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La Storia della Moda: Il Lusso, la Mode, la Borghesia - Prof. Fava, Appunti di Costume E Moda

Questo testo traccia la storia della moda dall'età medievale a oggi, dal ruolo simbolico che essa ha sempre avuto nella società fino all'affermazione della stampa di moda e alla produzione industriale. Vengono descritte le trasformazioni dell'abito come espressione di ruoli sociali e politici, l'influenza della borghesia e dell'aristocrazia, e la nascita di case di moda come chanel e dior.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 05/02/2024

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Scarica La Storia della Moda: Il Lusso, la Mode, la Borghesia - Prof. Fava e più Appunti in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! STORIA DELLA MODA - Enrica Morini IL LUSSO, LA MODA, LA BORGHESIA A partire dal medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo che ha utilizzato le trasformazioni dell’abito per definire il suo ruolo nella società ed identificarsi tramite esso (es il potere è stato da sempre manifestato attraverso l’uso di abiti specifici durante le cerimonie ufficiali). Soltanto a partire dal XIII \ XIV secolo l’abito si è staccato dalle rigide regole precedenti ed ha iniziato a rappresentare il ruolo sociale che il singolo decideva di attribuirsi sula base di quelli che erano i suoi gusti personali, pur tuttavia rimanendo il primo mezzo per rendere nota la propria ricchezza, almeno fino alla riforma protestante quando modestia e moderazione divennero le vere doti da dover comunicare attraverso l’abito. Fu necessario, soprattutto all’interno del contesto borghese, definire i confini culturali e morali all’interno dei quali l’abito potesse essere considerato segno di valori positivi e non di un mero consumismo: si ricerco una sobrietà programmatica sia dal punto di vista dei materiali (es sete sostituite con lane) sia dal punto di vista dei decori (ricami sostituiti con galloni applicati), che fosse rappresentativa sia dell’intelligenza e dell’impegno lavorativo che del benessere e della comodità, del rispetto del corpo. Se durante tutto l’ancien regime la competenza creativa era ritenuto un privilegio di coloro che avevano accesso al lusso, con la presa di potere della borghesia Ottocentesca nacque la figura delle “marchandes de mode” (nate dalla figura dei mercieres, aventi non solo il monopolio sulle stoffe più ricche ma anche la possibilità di vendere tutti i complementi decorativi necessari), la cui attività di compravendita attraversava tutte le fasi di produzione di un abito e soprattutto degli accessori ad esso abbinati. I modelli vestimentari settecenteschi - Robe à la française -> indossata con il panier, era composta da una sopravveste, una sottana e una pettorina solitamente decorata in maniera attenta e sfarzosa - Robe à l’anglaise -> corpetto attillato e gonna a pieghe abbondante su fianchi e dietro, per dar volume al capo senza dover ricorrere all’uso del panier, sostituito da imbottiture e rigonfiamenti. Quando al fine di aumentare ancor più il volume della gonna questa veniva sollevata con nastri, lacci e bottoni si iniziò a parlare di “robe à la polonaise”. La rielaborazione più diffusa di questa linea fu la redingote, derivata dal costume equestre, che per la prima volta introdusse nel guardaroba femminile alcuni elementi maschili (vedi doppiopetto, gilet, grandi bottoni, colletto rivoltato). - Grand habit -> abito di corte con strascico, corsetti steccati e paniere monumentali - Casaquin -> versione accorciata della robe à la française da indossare come corpetto con una gonna, principalmente volto all’uso domestico - Chemise à la reine -> abito bianco di mussolina dalla foggia oltremodo semplice, nata dalla tendenza in diffusione tra i giovani di prolungare il periodo in cui indossare gli abiti infantili fatti per l’appunto in mussolina o in lino. Non era nulla più di una camicia dritta con le maniche lunghe ed una fascia in vita, la cui scollatura era trattenuta da una coulisse ricoperta da un ampio colletto a doppia balza Si sottolinea come il compito della sarta fosse quello di creare la struttura di base dell’abito, mentre la modista si occupava di ottenere a partire da questa un’infinità di variazioni tramite la continua sostituzione della cosiddetta “garniture”. Ci si ispirava per lo più alle opere teatrali di successo o agli esotismi in voga al tempo, come ad esempio le turcherie o le cineserie, ma anche agli eventi politici che caratterizzarono l’epoca in questione. Rose Bertin Modista di Maria Antonietta, fu colei che nell’assecondare il continuo desiderio della regina di cambiare il proprio aspetto lanciò numerose delle mode in voga nel XVIII secolo. Inizialmente furono fiocchi e fiori a prendere il sopravvento ricoprendo praticamente la totalità della superficie dell’abito, per poi catapultarsi nella semplicità di uno stile più sobrio e naturale (vedi chemise à la Reine). Fu la stessa Rose Bertin a fabbricare l’abito viola dalle paillettes argento che accompagnò la regina all’ultima assemblea degli stati generali. Il suo enorme team di sarti e fornitori, le continue novità che giungevano nella sua bottega e la capacità di rendere unico ogni abito fecero di Bertin la più importante modista di tutto il Settecento. Ricordiamo tra tutte le sue creazioni i “pouf au sentiments”, monumenti da testa ispirati ai fatti di corte più significativi. La moda era in una posizione di servizio rispetto a quelli che erano i capricci del gusto di chi la indossava e la fantasia di chi la creava, caratteristica che le conferì un ritmo di cambiamento oltremodo rapido, delineando anche la figura di un professionista delegato non più alla costruzione sartoriale degli abiti, ma alla creatività: la moda stava sperimentando il passaggio dall’artigianato all’arte. La stampa di moda Se per lungo tempo la diffusione di nuove mode era dettata dal “viaggio” della poupée de mode, un prezioso manichino vestito con gli ultimi abiti in voga, fu dalla fine del Seicento che si diffuse la stampa di moda: dapprima le gazzette furono usate come le prime forme di pubblicità moderna, riportando illustrazioni utili anche ai fornitori, poi Esnaut e Rapilly pubblicarono alla fine del Settecento “La Galerie des modes”, una serie di fascicoli contenenti numerosissime tavole in cui venivano raffigurati non soltanto gli abiti, ma anche acconciature ed ornamenti. Venivano inoltre rappresentate le buone maniere, i gesti associati ai singoli abiti. A questa pubblicazione seguì quella di Prault, intitolata “Monument du Costume” che, ripercorrendo la storia di una giovane dama e un gentiluomo passava in rassegna la cultura dell’Ancien Regime. Degno di nota è anche “Le Journal des dames”, volto non solo alla diffusione di nozioni riguardanti la moda, ma anche all’educazione delle giovani dame volenterose di affinare i propri costumi (vedi corrispettivo The Lady’s Magazine in Inghilterra). La prima vera rivista femminile di moda fu “Cabinet des modes” che uscì a cavallo la tra rivoluzione e il periodo del Terrore. Non solo le immagini molto curate e il formato comodo ne aiutarono la diffusione, ma la periodicità della rivista era garantita. Gli articoli comprendevano notizie di moda e commenti di carattere estetico, ma anche informazioni relative alla cultura, alla letteratura e talvolta anche la politica, trasformando la comunicazione di moda in una sorta di strumento pubblicitario. L’APPARIRE RIVOLUZIONARIO Il 15 ottobre 1789 il codice di abbigliamento del marchese di Brézé che imponeva alle varie classi sociali un preciso modo di vestirsi venne abolito: fu proprio da questo atto che la codificazione dell’abbigliamento borghese iniziò a prendere piede, dando importanza più al significato politico dell’abito e al suo potere comunicativo che alla tradizione e al codice gerarchico che questo portava con sé. Il tricolore bianco, rosso e blu iniziò ad essere applicato su coccarde, tessuti, calzini e venne portato nelle piazze da coloro che non solo reggevano le bandiere ma che in qualche modo le “indossavano”. Uguaglianza