad un giuramento, ma un’importante differenza, cioè non siamo in un contesto storico significativo ma una controversia giudiziaria locale. Il volgare si afferma quindi per la necessità di pronunciare in maniera univoca delle formule che così non dessero luogo ad equivoci. Il problema dell’intenzionalità, l’indovinello veronese: A volte non è facile separare latino e volgare, soprattutto se il latino è modellato sul volgare stesso e rappresenta il registro intermedio. Prendiamo in esame l’Indovinello veronese, un codice scritto in spagna nell’VIII secolo e poi approdato a Verona. Abbiamo due note (postille) al margine del foglio, una in latino corretto, l’altra no ed era interpretata come un’antica cantilena di un bifolco. Fu solo De Bartholomeis con l’aiuto di una sua allieva a collegarlo ad un indovinello popolare che alludeva all’atto di scrivere, simile a quello del “Piccolo aratore” nelle Myricae di Pascoli. Il significato generale era ora conosciuto, dubbi sull’interpretazione letterale: se pareba-somigliava, appariva, appaiava? Soggetto: mano, scrittore, dita, penna? Scrittore per Castellani. Per far rientrare nei 17 I primi versi sono scritti in italiano volgare dal francese Rambaldo di Vaqueiras, “Contrasto” tra un giullare provenzale e una donna genovese. Altro componimento con un discorso plurilingue: provenzale, francese, italiano, guascone e gallego-portoghese. Del XII sec. “Ritmo cassinese” e il marchigiano “Ritmo su S. Alessio”- Del XIII “Ritmo laurenziano”. Recentemente nuove scoperte, le più antiche testimonianze di lirica d’amore in volgare, 1127. Incertezza sulla locazione, dubbi su scuole poetiche antecedenti a quella siciliana. CAPITOLO SEI, IL DUECENTO Dai provenzali ai poeti siciliani: nel XIII sec. nasce nella magna curia di Federico II la scuola poetica siciliana, il volgare implicava maggiore considerazione della nuova lingua e la sua promozione era legata alla nascita di gruppi omogenei di persone, autori socialmente rilevanti. Già si erano affermate altre due letterature romanze, quella in lingua d’oil cioè il francese, e quella in lingua d’oc, il provenzale. Il provenzale era la lingua della poesia incentrata sull’amore intellettualizzato, le forme erano raffinate e stilizzate. Si diffonde in Provenza, Aquitania, Delfinato. Molti autori francesi giungono anche in Italia, ospiti di importanti nobili: Monferrato, Romano, Estensi. I poeti italiani del tempo imitavano i trovatori provenzali. L’innovazione dei poeti siciliani fu quella di imitare i provenzali ma nella loro lingua, cioè in volgare italiano. Ci si chiede perché la scelta del volgare siciliano, dato che molti autori non erano nemmeno dell’isola, ad esempio Giacomino Pugliese, Rinaldo D’Aquino, l’abate di Tivoli, e lo stesso Federico II non aveva origini locali. La scelta è dunque di valore formale, il volgare siciliano utilizzato è altamente formalizzato e raffinato. Entrano molti provenzalismi, le forme in –agio e in –anza, queste forme, come nota Coletti, non sono obbligate, spesso ci sono alternanze ad esempio tra chiaro e clero, acqua e aigua, in certi casi abbiamo calchi semantici. La teoria della lingua sovraregionale: In passato ci furono delle resistenze ad ammettere il primato cronologico e la funzione di guida della scuola poetica siciliana. Perticari nell’800 credeva che questi avessero poetato in una lingua sovraregionale illustre e che i provenzalismi erano da spiegare in quanto tale lingua “intermedia” era comune sia in Italia che in Francia. Reynouard e Dante non concordano sulla cronologia, ma Dante stesso credeva nell’esistenza di una lingua sovraregionale. Questa teoria si spiega con il tramando dei testi, i quali giunsero, a Dante prima, a Perticari poi, in forme rivisitate. Erano infatti stati trasmessi da codici medievali toscani, che nel lavoro di copia, come era tipico nel medioevo, non erano neutrali ma anzi intervenivano, secondo loro, migliorando o chiarendo punti oscuri. Ne risulta quindi una poesia in cui i tratti siciliani sono estremamente ridotti. Con la fine degli Svevi e il potere angioino, vennero distrutti poi anche fisicamente i manoscritti. I rimaneggiamenti dei toscani: Il sospetto che in realtà non esistesse una lingua sovraregionale venne a Galvani, un filologo dell’800. Egli partì da testi medievali toscani che erano stati rimaneggiati da settentrionali e che presentavano quindi tratti locali inesistenti nell’originale. Capì che lo stesso rimaneggiamento, in senso inverso, poteva essere avvenuto nella poesia siciliana. Prese in considerazione un codice “Libro Siciliano” che era passato per le mani di uno studioso del XVI sec. di nome Barbieri e che aveva trascritto le poesie originali. Esaminiamo due testi: “Pir meu cori alligrari” di Protonotaro e “S’eo trovasse pietanza” di re Enzo, figlio di Federico II. Tratti siciliani: -u e –i anziché –o e –e, inamuranza con la u anziché o, -i e non –e in posizione tonica (vocalismo tonico e atono del siciliano). Le tracce dei rimaneggiamenti toscani risultano evidenti nei casi delle rime imperfette. La lezione della scuola poetica siciliana fu fondamentale per la stabilizzazione della rima siciliana (Guinizelli sorpriso e miso, Jacopone sceso, miso, paradiso, Manzoni nel nui del Cinque Maggio, vui anche in Dante), normali in poesia condizionali meridionali in –ìa. Documenti centro-settentrionali: La poesia religiosa: anticipo cronologico: Cantico di frate sole di S. Francesco, o Laudes creaturarum 1223- 1224. Nel volgare in cui è scritto si ritrovano dei tratti umbri. Fu tramandato solo in ambiente francescano senza essere preso in considerazione come documento letterario. La tradizione delle “laudi” religiose si sviluppò poi nel ‘300 e ‘400. Venivano trascritte in appositi quaderni che prendono il nome di laudari e furono utilizzate come preghiere cantate. Erano di origine 20 prevalentemente centrale e svolsero un’importante funzione linguistica di trasmissione di moduli centrali nel settentrione. Oltre a casi isolati come quello di Jacopone da Todi (1230-1306), le laudi erano di anonimi e di modesta qualità. Il modello delle laudi era comune nelle varie regioni, la base era di tipo centrale sebbene nel passaggio verso il nord subissero dei settentrionalismi. Quelle settentrionali sono comunque tarde, ‘400-‘500, ma forse sono copie di antichi manoscritti distrutti. La poesia didattica e moraleggiante del nord Italia: Girardo Patecchio, Ugaccione da Lodi, Giacomino di Verona, la lingua è settentrionale, il modello toscano non si è ancora imposto. Per comprenderli vanno usati i glossari, utili sia per la storia della lingua che per la dialettologia. Questa trafila letteraria ebbe poco successo. I siculo-toscani e gli stilnovisti: Tra XI-XII sec. l’area di sviluppo del volgare scritto in Toscana fu quella compresa tra Pisa e Lucca, i centri che prevalevano dal punto di vista politico, sociale ed economico. Si sviluppò in questi centri la poesia “siculo-toscana”: Tibero Galiziani, Pucciandone Martelli a Pisa, Bonagiunta e Inghilfredi a Lucca, Guittone ad Arezzo. Firenze emerge a metà del ‘200, Monte Andrea, Chiaro Davanzati, Rustico Filippi (che scrive anche un tipo diverso di poesia, quella comica, con un fiorentino più idiomatico), lo stile di questi poeti riflette quello dei siciliani: -i al posto di –e. Alcuni tratti passeranno agli stilnovisti e a Dante e poi a Petrarca: condizionali in –ìa, futuri in –aio, participio passato in –uto, i/u toniche anziché e/o. In Carnino Ghiberti riscontriamo l’esito di PL in chiaceriami anziché piaceriami, rime in –u- dipartuto/dormuto. In Galletto Pisano miso fuori rima. Nella tradizione stilnovistica riscontriamo una certa continuità con questo tipo di poesia per la presenza di provenzalismi, sicilianismi, gallicismi. Guinizelli: gallicismi: riviera per fiume, rempaira per ritorna, fer esmire per specchiarsi etc., provenzalismi: sclarisce, enveggia, -anza; sicilianismi: saccio, aggio. In Guinizelli troviamo anche forme che richiamano il bolognese: saver, donqua (dunque), volgiando e siando, l’assibilazione di c davanti a vocale palatale dise (dice). Anche in Cavalcanti –anza, rime siciliane tipo noi/altrui, provenzalismi, ma anche forme toscane tipo il condizionale in –ebbe, io oltre ad eo, la i prostetica (istare) etc. Dante teorico del volgare: Il Convivio: volgare celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino per un pubblico più vasto di quello che conosceva i classici. Il latino è però esaltato come superiore perché è la lingua dell’arte. De vulgari eloquentia: in questo caso è il volgare ad essere ritenuto superiore in quanto lingua naturale, ma ha bisogno del latino per regolarizzarsi. È il primo trattato sulla poesia e sulla lingua in volgare, incompiuto, composto in esilio. Fino al ‘500 quasi del tutto sconosciuto. Fu riscoperto nel XVI sec. da Trissino, uno dei protagonisti del dibattito sulla questione della lingua. Ne seguirono molte discussioni, fu elaborata una tesi secondo la quale il testo non era dantesco, comodità perché molti non erano d’accordo con la critica al toscano e al fiorentino. Manzoni nell’800 lo sminuisce perché per lui l’oggetto del trattato è la poesia e non la lingua in generale, in effetti gran parte si basa su problemi retorici e metrici ma per Dante l’intreccio tra lingua e poesia era indissolubile. Dante è cosciente della novità tematica, parte dalle origini, dalla creazione di Abramo. L’uomo è l’unico ad avere la facoltà di parlare, si distingue dalle bestie gerarchicamente inferiori e dagli angeli, superiori. Il nodo centrale delle origini delle lingue è il racconto biblico della Torre di Babele, da qui le lingue naturali cominciano a cambiare nello spazio e nel tempo. La grammatica delle lingue letterarie viene identificata come invenzione artificiale dei dotti per bloccare la naturale mutevolezza delle lingue e per conferire invece stabilità, che sarà necessaria anche al volgare per ottenere dignità. Esamina il volgare letterario dal punto di vista geografico, parte dall’Europa del nord e nord-est in cui “sì” si dice “ìo”, poi nel centro-sud con quelle d’oc e d’oil e sì, e Grecia e Oriente col greco. Individua la comune origine di francese, provenzale ed italiano per concordanze lessicali. Passa poi all’Italia e alle differenze regionali, alla ricerca di un volgare illustre. Per lui nessuna parlata regionale, in forma naturale, è degna del volgare illustre, tra quelle migliori risultano il bolognese e il siciliano ma nell’alto livello fatto da Guinizelli e 21 dalla scuola siciliana. Critica duramente il toscano (Guittone d’Arezzo, stile rozzo e plebeo) e il fiorentino. La lingua ideale è per lui priva di localismi. La nobilitazione linguistica deve passare attraverso la letteratura. Dante lirico: in una fase iniziale, ci dice Baldelli, Dante non si distacca dalla tradizione fiorentina per temi, strutture linguistiche, stilistiche e metriche. Ci sono gallicismi e sicilianismi. Diminuiscono successivamente le dittologie sinonimiche, le parole coi suffissi in –anza ed –enza, aumenta invece il lessico della poesia. Saccio, avvenente