Il principio filosofico dell’uguaglianza, pilastro portante della rivoluzione francese e dei suoi ideali, fu tra tutti quello che ebbe incidenza forse maggiore sul vestiario: poiché il privilegio gerarchico era rappresentato dal lusso, bisognava che quest’ultimo fosse eliminato per livellare tutti sullo stesso piano. Le fibbie delle scarpe furono sostituite con i lacci, i tessuti di seta vennero sostituiti da quelli in lana o in cotone e gli abiti lunghi furono sostituiti dal taglio corto “à la Romaine” o “à la Titus”: il nuovo modello dell’apparire era l’abito operaio e borghese. L’egualitarismo era, di base, un livellamento al basso. Le nuove uniformi maschili presero elementi non solo dalle divise di gusto inglese ma anche e soprattutto da quelle dei lavoratori, come ad esempio il sanculotto o la giacca corta. La moda femminile continuava invece a proporre la mise di derivazione popolare a cui venivano accoppiate fantasiose acconciature, la cui unica regola era quella di avere come denominatore comune la semplicità. L’abito femminile veniva portato in città, tra la folla e doveva non solo essere comodo ma anche rappresentare la quotidianità operosa ed impegnata delle donne che lo adottò la divisa della raffinatezza, semplice ed anonimata in bianco e nero, distinguendosi solo per piccoli particolari. L’abito femminile era invece più complesso: doveva comunicare le virtù della donna che lo indossava e non era volto tanto alla comodità quanto più all’estetica. La gonna tornò ad essere a campana grazie all’uso di una sovrastruttura, la postura del busto era garantita da un corsetto steccato e le maniche si arricchirono e si gonfiarono sempre di più (corpo a forma di tre triangolo, testa, busto e gonna). Tutto era volto ad amplificare la vanità femminile. Un’élite riconosciuta proponeva una novità, che si affermava prima nella società del “bene” e poi si estendeva agli strati sociali sottostanti. Proprio da questo punto partì la completa negazione dell’eleganza teorizzata da Balzac: agli abiti venne aggiunta una forte struttura simbolica che li impreziosiva e li rendeva unici e distinguibili, facendo ritorno agli abiti vistosi delle dame dell’Ancien Regime. L’ideale romantico si diffuse in tutti i campi e la nuova moda divenne quella di possedere il lusso di cui per tanto tempo si era stati privati, ispirandosi ai grandi oggetti di valore contenuti nei musei ed appartenenti ad un epoca e un lusso passati. Era l’epoca del revival e del kitsch come anche della copia. In parallelo il sistema capitalista stava procurando ai nuovi borghesi una ricchezza spropositata ed improvvisa che non diede loro il tempo di abituarvisi ed imparare a gestirla, ribaltando gli ideali sui quali questa nuova società sembrava inizialmente fondarsi. Si sviluppò anche un nuovo modo di vendere la merce: nacquero i “magasins de nouveautés”, negozi rinnovati nel decoro e nell’arredo dove la merce in vendita era esposta in vetrina, con prezzi annessi; la gente poteva così prenderne visione senza dover per forza fare un acquisto e questo era motivo di forte attrazione. Grande novità del momento fu l’introduzione delle confezioni: a partire dagli anni ’40 dell’800 infatti iniziò a diffondersi la moda pronta. I tessuti venivano tagliati e assemblati in grandi magazzini e successivamente le fasi finali della cucitura erano affidati a sarte a domicilio. Degna di nota fu la “robe de Paris”: 15 o 18 metri di stoffa venduti insieme alle relative istruzioni per l’assemblaggio che permettevano a qualsiasi donna in grado di cucire di realizzare da sé il proprio capo. A trasformare la moda nell’essenza del capitalismo fu l’apertura, a partire dal 1850, dei grandi magazzini. Le esposizioni universali infatti, indussero le grandi industrie non solo a mettere in mostra i propri prodotti ma anche a indurre i turisti a comprarli: questo richiedeva una produzione in serie efficace e capace di offrire costanti novità. Ad adescare la clientela erano senza dubbio le vetrine, da cui si potevano intravedere gli interessanti allestimenti mensili dedicati all’articolo della stagione: le signore erano così richiamate ad entrare per acquistare non solo ciò di cui necessitavano, ma anche qualcosa in più, invogliate dalla possibilità di restituire la merce nel caso in cui non le avesse aggradate. A tutto ciò si aggiungeva la pubblicità, che dalla seconda metà dell’800 utilizzava i mezzi più disparati: sicuramente tra tutti i cataloghi pubblicati dai grandi magazzini con cadenza stagionale riscossero grande successo. Essi infatti ben presto cominciarono a presentare le merci mediante disegni litografati, realizzati da professionisti specifici provenienti dal mondo delle arti. Ricordiamo tra tutti le sorelle Colin, Garvani e Jules David che erano in grado di tradurre in imagini non solo il gusto, ma anche gli ideali di bellezza e lusso e il contesto adeguato in cui indossare un abito specifico. Tuttavia alle signore continuava ad essere richiesta l’abilità di saper combinare le parti del suo vestiario in un insieme capace di comunicare significati più profondi, senza limitarsi a seguire le mode che sembravano all’epoca susseguirsi senza veri e propri centri di emanazione. Fu così che nacquero delle figure fiduciarie che, intendendosi di abbigliamento, potevano guidare nella scelta all’interno delle impersonali vetrine: tra tutti ricordiamo Charles Frederick Worth. CHARLES FREDERICK WORTH C.F. Worth nacque in Inghilterra nel 1825. Proprio a Worth sono da attribuire alcune tra le più grandi innovazioni del secolo: egli infatti non solo presentava i capi utilizzando come modella una commessa del reparto ed invogliando così le ricche signore a comprare, ma confezionava anche abiti pronti su misura realizzati secondo suo gusto. Proprio da questa novità che prevedeva che fosse un couturier ad occuparsi dell’immagine delle ricche signore realizzando per loro abiti alla moda nacque l’haute couture. Sicuramente è da ricordare in quale tipologia di clientela si posizionasse il lavoro di Worth: il colpo di stato del 1851 aveva infatti trasformato un socialista in imperatore, generando una società affamata di ricchezza e lusso, caratteristiche che si rispecchiavano nei metraggi di tessuto necessari per la realizzazione degli abiti femminili. Tuttavia il gusto di Worth era differente dagli eccessi delle sarte di lusso: egli prediligeva abiti in cui forma e tessuto erano strettamente collegati al taglio, che ne forniva la forma perfetta. Per poter fare del suo gusto una moda, Worth necessitava però di raggiungere la coorte dell’imperatrice, obbiettivo che realizzò nel 1860. Da questo momento egli cominciò ad apportare i primi cambiamenti alla foggia dell’abito femminile: sostituì gli avvolgenti scialli dell’epoca con un piccolo coprispalle in merletto ed introdusse dei cappelli che lasciassero intravedere l’acconciatura. Le proposte più innovative, tuttavia, riguardavano in particolar modo le gonne: egli intervenne infatti sulla forma della crinolina, che ridusse drasticamente sul davanti spostando l’ampiezza sul retro, a ricordare uno strascico. Introdusse poi una sopragonna al ginocchio, chiamata tunica, che si impose grazie ai suoi particolari drappeggi e colori come elemento decorativo. Altra invenzione di Worth fu la “tournure”, sellino di crine rigido posto a sostegno della parte alta del retro della gonna che generava forme decorative sempre più complesse. In seguito alla guerra prussiana e all’esperienza della Comune la borghesia chiedeva nuove forme di lusso in stile revival per esibire il proprio denaro e la continuità con le immagini grandiose dell’antica aristocrazia: il passato divenne sempre più di moda. Il passaggio fra il Secondo impero e la Terza Repubblica fu segnato dalla riduzione del diametro delle gonne in favore di drappeggi e decorazioni: il busto venne ridotto con effetto di vira alta per concentrare l’attenzione su gonna e tunica. Nello stesso periodo Worth introdusse anche un abito totalmente nuovo che rompeva la continuità con il passato: nacque così il modello “princess”, costituito da un unico pezzo strutturato in maniera tale da seguire le forme del corpo. Proprio da questo nacque una nuova moda: quella del busto steccato e modellato fino ai fianchi, come a formare una corazza, abbinato ad una tunica aperta al centro i cui lembi si allungavano sul retro a formare uno strascico. Anche la “tournure” venne eliminata a favore di una linea sottile ed aderente. Worth stava così facendo emergere la figura della “femme fatale”, donna forte nata per distruggere l’oppressione maschile ma al contempo prigioniera del suo strumento di guerra e seduzione: l’abito. Da ricordare comunque la ricchezza degli abiti di Worth, vistosi e sfarzosamente decorati, capaci di distinguersi dalle riproduzioni sempre più frequenti proposte da altri sarti o artisti. Venne introdotto il modello prototipo: la forma degli abiti rimaneva la medesima e a cambiare rendendoli unici erano colore e decorazioni. Ad assicurare l’autenticità degli abiti era l’etichetta cucita internamente, elemento che agli stessi donava un enorme valore. Degne di nota sono le fonti di ispirazione che Worth utilizzava per le decorazioni dei suoi abiti: egli attingeva infatti dal patrimonio artistico passato, specialmente dal ‘700, per emularne i particolari sartoriali e gli accessori: non a caso ben presto la linea verticale e attillata sparì a favore del ritorno delle gonne ampliate posteriormente. Furono gli anni ’90 a segnare i veri cambiamenti nel gusto della Maison Worth: non solo comparvero le prime decorazioni in stile giappo, ricche di fiori, ma iniziò ad essere introdotto anche lo stile “Art Nouveau”. La figura femminile assunse un andamento verticale, sdoganando dal confine delle mura domestiche gli abiti più semplici e leggeri. La gonna a campana, priva delle pesante decorazioni che vi si applicavano, era abbinata ad un corsetto steccato: elemento di decoro e di volume erano le maniche “à gigot”, che ne controbilanciavano la linearità e al contempo offrivano un revival degli anni passati. Le donne che si recavano alla Maison Worth volevano chiedere l’idea del couturier, affidandosi completamente a lui con fiducia e lasciandolo eseguire la sua arte: egli infatti non produceva tendenze gerarchiche ma creazioni esclusive, cariche non solo di una perfezione sartoriale ma anche di arte ed intellettualità. Se inizialmente Worth cercò di tenere i suoi abiti lontani dalle pubblicazioni sulle riviste per paura che potessero essere copiati, furono “L’art et la mode” e “Harper’s Bazar” a rendere il suo successo mondiale e a portare i suoi abiti anche in America. ANTIMODE E ABITI D’ARTISTA Ben presto artisti ed intellettuali cercano di porre un freno all’estetica dell’effimero e del lusso, apponendo una critica in particolar modo alla moda femminile: essa era giudicata come troppo artefatta e artificiale, oltre che poco pratica a causa delle pesanti ed eccessive decorazioni. Prima tra tutte a creare un movimento basato sulle idee di temperanza fu Amelia Bloomer: subito il suo portare pantaloni alla turca in vista generò grande scandalo in quanto erano ritenuti una minaccia alla supremazia maschile. La promozione di un abbigliamento più pratico ed igienico, tuttavia, non si limitò a questo episodio: ricordiamo ad esempio “The rational dress society” o i gruppi femministi in Germania che, affiancati dai medici, combatterono per la rimozione del corsetto dal vestiario femminile in quanto non solo poco pratico ma anche gravoso per la salute. I preraffaelliti Filone di matrice sicuramente estetica fu quello dei preraffaelliti, che crearono abiti femminili adatti al loro tipo di pittura. Abbandonati busto e crinolina, essi promuovevano l’utilizzo di abiti morbidi e di modelli “medievali”, più comodi e pratici. Essi proponevano inoltre il ritorno alle arti manuali e l’abbandono dell’omologato sistema capitalistico. La ricerca di un nuovo canone cui ispirare l’abbigliamento femminile ben presto si intrecciò con la scoperta della cultura giapponese: proprio la vendita di sete e tessuti orientali segnò il successo del magazzino Liberty’s. Il Kunstlerkleid - artisti della secessione Il vestito riformato divenne ben presto il simbolo di tutti i rappresentanti di quei movimenti volti alla riforma del modello culturale borghese: i nuovi indumenti erano non solo più colti e raffinati, ma erano volti a rispettare la bellezza e le forme naturali del corpo. Per la prima volta nel 1900 in Germania abiti d’artista vennero esposti in un museo, sancendo un importante passo: la moda era infatti finalmente considerata al pari dell’arte. Tra tutti gli artisti della Secessione che proposero un vestiario rinnovato è sicuramente da ricordare Klimt: egli infatti disegnò modelli ispirati alle tradizioni orientali, morbidi e privi di qualsiasi tipo di costrizione. Proprio l’esperienza viennese arriverà, in un secondo momento, a modificare la moda parigina. L’abito alla greca A partire dal 1890 si iniziò a promuovere un modo di vestire che conciliasse l’estetica alla salute: fu così che iniziò ad essere promossa l’idea del ritorno all’abito delle origini, quello della società greca recentemente riscoperta. Sicuramente degno di nota in questo campo fu il veneziano Mariano Fortuny: egli reinventò il modello del chitone traducendolo in una tunica chiamata “delphos” e con la sciarpa “cnossos” fece un grande tributo alla civiltà minoica. La sua ricerca intorno al tema Reform si estese poi ai sistemi di taglio e tintura orientali, creando dei capi dal grande peso artigianale e manifatturiero che cercassero di soddisfare l’equazione corpo- donna- movimento- bellezza e di sostituire definitivamente l’abito con il busto e le sottogonne. I futuristi L’opposizione più dura al modello culturale borghese era senza dubbio quella fornita dalle avanguardie: i miti futuristi infatti professavano una rottura totale con le mode revival del secolo precedente e proponevano una nuova forma estetica dirompente. I futuristi si concentrarono soprattutto sugli indumenti maschili, che vennero riproposti colorati, asimmetrici e ricchi di fantasie disparate. Ricordiamo, ad esempio, il guardaroba di Balla, in cui forme e ritmi cromatici suggerivano effetti dinamici adeguandosi al mondo del futuro, che doveva coinvolgere tutta la società. Vennero inoltre introdotti i “modificanti”: elementi geometrici di tessuto di forme e colori differenti, applicabili a piacere sui singoli capi. Ad “assemblage” erano anche i gilet progettati dallo stesso Balla e da Depero. I futuristi invece non si impegnarono particolarmente nel rinnovo della moda femminile, già ritenuta abbastanza innovativa. Se nel dopoguerra, grazie all’ispirazione trovata in Marocco, sembrava essersi risollevato, ben presto si trovò costretto ad interfacciarsi con una nuova realtà: l’America aveva ormai invaso l’Europa e dunque i suoi abiti appartenevano ad una società ormai inesistente. COCO CHANEL Sicuramente per parlare della rivoluzione di Coco Chanel è necessario collegare le sue innovazioni dal punto di vista sartoriale alla sua vita privata: passò infatti la sua vita impegnandosi in una battaglia contro il mondo. Le sue mode non furono altro che i travestimenti da lei sfruttati per la costruzione del proprio personaggio e della sua autobiografia, che conservò ben poco di quella reale: voleva essere il modello ideale della donna libera ed emancipata. Dopo essere cresciuta in un orfanotrofio a causa della morte della madre e dell’abbandono del padre, ebbe il suo primo approccio nel mondo della moda all’interno di un’azienda di intimo e maglieria, dove apprese le piccole riparazioni che le consentirono, qualche anno dopo, di mettersi in proprio assieme alla zia coetanea. Fece il suo debutto in società a Moulins, dove da subito si distinse per il proprio gusto: quello della semplicità, della linearità e del rigore a tratti mascolino. Gli anni in cui cominciò ad elaborare un suo modo di concepire l’abbigliamento furono quelli con il compagno Balsan: avvicinatasi alla vita nelle scuderie infatti comprese che l’identità sociale aveva bisogno di un abito adeguato e da qui nacque la sua attrazione verso le uniformi. Chanel, ormai