e parvente, dimoranza etc. solo in giovinezza. La prosa: Il ritardo della prosa, il primato del latino e i volgarizzamenti: la letteratura in prosa italiana non solo è successiva a quella d’oltralpe ma anche alla poesia italiana. La prosa è ancora dominata dal latino, sebbene si avvertano tracce del parlato volgare. Un esempio è la “Chronica” di frate Salimbene de Adam in cui la sintassi non è quella canonica latina e ricorrono parole come truffa, ribaldus, raviolos. Si diffondono in questo periodo i “volgarizzamenti” che consistono nel tradurre, rifare, imitare testi, soprattutto i classici. La traduzione è ovviamente molto libera. Si traduce dal latino o dal francese in italiano volgare, ne risulta una scrittura dall’alto valore sperimentale e una struttura della prosa italiana. Il verbo viene spesso posto in clausola, alla latina, latina è la sequenza determinante-determinato. L’influenza francese è minore ma si pensi al Milione di Marco Polo dettato a Rustichello da Pisa nel 1298. Anche Martino da Canal, Brunetto Latini, maestro di Dante, scrivono in latino. Latini scrive il “Tesoro”, che anche in traduzione presenta francesismi come giadì “un tempo” da jadis, argento, vile (città/ville). Varietà linguistica della prosa duecentesca: non c’è un tipo unico di volgare ma una sostanziale varietà. Emerge il prestigio di Bologna con Guido Faba, autore di “Gemma purpurea” e “Parlamenta et Epistole”, in quest’ultimo troviamo modelli di prosa epistolare ed oratoria in una lingua illustre bolognese, in cui si cerca di eliminare i tratti locali. Voi, noi, senza metafonesi ma ad esempio audirete/intenderite ce l’hanno, le sorde intervocaliche sono mantenute senza sonorizzazione, si mantengono le vocali finali atone, sebbene Serianni precisi che sono aggiunte a posteriori, senza appoggio alla lingua parlata. È un tipo elevato di prosa, troviamo elementi poetici, ad esempio il corpus, cioè clausole ritmiche preformate, impiegate per terminare il periodo, oppure latinismi e meridionalismi siciliani in Guittone d’Arezzo. Di Arezzo è anche frate Ristoro che scrive “Composizione del mondo” e usa tecnicismi che ritroviamo nella Commedia: epiciclo, equatore, zodiaco. Ci sono poi scritture in prosa più “pratiche”, conti di spese amministrative, scritture mercantili, ma anche un trattato di pace tra i Pisani e l’emiro di Tunisi del 1264. CAPITOLO SETTE, IL TRECENTO La Commedia di Dante: Dante e il successo del toscano: nella Commedia Dante non è coerente con quanto aveva teorizzato nel “De vulgari eloquentia”, e forse è questo il motivo per cui il trattato rimane incompiuto. L’opera diventa promozione del volgare, il successo della Commedia andrà di pari passo con quello della lingua. La Commedia è scritta durante il suo esilio, linguisticamente ricollegata non solo alla Toscana ma anche al settentrione, è forse questo motivo in più per la sua rapida fortuna e per i tentativi di imitazione che si ebbero al nord. Il toscano inizia così la sua espansione nel resto d’Italia, favorito poi da altri autori fondamentali quali Petrarca e Boccaccio. Firenze era una potenza in quel momento politica, sociale ed economica, il fiorentino si prestava ad una posizione di egemonia perché a metà tra nord e sud e perché vicino al latino ma senza la spinta della letteratura non avrebbe avuto tale successo. Varietà linguistica della Commedia: Dante riesce a restituire ai lettori la sensazione di una lingua matura, completa, quanto il latino. Lo fa attingendo a varie fonti: letteratura classica, sacre scritture, filosofia tomistica, scienza medievale. Si pensi al VI canto del Paradiso, il discorso di Giustiniano viene costruito con termini di chiara derivazione classica: “cirro/negletto” cioè capigliatura arruffata, dal nome Cincinnato, etimologia importante; “labi” modulo illustre usato da Orazio, Ovidio, Virgilio. Latinismi anche “tolle” e “si cuba” (usato solo in riferimento ad Ettore che giace). È invece dalle sacre scritture che trae “baiuolo” cioè “portatore dell’aquila 22 CAPITOLO OTTO, IL QUATTROCENTO: Latino e volgare: Il rifiuto umanistico del volgare, il confronto con il latino: individuiamo in Petrarca l’iniziatore dell’umanesimo, le parti più solide della sua opera sono da individuare in quelle nel latino classico di Cicerone, Livio, Seneca, Orazio, Virgilio. Egli era infatti consapevole della differenza tra il latino classico e quello medievale dei suoi tempi, tale distinzione non è presente in Dante che invece usava semplicemente il latino a lui contemporaneo. Il confronto con il latino degli autori canonici fu decisivo per la formazione di una mentalità grammaticale che verrà poi applicata per la norma italiana, in quanto la lingua è in questo momento percepita come frutto di imitazione dei grandi modelli letterari. C’è un momento di crisi del volgare, screditato dai dotti ma comunque usato per fini pratici. Coluccio Salutati non usò mai il volgare, dirigeva la cancelleria fiorentina e diffondeva così i suoi modelli di latino ciceroniano. Viene introdotto da Bruni tra gli interlocutori del suo “Dialogus ad Petrum Paulum Histrum” e gli attribuisce una posizione di rammarico per il fatto che la Commedia non fosse scritta in latino. Sempre nel dialogo Bruni inserisce anche Niccolò Nicoli che invece ha una posizione radicale ed individua Dante non come un letterato ma come un fornaio o lanaio. Bruni stesso invece, celebra Dante a prescindere dalla lingua utilizzata dal poeta, ne scrive anche una Vita nel 1436 nella quale sottolinea che per lui non vi è differenza nello