conosciuta con il soprannome di Coco, viene in questi anni rappresentata a cavallo vestita da uomo con giacca e cravatta. Nella creazione del suo stile un ruolo fondamentale fu quello che ebbero i cappelli: ella infatti li modificava rendendoli essenziali ed andando cioè ad eliminarne gli elementi decorativi pesanti e superflui. L’uomo fondamentale della sua vita fu un altro compagno, Arthur Capel: fu lui infatti a darle l’aiuto economico necessario per aprire la prima sede del suo laboratorio sartoriale, sempre incentrato sulla produzione di copricapi. Nel 1913 a Deauville fu aperta la prima boutique Chanel: qui Coco iniziò a produrre i suoi abiti ispirandosi a ciò che vedeva nella cittadina di mare in cui si trovava, ovvero capi di maglia dritti e comodi che sembravano conservare ben poco della matrice cittadina tanto in voga in quegli anni. Le gonne dritte, le giacche alla marinara, i sandali dal tacco basso e le camicette di Chanel conobbero il primo grande momento di successo durante la guerra, quando le ricche signore trovarono proprio nella cittadina di Deauville un luogo sicuro e lontano dalla violenza e dalla distruzione. La vita a partire dagli anni ’10 del ‘900 si riorganizzò attorno alle donne, che necessitavano di abiti comodi adatti al lavoro e a questo nuovo stile di vita. In seguito al successo di Deauville, Chanel aprì una nuova boutique nella cittadina di Biarritz, al confine con la Spagna: qui presentò la sua nuova collezione fatta di abiti in jersey, una maglia a filo continuo dal costo piuttosto basso. Un materiale tanto sobrio era il perfetto modello di eleganza: le difficoltà nel cucirlo infatti portarono all’inevitabile eliminazione di tutti quegli elementi decorativi non necessari e alla ricerca di una semplicità assoluta. Gli abiti di Chanel, che non stringevano il corpo e terminavano alla caviglia, avevano il compito di rendere le donne autonome: la loro eleganza veniva dalla funzionalità dei loro abiti e dall’adeguatezza alla situazione in cui si trovavano. Nel 1916 Chanel produsse il suo primo completo, composto da una gonna a pieghe accorciata al polpaccio accoppiata con un blazer a quattro tasche, palesemente ispirato ad una divisa militare. Fu la fine della guerra a segnare un arricchimento della sua produzione: iniziò ad utilizzare materiali quali il raso, il velluto, lo chiffon e il pizzo Chantilly ed adeguò le decorazioni degli abiti al ritmo di vita più euforico e festoso del periodo. Negli anni ’20 Chanel iniziò la propria collaborazione con il teatro: ricordiamo in modo particolare gli abiti sportivi che realizzò per l’opera “Le train bleu”, ambientata in Costa Azzurra. I costumi che realizzò non erano altro che veri indumenti sportivi ispirati a casi reali: ne conservavano non solo la semplicità ma anche la funzionalità, al fine di rendere evidente l’identità di chi li indossava sin dal primo sguardo. Il grande successo di Chanel sicuramente dipese anche dalla collaborazione con Beaux: con lui infatti realizzò il suo profumo N.5, dalla fragranza tanto gradevole quanto artificiale, che presentò al pubblico con la stessa forza di una creazione astratta. Nello stesso periodo, probabilmente in seguito ai contatti con la cultura russa, Chanel propose dei nuovi decori sui propri abiti: si trattava di motivi geometrici o figure fantastiche provenienti dalla cultura popolare, che riuscì a tradurre in un linguaggio che aggradò molto le ricche signore dell’alta società. Era riuscita alla perfezione nel suo intento di “rendere la povertà di lusso”. Il 1926 è sicuramente da considerarsi anno simbolo per la Maison: venne infatti lanciato l’abito nero a tubino, che solo cambiando gli accessori che gli si abbinavano diveniva perfetto per ogni occasione. Fu proprio questo a diventare l’abito simbolo dell’età moderna. Negli anni successivi la ricerca di Chanel si concentrò sul tailleur e sull’abbigliamento informale, per i quali prese ispirazione anche dal vestiario dell’aristocrazia inglese: propose completi formati da una giacca dritta di modello maschile, una gonna tubolare e una blusa abbinata. I nuovi indumenti da donna necessitavano infatti di rispondere alla filosofia vestimentiaria di quelli da uomo: comodità, semplicità, tessuti morbidi e semplici da indossare e stile impeccabile. Ad abiti sempre più minimal iniziarono ad essere abbinati gioielli vistosi: questi servivano a decorare l’abito rendendolo più femminile ma soprattutto a personalizzarlo. Chanel si distinse in maniera particolare per la produzione di gioielli falsi, volutamente di grandezze esagerate: il bijoux non doveva essere infatti motivo di invidia o di vanto, bensì di stupore. Da ricordare infatti Fulco, a cui era stato affidato il laboratorio dei gioielli, che s’ispirò e talvolta addirittura copiò pezzi di lusso appartenenti ad epoche differenti. Al termine degli anni ’20 poteva dirsi raggiunto lo stile Chanel: abiti dritti e semplici abbinati a giacche stile uniformi, il tutto prodotto con materiali comodi e poco costosi dai colori neutri. Coco infatti professava una parità di genere che nella sua ottica si sarebbe raggiunta soltanto se fosse diventato socialmente accettato il fatto che le donne avessero comportamenti ed abiti simili agli uomini. Il suo lavoro fu per questo costantemente incentrato sui principi di funzionalità dell’abito: Chanel inventò l’uniforme femminile, priva degli abbellimenti e delle variazioni della “moda antica”, ma anzi caratterizzata da una certa austerità. La distinzione del singolo individuo non doveva stare nell’abito in sè ma nel modo in cui questo era portato. Tuttavia negli anni ’30, quando Coco debuttò nella Hollywood del cinema, apprese che la nuova donna che stava nascendo negli Stati Uniti era diversa da quella che lei aveva vestito fino a quel momento: si trattava di una figura tanto emancipata da poter recuperare i mezzi di seduzione e la frivolezza del passato, di una donna che ostentava in ogni maniera possibile la sua femminilità. Il 1936 fu l’anno della rottura: esso portò miseria e disoccupazione e la stessa Coco Chanel ne risentì, dovendosi per altro confrontare con le nascenti Maison di Schiapparelli e Vionnet, tant’è che nel 1939 chiuse la propria. Nel 1954 decise di provare a rilanciarsi ma senza cambiare il suo stile, bensì rafforzandolo: fu questo il momento in cui lanciò il tailleur in tweed, che diverrà uno dei suoi pezzi iconici. Si trattava infatti di un completo in grado di riassumere alla perfezione la sua estetica e la sua filosofia, essendo composto di pochi pezzi in perfetta armonia. Si può dire, per concludere l’analisi del suo operato, che il lavoro di Chanel non sia stato altro che la continua ricerca della perfezione a partire da uno stesso modello che veniva via via reso sempre migliore. MADELEINE VIONNET Nel momento in cui corpo e abito erano diventati il centro di un dibattito di portata tale da trasformare culturalmente tutta l’Europa, si inserì nella scena della moda dell’epoca Madeleine Vionnet. Nel 1912 aprì il suo primo atelier a Parigi: iniziò così la storia di un gruppo di donne imprenditrici che volevano rappresentare non solo la bellezza del proprio genere, ma anche le capacità pratiche e creative, estremizzando la propria emancipazione senza tuttavia forzarla. Vionnet era interessata alla semplicità della struttura sartoriale e in particolare all’adattamento della sua manica agli indumenti occidentali. Tra le innovazioni che portò sicuramente è da ricordare l’abito in sbieco, che studiò a lungo e realizzò in diverse versioni: la sua ricerca fu sempre sviluppata attorno al concetto di equilibrio e alla necessità di trovare un rapporto armonico tra la misura dell’uomo e le fattezze dell’abito. L’origine della sua ispirazione è sicuramente da collocarsi nel mondo classico greco: Madeleine lavorava infatti sul tessuto senza tagliarlo e drappeggiandolo in maniera tale da fargli seguire autonomamente le fattezze corporee. Non a caso il logo della griffe era una colonna ionica sormontata da un tondo che incornicia una figuretta che sostiene il proprio abito con le mani. Tornando al taglio in sbieco è da ricordare che questo prevedesse l’uso della stoffa in obliquo che, seguendo linee geometriche ben precise, faceva si che il tessuto si posasse sul corpo in maniera del tutto naturale e morbida. Era proprio questo particolare taglio a deformare le stoffe rendendole aderenti solo per effetto del loro stesso peso. Ella professava infatti che sia la materia tessile che il corpo venissero “liberati”, ovvero valorizzati al massimo delle loro potenzialità espressive. La chiave segreta dei suoi modelli stava proprio nella geometria: le spalle in particolare diventarono il supporto di una serie di elementi dritti che si articolavano attorno al corpo in modo dinamico. In particolare la simmetria statica negli abiti era rappresentata dalle figure regolari, mentre la simmetria dinamica si articolava su rapporti proporzionali espressi da numeri irrazionali. I suoi abiti, tuttavia, non venivano progettati tramite un disegno in piano, bensì direttamente lavorando su un piccolo manichino in legno. Questo, tuttavia, era un manichino d’artista: non rappresentava un corpo realistico bensì ideale, dallo schema proporzionale perfetto, secondo quelle che erano le dimensioni individuate da Le Corbusier. Anche nelle decorazioni degli abiti si ritrovavano le strutture proporzionali della pittura greca, che veniva emulata per mezzo del ricamo. Possiamo riassumere il lavoro e la ricerca di Vionnet con pochi semplici termini: diagonale, figure geometriche, sezione aurea e spirale logaritmica, elementi che componeva e scomponeva di continuo nella realizzazione delle sue opere. Il metodo Vionnet diventò di moda proprio perchè era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in una serie di forme precostruite dal taglio. Tra le rivoluzioni di Vionnet è da ricordarsi anche quella in merito all’ambiente lavorativo della sua Maison: era dotata di nursery, mensa, infermeria e casa di soccorso ma, novità assoluta, le ferie erano pagate. Istituì anche un corso dalla durata triennale per giovani apprendiste incentrato per lo più sull’uso dello sbieco negli abiti. Altra battaglia che riuscì a vincere ci fu quella sul copyright: per la prima volta venne stipulato un modo ufficiale per riconoscere un abito originale, basato sulla corretta lettura del numero di serie e della sigla imposte sulle etichette. Per provare a posizionarsi anche nel mercato del ready-to-wear, Madeleine Vionnet propose degli abiti taglia unica e una collezione di moda pronta realizzata soltanto in tre taglie, ma nessuna di queste ebbe grande successo poichè il suo lavoro era ancora troppo legato all’haute-couture. Grande svolta nella produzione fu segnata, nel 1934, dall’introduzione di gonne ampie, ispirate al Romanticismo Ottocentesco ma contemporanee al nuovo lusso hollywoodiano che andava via via diffondendosi: il successo della Maison sembrava essere intramontabile. Ben presto però la Maison venne messa in liquidazione e tutti i capi e gli arredi venduti all’asta. ELSA SCHIAPPARELLI Elsa Schiapparelli fu senza dubbio una delle figure che rivoluzionarono la moda del ‘900. A contatto prima con gli artisti dada e i fotografi di avanguardia di New York e in seguito con il clima culturale vivace della Parigi del dopoguerra, Schiapparelli concepì un nuovo modo di fare moda. Sicuramente colore e ricamo furono sempre tra i segni distintivi delle sue creazioni: da ricordare infatti che la sua passione per la creazione di abiti nacque dall’osservazione del lavoro di Poiret. Elsa Schiapparelli iniziò il suo percorso lavorativo dedicandosi ad abiti sportivi: negli anni ’20 la cultura del corpo e del fisico erano infatti una moda diffusa, soprattutto tra le donne che potevano finalmente praticare sport riservati, nel passato, soltanto agli uomini. Nacque in questo contesto la prima collezione, incentrata sulla maglieria dai colori più diversi ed accesi: era il 1927 e Schiapparelli presentava cardigan abbinati a gonne ma anche a calze e sciarpe. In particolare a conferire grande successo a questa collezione fu il golf: venuta a contatto con delle artigiane armene, l’artista rimase oltremodo stupita dal particolare punto a maglia a due fili di lana che queste utilizzavano nella creazione di maglieria. Utilizzando due fili di colore diverso era possibile ottenere giocosi effetti di disegno: immediata fu in questo caso l’idea del trompe l’oeil, da cui nacque l’iconico golf con il primitivo disegno di un fiocco sul collo, che in seguito si evolse in forma di cravatta, foulard, ecc… Gli abiti di Elsa Schiapparelli presentavano forme semplici, comode nei movimenti, ma al contempo erano accuratamente decorati con immagini e scritte, che cominciarono via via ad essere sempre più provocatorie. Fare un abito era infatti solo tecnicamente un problema di sartoria, ma in realtà era un modo per intervenire sulla cultura estetica di un determinato periodo: si poneva cioè come strumento di comunicazione interpersonale. Le linee delle collezioni presentate tra il 1948 e il 1949 erano definite con termini di tipo grafico e dinamico (es “zig zag”): volevano esprimere l’effetto che l’abito sviluppava attraverso il movimento. Le linee costruttive di fine Ottocento furono rese asimmetriche e tramite effetti di sovrapposizioni geometriche acquistarono dinamicità: ad esempio la tunica di Worth si trasformò in un gioco di sovrapposizioni a zigzag, la linea princess invece si articolava con abbottonature o spacchi diagonali. L’apoteosi del modello Dior fu presentata con la collezione “Milieu de siècle” per l’autunno- inverno del ’49-’50: i tessuti venivano alternati per ottenere effetti asimmetrici negli abiti da giorno, mentre gli abiti da sera erano realizzati in tulle alternato a satin a formare gonne con strascico e paillettes, finemente decorati come quelli delle antiche dame nei balli a coorte. Gli abiti di Dior potevano infatti servire solo alla “bella vita” della Cafè Society, le cui ricche donne non si sottrassero all’influenza del nuovo couturier. Sebbene negli Stati Uniti si fosse formato un club di donne contrarie al New Look quando Dior fece il suo viaggio a New York per promuovere la sua collezione tutti i grandi magazzini sembravano improvvisamente interessati a vendere le sue collezioni che per altro, del 1948, cercarono di proporre una maggiore comodità tramite la morbidezza e l’ampiezza degli abiti. Per arginare il mercato delle copie e favorire i venditori accreditati, che ormai erano sempre di più, si decise di vendere i modelli degli abiti delle collezioni o in tela oppure in carta, lasciando la scelta dei materiali ai fabbricanti. Ormai diventato un genio nella comunicazione, Dior decise di sviluppare ognuna delle sue collezioni a partire da due temi principali, riassunti per altro nel nome dato alla stessa e solitamente in grado di suggerire qualcosa sulle forme delle nuove proposte. La sfilata era successivamente preparata con metodo teatrale. L’apogeo del New Look fu da collocarsi nella “Ligne Muguet”, per poi essere accantonato a partire dalla linea H, linea immediatamente successiva che proponeva un allungamento e assottigliamento del busto e un ritorno alla ricerca della verticalità. Quando il 27 ottobre del 1957 Dior morì in maniera del tutto improvvisa l’immagine del brand si legò ad Yves Saint Laurent, che divenne il nuovo direttore creativo della Maison: egli presentò la sua prima collezione agli inizi del ’58, lasciandosi trasportare dalla purezza e dalla costruzione del trapezio e richiamando le gonne a cupola o a palloncino caratteristiche della Maison. LA MODA ITALIANA La moda italiana nacque nel secondo dopoguerra; fino a qualche tempo prima, infatti, la produzione locale si concentrava in sartorie dove venivano emulati i modelli parigini. Il processo di rinnovamento dell’industria di moda fu sicuramente favorito dagli aiuti che arrivarono dagli Stati Uniti: con il piano Marshall del 1947 infatti l’America assunse il ruolo di modello per modernizzare un sistema che era in parte di matrice ottocentesca, in parte ancora più antico ma che comunque nascondeva in sè un grande potenziale. Tra le sartorie e i laboratori artigianali