scrivere in volgare o in latino, così come in latino o greco. Affinché si affermasse questo principio di sostanziale parità tra lingue moderne ed antiche si dovette aspettare la metà del secolo, con l’affermarsi dell’Umanesimo volgare fiorentino. Legata a questa tesi era l’importanza degli scrittori. Il movimento umanistico si esprime in latino e si riconosce nel latino stesso, Giorgio Valla parla dei “cantiunculas” di Dante e Petrarca per il popolo indotto, Filelfo sostiene che il volgare non è una lingua che può essere destinata ai posteri. Il latino è una lingua più nobile, capace di immortalità, in contrapposizione con l’incerto e “pratico” volgare. Qualche volta, addirittura, si ignorava il volgare, nella convinzione che in Italia esistesse solo la cultura latina. Le prime discussioni sull’origine del volgare legato al latino sono correlate al problema del crollo della romanità, e all’importanza da attribuire o meno ai barbari, non c’è quindi interesse al volgare in sé ma ad una storiografia che definisse il passaggio dall’antichità al Medioevo. Macaronico e poliflesco: sono tipi di scrittura in cui entrano in simbiosi il latino ed il volgare. Si tratta di un tipo colto di contaminazione, sono esperimenti linguistici fatti da colti. Macaronico: Padova, fine ‘400. Si latinizzano parodicamente parole del volgare o si deformano col dialetto parole del latino. Il volgare utilizzato è quello basso, dialettale, il latino è aulico. A una parola volgare viene ad es. applicata una desinenza latina, parole esistenti in latino e in volgare vengono usate col significato del volgare, parole latine sono legate in costrutti sintattici volgari. Si creano le parole macedonia. L’autore utilizza un’azione rovesciata della retorica ad esempio in un contesto basso cita autori classici, paragona elementi tra loro incommensurabili, evocando immagini repellenti. L’iniziatore fu Tifi Odasi ma il suo esponente più grande Teofico Folengo, attivo a Torino, Pavia, Asti. Poliflesco: o pedantesco o “fidenziano” dal titolo dei “Cantici di Fidenzio” di Camillo Scroffa, ‘500. Esempio nel “Hypnerotomachia Poliphili (guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), un romanzo anonimo del 1499 a Venezia, si usa un volgare estremamente latinizzato, al limite dello snaturamento. La differenza fondamentale è che questo è un genere serio. Il volgare è toscano, con elementi del settentrionale illustre, il latino non è quello della classicità ma si ispira ad autori come Plinio, Apuleio. Fenomeni di mescidanza nella predicazione: metà del ‘400, predicatori settentrionali, somiglianza con il linguaggio macaronico. La mescolanza tra i due elementi nella predica è un’eredità medievale, in cui il latino ricorreva ad esempio come citazione delle sacre scritture o dei padri della chiesa. In questo momento questa commistione è estremizzata, infatti le frasi in latino convivono con espressioni fortemente dialettali. Altri casi di contaminazione tra latino e volgare: nelle epistole, relazioni, diari, libri di famiglia, ricettari. Il latino è legato alla consuetudine, ad esempio nelle lettere lo si ritrova nelle formule iniziali e finali. Es. lettere di Esterolo Visconti a Francesco Sforza, lettere di Galeotto del Carretto, un letterato alla corte dei marchesi di Monferrato. 25 Anche nei testi di natura giuridica sono in latino i termini tecnici o le frasi diverse dal contesto, ad esempio citazioni. Una cosa simile avviene nel “Liber Visitationis”, un verbale del 1457-1458 che tratta di una visita pastorale in alcuni monasteri del sud, redatto in latino ma con citazioni di volgare molto basso. Nelle lettere oltre alle formule iniziali e finali abbiamo alcune espressioni così comuni da non essere avvertite come latine: cum, maxime, quondam, non solum, autem etc. Leon Battista Alberti: Una nuova fiducia nel volgare: la sua è una posizione innovativa, inizia il movimento dell’Umanesimo volgare, promuovendo la nuova lingua con realizzazioni in prosa e in poesia di tono alto, nel trattato “Della famiglia” e nei volgarizzamenti dei saggi scientifici “De pictura” e “Ludi rerum mathematicarum”. Nel “Della famiglia” riprende nel proemio le posizioni di Biondo Flavio attribuendo alla calata dei barbari la causa della perdita della lingua latina. Il volgare si deve riscattare rendendosi “ornato” e “copioso” come il latino che era secondo lui una lingua compresa universalmente. Il volgare pure doveva diventare alla portata di tutti, ma questo poteva avvenire solo attraverso l’accettazione dei dotti. La sua prosa è caratterizzata da latinismi a livello lessicale, sintattico e fonetico oltre a tratti popolari del fiorentino. L’influenza latina dà esiti che si discostano molto dalla prosa di Boccaccio, che lui non considera esempio da imitare. La “Grammatica della lingua toscana”: è la prima. Tramandata solo da un codice apografo per Bembo che viene conservato in Vaticano, per questo è conosciuta come “Grammatichetta vaticana”. In questa polemizza contro coloro che credevano che il latino fosse stato solo lingua dei dotti (tesi di Bruni). Per lui era importante riconoscere nel latino una lingua comune a tutti per stabilire un’analogia col volgare. Vuole dimostrare poi che anche il volgare ha una struttura grammaticale ordinata come il latino. L’opera sarà di poca influenza. La norma a cui aderisce l’Alberti è comunque relativa al fiorentino in uso, non a quello degli autori, usa così “el” anziché “il” delle Tre Corone, mentre l’imperfetto in –o. Il Certame Coronario del 1441: è una gara poetica