si distinsero da subito le Sorelle Fontana, Simonetta, Capucci e Salvatore Ferragamo. Tuttavia il ricorso a fonti creative eterogenee e l’acquisto di schizzi da disegnatori occasionali fecero si che le prime collezioni fossero scarsamente caratterizzate: nacquero così i primi contratti di esclusiva che legarono alcuni designer a una singola casa di moda, così da favorire la definizione di un’identità di stile precisa. Nel 1952 Vogue Usa individuò tra i punti di forza della moda italiana le proposte di abiti comodi e sportivi, la produzione di tessuti e la realizzazione di abiti da sera. Accanto ad aziende già avviate all’esportazione come Ferragamo e Gucci andarono via via nascendo nuove e singolari collaborazioni tra l’antica nobiltà e gli artigiani specializzati rimasti in possesso di piccole botteghe. Il caso di Emilio Pucci fu tra tutti il più singolare: egli diede il via alla sua produzione con l’aiuto di alcuni artigiani di Capri per poi riuscire ad elaborare un vero e proprio stile per lo sportswear, composto da capi semplici e facilmente riproducibili caratterizzati, oltre che da una fattura sartoriale, da grande fantasia nel colore. La nascita della moda italiana fu un’operazione di carattere culturale che consistette nell’utilizzare competenze artigianali sia blasonate che popolari, al fine di inventare un prodotto che non avesse caratteristiche etniche o di facile folklore ma che contenesse un’idea distillata di Italia. Questo tipo di abbigliamento aveva le caratteristiche perfette per essere portato in situazioni sportive o vacanziere e al contempo conteneva le tradizioni artigianali e di gusto di un paese antico e delle sue contrade. La stoffa era l’unica merce del settore moda che vedeva alle sue spalle una produzione industriale: seta, cotone, lana ma anche artificiali e sintetici infatti erano fortemente stati sostenuti nella loro realizzazione dal fascismo, che aveva finanziato le grandi fabbriche. In particolare ricordiamo l’azienda SNIA Viscosa per aver portato, sotto la direzione di Marinotti, una grande innovazione: per il pubblico internazionale che si recava a Venezia in occasione delle Biennali furono infatti organizzate le prime sfilate di moda, che nella sua ottica erano il migliore veicolo promozionale dei nuovi tessuti artificiali. A partire dal 1953 iniziarono a nascere accordi privilegiati che associavano ogni casa di moda ad una specifica industria tessile: i sarti potevano così lavorare con materiali esclusivi di primissima qualità. A mettere in relazione in maniera professionale ed organizzata la moda italiana con il mercato americano fu Giovanni Battista Giorgini, che nel 1950 intuì la necessità di investire sull’abbigliamento italiano come settore adatto all’esportazione e nel 1951 organizzò la prima manifestazione internazionale di moda italiana dove alta moda e boutique sfilarono in fronte a buyer e giornalisti. Il 22 luglio 1952 si svolse la prima sfilata nella sala bianca di Palazzo Pitti, che divenne la sede ufficiale della passerella Made in Italy, anche se ben presto dovette scontrarsi con lo scenario della capitale. Nacque in questo contesto una nuova generazione di fotografi, che si impegnò a diffondere tramite testate giornalistiche le nuove proposte mediante l’aiuto di modelle professioniste. Sicuramente la forma di comunicazione che diede la spinta più grande alla moda italiana fu il cinema: nell’immediato dopoguerra fu infatti rimessa in funzione Cinecittà. Le Sorelle Fontana nello specifico vestirono le grandi stelle nascenti del cinema italiano e non, comparendo loro stesse come personaggi dei film in cui si trattava di moda italiana. PRÊT À PORTER Dopo la fine della guerra il vecchio continente cominciò a guardare agli Stati Uniti come a un modello su cui plasmare il proprio futuro: anche la moda risentì di questo clima, avvicinandosi sempre più al prodotto ready-to-wear. Non si trattava della confezione che si conosceva in Europa, limitata o alle fasce alte o a quelle basse, bensì si trattava di un vero e proprio sistema moda, articolato in una gamma di offerte estremamente ricca e di alta qualità. La strada più rigorosamente industriale fu adottata dalla Francia, probabilmente in risposta alla messa in crisi del bon ton avvenuta con l’introduzione dell’abbigliamento informale. A partire dal 1948 Robert Weill intervenne sulla percezione che il popolo francese aveva sulla moda pronta cambiandogli il nome: venne introdotto il termine “pret à porter” per indicare quella produzione industriale di alta qualità proposta in sostituzione al “fatto su misura”. Ricordiamo il marchio Trois Hirondelles, gruppo industriale che a partire dagli anni ’50 si occupò di moda pronta di qualità. Nacque in un simile contesto il ruolo di fashion director, colui che si occupava di visionare le collezioni di confezione e di haute couture per trarvi la perfetta sintesi da proporre all’interno dei grandi magazzini dove sempre più donne si recavano ad acquistare. Dior fu la prima Maison a proporre un linea di pret à porter di lusso dedicata al pubblico statunitense e furono numerosi i brand che, soprattutto a partire dagli anni ’60, introdussero la loro linea di moda pronta firmata haute couture. In Italia al contrario la produzione di abiti in serie era priva di una tradizione. I primi passi nel settore furono mossi solo a partire dagli anni ’50, all’interno di alcune aziende tessili come la Marzotto o il Gruppo Finanziario Tessile, che si concentrarono principalmente sull’abbigliamento maschile. Ricordiamo, invece, in campo femminile brand come Max Mara. Dopo meno di un decennio l’industria italiana della moda pronta non era distante dall’essere una realtà concreta e perciò necessitava strumenti organizzativi e commerciali nuovi attorno a cui svilupparsi. Nel 1955 fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone mercato internazionale dell’abbigliamento, che puntavano alle vendite di moda sia sul mercato interno che su quello estero. Tuttavia si rese ben presto necessario adottare nuove strategie di coordinamento tra creazione, produzione e distribuzione: fu il Comitato moda ad occuparsi di mettere in circolo novità, anche se almeno per un decennio continuò ad essere forte la dipendenza creativa dall’haute couture, di cui si continuavano a riproporre i modelli con sfasamento di circa un anno. A rinnovare la comunicazione nel settore ricordiamo riviste come “Grazia”,o testate come “Linea” e “Bellezza”. Fu Max Mara il primo brand, a partire dal 1965, di servirsi abitualmente di stilisti per rinnovare la propria immagine e rendersi portatore di novità. Nel 1969, a Torino, si tenne la prima edizione di Modaselezione, all’interno della quale aderirono grandi firme: tra tutte degna di nota fu sicuramente Cinzia Ruggeri. A causa della crisi economica e della tendenza da parte dei giovani di vestirsi in modo informale e sempre più economico, il sistema dell’haute couture cadde ben presto in crisi, perdendo poco a poco il proprio ruolo di guida del gusto. A partire dal 1975 gli industriali iniziarono ad investire su un nuovo modello produttivo decentrato, basato sul sistema stellare delle piccole imprese, individuando comunque un ruolo centrale all’interno delle stesse per quanto riguarda la progettazione creativa: si posero così le basi che porteranno al grande successo della moda italiana. La svolta decisiva nei costumi e nel modo di vestire arrivò con gli anni ’60, quando iniziarono a diffondersi i primi movimenti giovanili e di strada, tra i quali ricordiamo ad esempio quello hippy, caratterizzato dall’uso di abiti folkloristici e di blue jeans. Nacque la moda oversize al fianco della moda mini, per poi arrivare a quella militare e al kitsch: gli adolescenti stavano facendo il loro ingresso tra i compratori di moda e richiedevano uno stile che li rappresentasse all’interno di un legame solido con ideali politici, musica, cultura e colori. Tra tutte le mode che si susseguirono è senza dubbio da ricordare la “moda pop”, che nacque in opposizione al sistema borghese ed “adulto” e fu caratterizzata da un estremo uso dei colori più accesi, per