in componimenti volgari, non fu assegnato un premio e alla giuria fu indirizzata una Protesta anonima, forse dell’Alberti stesso, in cui si criticava la posizione conservatrice. L’umanesimo volgare alla corte di Lorenzo il Magnifico: L’aspirazione al primato di Firenze: con lui si ebbe il rilancio di un’iniziativa in favore del toscano che questa volta aveva l’appoggio politico della classe più alta. I protagonisti saranno Landino e il Poliziano. Landino introduce Petrarca e Dante nella città universitaria, refrattaria alla cultura volgare, tale esperienza si ricollega alle Lecturae Dantis che risalivano a Boccaccio. Egli nega l’inferiorità del volgare rispetto al latino ed invita i cittadini fiorentini a darsi da fare affinché la loro lingua ottenga il principato. Lorenzo il Magnifico nel proemio al suo “Comento” per alcuni suoi sonetti (1482-1484) auspica la fortuna del fiorentino. La sua è una visione patriottica, la lingua diventa patrimonio e potenzialità della città al pari delle risorse artistiche e culturali. Landino traduttore di Plinio: traduce la Naturalis Historia di Plinio nel 1476. Traduce per arricchire il fiorentino, ci sono molti tecnicismi, nel tradurre dà ampio spazio a voci toscane popolari, evidenti se si confronta questa edizione con quella di Brancati che usa il napoletano ma “misto”, una sorta di koinè. La “raccolta aragonese”: nel 1477 Lorenzo il Magnifico invia a Federico, figlio del re Ferdinando di Napoli, questa raccolta di poesie che andava dai pre-danteschi e Lorenzo de’ Medici. L’anno prima i due avevano avuto una discussione sul volgare e sugli autori che avevano poetato in toscano. L’antologia era accompagnata da un’epistola di Poliziano che elogiava la lingua e la letteratura volgare, in particolare quella di Dante e Petrarca. Per Lorenzo e Landino il fiorentino era comune a tutta l’Italia e l’esaltazione del volgare si collegava ad un intervento culturale, letterario e politico. Realizzazioni di linguaggio poetico in Toscana: “Nencia da Barberino” di Lorenzo. 4 redazioni di lunghezza varia, l’originale è forse quella di 20 ottave e presenta molte caratterizzazioni dialettali: “migghiaio” migliaio “begghi” begli. Poliziano ha un’esperienza più complessa, usa latino, greco e toscano. “Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici” 1475-1478, incompiute, 6 manoscritti diversi e una editio princeps non dell’autore, pongono problemi di natura filologica ma comunque l’aspetto fono-morfologico aderiva agli usi contemporanei. 26 Si ha una trasposizione su un piano colto del genere cavalleresco che era popolare. Era una forma poetica in ottave portata su pizza da canterini, cantastorie. “Morgante” di Luigi Pucci, 1461-1481, caratterizzato da notevole varietà lessicale. Scrive anche a Lorenzo una lettera in “furbesco”, primo caso di uso del gergo della nostra letteratura. Scrive poi un “Vocabolista”, una raccolta di più di 700 vocaboli, latinismi tradotti con termini comuni, voci di botanica, zoologia, anatomia e termini gergali. Altro autore fu Burchiello che scriveva poesie comiche fondate su doppi sensi, invenzioni verbali, che sfociavano nel nonsense e nell’incomprensibilità, e imitazioni di parlate altrui. Il linguaggio si ricollega alla letteratura realistico giocosa di Cecco Angiolieri e Rustico Filippi. La prosa toscana: rapporto col parlato soprattutto nelle parti dialogate delle novelle. “Motti e facezie del Piovano Arlotto”, “Novella del grasso Legnaiolo” o nelle novelle del senese Simone Sermini. “Reali di Francia” di Andrea da Barberino è un genere tipicamente popolare, la sua importanza è inversamente proporzionale alla sua qualità. La narrativa è molto modesta, circolante negli strati bassi, si basa sulla prevedibilità: le storie sono quasi sempre uguali, con poche varianti. Serianni paragona questa letteratura a quella dei romanzi rosa attuali. Sia Serianni che Bartoli Langeli-Infelise hanno confrontato le edizioni delle varie epoche per scopire la ripulitura linguistica che veniva effettuata per adattarsi alle tendenze popolari. La letteratura religiosa e la sua influenza: Laudari diffusi nell’Italia settentrionale. In quelli piemontesi troviamo esiti linguistici molto simili a quelli del francese, es. infiniti in –are con esito in –é. Sono tratti estremamente specifici, è facile cogliere dunque i tentativi di toscanizzazione o gli usi di koinè sovraregionale. “Passione di Revello”, una lunga rappresentazione del 1490 in cui emergono forme settentrionali e locali ma si prova ad usare i verbi in –are. “Judicio della fine del mondo” con tratti più locali. In queste occasioni il pubblico popolare aveva modo di avere a che fare con la lingua toscanizzata. Anche le predicazioni si rivolgevano al popolo, in questo momento si ha una toscanizzazione pure in quest’ambito. Spicca la figura di san Bernardino da Siena che sottolinea il suo intento di predicare in lingua semplice e quotidiana, citando mestieri, situazioni comuni, luoghi familiari. Era un’esigenza necessaria perché bisognava parlare a persone provenienti da zone diverse. Il caso di Savonarola fu inverso, in quanto fu un non-toscano ad andare a Firenze e subire una sorta di toscanizzazione. “Prediche di Amos” tracce settentrionali forse cancellate dal raccoglitore del testo. La lingua di koinè e le cancellerie: la poesia era più uniforme rispetto alla prosa il cui modello era soltanto quello specifico della novella. La prosa è caratterizzata da numerosi settori che richiedevano un diverso grado di formalizzazione, un diverso compromesso coi vari volgari regionali. Si parla quindi di varietà di scriptae, cioè di lingue scritte a quell’epoca in contesti e spazi diversi. Le scriptae quattrocentesche cercano di eliminare i tratti vistosamente locali, infatti in alcuni casi è difficile individuarne l’origine, è tendono verso la koinè, con pochi elementi regionali e l’uso di latinismi e del toscano. La koinè fu favorita dalle cancellerie delle corti signorili. Il livellamento poi di questa sorta di dialetto sovraregionale si ebbe grazie alla diffusione dei modelli toscani che erano ormai conosciuti alla maggioranza degli scriventi che introducevano quindi, più o meno consapevolmente, degli elementi letterari nelle scritture pratiche. La differenza tra scrittura pratica e letteraria era comunque molto marcata. Si pensi ad esempio a Boiardo: le lettere private erano molto meno formalizzate e toscanizzate delle opere poetiche. Nelle lettere si trovano tratti dialettali e caratterizzazioni di elementi genericamente settentrionali, oltre a toscanismi letterari come “il” anziché “el”. Si ritrovano latinismi, questo avviene perché nell’incertezza del termine volgare di uso non ancora codificato da vocabolari e grammatiche, il latino era appoggio sicuro. La koinè si diffuse anche nell’uso tecnico-scientifico. “Summa de arithmetica” di Luca Pacioli, Tartaglia, Cesare Cesarino che commenta Vitruvio. Fortuna del toscano letterario: Modelli di lingua toscana nelle corti d’Italia: gli inventari delle biblioteche delle famiglie signorili mostrano una buona compenetrazione delle Tre Corone e della letteratura romanzesca francese. Nelle biblioteche di studio, di taglio umanistico, c’erano invece solo gli autori latini. I signori del tempo erano quindi bilingui o trilingui: italiano, francese, latino. Milano: Filippo Maria Visconti 1440 fa compilare un commento all’Inferno e fece commentare Petrarca da Filelfo. Ludovico il Moro chiamò alla sua corte il poeta burlesco Bellincioni con obiettivi linguistici di 27 Mario Equicola parla di lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni, mai plebea, e latineggiante, il modello era da riscontrare nelle corti romane. Nel 1525 dice di usare una lingua comune nel “De natura de amore” anche Castiglione nel Cortegiano del 1528 definiva così la sua lingua. Differenza con Bembo: uso vivo di un ambiente sociale determinato quale era la corte. Questa teoria era collegata nella prassi della koinè sebbene questa fosse già tramontata. La teoria non si impone perché disomogenea, quella di Bembo aveva invece rigorosi modelli letterati a cui attenersi. La teoria italiana di Trissino: riscopre il De vulgari eloquentia che ristampa nel 1529 ma in traduzione italiana. Nello stesso anno pubblica il Castellano che è un dialogo in cui sostiene che la lingua poetica di Petrarca era composta da vocaboli provenienti da tutta Italia e che quindi era italiana e non fiorentina. Questa tesi si appoggiava alle pagine contro il fiorentino del trattato dantesco a cui ricollegava la Commedia come realizzazione coerente. Propone poi una riforma dell’alfabeto in cui suggerisce l’aggiunta di epsilon ed omega. La cultura toscana di fronte a Trissino e a Bembo: reazione fiorentina: “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua” attribuito a Machiavelli in cui Dante fa ammenda degli errori commessi nel suo trattato. Trissino non viene nominato esplicitamente ma si fa riferimento a letterati non toscani che volevano indebitamente farsi maestri di lingua. Rivendicazione del primato fiorentino. Questo trattato rimase inedito fino al ‘700. In quel periodo si posero problemi riguardo l’autenticità del trattato, per le idee contraddittorie rispetto alla Commedia. Pensarono fosse falso: Ludovico Martelli, Gelli e Varchi. L’edizione latina fu pubblicata nel ‘700 ma comunque rimase più diffusa quella volgare. L’”Hercolano” di Varchi: in un primo momento Firenze non si oppose alla teoria di Bembo in maniera convincente, la situazione mutò dopo la pubblicazione dell’Hercolano nel 1570 a Venezia e a Firenze. Varchi era esule per trascorsi politici, a Padova aveva frequentato l’Accademia degli Infiammati dove impara le regole di Bembo, nel 1543 torna a Firenze e espone le teorie di Bembo ma in maniera poco fedele. Questo fa sì che si abbia una reazione del fiorentino vivo, si ha una riscoperta del parlato nel quadro generale delle teorie linguistiche non più ispirate alla Bibbia ma alla filosofia naturale. La pluralità dei linguaggi non è opera della maledizione babelica ma della naturale tendenza alla varietà tipica della lingua che è parte integrante della perfezione universale. Era inutile cercare il primo linguaggio umano. La discussione si muoveva in abito sociale, Varchi classifica le lingue in base a: provenienza, patrimonio di cultura e letteratura, idiomi morti e vivi, comprensibilità (in base al parlante fiorentino). Dunque affiancava alla teoria di Bembo quella del parlato vivo contemporaneo, a sottolinearlo liste di espressioni proverbiali fiorentine per valorizzare la varietà del parlato. La stabilizzazione della norma linguistica: La prima grammatica a stampa della lingua italiana: oltre alle teorizzazioni in questo periodo abbiamo una maggiore diffusione anche degli strumenti normativi. La prima grammatica non è quella di Bembo ma di Giovan Francesco Fortunio, letterato friulano di nascita veneziana che scrive “Regole grammaticali della volgar lingua” nel 1516. Abbastanza scarna, incentrata solo su 4 parti del discorso (nome, pronome, verbo, avverbio) ma anche qui ritroviamo la base nelle Tre Corone. Sviluppo della produzione grammaticale e dei primi lessici: 1550 “Osservazioni nella volgar lingua” di Ludovico Dolce. 