la prima volta anche nel guardaroba maschile, e dalla proposta di abiti caricatoriali da bambini. La sfida della cultura di avanguardia fu subito accettata da Inghilterra e Francia, che risposero alla nuova domanda con una serie di boutique identificate da precise proposte di stile: fu questo il caso di Mary Quant a Londra, resa famosa dal suo abito a metà coscia ispirato alle divise scolastiche e alle linee degli anni ’20. In un simile clima anche l’haute couture sentì il bisogno di cambiare: propose uno stile ispirato all’era spaziale, al mito del futuro fantascientifico, composto da “abiti-architettura” che ostentavano le proprie caratteristiche strutturali e facevano uso di materiali tecnologici assolutamente inusuali. Ricordiamo ad esempio Cardin, primo a percorrere la strada di una linea pronta accompagnata da una o più boutique monomarca. Al suo fianco ricordiamo ad esempio Miss Dior, YSL Rive Gauche o Givenchy Nouvelle Boutique, che tra gli anni ’60 e ’70 rivoluzionarono la figura professionale del couturier, meno legato alla perfezione dell’oggetto e più vicino alla cultura moderna. Tra le Maison che rifiutarono di aderire a questo nuovo spirito ricordiamo Balenciaga, costretto a chiudere il proprio atelier nel ’68. Si decise che gli stilisti avrebbero ideato e firmato le collezioni mentre gli industriali ne avrebbero finanziato produzione e comunicazione. Anche in Italia nacquero le prime boutique di moda pronta per giovani, che non solo comunicavano un nuovo modo di vestire, ma anche un nuovo stile di vita: ricordiamo Cose, Gulp e Fiorucci, che aprirono a Milano nel decennio tra il ’60 e il ’70 e furono in grado di rispondere egregiamente alla nuova domanda sempre più allargata e mutevole. Tra le manifestazioni ricordiamo invece Maremodacapri, che diventò la passerella di eccellenza per la produzione di avanguardia. Sinonimo di nuovo erano i nomi di Krizia, Missoni, Karl Lagerfield, ma sicuramente più di tutti Walter Albini, che riconobbe la necessità di creare un “contenuto di moda” che fosse nuovo e che andasse oltre la qualità dei capi. Egli presentò, con la sua piccola società Misterfox, uno stile revival ben preciso, che presentasse la censura con il vecchio per mezzo di modelli nuovi e rivisitati che ne mantenessero tuttavia alcune caratteristiche, con il fine di proporre si una moda pronta ma che si staccasse dal prodotto industriale. Egli intuì infatti che la moda necessitava di ripercorrere il proprio passato per trovare in esso la chiave del futuro. Fu proprio Albini a decidere di spostare i grandi eventi di moda a Milano: era questa infatti la città del boom, del design, ma soprattutto delle avanguardie e della contestazione. Qui si presentò con un’ unica collezione per marchi differenti, firmandosi con il proprio nome accanto a quello delle rispettive aziende. Si rese necessario determinare quale sarebbe stato lo stile con cui i grandi marchi si sarebbero presentati al pubblico: Missoni si concentrò su proposte sempre nuove in fatto di materiali e Ora che erano stati ricollocati nel passato lo stile Chanel e le regole dell'eleganza ad esso legate, la creatività dello stilista poteva volare liberamente verso il processo di ringiovanimento della moda della maison. La collezione della primavera-estate dell’84 vide lo stile Chanel degli anni ’20 rivisitato in chiave più trendy: gli abiti indossati da Coco furono uno spunto per la produzione di capi più sportivi, come le gonne a pieghe al polpaccio o i cardigan in cachemire a righe da indossare sopra a semplici canottiere. Anche il denim venne utilizzato per confezionare tailleur e chemisier. Nelle stagioni successive vennero infranti uno ad uno i tabù legati a Mademoiselle: le giacche presentavano spalle vistosamente allargate ed imbottite, fecero il loro ingresso le minigonne inguinali e gli shorts, talvolta venne usata anche la pelle. Iniziarono ad essere utilizzate le tinte fluo per le giacche, proposte in abbinata a mutande da uomo o leggins da ciclista: il rapporto amore - odio dello stilista con il mito del passato produceva infatti soluzioni sempre più irriverenti ed ironiche. Fu poi la volta dei chiodi, dei piumini e dei costumi da bagno, tutto questo associato al periodico rispolveramento del mito di Mademoiselle, che veniva talvolta riproposto al pubblico. Anche le modelle scelte incarnavano l’ideale di donna emancipata ed elegante che lei era: pensiamo ad esempio a Nicole Kidman. Iconica fu la sfilata di haute couture del 1996, per il 25esimo anniversario della sua morte. Furono presentate all’hotel Ritz due collezioni: la prima fu un diretto omaggio alla sua couture e alla sua cura delle proporzioni mentre la seconda proponeva capi dalla linea sottile, giacche lunghissime e un’aderente tuta in lycra. La sfilata si concluse con lunghe tuniche coperte di paillettes ricamate a mano. L'intero sistema funzionava alla perfezione poiché era stato creato attorno ad un codice simbolico che parlava del presente conservando quel lieve e raffinato passato, diventato ormai patrimonio comune. Risollevato il marchio dal punto di vista dell’haute couture era necessario ripensare alle linee pret à porter: vennero scelte manifatture di proprietà o aziende esterne di sicura fiducia per far sì che il sistema mantenesse una propria qualità, identità e fascino. HAUTE COUTURE E INDUSTRIA DEL LUSSO: CHRISTIAN DIOR La prima fase della Maison Christian Dior terminò nel 1978, quando il gruppo Boussac venne messo in liquidazione giudiziaria. Il declino, iniziato negli anni Sessanta, fu causato dalla sua incapacità di mondializzare un’azienda di tale portata. Sarà Bernard Arnault ad acquistare l’intero gruppo intorno al 1986. L’interesse di Arnault per la Maison derivava soprattutto dalle potenzialità che vi si celavano: dopo aver passato un periodo in America egli si era infatti reso conto del fatto che, nelle mani giuste, un tale marchio avrebbe potuto recuperare la fama e la credibilità di un tempo. L’impero Dior, tuttavia, si era sgretolato nel momento della sua vendita giudiziaria ed era perciò necessario riunificarlo prima di procedere: quando nel 1987 si formò il gruppo LVMH, allora in possesso della Parfums Dior, Arnault vide nel crollo della borsa di Wall Street l’occasione per proporre a Vuitton ed Hennessy un accordo secondo il quale, in cambio di aiuto finanziario, egli avrebbe potuto ottenere nuovamente la parte mancante della sua azienda. L’haute couture, tuttavia, stava diventando sempre più un costo anzichè un ricavo: nè Marc Bohan nè YSL erano stati infatti in grado di proporre agli acquirenti una linea di moda pronta di successo e il marchio era gravato da un eccessivo numero di licenze. Produzione e distribuzione iniziarono così ad essere gestite direttamente e si iniziò a lavorare sull’immagine della griffe, ricercando il legame originario con il lusso. Lo stilista che da quel momento si sarebbe occupato delle collezioni fu Gianfranco Ferrè. Il suo stile, che si basava su un nuovo modo di progettare gli abiti e un uso calibrato dell’esotismo, riscosse subito un grande successo. Il 23 luglio 1989, avendo compreso di dover restituire al marchio quel valore di status symbol che lo aveva caratterizzato nel passato, progettò una sfilata omaggio a Christian Dior e al New Look, realizzati in seguito ad un attento studio dell’archivio dove ritrovò importanti spunti da cui partire : ebbe un successo tale da riportare la Maison all’attenzione dei compratori statunitensi. Le raffinatissime compratrici degli abiti Dior erano lady raffinate ed eleganti: reinterpretando pezzi iconici come il tailleur “Bar”, Ferrè riuscì a fare delle proprie costruzioni architettoniche, asimmetrie e soluzioni geometriche un nuovo codice di stile. Il suo rapporto con la Maison, tuttavia, terminò dopo appena 10 anni nel 1996. Fu così nominato direttore creativo della Maison John Galliano, nato nella Londra delle avanguardie e dello spettacolo, del trasformismo vestimentiario e della narrazione teatrale. La sua idea di abito partiva infatti dal concetto che esso fosse un copione al servizio della donna. La sua prima collezione, presentata