1562 “Osservazioni della lingua volgare dei diversi uomini illustri” Sansovino di Venezia editore, unite più grammatiche della prima metà del secolo: Fortunio, Bembo, Acarisio, Jacomo Gabriele e Rinaldo Corso. 1581 “Commentarii della lingua italiana” di Ruscelli. Non ci sono per ora opere a Firenze. Nel 1552 si ha l’opera di Giambullari con la prefazione di Gelli. Questo libro fu però un fallimento. Cosimo aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire regole ufficialmente ma non si arrivò ad un accordo perché Gelli si allontanò perché credeva che il fiorentino fosse ancora una lingua troppo giovane per essere cristallizzata dalla norma. L’esperimento di Giambullari fu realizzato quindi come opera personale “De la lingua che si parla e scrive in Firenze”. Si diffondono anche i lessici oltre alle grammatiche, contenevano numeri di parole limitati ricavati dagli spogli degli scrittori. 1526 “Le tre fontane” di Niccolò Liburnio, il titolo allude ovviamente ai 3 autori del ‘300. Tra 1535-1543 appaiono lessici di autori singoli, Fabricio Luna, Acarisio, Alunno di Ferrara. Gli scrittori di fronte alla grammatica di Bembo: importanza tale che anche un rivale dal punto di vista teorico come Castiglione avesse invitato Bembo a rivedere il testo del Cortegiano. 30 “Orlando Furioso” 3 edizioni: 1516, 1521 e 1532. Nella prima è ancora utilizzato il padano illustre, benché già con toscanizzazione in atto. Oscillazione di uso di C/Z davanti a vocale, giaccio/giotto/iusto>ghiaccio/ghiotto/giusto, latinismi. L’edizione del 1521 è con qualche aggiustamento ma fondamentale è quella del 1532 che tiene conto dell’opera di Bembo (che viene elogiato nell’opera nel canto XLVI ottava 15). El sostituito con il, desinenze del presente indicativo prima persona singolare regolarizzate in –iamo, prima persona singolare dell’imperfetto in –a. Stella mette a confronto le correzioni dell’Orlando furioso con le lettere private di Ariosto. Prima del 1516: mei per miei, dece per dieci, forasteri per forestieri etc. alcune forme rimangono nelle prime due edizioni del poema, nell’ultima solo 3: prigionera, visera e destrero che saranno rimosse da Ruscelli dall’edizione ad opera del tipografo Valgrisi nel 1556. Machiavelli invece faceva appello alla propria padronanza linguistica. L’italiano come lingua popolare e pratica: sebbene diffuso l’analfabetismo, molti semicolti erano capaci di scrivere (quaderno di Maddalena, pizzicarola trasteverina) ma ovviamente con regionalismi e dialettismi. Bianconi prende in considerazione i carteggi di Carlo e Federico Borromeo conservati alla biblioteca Ambrosiana di Milano, si nota una lingua ricca di elementi dialettali, incapacità di governo della sintassi. Forme settentrionali: sonorizzazioni di occlusive sorde intervocalica, affricata palatale di CL- latino in G, sonorizzazione di C- iniziale, pronome “mi” per “io”, desinenze maschili in –e regolarizzate in –o ed –a per maschile e femminile. Non è sempre così basso il livello nelle lettere, Marazzini prende l’esempio di una lettera del 1599 di un capitano sabaudo che informa i superiori della diffusione della peste vicino Torino. Elementi locali attenuati perché doveva intrattenere relazioni d’ufficio, ci sono però ipercorrettismi. Documenti di uso popolare: diari, libri di famiglia, quaderni etc. Nelle dediche degli ex voto, come quello napoletano del 1596 presentato da Bianchi-De Blasi-Librandi. Mancata palatalizzazione della s, metatesi, dittongo metafonetico, dialettismi. Non solo i manoscritti sono esempi di italiano non letterario ma anche alcuni libri pubblicati, ad esempio di ricette mediche, ricettari, trattati vari in cui emerge una terminologia tecnica e settoriale estranea alle problematiche letterarie. Il ruolo delle accademie: L’accademia padovana degli Infiammati e Sperone Speroni: oltre a Benedetto Varchi, frequentata nel 1540 anche da Sperone Speroni, autore del dialogo “Delle lingue” del 1542. Immaginava fosse avvenuto a Bologna nel 1530, introduce Bembo che difende le proprie idee contro quelle cortigiane di Lazzaro Bonamico che difendeva il latino. Viene introdotto successivamente, con la tecnica delle scatole cinesi, un altro dialogo che esprime la posizione del filosofo aristotelico Pomponazzi secondo cui la filosofia doveva essere in volgare, con traduzioni e conseguente modernizzazione e democratizzazione della cultura. Latino e greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. Concezione utilitaristica, strumentale, democratica e anticlassicista. L’accademia fiorentina: nata nel 1541 dall’Accademia degli Umidi, dal 1542 è organismo ufficiale finanziato da Cosimo de’ Medici. Varchi, Gelli, Giambullari. L’accademia della Crusca e Salviati: fondata nel 1582. Inizialmente si dedicarono a “cicalate” ed orazioni scherzose. Nel 1583 si interessano di filologia grazie all’ingresso di Lionardo Salviati. Si fa conoscere per la polemica contro la “Gerusalemme liberata” di Tasso, a sostegno del primato di Ariosto. Salviati era conosciuto come autore degli “Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decameron” (1584-1586), libro filologico e grammaticale, successivo ad un intervento di censura del Decameron. L’operazione di censura morale viene detta “rassettatura”, commissionata dal granduca Francesco di Toscana per compiacere Sisto V, veniva dopo una già stata fatta dall’Accademia fiorentina. Venivano distinti nel Decameron forma e contenuti per “salvare” il libro di Boccaccio dall’oblio venivano solo eliminate parti ritenute inadeguate. Entrato nella Crusca, l’opera era già terminata. Attività filologica. 