nel ’97, fu un omaggio allo stile originario della Maison e vennero riportati in scena gli anni d’oro del New Look, con abiti da ballo e silhouette Belle époque. Grande novità era costituita dallo spunto esotico, introdotto dalle stampe animalier e dal riferimento alla colorata africa dei guerrieri Masai, i cui vistosi ornamenti di perline furono usati come decoro degli abiti. Anche nella collezione successiva, di stampo “Art Nouveau”, Galliano fece ricorso ai gioielli delle tribù africane per impreziosire le sue creazioni: il suo tratto multietnico era una nuova lingua, proveniente dalla realtà metropolitana, dove si incontravano comunità etniche lontanissime. E così decorazioni del tutto incongrue agli abiti proposti assunsero il ruolo fondamentale di far parlare i giornali dei nuovi abiti di Dior. Questa mescolanza di culture, tuttavia, generava un problema complesso: quello della definizione dell’identità della Maison. Lo stile inconfondibile che il brand aveva avuto, essendo nato dalla mescolanza di elementi differenti, era difficile da tradurre in un messaggio che fosse diretto e comprensibile in maniera immediata. Galliano trovò immediatamente una soluzione a questo problema: ciò che la Maison doveva adottare come slogan non era infatti un simbolo vestimentario quanto più una filosofia: quella di vendere un lusso che fosse tanto elegante quanto trasgressivo, motivo per il quale le campagne fotografiche furono affidate a Nick Knight. Anche le sfilate assunsero una nuova declinazione, divenendo spettacoli capaci di calamitare l’attenzione del pubblico e dei media: non importava che gli abiti da passerella fossero portabili perchè ad essi veniva affiancata una seconda collezione dedicata alla vendita, facendo sì che dalla moda pronta si avesse una forma di guadagno e che invece l’haute couture mantenesse il suo ruolo di laboratorio di ricerca. Appositamente per i compratori furono ideate anche delle precollezioni. Tra le sfilate teatrali di Galliano ce ne sono sicuramente alcune degne di nota: - Per la collezione SS1998, al salone dell’Opera di Parigi, si rese omaggio a Luisa Casati, una vera eccentrica del ‘900. Gli abiti, mediante un prologo e sei atti, raccontavano la sua vita, accompagnati dalla recitazione delle modelle. E così ad importanti modelli da sera venivano affiancati anche modelli in sbieco o capi da giorno di grande semplicità - La collezione AW1998, invece, si ispirava alla storia della principessa Pocahontas: dai vagoni di un locomotore scendevano su un pavimento cosparso di sabbia del deserto modelle provenienti da diverse epoche storiche che si mischiavano a indiani d’America. Gli abiti, decorati con motivi tribali dai colori intensi, ricordavano le tuniche in pelle della principessa - Vi fu poi la sfilata ispirata al film Matrix, i cui abiti erano vere e proprie vesti da guerriglia in cuoio, metallo e tessuti plastificati abbinati a crinoline e pizzo - Fu la collezione di inizio millennio a creare un caso simbolo: i modelli della sfilata sembravano essere fatti di stracci recuperati in maniere differenti, con tagli irregolari, strappi, cuciture al rovescio ed orli sfrangiati. Galliano voleva con questa collezione rendere omaggio alla creatività dei clochard, che nasceva da una profonda necessità, ma fu molto criticato dalla stampa che ritenne la collezione un insulto alla povertà. Inoltre la scelta di avvicinarsi al punk e al grunge fu vista come un insulto alla tradizione dell’haute couture elegante che aveva caratterizzato la Maison Dior. Fu con la proposta di un simile stile post atomico anche da parte dei giapponesi che finalmente i giornalisti iniziarono ad apprezzare questo nuovo stile. Il lusso aveva vinto proprio perchè qualunque stile, anche il meno curato, poteva essere tradotto nel suo linguaggio - La collezione SS2001 fu dedicata al mondo femminile: segretarie erotiche a caccia di marito, madri con bigodini e abiti premaman e Wonder Woman accompagnata da nove eroine in abiti da amazzone che mischiavano il mito greco a suggestioni della guerriglia, fecero il loro ingresso sulla passerella, proiettando il processo di emancipazione in un mondo immaginario palesemente inventato da un uomo. - La collezione SS2006 affrontò invece un importante tema politico: nel medesimo periodo erano infatti avvenute le numerose rivolte popolari in seguito alla morte di due ragazzi di origine nordafricana. E così gli abiti divenivano quelli della nuova rivoluzione francese, con allusioni evidenti alla ghigliottina, l’ossessivo ripetersi del 1789 anche come tatuaggio sul corpo delle modelle, scheletri e pezzi di corpi disegnati a ricamo e sangue finto ovunque, sia sugli abiti che sulla passerella. - Vi furono poi le sfilate ispirate ai viaggi e ai mondi lontani, quando i riflettori si accesero sul Medio Oriente, sulla Cina e sul Giappone. Tagli, costruzioni sartoriali, tessuti, colori e decori venivano trasfigurati negli abiti di Galliano senza tuttavia cadere in un banale esotismo. Ricordiamo anche l’uscita, nel 2006, delle dodici versioni della Saddle Bag, ispirate ognuna ad un Paese diverso e vendute con un rispettivo “taccuino di viaggio” - La sfilata AW2002, intitolata “Nouveau Glamour” parlava delle star di Hollywood anni ’50 e riportava in scena un grande fascino femminile e un’importante eccentricità - Nell’autunno del 2003 Galliano si ispirò invece alla danza, portando assieme agli abiti quei molteplici modelli di seduzione che la musica e le movenze del ballo hanno da sempre portato con sè. - Nel 2004 si raggiunse lo sfarzo estremo con la collezione dedicata all’Egitto: le modelle, acconciate come regine e divinità dell’epoca dei faraoni, erano vestite con sontuosi abiti ispirati alla collezione “H” del 1954. - Il 3 luglio 2005 fu celebrato il ritorno a Christian Dior: sembrava essere finito il tempo dell’eccentricità e dell’arroganza porno - chic e si sentì la necessità di proporre dei modelli che fossero il più possibile simili alle prime proposte della Maison. Fu così che venne proposto il “New New Look” mediante l’uscita in passerella della reinterpretazione degli abiti iconici del Novecento, realizzati dal couturier. Il “primo capitolo” della sfilata presentava i passaggi sartoriali che accompagnavano la costruzione del modello in atelier, a partire dalle strutture nascoste e dalle sperimentazioni sui tessuti e sulle decorazioni. Sfilavano poi le collaboratrici di Dior nei loro abiti dalla graziosa femminilità e le dive di Hollywood nelle più lussuose mise da sera. Anche gli abiti da cocktail color pastello trovarono ben presto il loro spazio sulla passerella. Al termine della sfilata tre scene iconiche: quella ispirata alle ballerine di Degas vestite dei materiali e dei colori della tradizione andina, le quattro Catherinettes vestite in giallo e verde per celebrare la patrona della haute couture e l’omaggio ai balli mascherati, di cui sia Christian Dior che John Galliano erano grandi fan. Lo stilista era riuscito a portare in passerella il proprio lavoro di archivio sottoforma di proposta di moda anzichè di ricerca storica, creando un solido ponte tra presente e passato. - Nel luglio 2006, per i 60 anni della Maison, venne realizzato uno dei più grandi show di tutti i tempi: la sfilata all’Orangerie fu accompagnata da una mostra monumentale al museo di Granville e da un party eccentrico alla reggia di Versailles. Il tema per la collezione derivava da due grandi passioni di Christian Dior: quella per le feste in costume e quella per l’arte. Ciascuno dei 45 modelli presentati era ispirato ad un artista con il quale Dior aveva lavorato: sulla passerella si videro figure uscite dai dipinti di Picasso, Manet, Degas e molti altri. Tornava al contempo ad essere realtà il lusso della coorte di Luigi XIV: l’haute couture era stata definitivamente salvata. Tuttavia Galliano si rese conto che della sua anima spagnola faceva parte anche la tragica consapevolezza della morte, così tra figure eccentriche fece sfilare anche la Vergine sivigliana del venerdì santo di Goya e la mujer di Zuloaga.
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