1590 delibera di correggere il testo della Commedia, vennero collezionati vari codici, confrontati con la stampa aldina del 1502 curata da Bembo. Nel 1595 uscì l’edizione della Commedia corretta dalla Crusca, importante non tanto per le correzioni quasi inutili dal punto di vista filologico, quanto per il recupero di Dante che era passato in secondo piano in base all’opinione di Bembo. La varietà della prosa: 31 Le traduzioni, la saggistica, la prosa tecnica: la diffusione così ampia del volgare ci porta ad analizzarlo in diversi ambiti. In architettura si affermò stabilmente l’italiano sia con nuove opere che con la traduzione dei classici. Il “De re aedificatoria” di Leon Battista Alberti viene tradotto da Cosimo Bartoli nel 1550. Importante la traduzione di Vitruvio di Cesare Cesariano nel ‘400, nelle forme tipiche della koinè settentrionale che quella del 1556 di Daniele Barbaro, amico di Speroni, Varchi, Bembo. Il testo di Cesariano è legato al latino nel lessico e nella sintassi, Barbaro si fa invece ai nuovi modelli trecenteschi. La trattatistica architettonica raggiunge una tale maturità e prestigio che termini italiani di questo ambito si impongono anche all’estero: balcone (balcon in sp. fr. E balcony), facciata (façade, fachada). Trattati poi di Sebastiano Serlio e di grandi maestri quali Palladio che pubblica un trattato nel 1570, e Iacopo Barozzi da Vignola nel 1562. Anche la trattatistica dell’arte, pittura e scultura, assume rilievo, dal 1550 al 1568 Vasari scrive le “Vite”. Autobiografia di Cellini, dettata ad un ragazzo, mescolanza di vicende personali e attinenti al mestiere artistico che rendono la lingua ricca di esempi del parlato. Importanti le traduzioni di Aristotele, la “Retorica” di Annibal Caro e poi di Piccolomini nel 1571, questi traduce anche la “Poetica”. I “Dialoghi” di Platone sono tradotti da Sebastiano Erizzo nel 1574. Per le scienze naturali continua ad essere tradotta l’opera di Plinio che già nel ‘400 era stata tradotta da Landino. Nel 1561 esce quella di Domenichi che traduce poi anche Plutarco e Polibio. Esigenza crescente di divulgazione. Nel 1582 viene pubblicato un compendio dei commentari di Cesare dove si legge che l’autore si voleva rivolgere agli uomini armati che però non sono soliti avere a che fare con la lettura di testi impegnativi e lunghi, sebbene il loro mestiere lo richiedesse. Michelangelo Florio traduce “De re metallica” di Agricola nel 1563, è un trattato di metallurgia, il pubblico a cui è destinato è quello a cui l’italiano è stato insegnato tramite la natura, la pratica, l’arte, non il linguaggio letterario. È ostile alla lingua letteraria ed accademica perché deve far uso di numerosi latinismi dei quali si scusava nella prefazione dicendo che erano dovuti alla mancanza dell’equivalente termine italiano. Particolare l’esperienza della traduzione degli “Annali” tra 1596 e 1600 ad opera di Bernardo Davanzati Bostichi che si preoccupa di trasportare in italiano la brevitas di Tacito. Voleva dimostrare la brevità, arguzia, fierezza dell’idioma fiorentino contro le accuse che il francese Henri Estienne aveva rivolto a Giorgio Dati, la cui traduzione non rendeva onore all’originale di Tacito. Davanzati si discosta dall’ipotassi boccacciana per avvicinarsi ad uno stile più semplice di autori minori, accoglie elementi del parlato. Riguardo alla traduzione di Tacito conta le parole delle versioni italiana, latina e francese. La francese risulta la più lunga e sottolinea il maggiore prestigio dell’italiano, le cui parole valgono più di quelle della lingua d’oltralpe. La maturità della prosa si riscontra anche nei saggi storici e politici. 1532 a Roma vengono stampati: “Vita di Castruccio Castracani” e “De principatibus” di Machiavelli. Machiavelli usa un linguaggio ricco di latinismi crudi, non con funzione nobilitante (es. etiam e tamen) che ricollegano la scrittura a quella delle cancellerie, accoglie tratti sociolinguisticamente bassi. I titoli nel manoscritto, non nell’edizione stampata, sono in latino. Altre opere: “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, “Istorie fiorentine”. L’opera di Guicciardini “Storia d’Italia” viene stampata nella metà del secolo, egli evita forme popolari. Il linguaggio scientifico: nell’ambito accademico e di ricerca di alto livello si usa ancora il latino. Pierandrea Mattioli scrive i “Commentarii” all’opera del greco Dioscoride. L’opera è in volgare perché ha valore pratico: classifica piante utili a scopi medici, è dunque una fusione di medicina e scienze naturali. La scelta del volgare per Galileo invece è altro tipo di esperienza, si pone in contrasto con l’ambiente accademico universitario, il contenuto non è più solo di tipo tecnico-pratico ma di speculazione teorica. Adotta il volgare pur sapendo che era svantaggioso per la diffusione all’estero della sua opera dato che la lingua comunemente conosciuta in Europa era il latino. La prosa di viaggio: “Navigazioni e viaggi” di Ramusio, raccolta di tutti in testi del genere al tempo disponibili, uscì tra 1550 e 1559. La letteratura di viaggio era molto propensa ad accogliere neologismi, forestierismi, legati alla descrizione di luoghi e nazioni esotici. Si sviluppano interessi linguistici specifici quando il viaggiatore si occupa degli 32
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved