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Storia della moda XVIII-XXI, Sintesi del corso di Costume E Moda

riassunto libro Storia della moda XVIII-XXI di Enrica Morini

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 24/03/2021

eleranda01
eleranda01 🇮🇹

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Scarica Storia della moda XVIII-XXI e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! RIASSUNTO STORIA DELLA MODA XVIII-XXI secolo (da pag 1 a 30) IL LUSSO Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. Infatti, nonostante il modo di vestire è stato sempre utilizzato anche per comunicare altri significati, che cambiano a seconda delle culture, situazioni e scelte individuali, le idee di magnificenza, ricchezza, esclusività e rarità dell’abito hanno sempre costituito un dato costante e indiscutibile della trasformazione della moda. Quando si parla di moda è necessario precisare la differenza che rispetto all’abbigliamento: MODA: a partire da Medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata continuità. ABBIGLIAMENTO: nella civiltà occidentale è diretta conseguenza del rifiuto della nudità e dell’obbligo sociale di ricoprire il corpo di indumenti. Nella società occidentale l’abbigliamento riguarda quindi la società nel suo complesso. Il collegamento fra foggia dell’abito e ruolo sociale è proprio di tutte le civiltà fin dal loro primo stadio di organizzazione, ma nel mondo antico e, in generale, in quello extraeuropeo questo legame è fissato da regole che riguardano la sfera della tradizione, e sono stabili nel tempo. Fra il XIII e il XIV questo modello di collegamento è stato messo in crisi nell’Europa occidentale quando alla fissità tradizionale, è stata sostituita la regola della trasformazione e della modernità. Da quel momento l’abito ha incominciato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale della persona secondo regole non rigide, ma soggette all’inventiva, al gusto, alle risorse dei singoli individui, o di più gruppi a cui è stata riconosciuta un’eccellenza estetica e culturale in questo campo. È ovvio che però questo cambiamento nel campo della moda è frutto di un più ampio processo storico che ha visto la trasformazione strutturale dell’Europa e il suo passaggio dal mondo antico ad una concezione moderna dello Stato, del potere e dell’evoluzione sociale. Nonostante ciò, il possesso e la gestione della ricchezza hanno continuato a essere il vero fondamento del potere reale, ma i due aspetti, ricchezza e potere, hanno iniziato ad assumere caratteristiche, modalità di formazione e delimitazioni diverse e a poter di mano nel corso del tempo, con trasformazioni di carattere sociale e culturale. Nel momento in cui la moda fu appannaggio delle classi egemoni, il suo scopo era quello di mostrare i segni della ricchezza e del potere, considerando la cultura e il modello di vita di ogni momento storico. Nell’Ancien Régime questa regola rimase indiscussa. Infatti, la struttura gerarchica della società europea si conservò per secoli: si mantennero fissi la rigorosa attribuzione dei compiti istituzionali e la suddivisione sociale della responsabilità in campo economico, stabiliti nel Medioevo: alcuni avevano l’incarico di produrre, altri consumare. Il consumo era commisurato al potere e alla visibilità: signori, re e prelati erano tanto più magnifici quanto più di lusso si circondavano e tale disuguaglianza sociale veniva giustificata per volere divino. Ma il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua concezione economica precapitalistica: da un lato il lavoro era considerato una condanna per l’umanità peccatrice o (solo in alcune situazioni) un mezzo per raggiungere la salvezza, dall’altro lato l’accumulo di denaro era considerato una forma di avarizia, soltanto lo sperpero e la prodigalità potevano essere considerate virtù. Questo è stato un importante motore economico: la ricchezza che la nazione forniva al signore o alla Chiesa veniva trasformata in committenza di lavoro e contemporaneamente veniva eliminato l’eccesso di produzione. Con Luigi XIV tutto questo cambia: la nobiltà costretta all’esempio del re e della sua corte, portò la propria munificenza alla rovina, mentre lo Stato favorì la crescita della classe dei fornitori e dei finanziatori, portando la propria munificenza alle estreme conseguenze della rovina. Moralisti e predicatori cattolici, vedevano nel lusso di peccati di vanità, invidia e carnalità pur tuttavia, tali crociate non furono quasi mai rivolte contro i ceti di potere, ma erano rivolti a coloro che potevano acquistare beni di lusso ma che non appartenevano alla stretta gerarchia cui la società attribuiva questo privilegio (è il caso ad es. della borghesia). Con la riforma protestante cambiano le premesse per una nuova cultura relativa al lusso. La ricchezza, segno del favore divino, non doveva essere sperperata per il piacere o la vanità personale, ma doveva essere gestita a favore della comunità. Pertanto, l’aspetto esteriore non ha relazione diretta con l’importanza della persona: le vere doti da comunicare attraverso l’abito diventarono di modestia e moderazione. LA BOIRGHESIA All’interno di questa nuova cultura, la borghesia inventò la propria moda, si rifaceva più al mondo aristocratico, ma corrispondeva ad un ideale di vita, un mondo etico, con principi e gusti specifici. Per quanto riguarda il lusso, come stabilito nel modello di Luigi XIV, divenne un modello di consumo, un modo per far girare merci e produrre ricchezza. Su questo concetto si fondò il The Fable of the Bees, pubblicato da Mandeville nel 1714, il quale diede avvio ad un dibattito fra illuministi, che si esaurì attraverso la specificazione dei concetti di lusso e di fausto, nelle voci dell’Encyclopédie. Concetto di fausto: è collegato al concetto di spreco Concetto di lusso: un semplice effetto alla pulsione all’emulazione sociale. Poteva essere positivamente utilizzato all’interno di un’organizzazione economica, prima mercantile e poi capitalista. Nel corso del Settecento si assiste ad una crescita del modello di consumo borghese, la cui peculiarità e organizzazione si originarono in un lungo lasso di tempo, anche se alcuni segni comparvero presto. Il primo segno riguarda la semplificazione dell’abbigliamento maschile che l’aristocrazia inglese e l’intellettualità proposero (i tessuti non erano più di seta colorata ma in lana in tinta unita o neri, a volte scomparvero i ricami, altre volte furono sostituiti da galloni applicati). Anche in questo caso vi era una corrispondenza tra immagine e ruolo: nobiltà operosa e borghesia legarono il proprio status di potere o la propria ascesa sociale ed LA MODA E I MODELLI VESTIMENTARI SETTECENTESCHI La funzione delle merchandes de modes era soprattutto quella di creare le garnitures per un sistema vestimentario fatto di pochissime fogge. A metà del secolo, il modello più diffuso in Francia erano: robe à la francaise: panier, una sopravveste, una sottana e una pettorina. Robe à l’anglaise: corpetto attillato e una gonna montata a pieghe in modo da essere più abbondante sui fianchi e sul dietro, aperta davanti per lasciar vedere la sottana. Lo scopo era dare ampiezza all’indumento senza ricorrere al panier, che fu costituito con imbottiture e rigonfiamenti a tournure. Oppure c’era questa variante, la Moda à la polonaise: gonna sollevata con nastri, lacci o bottoni, creando un effetto a festoni rigonfi. C’erano alcune tipologie che, pur derivando da queste strutture sartoriali, avevano un uso più ristretto e preciso: grand habit: irrigidito da corsetti steccati e paniers monumentali, arricchito con sontuose decorazioni, il cui uso decisamente circoscritto. Casaquin: una versione accorciata della robe à la francaise, con pieghe suk dorso, da indossare come corpetto con una gonna, destinato ad un uso più privato che casalingo. Secondo Janet Arnold, la sua diffusione rispondeva alla necessità di riutilizzare i preziosi tessuti con cui erano riutilizzati gli abiti. Dalla fine del secolo l’abito di corte divenne un indumento di rappresentanza, più legato a schemi simbolici che tradizionali che alla moda. Sarte e marchandes de modes si dividevano il compito di realizzare questi indumenti, intervenendo su parti diverse dello stesso capo. Il lavoro della sarta riguardava la perfetta costruzione degli elementi base del vestito, quello della modista era finalizzato a ottenere un’infinita quantità di variazioni partendo da questa struttura immutabile: merletti di ogni provenienza ai polsi e al collo, bande di tessuto decorate ai bordi, serpentine applicate alle gonne, fiocchi rete d’oro e d’argento… e la sostituzione di una garniture permetteva di adeguare gli abiti alle mode. Alla logica della decorazione sfrenata, quella della semplificazione e della ricerca della comodità, favorita dalla struttura aderente della robe à l’anglaise. La rielaborazione più diffusa di questa linea fu, dagli anni 70’, la redingote, derivata dal costume di equitazione normalmente indossato dalle signore inglesi, che introduceva nell’abbigliamento femminile alcuni elementi maschili come, il doppio petto, il collo rivoltato, il gilet, i grandi bottoni. Riding coat veniva utilizzato per: inglesi: stile di vita campagnolo e andare a cavallo francesi: abito da passeggio e da città, attratte soprattutto dalla possibilità di movimento che offriva. Completo da abbigliamento da lavoratrice: completo composto da un corpetto, il caraco, e una gonna, adottato dalla vita quotidiana, prima dalla borghesia e poi anche dalle classi più elevate. La differenza fra il completo ispiratore e la moda che si diffuse nei ceti alti stava soprattutto nel tessuto: se infatti, tradizionalmente esso era realizzato di lana o di un misto di lana e lino, la nuova moda lo prevedeva di cotone e seta. I modelli vestimentari della seconda metà del secolo rispondevano alle necessità e a stili di vita non più legati ai rituali di corte ma alle città e ai luoghi in cui “vedere ed essere visti”. LA CHEMISE A LA REINE La vera rottura con il sistema vestimentario del passato avvenne negli anni ottanta. Nel 1783 fu esposto al Salon un ritratto di Maria Antonietta realizzato da Elisabeth Vigée- Lebrun, in cui la regina indossava un abito bianco di mussoliniana dalla foggia semplicissima. Chemise à la Reine: - Deriva dalla robe à la créole, usata dalle signore francesi nelle Indie occidentali - La sua adozione si collocava nel generale gusto per l’esotismo di questo periodo - La scelta della regina si ispirava alla moda che si andava diffondendo fra le ragazze più giovani. - Il vestito era un semplice camicia dritta con le maniche lunghe e una fascia in vita. - Ampiezza trattenuta alla scollatura da una coulisse, ricoperta da una specie di colletto a balze,e lungo le maniche di arricciatura parallele che formavano sbuffi di tessuto - Abito semplice ma che esprimeva un significato culturale: - Tessuto mussolina di cotone etereo e leggero, igienico comodo, proveniente dall’India, rispondeva alle teorie illuministe. - Il colore era un’adesione ideale al gusto neoclassico che stava trovando nei reparti del mondo antico la chiave moderna della bellezza. - Bianco= colore del fine secolo e il corpo un fatto culturale e sociale. Rose Bertin - Lavorava a corte per la regina Maria Antonietta, stanca del solito stile barocco francese in voca all’epoca e desiderosa di nuove mode, tra cui quella inglese. - Fino al 1781 la regina fu quasi il simbolo di una maniera di vestire ricca di decorazioni. - Dopo la nascita dell’erede al trono, nell’ottobre del 1781, lasciò la moda dei capelli corti e adottò un abbigliamento più semplice e più adatto alla sua ricerca di uno stile di vita più naturale. Fu la volta della chemise à la Reine e della moda inglese. - R.B creò anche un abito viola con la gonna bianca decorata con paillettes argento che la regino indossò alla cerimonia ufficiale di apertura degli Stati generali, lultima della storia dell’Ancien Régime. - Il quartiere in cui si concentrava il lusso e l’eleganza francese si trovava in Rue Saint Honoré, quartiere in cui si concentrava il commercio del lusso e dell’eleganza francese. - R.B si serviva di una trentina di persone che lavoravano nella bottega sotto la direzione di una première fille, ma soprattutto di una ramificata rete di fornitori di ogni genere da cui acquistavano merci o a cui ordinava la confezione di manufatti da lei stessa inventati. - Ai sarti venivano consegnate sia le stoffe necessarie per l’abito, sia le guarnizioni che dovevano essere sovrapposte alla foggia di base. Inoltre c’erano un numero infinito di mercanti e artigiani. - Dal 1774 R. B divenne la più importante e influente fra le marchandes de modes di Maria Antonietta, divenendo una figura centrale del Settecento. - Pouf au sentiments: monumenti da testa, dalle denominazioni allusive, ispirati spesso a fatti, quotidiani o eccezionali che riguardavano la corte. Questa fu la creazione per cui la proprietaria del Grand Mogol divenne più famosa. - La bravura di R. B e Maria Antonietta sta quindi nell’aver dato un nuovo significato al lusso Aghemo Sofia. Moda da pagina 31 Con Maria Antonietta la moda assunse il compito di giocare con i capricci del gusto di chi la indossava e con la fantasia di chi la creava; ciò le conferì un ritmo accelerato: forme, materiali, colori si alleggeriscono, si schiariscono, si moltiplicano e il modo di apparire passò dal compassato al grazioso. Anche i tessuti furono assoggettati a questa ricerca di una nuova immagine della regalità. Un semplice mostra anche i borghesi e persino alcuni mestieri in situazioni concrete. Nello stesso periodo venne concepito un altro repertorio di immagini. Finanziato dal banchiere Eberts e pubblicato da Prault, il Monument du Costume fu illustrato in modo superbo da Moreau le Jeune. Non si trattava di stampe di moda, ma di un vero ‘monumento’ alla cultura dell’Ancien Régime. I tre fascicoli 1775, 1778 e 1783, erano concepiti come commenti come racconti per immagini della ‘storia morale’ di due personaggi (un femme de bon ton nei primi due e un giovane gentiluomo nel terzo) ed erano commentati da Restif de la Bretonne. Il risultato era l’idealizzazione di un modello di vita in via di scomparsa. E non favorì la diffusione del Monument du Costume fra i contemporanei, affamati di modelli e regole per il nuovo mondo che si andava creando. Contemporaneamente a ciò cominciò a prendere forma la prima stampa femminile, che univa alle informazioni di moda un intento educativo: plasmare una nuova cultura della femminilità. Giornalisti e giornaliste cominciarono a rivolgersi alle “dame che affinano i loro costumi”, alle “signorine” e alle “madri di famiglia” con pubblicazioni che tendevano a sollecitare la nuova abitudine alla lettura del ceto medio. Tranne “Le Journal des dames” in Francia e “The Lady’s Magazine” in Inghilterra, si trattò di imprese effimere, spesso limitate a poche uscite, ma che prepararono il terreno a un nuovo tipo di giornale. La prima vera rivista femminile di moda fu “Cabinet des modes” che, nonostante i cambiamenti di titolo, continuò ad uscire ogni dieci giorni dal 15 novembre 1785 al febbraio 1793. Il suo editore, il libraio Francois Buison, coinvolse nell’impresa diversi giornalisti, pittori, incisori e uno stampatore. Il periodico aveva un prezzo piuttosto elevato, ma il pubblico cui si rivolgeva era composto da ricchi borghesi e aristocratici che potevano permettersi questo lusso. La formula si basava su due fattori: uno di tipo tecnico e l’altro culturale ed economico. La rivista si presentava con un formato maneggevole, una buona qualità tipografica, immagini molto curate e periodicità garantita. Il suo pubblico era la nuova società formata dalla lezione degli illuministi, che attribuiva alla moda un significato fondamentale per la trasformazione che stava perseguendo e che, quindi, aveva la necessità di confrontare e di diffondere i termini del nuovo buon gusto. L’editore si propose di trovare un tramite tra i creatori, i produttori e i consumatori/lettori, trasformando la comunicazione di moda in una sorta di strumento pubblicitario. Favorita dai rapporti con la corte, ma affrancata da un suo stretto controllo, la moda era diventata un fatto commerciale in cui la novità imperava. Come osserva Daniel Roche, “Avvisi e Modelli istituiscono una triplice circolazione, all’interno della quale la relazione commerciale si amplia: dal giornale al lettore convinto a comprare; dal produttore al giornalista che, dagli annunci pubblicitari, trae un finanziamento per la pubblicazione; dai gazzettini ai creatori che sono sollecitati a far opera di promozione dei loro prodotti. In circa sette anni furono pubblicate quasi seicento tavole di moda che, attraverso la successione dei diversi tipi di abbigliamento e delle pratiche o delle necessità sociali cui esse corrispondevano, rappresentano le regole di un nuovo stile di vita cui non erano affatto estranei il lusso, il capriccio e la seduzione della moda. “Cabinet des modes” diventò, nel noviembre 1786, “Le Magasin des modes nuovelles, francaises et anglaises”. I problemi sorsero con la Rivoluzione. Già alla fine del 1789, la diminuzione degli abbonamenti costrinse l’editore Buisson a modificare il progetto editoriale iniziale. Il “Magasin” chiuse, ma la pubblicazione riprese nel febbraio 1790 con il titolo di “journal de la mode et du gout” e la direzione di Lebrun-Tossa, più vicino alla nuova cultura rivoluzionaria. Nel 1792 Buisson abbandonò l’impresa e Lebrun-Tossa continuò da solo fino al febbraio dell’anno successivo. L’apparire rivoluzionario I codici dell’abbigliamento L’ultima vera rappresentazione dell’Ancien Règime è stata il corte degli Stati generali, convocato da Luigi XVI (Versailles, 5 maggio 1789). Il Gran Maestro delle Cerimonie, marchese di Brézé, aveva imposto le regole vestimentarie cui i deputati dovevano attenersi, rendendo visibili le differenze gerarchiche  “Il Clero doveva indossare gli abiti ecclesiastici appropriati al proprio stato all’interno della Chiesa; il Secondo Stato indossava abiti che comprendevano una marsina e sottomarsina di seta nera o di panno decorati con galloni d’oro, e un mantello coordinato, calzoni di seta nera, calze bianche, una cravatta di pizzo, una spada e un cappello di piume à la Henri IV; il Terzo Stato aveva l’ordine di indossare un abito di panno nero, calze nere, un mantello corto di seta nera come quello degli avvocati della noblesse de robe, una cravatta di mussola in tinta unita e un cappello a tricorno nero e non avevano diritto alla spada (no gentiluomini). La discriminazione vestimentaria venne messa in discussione e il conte di Mirabeau, portavoce del Terzo Stato, chiese di poter indossare i propri abiti migliori. Il principio contenuto in questa richiesta era lo stesso che sostanziava un problema politico di estrema rilevanza che vedeva contrapposte le ragioni del re e quelle del Terzo Stato, che sostanziava un problema politico di estrema ricusava il principio secondo cui i deputati dovevano deliberare rigidamente separati per Stati, sostenendo che fosse loro diritto intervenire nelle decisioni sul futuro del paese come individui. Disatteso da subito dai rappresentanti della borghesia, il regolamento del marchese di Brézé venne abolito il 15 ottobre 1789. A questo atto ne seguirono tanti altri, originati da una lunga elaborazione culturale e dal peso che nel corso del secolo aveva assunto la moda. L’affermazione del significato politico dell’abito diede il via alla trasformazione e all’invenzione di una serie di segni esplicitamente caratterizzati in senso rivoluzionario o controrivoluzionario. La presa di Bastiglia mise al centro della storia prìncipi, protagonisti e spazi fino ad allora imprevisti. Il luogo dell’apparire si spostò violentemente dalla corte alla città, alle feste pubbliche. Attore principale della rappresentazione era il popolo di Parigi, che elaborò e impose le proprie regole di comportamento politico e i propri codici di comunicazione non verbale. I segni dovevano essere chiari, diretti, le parole d’ordine erano nazionalismo, uguaglianza e libertà. La borghesia e il popolo di Parigi scoprirono così il potere comunicativo dell’abito, un potere duttile a qualsiasi significato. La nuova Francia si rappresentò con il tricolore bianco, rosso e blu che diventò, altre alla bandiera, coccarda da applicare sul vestito e tessuto, a righe o a piccole fantasie, con cui realizzare gonne, calzoni, marsine, gilet, ecc. Divenne la divisa dei soldati della Guardia nazionale, creata da Lafayette. La coccarda, prima semplicemente ammessa, fu l’unico oggetto vestimentario reso obbligatorio come segno distintivo dei ‘cittadini’ francesi. Uguaglianza La rappresentazione dell’inedito principio filosofico dell’uguaglianza fu complessa. Inizialmente fu contrapposta al lusso: se il ‘privilegio’ gerarchico si mostrava tradizionalmente attraverso il ‘privilegio’ del lusso, la cancellazione del secondo non poteva che significare la cancellazione del primo. Vennero sostituiti alcuni segni: alle fibbie preziose per le scarpe si preferirono i lacci o i fermagli con decorazioni politiche, i gioielli si caricarono di preziosismi diversi da quelli tradizionali, i tessuti di cotone o lana presero il posto di quelli di seta. Le acconciature seguirono lo stesso processo di semplificazione: scomparve il bianco della cipria e comparve la moda del taglio corto e scomposto à la Romanie o à la Titus. La foggia vestimentaria di base non subì modifiche sostanziali rispetto alla semplificazione già avvenuta, ma venne rivisitata in ragione del nuovo significato sociale che doveva comunicare. L’egualitarismo assunse la forma di un livellamento al basso. Per l’abbigliamento maschile, la trasformazione fu più evidente: la moda borghese di gusto inglese e poi le ‘divise’ dei lavoratori, offrirono gli strumenti per inventare le nuove uniformi civili. Dalla prima furono recepiti i tessuti di lana in colori sobri, in tinta unita o a piccoli disegni, i capelli rotondi e l’eliminazione di decorazioni lussuose. Dalle seconde prese forma la divisa del sanculotto, dichiaratamente ideologica e legata alla politica giacobina e montagnarda, che comprendeva pantaloni lunghi e informi, la ‘carmagnola’ degli operai, gli zoccoli dei contadini e la pipa. L’abbigliamento delle classi lavoratrici venne adottato per evitare sospetti controrivoluzionari: nel 1792, Madame Tussaud descriveva Filippo d’Orléans, diventato Philipe Egalité dopo aver abiurato e aver aderito ai nuovi ideali politici, vestito con “una corta giacca, pantaloni e cappello rotondo, con un fazzoletto indossato sciolto intorno al collo con le ciocche lunghe e pendenti, da cui spuntava il colletto della camicia, con i capelli tagliati corti senza cipria à la Titus e le scarpe allacciate con stringhe”. Anche lui aveva aderito all’idea che l’abito dovesse essere specchio delle idee. Recuperò il buon gusto primitivo solo quando salì al patibolo, vestito con un mantello grigio perla e un abito all’inglese, affidando al linguaggio della moda il suo messaggio di disprezzo nei confronti di chi lo stava ghigliottinando. Nell’abbigliamento femminile il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere. La moda continuava a proporre la mise di derivazione popolare composta da gonna, caraco e fichu, cui venivano accoppiate fantasiose acconciature. Il denominatore comune era la semplicità. il cambiamento attribuiva nuovi significati all’abbigliamento femminile: non era più un vestito di corte né da casa, ma da città Questa vicenda illumina con una luce diversa la società che stava vivendo la Rivoluzione. Una società fatta non solo di tricoteuses assetate di sangue, ma anche di signore borghesi che stavano adottando un nuovo modello di vita e di figure nuove, create dalla Rivoluzione. Erano le nuove compagne e mogli dei potenti, quelli che cominciavano a trarre vantaggio dagli espropri e da tutta quell’economia del ladrocinio che prolifera in questi casi. L’uguaglianza non sarebbe passata attraverso la moda, se non trasformata nel suo linguaggio. Il 20 novembre 1792, infatti, “Le Journal de la mode et du gout” pubblicò un modello à l’egalitè, composto di cuffia, fichu, corpetto pierrot e gonna di cotone stampato, che non era certamente quello cui pensavano David e i deputati della Repubblica. La società si era presto suddivisa e la varietà delle offerte pubblicate sulle riviste e la qualità degli oggetti, tuttora conservati nei musei, testimoniano con chiarezza l’esistenza di un ceto alto che richiedeva una moda di élite e che non rifuggiva il lusso. Nonostante i richiami ideologici all’uso del panno o del tessuto nazionale, i figurini parlavano di seta, di nastri e di piume. La moda neoclassica Le mode del Direttorio Con la caduta di Robespierre finì la fase eroica e ideologica della Rivoluzione. Il Direttorio cominciò con feste e balli: i Bals de Victimes, cui potevano partecipare solo quelli che avevano avuto congiunti ghigliottinati durante il Terrore; uno strano modo per commemorare le vittime, ma soprattutto reazione alla paura vissuta. Questi rituali produssero segni vestimentari specifici che si trasformarono in mode femminili che avevano il sapore di una nuova ideologia, contraria a quella passata. Capelli tagliati à la victime, scialli rossi (simili a quello che il boia aveva gettato sulle spalle di Charlotte Corday mentre andava al patibolo), un nastro rosso al collo (in richiamo al taglio della chigliottina), un nastro dello stesso colore incrociato intorno al busto, detto croisures à la victime. La reazione maschile si servì di segni meno precisi, ma più vistosi: la jeunesse dorée, composta di giovani borghesi, cominciò ad indossare indumenti che erano ispirati alla moda inglese, esagerando le forme e gli effetti sartoriali, a portare i capelli lunghi e sforbiciati, ma incipriati, alla moda dell’Ancien Régime, e a maneggiare nodosi bastoni. La divisa era costruita in modo da contravvenire alle regole dell’abbigliamento sanculotto. Il bastone aveva un’ovvia funzione negli scontri con la controparte. Ma sia la jeunesse dorée, i cui rappresentanti presero il nome di Incroyables, sia la compagine giacobina, erano marginali o marginalizzati nella società che si stava formando. L’abbigliamento maschile adatto alla borghesia che aveva raggiunto il potere aveva solo due strade: quella della divisa militare e quella dell’abito da lavoro. La grande rinuncia maschile alla moda era ormai avvenuta e da quel momento i mutamenti del modo di vestire degli uomini europei si sarebbero concentrati più sulla comunicazione di elementi di gusto e distinzione che sugli eccessi estemporanei di qualche gruppo. La tunica femminile Il Direttorio segnò un fondamentale momento di passaggio nella moda femminile borghese. L’abito fu affrancato dalla politica. Le mode à la victime furono forse le ultime a servirsi della metafora diretta e parlante. Dopo la caduta di Robespierre, le donne cominciarono a indossare abiti diritti di mussolina bianca che ricordavano la chemise à la Reine e anche le tuniche classiche di cui erano rivestite le fanciulle e le figure allegoriche nelle feste rivoluzionarie. C’era però anche una terza fonte d’ispirazione per questo candido indumento di cotone leggero: la pittura di tema storico, romano e greco, di cui David era stato il massimo rappresentante, e il neoclassicismo, nato intorno alla scoperta di Ercolano e Pompei. Gli scavi dei due siti archeologico avevano prodotto un interesse prima erudito e poi più esteso nei confronti di una cultura d’immagini e oggetti antichi, le raccolte d’incisioni relative ai materiali di scavo ebbero rapida diffusione in tutta Europa e in particolare nell’ambiente degli artisti. Riproposta della cultura classica: i testi greci vennero tradotti, quelli latini ebbero una nuova circolazione. Anche l’architettura cominciò a ripensare il proprio sistema proporzionale ritornando agli insegnamenti di Palladio e Vitruvio. L’apertura pubblica del Louvre mise a disposizione di artisti e pubblico una conoscenza diretta dell’arte antica che non era mai stata possibile prima. Ciò che influenzò l’immaginario collettivo della fine del 700 fu il teatro. Con la diffusione del principio di verosimiglianza dei personaggi e delle scene, i travestimenti fantasiosi caratterizzanti dei secoli precedenti sparirono e vennero sostituiti da abiti più adatti agli eroi che agivano. Per facilitare il lavoro dei costumisti furono pubblicate storie del costume classico così da avvicinare le messe in scena delle tragedie di ambiente romano ai quadri di David. Ci fu un’accelerazione di questo fenomeno negli anni della Rivoluzione, in cui il tramite linguistico con cui trasmettere la nuova etica era il riferimento alla cultura della Repubblica romana. In questo scenario la figura femminile porta un abito che ricorda una tunica antica e avvolta in uno scialle ispirato a quello delle matrone romane. Nel 1788 Elizabeth Vigée-Lebrun, pittrice ricercata e alla moda organizzò una festa alla greca ricostruendo un simposio classico; cinque anni prima pubblica il ritratto della regina con un abito bianco, la “chemise à la Reine”. La mancanza di riviste di moda non permette di seguire gli sviluppi del fenomeno e neppure di sapere se ci sia stato un centro che promosse questo modello vestimentario. Probabilmente si tratta di una sorta di stile di strada, che prese forma delle proposte delle marchandes de modes, dalla capacità inventiva delle signore del Direttorio. Nel 1794 le donne erano tutte vestite da divinità greche, con tuniche scollate e senza maniche e con i sandali ai piedi; però David dipinse una gioiosa Madame Sèriziat in una robe à l’anglaise candida, con le maniche lunghe e il fichu. L’Illuminismo aveva lasciato in eredità una nuova concezione del corpo e dell’igiene, la tradizione borghese prevedeva una vita attiva, la Rivoluzione aveva rotto con tutti i rituali e le etichette di palazzo sostituendoli con il gusto della città, degli spazi pubblici. L’abito femminile si adeguò a tutto questo: elimina delle sottostrutture, si ridusse a una camicia di cotone leggero con la vita alta, segnata, prima, da una cintura passata all’interno ad arricciare il tessuto e, poi, da un taglio e da una costruzione sartoriale vera e propria. Ai piedi le signore calzavano dei sandali, in seguito sostituiti da scarpine, chiamate coturni, con i lacci alle caviglie. Era un modo di vestire assolutamente nuovo: non era più prevista alcuna distinzione tra abito formale e informale è la nuova moda era caratterizzata dall’assoluta semplicità del modello e della sua trasparenza. Tanta uniformità, però, non corrispondeva a un principio di uguaglianza: la moda aveva già trovato la maniera per creare nuove distinzioni. L’abito poteva essere fatto di lino o di impalpabile mussolina indiana. Poteva essere indossato nella sua totale trasparenza o con gli ultimi accessori usciti dalle botteghe delle marchandes de modes, oppure essere mitigato e castigato. Poteva essere cucito in casa o realizzato da una sarta. L’abito aveva una struttura sartoriale che si affinò col tempo: schiena sagomata e molto stretta, gonna arricchita da fitte pieghe, all’interno era affrancato una specie di corpetto che sosteneva il seno e impediva che l’abito si spostasse; la mise poi era indossarono di nuovo l’habit à la française con le culotte corte. Per le dame che si presentavano a corte era obbligatorio vestirsi di stoffe francesi. 
 La vita mondana della capitale riprese lentamente, guidata dalle decisioni di Bonaparte che nel 1800 reintrodussero il ballo dell’Opéra e le feste di mezza quaresima, nel 1801 consentì i travestimenti per il carnevale e l’anno dopo permise persino l’uso della maschera. Napoleone venne incoronato imperatore il 2 dicembre 1804 a Notre-Dame. 
 Riprendendo il modello di Luigi XIV, ripristinò la logica del fasto promuovendo feste e occasioni mondane di ogni genere e imponendo un consumo sfrenato. L’imperatrice e le principesse ebbero appannaggii sontuosi da dedicare al proprio guardaroba e tutti i cortigiani furono costretti ad adeguarsi a questo modello di apparire. Parigi doveva tornare ad essere un modello di gusto per tutta Europa. Moda e arredamento potevano essere lo strumento adatto per risollevare l’industria tessile. 
 L’assedio di Lione del 1793 aveva causato anche la crisi totale della produzione serica. La moda aveva poi modificato le abitudini di consumo: la sostituzione dello stile francese con quello inglese aveva indirizzato l’abbigliamento maschile verso il panno abbandonando la seta. Lo stesso era accaduto per le donne, che l’avevano accantonata per rivolgersi al cotone e alla mussolina indiana. Napoleone reintroduceva l’abito di corte di seta operata dei manti di velluto. Anche la moda degli scialli cachemire offrì una possibilità di ripresa per l’industria tessile. 
 Per ovviare alla difficoltà di riproduzione dei motivi decorativi originali, Ternaux proponeva di sostituire quei disegni bizzarri che avevano lungamente copiato, con delle palme di gusto francese. Nel 1813, “Le Moniteur universel” annunciava la presentazione a corte dei dodici scialli che Napoleone aveva commissionato a Ternaux, in cui il motivo a palmette era stato sostituito da mazzolini e ghirlande imitate dai più bei fiori d’Europa. Era l’inizio di una produzione originale in cui la Francia avrebbe avuto un ruolo di eccellenza fino agli anni sessanta dell’Ottocento. Il disegno politico interessò anche il ricamo e il merletto. Manti e abiti di corte, completi maschili da cerimonia, oggetti da apparato furono decorati con i simboli della nuova iconografia imperiale ricamati in oro e argento, mentre gli indumenti femminili furono ricoperti di lievi lavorazioni a plumetis e si arricchirono di bordi, di una banda centrale e di decorazioni a motivi di fiori, ghirlande ecc.. realizzati in bianco o con paillettes. La ripresa delle produzioni francesi dei merletti fu più lenta. La sua immagine era ancora legata all’Ancien Régime. 
 Fu solo dopo il 1806 che gli sforzi di Napoleone cominciarono a dare frutti. La moda imperiale rimase uguale a se stessa sostanzialmente fino al 1815. Il revival neoclassico continuava ad essere il modello di base: l’abito femminile a vita alta rimase invariato per vent’anni, anche se alla robe en chemise del Direttorio vennero presto aggiunte caste maniche lunghe, strette a guanto o a piccoli rigonfi. I capelli corti all’antica e i piccoli coturni allacciati rimasero costanti, ma vi si aggiunsero mille fogge di capelli e di stivaletti. Le nuove mode nascevano spesso intorno alle campagne militari dell’imperatore. L’Egitto portò il turbante e gli scialli; la Prussia, la Polonia e la Russia le pellicce. 
 L’Italia si inserì nel generale gusto neoclassico. Il “grand habit” di corte La reintroduzione dei protocolli di corte richiese un modello vestimentario adatto agli eventi ufficiali. Se per gli uomini si ritornò all’habit à la française, per le donne il discorso era diverso. 
 L’abito di corte non era più solo una questione di moda, la sua funzione doveva essere innanzitutto simbolica. Divenuto imperatore, Napoleone scelse come proprio emblema l’aquila, che riuniva in sé una duplice immagine del potere: quella dell’Impero Romano e quella di Carlomagno. Le api rimandavano all’antico regno dei Franchi e alla simbologia borghese del lavoro che Napoleone prometteva di dedicare alla Francia. La scenografia del giorno dell’incoronazione fu affidata a David, mentre i costumi furono disegnati da Isabey con la costante supervisione dell’imperatore. Napoleone indossò una tunica di raso bianco, ricamata in oro e bordata di una frangia, e un pesante mantello di corte di velluto porpora foderato di ermellino. Ai piedi un paio di scarpe ricamate in oro, con un disegno che fingeva i lacci dei sandali romani. Un diadema a foglie di alloro, lo scettro, la mano della giustizia e la spada che si riteneva fosse appartenuta a Carlomagno. L’imperatrice indossava un vestito a vita alta di raso bianco broccato d’argento, ricamato in oro e completato con una frangia. La linea neoclassica era però arricchita da alcuni particolari revival, come il rigonfiamento nella parte alta delle maniche, decorato con tralci ricamati in oro e file di diamanti, che riprendeva una foggia rinascimentale. Allo stesso modo la leggera cherusque (colletto in piedi abbastanza rigido, poteva essere fatto di tela, pizzo o garza metallica), di merletto di seta ricamato in oro, che segnava le spalle, ricordava mode passate. Il vero elemento che trasformava il raffinato abito alla moda di Joséphine in un grand habit di corte era però il manto di velluto porpora, foderato di ermellino e ricamato in oro, che si allacciava alle spalle con due bretelle. 
 L’abbigliamento delle altre dame di corte era modellato su quello dell’imperatrice, mentre quello maschile prevedeva una giacca- tunica lunga al ginocchio e un mantello corto, cravatta di merletto e cappello piumato alla Henri IV. L’incoronazione fu la messa a punto dell’immagine della corte imperiale e la definizione del suo apparire e della nuova etichetta e fissò un modello simbolico e temporale che non doveva essere modificato. Napoleone separò l’abbigliamento di apparato dalla moda. L’abito da cerimonia diventò un’uniforme destinata a rappresentare più la tradizione del potere che la sua vitalità. Diffusione e professioni della moda Tutta la moda imperiale fu un affare di corte, legata al suo entourage e al suo apparire. Venne inventata e diffusa soprattutto dalla famiglia imperiale. Quando poi le giovani donne della famiglia Bonaparte diventarono regina di Olanda, regina di Napoli, principessa di Lucca e Piombino, regina di Spagna, si trasformarono in ambasciatrici della moda francese in tutto l’Impero. Le loro corti si modellarono su quella di Parigi. Il vero mezzo di comunicazione dello stile Impero di Francia e all’estero fu “Le Journal des dames et des modes”, fondato da la Mésangère negli anni del Direttorio, in cui si proponevano le mode del giorno riprese dalle toilettes delle dame più in vista, per assicurarsi la conoscenza delle abitudini e delle novità elaborate a corte. Lo strumento politico e quello della stampa determinarono gli andamenti della moda europea fino alla caduta di Napoleone. Ci fu l’intervento di professionisti, il più famoso fu Louis-Hippolyte Leroy, il couturier che seguì le sorti della moda francese dal Direttorio alla Restaurazione, lavorando sempre per i livelli più alti della società. All’inizio della sua professione era stato impiegato in un magasin de nouveauté, poi si era messo in società con una famosa couturière, Madame Raimbault. Nel 1804 fu incaricato di fornire gli abiti progettati da Isabey per l’incoronazione. Leroy divenne il solo fornitore dell’imperatrice e il punto di riferimento di tutte le dame eleganti d’Europa. La sua fama dipese anche dalla capacità di rispondere alle esigenze del nuovo mercato rappresentato dalle corti napoleoniche. Egli vendeva tutto quello che in qualche modo aveva una relazione con la moda. una sua specializzazione erano gli scialli cachemire, che avevano nell’imperatrice un’appassionata collezionatrice. Ovviamente “Le Journal des dames et des modes” pubblicò con metodo e costanza le sue realizzazioni, facendogli una pubblicità che si estese per tutto l’impero. Egli divenne la guida assoluta del buon gusto femminile e in qualche misura fu il vero depositario dello stile Impero e della moda di corte. Non era comunque l’unico fornitore della famiglia imperiale: numerosi magasins de nouveautes si dividevano questo privilegio godendo delle grandi somme che le imperatrici e principesse disponevano per il loro guardaroba. La moda imperiale era di fatto limitata alle corti, al di fuori di esse cresceva quello spirito borghese che aveva provocato i grandi cambiamenti settecenteschi. 
 Al fasto delle cerimonie faceva riscontro la morigeratezza della vita casalinga. Molte Anche il vestito femminile aveva il compito di mostrare il ruolo sociale della donna che lo indossava. Le donne nella società non avevano alcuno spazio pubblico, ed erano limitate a occuparsi della casa e della famiglia. Dovevano presentarsi come virtuose, caste, semplici, econome, disinteressate alla vita pubblica e politica. Erano ignoranti e inesperte, non possedevano nulla di proprio ed erano protette dai mariti. L’abito vide un progressivo irrigidimento. La gonna assunse la forma a campana, prima con elementi decorativi imbottiti sull’orlo e poi con delle sottovesti. Il punto vita prima fu alto e poi tornò alla posizione normale, mentre la postura e la forma del busto furono mantenute tale con un corsetto steccato. Gli abiti dovevano essere accollati, con l’unica eccezione dei vestiti da sera che potevano avere la scollatura. Le maniche si gonfiarono e assunsero funzione decorativa. Il corpo della donna fu completamente occultato, con forme rigide e mantelline che lo trasformarono totalmente. Il culmine venne raggiunto quando la veste fece assumere al corpo femminile la forma a 3 triangoli: testa, torace e gonna. Le acconciature erano fatte di capelli posticci, decorate con nastri e gioielli e coperte da cappelli con piume e fiori. La linea delle spalle era esagerata, con colletti, giacche, pellicce. Il vitino da vespa era ottenuto con l’aiuto del corsetto, mentre la gonna era corta abbastanza da mostrare i piedi. La borghesia stava scoprendo un nuovo modo per mostrare ricchezza, la vanità femminile. L’ulteriore passo verso la democrazia con l’instaurazione di una monarchia costituzionale aveva acceso il desiderio di distinguersi. Ampiezza, scomodità e decorazioni furono le caratteristiche principali alla base dell’apparire femminile. Le donne con i loro lussuosi abiti erano l’unica maniera con cui l’uomo borghese poteva dimostrare la propria ricchezza. Feste, balli e spettacoli erano i luoghi perfetti in cui mostrare le differenze di reddito tramite gli abiti femminili. Somiglianza e uniformità, alla base del sistema borghese, creavano nell’individuo una situazione psicologica ambigua. Essere uguali agli altri voleva dire essere accettati, ma al faceva anche sorgere il desiderio di distinguersi ed emergere. La moda femminile divenne il principale strumento con cui rappresentare le differenze sociali senza intaccare il modello etico maschile. Presto si diffuse un meccanismo di diffusione della moda “a goccia”: un èlite proponeva la novità, poi essa si affermava nella parte di società benestante e progressivamente si diffondeva negli altri strati sociali. Il tempo intercorso tra la prima apparizione di una novità della moda e la sua diffusione segnava la distanza tra i gruppi sociali che man mano la adottavano. La moda del revival Gli abiti erano continuamente arricchiti con materiali, decorazioni e accessori, ma raramente i cambiamenti coinvolgevano la linea dell’abito. Agli inizi degli anni ’40 però le grandi maniche sparirono, con una riduzione del busto e l’ampliamento della gonna, arricchita di volant. Le mode nascevano come parte di un gusto generale che coinvolgeva tutto il vivere sociale. Nella prima metà del secolo il romanticismo diffuse nella cultura borghese una moda storicista, tutto era diventato un enorme bacino di storie e fonti per la creatività moderna. Anche l’abito femminile seguì lo stesso processo. A volte la ripresa di elementi del passato era diretta come la moda delle grandi maniche in voga nel 1500, altre volte era indiretta e ispirata a vicende letterarie. Il successo più duraturo fu il modello dell’abito aristocratico, con il torace modellato dal busto e la gonna sostenuta da strutture rigide. La sottoveste più diffusa fu sicuramente la crinolina, inventata nel 1830 da Oudinot. Essa era realizzata con stoffa di cotone o lino e resa rigida con una trama di crine di cavallo. Nel 1856 Parson brevettò la gabbia metallica, ancora più rigida. Il corpo femminile aveva già superato la fase di liberazione durante il periodo rivoluzionario ed era tornato ad essere ingabbiato. Questo fu dovuto al ritorno all’ordine e alla presa di potere da parte della borghesia. La storia comunque era la fonte principale a cui attingere nella realizzazione dei vestiti. Oltre ai periodi storici di riferimento come Rinascimento e Medioevo, non mancavano riferimenti alle conquiste coloniali: vicino e lontano Oriente si tradussero in decorazioni, tessuti, indumenti. La moda era parte di un sistema culturale che spingeva le industrie alla produzione di copie di oggetti antichi, da adattare alle esigenze della vita moderna. Il museo divenne il luogo principale da cui reperire gli esempi da imitare, anche per l’abbigliamento. Questa tendenza alla copiatura era la manifestazione del desiderio di possedere il lusso di cui ci si era privati per tanto tempo, era un modo per costruirsi un passato. Il revival e il kitsch caratterizzavano questi manufatti presenti nelle case borghesi, e nonostante il cattivo gusto rappresentavano una fonte di ricchezza e di commercio per la produzione industriale. Il cattivo gusto fu una delle conseguenze della democrazia. La borghesia infatti non era elitaria, ma come simbolo aveva la folla, era una società di massa. Il sistema produttivo capitalistico stava causando un veloce incremento della ricchezza, ma la società non aveva avuto il tempo di maturare un buon gusto. Ci si lasciò andare a copie e riproduzioni di ogni tipo, da cui la casa borghese fu completamente sommersa. Per quanto riguarda la moda, essa rimase a lungo lontano da questa esagerazione, limitandosi a copiare il passato per gli abiti da usare nelle feste in costume che erano molto diffuse. Le sarte di Parigi seppero limitare le ispirazioni storiciste solo a decorazioni e accessori. Magasins de nouveautès Il commercio di articoli di moda si era diffuso nel periodo napoleonico. Le merchandes de modes furono sostituite dai magasins de nouveautès, che comprendevano tutti i settori dell’abbigliamento e dei suoi accessori. Questi negozi erano rinnovati nell’arredamento, forniti di vetrine illuminate e insegne. Tramite le vetrine le merci venivano esposte in modo da essere visibili all’esterno da chi ci passava davanti, per attirare clienti. I magasines erano collocati nei passages, vie dedicate al passeggio e al commercio. Il principale mezzo pubblicitario utilizzato erano i volantini e i piccoli manifesti, che però non fungevano da riviste di moda. Dagli anni ’40 l’organizzazione interna cominciò a basarsi su una divisione commerciale in reparti omogenei. Ogni tessuto aveva il proprio banco di vendita, per esempio la seta era divisa tramite reparti in: tinta unita, seta operata, per lutto e per semilutto. C’era anche un banco per le confezioni. Presso il banco della biancheria si vendevano anche merletti e altri accessori, mentre calze e guanti si trovavano al banco della maglieria. Anche il rapporto tra merce e clientela subì un cambio radicale. la merce infatti ora era esposta liberamente, con il prezzo in vista non contrattabile e visibile anche da chi non aveva intenzione di comprare. Ognuno era libero di girare liberamente nel negozio. I prezzi inoltre non erano più esagerati, perché ora grazie alla produzione industriale in serie i costi per la realizzazione erano molto più bassi. Lo sviluppo di questi magazzini ebbe nell’industria tessile la sua alleata: perché il commercio potesse espandersi c’era bisogno di una quantità di merce adeguata a una richiesta allargata. La confezione La vera novità di questo periodo fu la confezione. Gli abiti delle classi sociali alte erano ancora confezionati da tailleur e couturière, i cui modelli era pubblicati sulle riviste di moda. La borghesia però aveva numerosi strati e quelli più bassi erano impossibilitati per motivi economici a rivolgersi agli stessi fornitori dei ceti alti. Allo stesso tempo però non volevano ricorrere al mercato dell’usato, soprattutto perché gli uomini sapevano bene che i concetti di decoro e proprietà non andavano d’accordo con il riciclaggio di abiti. Nel 1924 Pierre Parissot creò un’impresa in cui si realizzavano indumenti maschili nuovi in serie, inizialmente dedicati solo al lavoro. In poco tempo però Parissot passò anche alla produzione di abiti borghesi da utilizzare nella vita quotidiana e non solo per lavorare, a prezzi ragionevoli. L’idea di Parissot fu ripresa da altri, però la realizzazione di abiti pronti raggiunse il vero sviluppo negli anni 40. La confezione femminile invece in quegli anni riguardò solamente complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo. La logica seguita dai negozi di confezione per signore era diversa da quella dei negozi maschili, infatti ci si rivolgeva a signore ricche proponendo abiti e accessori costosi e alla moda. Scialli, mantelli e giacche erano i principali indumenti presenti sui banchi dei magazzini. Iniziarono a diffondersi due tipi di professione: le confezioniste che fabbricavano NON su misura mantelline, pellicce ecc. destinate ai magasins, e le sarte- confezioniste, che invece oltre agli indumenti su misura realizzavano anche vestaglie, camicie e abiti per bambini preconfezionati. Nella prima fase la produzione di abiti già pronti non riguardava l’abito intero, perché le donne preferivano ancora quello su misura realizzato dalla sarta di fiducia. Come novità però fu introdotta la produzione di pezze operate o stampate, già pensate per il modello finale. Le manifatture crearono stoffe con motivi ornamentali grandi per la sottana e in scala minore per il corpetto. I produttori dell’Alsazia si spinsero oltre L’iconografia più seguita nelle illustrazioni di moda era quella di una figura femminile che seguiva i canoni di bellezza del tempo, per trasmetterli e mostrare l’abito che stava indossando. Queste immagini avevano lo scopo di dare visibilità ai nuovi vestiti, per dare la possibilità di copiarli. La confezione poteva essere sartoriale o casalinga, ma in entrambi i casi il figurino serviva da guida per tagli, materiali, colori. Il disegno doveva essere chiaro, e a volte si offrivano figurini a doppia visione, di fronte e di spalle. A volte le figure erano rappresentate in contesti ideali, per mostrare l’occasione in cui l’abito doveva essere indossato. Questa iconografia è stata definita di “realismo idealizzato”, fiabesco e dai colori tenui, che rappresenta un mondo di signore perbene che rispettano i riti della società ordinata. La capacità di scegliere I grandi magazzini condividevano l’utopia delle Esposizioni Universali, ossia attirare tutti a osservare lo spettacolo delle merci esposte. Le differenti esigenze di gusto e di vita delle varie componenti sociali presto portarono i magazzini a selezionare le proprie offerte. I Grands Magasins du Louvre si specializzarono in moda lussuosa per le signore dell’alta borghesia, il Bon Marchè si mantenne invece più provinciale. Il Printemps scelse di essere più giovanile e alla moda, mentre il Samaritaine si impose nelle classi più basse. Oltre a loro continuavano a esistere sartorie e maison esclusive, per la clientela più raffinata ed elegante. Tutte queste imprese esponevano le loro produzioni alle Esposizioni universali, vincevano premi e iniziavano a pubblicare regolarmente le loro novità sulle riviste. Allo stesso tempo però al loro interno avevano adottato lo stile di esposizione moderno dei grandi magazzini. Il commercio di moda rispondeva alle esigenze dell’intero mercato borghese, era democratico perché tutti potevano accedere alle merci, guardarle e magari acquistarle. La diffusione della classe borghese che si circondava di beni materiali per mostrare la propria posizione sociale e adeguarsi a uno stile di vita dignitoso aveva posto le basi per un mercato a cui i commercianti davano soddisfazione. La borghesia non amava le differenze troppo marcate e temeva l’eccentricità, ma allo stesso tempo anche l’omologazione totale. L’ambiguità tra individualismo e uniformità era costantemente presente nelle scelte delle clienti. Esse cercavano dei segni di distinzione che mostrassero individualità. Non erano però ancora state superate la paura di eccedere nell’ostentazione, la necessità di nascondere il livello culturale basso da cui si proveniva, il desiderio di tagliare con il passato. La signora vagando per il negozio comprava gli strumenti per costruire la propria immagine pubblica. Aveva letto le riviste e osservato le mode, e quindi aveva chiaro lo stile di vita che le competeva. Le mode in tutto ciò si susseguivano senza avere veri centri di emanazione, erano principalmente proposte fatte da modiste e sarte. Ai livelli sociali più altri ci si serviva ancora delle grandi sartorie, ma intanto erano i nuovi strati borghesi ad avere sempre più denaro. Questo nuovo scenario della società aveva spazzato via le norme della moda dell’Ancien Regime, infatti la vecchia concezione del lusso era stata sostituita da un sistema democratico secondo cui il modo di vestire era una scelta individuale. Piano piano si fece strada la figura di un esperto di moda che dava consigli e faceva da guida nel grande magazzino, cercando di capire le esigenze delle clienti. Tra i primi spiccò sicuramente Charles Frederick Worth. CHARLES FREDERICK WORTH (1825-1895) CHARLES FREDERICK WORTH Nasce in Inghilterra in 1825 in una famiglia borghese Ha svolto un apprendistato in due ditte di tessuti londinesi prima di recarsi a Parigi nel 1845 A Parigi lavorò come commesso a La Ville de Paris e poi venne assunto come assistente alle vendite da Gagelin (= uno dei più importanti magazzini di moda della città) Venne incaricato del reparto “scialli e mantelli” e per farli risaltare realizzò abiti con la crinolina molto semplici Introduce la prima innovazione ovvero quella di presentare i capi utilizzando come modella una commessa del reparto, Marie Augustine Vernet (= diventerà sua moglie) Le signore dell’alta società cominciavano a essere attratte dall’idea di acquistare indumenti già fatti purché fossero di moda e di lusso All’Esposizione Universale di Londra del 1851 la Maison Gagelin fu l’unica ditta a presentare capi già pronti -> questa scelta non ebbe successo presso il pubblico e nemmeno la critica la apprezzò (= ricevettero una medaglia di prima classe solo per una delle sete ricamate à disposition) All’Esposizione Universale di Parigi del 1855 fu assegnata una medaglia a Gagelin nella sezione “Confezione di articoli di abbigliamento. Fabbricazione di oggetti di moda e di fantasia” per un manto di corte di seta ricamata in oro che si appoggiava alle spalle (= non alla cintura come diceva la moda del tempo) Dal 1853 Worth era entrato in società con il nuovo proprietario del magazzino, Octave-François Opigez-Gagelin, e con Ernest Walles, un altro impiegato della ditta - > i soci iniziano ad avere delle divergenze e l’1 luglio del 1858 si scioglie la società Nel 1858 Worth crea una nuova società insieme a Otto Bobergh (= uno svedese che forse aveva conosciuto quando lavorava a La Ville de Paris) Il loro magazzino era collocato nella Rue de la Paix che era una zona un po’ decentrata rispetto agli itinerari più frequentati dalle signore dell’alta borghesia ma la situazione cambia quando Napoleone III decide di costruire una nuova Opera al posto del vecchio teatro -> il nuovo edificio cambia l’immagine del quartiere La nuova Maison vendeva stoffe e proponeva abiti esclusivi progettati da Worth che venivano confezionati su misura secondo le modalità imposte dalla creatività del couturier -> nasce la haute couture (= “alta moda”) La scelta dell’abito non competeva più ad una ricca signora ma veniva delegata a qualcuno che, per investitura professionale, portava a termine questo compito (= quando Adolphus aveva chiesto a Worth se ci fossero clienti che reclamavano una scelta personale lui rispose: “Scelta? Certamente; ma solo fra le mie proposte”) Worth diceva che il suo lavoro con consisteva solo nella confezione ma soprattutto nell’ideazione (= “La mia inventiva è il mio successo”) LA SOCIETÀ DEL SECONDO IMPERO Il mondo che cominciò a rivolgersi a Worth è quello del Secondo Impero che ruotava intorno alla nuova corte e ai gusti dell’imperatrice Eugenia La società della borghesia stava investendo molto in una serie di operazioni al limite della legalità e oltre In questo periodo c’è la riedificazione di Parigi secondo il piano urbanistico del barone Haussmann -> la città si trasforma: vengono costruiti grandi immobili in pochissimo tempo Questa società cercava di dare al proprio denaro un’immagine che fosse capace di rendere visibili i propri trionfi e l’adozione di un modello politico e sociale conservatore La borghesia voleva dare un aspetto di se rassicurante: di ricchezza, di lusso, di ambizione ma anche del proprio passato -> vennero reintrodotte le regole delle vecchie etichette di corte e cercavano di fregiarsi di insegne di nobiltà pagate con il denaro La moda si adeguò a questo gusto e per tutti gli anni ’50 s’impegnò a segnalare il lusso e la ricchezza attraverso: La crinolina sempre più esagerata per adeguarsi al desiderio di revival e di ostentazione La quantità di stoffa necessaria per confezionare gli abiti nel giro di pochi anni raddoppiò Ora che la guida della corte era caduta, la posizione di Worth divenne più centrale e assoluto: aveva il compito di arbitro unico del gusto e della moda Il passaggio tra il Secondo Impero e la Terza Repubblica è segnato dalla riduzione del diametro delle gonne in favore di drappeggi e di decorazioni -> l’eccesso di tessuto trovò una giustificazione “patriottica”: l’utilizzo di molto tessuto era considerato indispensabile per l’economia della nuova Francia borghese Abito doveva mutare la foggia per assecondare l’evoluzione sociale ma continuava a richiedere metri e metri di tessuto, di nastri, di passamaneria -> Worth ridusse il busto con un effetto a vita alta definito “Joséphine” a favore della gonna e della sua decorazione e la tunica si avvolse con vari effetti di drappeggio intorno ai fianchi e fu decorato con applicazioni di fiori, balze, frange e nastri Ma propone anche un abito totalmente nuovo in cui poteva mettere alla luce la qualità del suo taglio -> il modello era chiamato princess ed era realizzato in un solo pezzo Il modello princess richiedeva di strutturare l’intero indumento in modo da seguire le forme del corpo, nella parte alta, e allargare la gonna verso l’orlo -> successo si limitò all’ambito degli abiti da casa (= le signore li indossavano per ricevere visite pomeridiane ma non per le uscite pubbliche) Introno al 1874 nasce una nuova moda quella della corazza: un busto steccato e modellato che arriva ai fianchi e si allungava sia davanti che dietro -> modifica la forma della sopragonna che venne aperta al centro in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico, sul davanti fu sostituita dalla completa visibilità della sottogonna oppure con una sorta di grembiule drappeggiato La tournure venne eliminata in modo da favorire una linea sottile e aderente La forma della silhouette era diventata longilinea e dall’aspetto corazzato -> primo elemento di mascolinità: segno che aveva preso da immagini storiche (= come i ritratti degli armamenti del ‘500) e che aveva decontestualizzato e utilizzato in maniera innovativa Attraverso la corazza la donna perdeva il tratto fragile e bamboleggiante e la forma del corpo mostrava le sue linee naturali (= non è un’allusione alla nudità) Questa moda s’inseriva nel dibattito culturale dal quale riemerge la figura della femme fatale ovvero l’immagine di una donna forte e terribile (= immaginario che inizia a preoccupare la popolazione maschile) -> questa moda ha una forte contraddizione: la donna era corazzata contro l’uomo ma anche prigioniera nel suo strumento di guerra e di seduzione Worth conosceva perfettamente i suoi clienti e l’unica regola che aveva era quella di aderire allo stile di vita della borghesia internazionale -> i suoi abiti erano ricchi, realizzati con stoffe di lusso, decorati sfarzosamente e vistosi: grandi disegni, grandi porzioni di ricamo, applicazioni sovrabbondanti, accessori (= rispondevano alla necessità di ostentazione) I suoi abiti erano un elemento di qualificazione e di distinzione dell’alta borghesia L’unica legge che Worth imponeva era il costo che era una garanzia di clientela elitaria e di un prodotto di altissima qualità sartoriale ed estetica Il modello/prototipo veniva creato in diverse varianti per clienti diverse infatti: Worth si basava sul concetto di unicità e autenticità (= sancita dall’etichetta all’interno che aveva lo stesso valore della firma su un’opera d’arte) Fino alla fine degli anni’70 i suoi abiti non venivano riprodotti sulle riviste ma ci sono molte menzioni scritte che lo elogiano che avvalorano la sua leggenda e mantengono l’attenzione su di lui I vestiti erano realizzati in modo tale da creare una forma illusoria del corpo femminile -> non dovevano mostrare la propria essenza ma la propria immagine sociale Erano sempre più ispirati a modelli storici o artistici IL TRIONFO DEL REVIVAL Negli anni ’80 Worth concentra la propria creatività nel gusto storicista ripercorrendo i modi di vestire e gli stili di tutte le epoche Le fonti d’ispirazione erano facilmente riconoscibili perché spesso si trattava di quadri celebri utilizzati per spunti creativi o per ricavarne dettagli da riproporre nei capi adeguati allo stile di vita contemporaneo Di solito le fogge rimanevano all’interno delle mode consolidate ma i tessuti, particolari sartoriali e le decorazioni si arricchivano di richiami al passato Dal ‘500 e dal ‘600 furono ripresi i colletti a lattuga, le ampie maniche e nuove soluzioni per i mantelli, stole e cappe da sera Dal ‘700 riprende gli engageants, i fichu, i nastri da collo, le marsine, le redingote Antica aristocrazia e attuale borghesia s’intrecciavano per assecondare i riti della nuova società La ricchezza di elementi decorativi fece tornare di moda la tournure e rimase fino alla fine degli anni ’80 -> la tournure era cambiata: era una piccola gabbia metallica dalla struttura squadrata destinata a sostenere un ampliamento posteriore della gonna GLI ANNI NOVANTA All’inizio degli anni ’90 il figlio di Worth, Jean-Philippe, assunse i compiti creativi Ci sono nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni: compaiono le prime concessioni al giapponismo e al gusto dell’Art Nouveau -> Worth non fu uno dei promotori ma nei suoi abiti adotta decori, tessuti, ricamati che si riferiscono a queste correnti estetiche (= es. lampasso a tulipani, ricamo con il sole tra le nuvole, tessuti a petali, fiori di crisantemo, ricami a motivi floreali isolati) La figura femminile assunse un andamento verticale: gonna fu alleggerita e prese una forma a campana (= soluzione più moderna e funzionale) -> pubblico femminile non è ancora pronto a questo cambiamento, infatti: le riviste attribuirono l’innovazione ad un significato di tipo storico legato alla regina Vittoria che diventa un’ispiratrice della moda all’avanguardia È più probabile che il modello di questo abito si deve al movimento per la moda Reform che stava coinvolgendo medici, artisti e intellettuali all’avanguardia Abito conserva il busto steccato ma si alleggerisce e si semplificato, comparve più spesso l’abito princess che metteva in risalto la semplicità della nuova linea ma l’idea della modernità non è ancora riuscita a sconfiggere il gusto storicista ed eclettico molto amato dalla cultura della ricca borghesia occidentale Le signore che si vestivano da Worth volevano essere alla moda senza rivoluzioni e non volevano mettere in discussione il gusto che la Maison rappresentava e garantiva da decenni Nonostante ciò ci furono proposte di nuovi revival che si incentravano sull’elemento di semplicità tipico dello stile degli anni ’30 dell’800 -> risultò molto evidente quando Worth introdusse le maniche à gigot che servivano a controbilanciare la linearità del modello La forma à gigot gonfiò la spalla dandole una forma arrotondata senza raggiungere mai gli eccessi Dopo la morte di Worth nel 1895 continuò ad essere un punto di riferimento dell’alta società ma poi altri assunsero il ruolo di cambiare le mode e interpretare i tempi -> Jean-Philippe e suo nipote Jean-Charles conservarono una posizione di preminenza nel panorama dell’haute couture fino alla fine degli anni ’20 del ‘900 quando il suo ruolo divenne quello di sartoria di solida tradizione Jean-Charles nei primi anni ’50 vendette il magazzino alla Maison Paquin IL RUOLO DEL “COUTURIER” Bobergh tra il 1870-71 vende la sua quota di partecipazione a Worth che dirige da solo la sua Maison Dalla metà degli anni ’60 coinvolge nelle attività i figli (= Jean-Philippe ricoprì i compiti creativi e Gaston-Lucien quelli amministrativi) in modo tale da garantire continuità e futuro alla Maison Worth continua a esercitare un controllo diretto sulla produzione almeno fino ai primi anni ’90 perché la sua presenza e il suo carisma erano caratteri rassicuranti e di garanzia per le clienti meccanismo stava portando la società ad un’estetica dell’effimero a cui molti artisti e intellettuali cercarono di porre freno. Nel caso specifico la moda femminile appariva scomoda, artificiale e troppo decorata. La prima ad andare contro questa tendenza fu Mrs. Bloomer che nel 1851 decise di adottare un abbigliamento molto più pratico rispetto alle tipiche gonne con crinolina. Mrs. Bloomer utilizzò un abbigliamento che prevedeva un corpetto con busto non troppo rigido (in linea con la moda del tempo) e una sottana che si tagliava al ginocchio lasciando intravedere i pantaloni; che coprivano le gambe fino alla caviglia. La cosa fu rivoluzionaria ma la cultura occidentale non accettò che una donna indossasse un indumento simbolo della mascolinità e Mrs. Bloom dovette ritornare all’abbigliamento tradizionale. Nel 1881 la viscontessa Haberton riprese l’idea e fondò il Rational Dress Society un movimento che interveniva sull’abito femminile in nome della salute. Anch’esso proponeva l’uso di pantaloni e gonne-pantalone. Ada Baillie della National Health Society spinse, invece, sull’abito a princess (che non stringeva troppo la vita e si appoggiava sulle spalle limitando l’uso del busto) questo perché, a suo parere, l’utilizzo di pantaloni sulle donne rappresentava una rivoluzione a cui il mondo occidentale non era ancora pronto. Entrambi i movimenti legavano la riforma dell’abito femminile al processo di emancipazione della donna. La società borghese accettò e andò incontro ad un non- utilizzo del busto quando nuovi studi scientifici constatarono che esso poteva pregiudicare la gravidanza (ai tempi la maternità coincideva con lo status di donna). Questo portò ad un’alleanza tra la medicina ufficiale e i primi movimenti che parlavano di emancipazione femminile. I PRERAFFAELLITI I preraffaelliti già verso la fine degli anni 40 avevano creato degli abiti che si prestavano particolarmente al loro tipo di pittura. Si trattava di indumenti morbidi, con ampie maniche, drappeggiati sul corpo in stile Madonne quattrocentesche. Questi abiti non prevedevano né busti né crinoline. Lo scopo del gruppo non era solo quello di rivoluzionare l’abbigliamento ma tutto il contesto di vita moderno. Per esempio, movimenti come Art and Crafts puntavano sul ritorno del lavoro manuale per proporre un nuovo ideale di gusto che ridiscutesse l’intero contesto delle arti decorative. Proponevano una totale integrazione fra le classi sociali ed una società in cui lavoro e creatività artigianale fossero alla base. Tutto questo si scontrava con l’artificialità dell’abito femminile. La ricerca di un nuovo canone per l’abito femminile incontrò la cultura giapponese e si andò così a creare un mix tra il gusto occidentale e la raffinatezza nipponica. Molti pittori tra cui James McNeil Whisler ritrassero le modelle mentre indossavano dei kimono. Questo tipo di abito uscì presto dalla cerchia di artisti d’avanguardia e divenne un simbolo di riconoscimento delle signore nella società intellettuale. I KUNSTLERKLEID (L’ABITO D’ARTISTA) Il progetto di riforma della cultura borghese nel giro di pochi anni si diffuse in tutta Europa e la riforma del vestito ne divenne uno dei simboli. Moltissimi artisti si impegnarono a modificare la forma degli oggetti (tra cui l’abito) per indurre l’abitudine ad un gusto più raffinato. Le idee di Morris con Art and Crafts divennero presto popolari nei paesi di area tedesca. Nel 1900 Friedrich Deneken organizzò una mostra nel Kaiser Wilhelm Museum di Krefeld dedicata all’abito d’artista. Fu la prima volta che degli indumenti furono esposti in un museo. Questa mostra rappresentò un sodalizio fra artisti e cultura vestimentaria. Klimt a Vienna disegnò per sé e la sua compagna degli abiti che riproponevano la morbidezza orientale in chiave occidentale, abiti molto vicino ai suoi quadri. Semplici nella linea e raffinati nei tessuti. Sempre a Vienna la Wiener Werkstatte, scuola di arti applicate diretta da Wisgrill, divenne il luogo centrale sulla ricerca dell’abito d’artista anche se i modelli ideati in questa sede rimasero spesso progetti. Poiret ne fu tuttavia molto colpito e ne prese spunto per rivoluzionare la moda parigina. L’ABITO ALLA GRECA Negli anni 70 Schliemann aveva riportato alla luce Troia, Micene e Tirinto e in breve periodo l’argomento Troia si trovò sulla bocca di tutti. La popolarità di questo tema spinse molti artisti a fare del mondo classico il soggetto principale delle proprie opere portando, inevitabilmente, a delle conseguenze sulla moda. Si iniziò a diffondere un’idea di ritorno all’abito delle origini. Molti artisti come Walter Crane furono incaricati di rappresentate il nuovo modello vestimentario. Anche Oscar Wild sostenne che l’unione tra il mondo classico e quello moderno fosse perfetta. Il maggior interprete dell’abbigliamento greco fu Mariano Fortuny che da un lato reinventò il modello del chitone trasformandolo in una tunica chiamata Delphos e dall’altro fece un tributo alla civiltà minoica con la sciarpa Cnossos. La ricerca di Fortuny si estese al sistema di taglio degli indumenti orientali e alla creazione di tessuti adatti alla traduzione dell’abito greco. Egli elaborò tecniche di colorazione e stampa che sapevano rendere molto bene gli effetti dei disegni antichi. I vestiti che si crearono vennero indossati per decenni da donne appartenenti ai più diversi gruppi di elitè. Delphos Sciarpa Cnossos I FUTURISTI Il primo decennio del nuovo secolo vide la violenta entrata della ricerca futurista. I miti dei futuristi erano la metropoli, la macchina, e la tecnologia; miti che rompevamo completamente con l’estetica del revival. I futuristi misero in discussione soprattutto il modello del vestiario maschile. Balla realizzò per sé abiti innovativi lei cui forme e la cromia dovevano suggerire effetti di dinamismo. Nel 1914 pubblicò Le vetement masculin futuriste manifeste in cui dettava i precetti del nuovo abito futurista. Secondo Balla l’abbigliamento, pur seguendo regole generali, doveva cambiare da persona a persona. Negli anni successivi i futuristi aprirono in tutta Italia laboratori in cui realizzare oggetti d’arte applicata. Purtroppo non si instaurò mai un vero e proprio rapporto tra il futurismo italiano e la produzione di moda; questo perché si trattò principalmente di ricerche teoriche esclusivamente focalizzate sull’abbigliamento maschile. Le produzioni di maggior successo furono i gilet ad assemblage prodotti da Balla e Depero negli anni 20 che comunque ebbero scarsissima diffusione. I futuristi criticavano soprattutto la mancanza di idee nella produzione di abiti maschili, a loro parere, mascherata sotto la falsa insegna della sobrietà. COSTRUTTIVISMO E RIVOLUZIONE RUSSA Lo scopo della Russia post-rivoluzionaria era quello di costruire un mondo nuovo. Il vestito venne quindi preso in esame come componente simbolica. Dal 1917 si cercò di costruire un vestito che fosse adatto a tutti e che azzerasse le distinzioni tra classi sociali. Questo obbiettivo comportò un ripensamento del modello produttivo che passò dalla produzione di piccoli numeri alla produzione di grandi numeri destinati alla massa. La Russia, tuttavia, non aveva una cultura nel campo della confezione; la nobiltà si era sempre rifornita a Parigi mentre il popolo vestiva ancora i capi della tradizione cuciti in casa da piccoli artigiani. Dal 1919 si diffusero una serie di scuole e laboratori, gestiti dal Commissariato popolare dell’industria e del commercio, dove si iniziarono a elaborare i progetti del nuovo modo di vestire. Gli artisti dovevano realizzare, con stoffe a buon mercato, abiti semplici, di buon taglio e adatti alle nuove esigenze lavorative che sancissero l’unione tra arte e lavoro materiale/produttivo. La Nuova politica economica NEP diede un forte impulso alla libera creazione e nel 1923 veste istituito il primo atelier di moda che presentava i suoi modelli attraverso una rivista: Atelier. La ricerca di una nuova bellezza tenne conto di 2 punti fondamentali: il legame con la tradizione e la produzione di massa. Ogni artista elaborò a suo modo questi principi. Nadezhda Lamanova, designer di moda, si concentrò soprattutto sul materiale, la forma, la decorazione e la funzione pubblicando la sua ricerca nel 1925 nel testo “L’Arte nella vita quotidiana”. Altri artisti come Aleksandra Ekster e Vera Muchina concentrarono la loro creatività sulla produzione teatrale, che permetteva sicuramente più sperimentazioni, senza però escludere ricerche nell’ambito delle toilettes e degli abiti da lavoro (che secondo Ekster dovevano essere caratterizzati dalle forme geometriche più elementari). Questi abiti da lavoro si rivelarono molto utili e innovativi. Maison, dopo la morte di Charles Frederick, era in crisi e aveva bisogno di attirare una nuova clientela. Poiret avrebbe dovuto rinnovare l’immagine della maison creando proposte più adatte alle signore del nuovo secolo. L’impegno affidato a Poiret era di grande rilievo: rinnovare l’immagine della Maison con creazioni più ‘giovani’ e adatte alle signore del nuovo secolo un compito indubbiamente difficile. Egli tentò con un tailleur dalla linea molto semplice e con un mantello a kimono di panno nero, ma la clientela di Worth era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare la novità e d’altro canto, neanche gli stessi proprietari avevano capito quale clientela volessero veramente attrarre, quindi il rapporto fu molto breve. Un lascito di questa testimonianza è una toilette per la contessa di Greffulhe, realizzata per matrimonio della figlia della nobildonna, l’abito “Byzantine”, completamente ricamato in oro e argento e con lo strascico bordato di zibellino, ottenne il risultato di mettere in secondo piano la sposa. Maison Poiret Nel 1903 Paul Poiret aprì la sua prima Maison al 5 di Rue Auber, dietro all'Opéra. Nonostante le esperienze in due famosi atelier, non godendo di una fama propria, utilizzò la vetrina del negozio per creare esposizioni così spettacolari, che divenne un luogo iconico delle passeggiate parigine. La sua moda nacque nella semplificazione e nell’innovazione delle linee, sia con capi che seguivano la moda sia con capi dalle linee morbide provati in precedenza da Worth. Nel 1905 realizzò un mantello-kimono che fu pubblicato sulle riviste di moda con il nome di “Révérend” e che egli ritenne fondamentale per il suo percorso professionale. Simbolo dell’influenza orientale, il modello di Poiret s'inseriva nella voga del giapponesismo che in quegli anni aveva invaso Parigi: presentava un mantello formato da un grande rettangolo di panno bordeaux usato in senso orizzontale e ripiegato ai lati in modo da formare un dorso e due davanti simmetrici, aperto alle spalle lungo la cimosa del tessuto. Un medaglione dello stesso tessuto applicato, con una decorazione d'’ispirazione cinese, delimita su ciascuna delle spalle due spacchi di lunghezza diversa. Il più stretto serve da polsino. Due altri medaglioni sono applicati sul davanti e sulla fodera di seta crème dei due revers. Altri esempi della voga del giapponesismo sono Babani che produceva Kimono a Kyoto per il mercato europeo e Sada Yacco che vendeva modelli Importati a prezzi agevoli. Però la novità di Poiret sta nel proporre il kimono non come vestaglia da notte, non come un particolare aggiuntivo di un modello sartoriale, ma come un vero e proprio soprabito rompendo ancora una volta lo schema di una siluette dettata da busti e corsetti, mescolando culture diverse. Nel 1906 ampliò il negozio riorganizzando la maison in reparti specializzati; fu lo stesso anno in cui propose il primo abito senza corsetto , sostituito da una cintura rigida e steccata alla quale era cucita una gonna: “Lola Montes” sfoggiato da Denise Boulet (la moglie) per il battesimo della figlia. È certamente vero che egli non utilizzò più il busto tradizionale, ma lo sostituì con una guaina più lunga e aderente che e costringeva soprattutto il seno e il sedere. Un passo in avanti per la naturalizzazione del corpo femminile che eliminò anche gli ingombranti strati di biancheria. I nuovi abiti, morbidi e leggeri, lasciavano spazio alla sola camicia e così eliminavano il peso che le donne erano abituate a indossare. L'ispirazione neoclassica Da quel momento, Poiret cominciò a lavorare intorno alla nuova linea e a un'idea di donna assolutamente innovativa, riprendendo la moda degli anni del Direttorio ma non come un semplice revival: avviò un processo creativo che prese gli elementi fondamentali per agganciarli a nuovi ed innovativi producendo un abito modello diritto, a vita alta, in cui la tradizione settecentesca fu accostata ad influenze orientali ed etniche e certamente anche quelle dell’abito Reform. Tutto ciò utilizzando materiali, colori, stoffe innovative unendo le culture extraeuropee con un’attenzione particolare al lavoro dei pittori d’avanguardia e i Fauves come Matisse e Derain. Il modello chiave della collezione prese il nome di “Joséphine” ed era quello che più esplicitamente dichiarava l'ispirazione Impero, ma la sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto al seno gli toglievano ogni rigore filologico. Insieme a esso, Poiret propose una serie di capi di ispirazione esotica come la tunica “Cairo”, che riprendeva nei ricami idee prese dal folklore mediterraneo, il modello “Eugénie”, che accostava la linea Impero a una garza di cotone rossa broccata a pois dorati di provenienza indiana, il mantello “Ispahan”, di velluto di seta simbolo conoscenza del taglio degli indumenti dell'Asia centrale”, e altri ancora. Realizzata questa grande trasformazione, rimaneva solo trovare il mezzo più adatto per comunicarla. Poiret decise di affidare il compito ad un’artista che avrebbe creato rappresentazioni degne delle sue creazioni, cosa che la normale stampa in bianco e nero non avrebbe potuto fare. Nell’ottobre 1908 uscì Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe, un album contenente dieci tavole a colori, realizzate à pochoir, pubblicato in duecentocinquanta copie numerate, in linguaggio grafico aveva punti di contatto evidenti con la bidimensionalità delle stampe giapponesi. I disegni al tratto rappresentavano figure femminili collocate in ambienti interni che richiamavano lo stile Impero. La tunica “Joséphine” venne messa a confronto con il ritratto di Lady Hamilton dipinto da Romney e il figurino era colorato solo nelle parti relative all’incarnato della modella, del nastro intorno al capo, della rosa e del gallone ricamato che bordava la sopravveste. La novità non era solo stilistica, rigurdava anche la rappresentazione della donna disegnata in maniera sottile e slanciata. L'album fu inviato a tutte le clienti di Poiret e soprattutto a quelle dame del gran mondo che avrebbero potuto diventarlo, ma venne anche messo in vendita come cartella di stampe d’arte per collezionisti e bibliofili. L'immagine Poiret Poiret fece progettare a Iribe un marchio a forma di rosa, e fece un vero e proprio lavoro di marketing tramite una comunicazione del prodotto attraverso carta intestata, biglietti da visita, ecc. Successivamente trasferì la maison in un hotel particulier del XVIII secolo, dove l’interno incorniciava i modelli presentati alle clienti, accostando elementi in stile Direttorio a quelli Orientali. Ma se ormai era prassi che gli interni fossero cornice dei modelli, Poiret si servì per i suoi scopi professionali anche del parco, che divenne, di volta in volta, una specie di secondo marchio della Maison ,lo sfondo delle sfilate , il luogo delle sue feste mirabolanti. L’orientalismo Fra il 1909 e il 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Ballets Russes, che fece della capitale francese il centro delle ricerche nel campo della danza e della musica, e non solo. Diaghilev e i suoi artisti, venuti dalla Russia per mettere in scena le realizzazioni che l'avanguardia di quel paese stava elaborando in tutti i campi artistici, offrirono l’immagine di un mondo culturale completamente ignoto. La danza classica subisce forti cambiamenti sia nella tecnica sia nella rappresentazione, in particolar modo degli abiti. Molti notarono le forti somiglianze con i ballerini di Bakst e gli abiti di Poiret tanto da accusarlo di plagio. Da questo momento, scomparvero dai suoi modelli i richiami al Direttorio e si fecero sempre più forti quelli alle culture etniche, orientali e arabe. Il punto di passaggio fu rappresentato dalla jupe entravée, una gonna lunga e diritta che veniva serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di impedire il passo e di costringere chi la portava a procedere pattinando o a piccolissimi movimenti. Sembrò un ossimoro considerando la precedente liberazione da busti e corsetti, ma fu solo una creazione sperimentale. La donna che Poiret aveva in mente non era certamente una suffragetta o un'intellettuale indipendente: era una signora del “bel mondo” che non doveva avere alcun rapporto concreto con la vita reale. Non una madre o una figlia da esporre come segno di ricchezza, ma una femme fatale misteriosa e oggetto di desiderio, una visione un po’ distante dalle rivendicazioni femminili delle suffragette. Fu all’inizio dell’anno successivo che l’immagine di donna che Poiret sognava venne esplicitata, quando egli presentò la prima jupe-culotte con il conseguente, immaginabile, scandalo. La realizzazione di pantaloni per le donne non passò inosservata, d’altro canto una scissione di un concetto di genere non può avvenire in maniera neutra. La proposta di Poiret non era volta a favore delle femministe, stava proponendo una versione casalinga dell’abito, una versione di donna, influenzata dalle correnti estere, più colta, raffinata ed esotica. Il secondo album pubblicitario che raccoglieva le immagini degli ultimi modelli, che proseguivano modelli precedenti aggiungendo però alla linea di base, diritta e sobria, tutti quei colori orientali e quegli elementi decorativi preziosi che potevano suggerire produzione di scatole ed oggetti pubblicitari. Le bottiglie venivano curate da Poiret e decorate dall’Atelier Martine. La produzione di profumi venne presto associata a quella dei prodotti di bellezza venduti in una profumeria aperta da Poiret “Faubourg Saint- 
 Honorè”. Per la prima volta il nome di un couturier veniva associato ad una 
 linea di prodotti di bellezza. Ormai la fama di Poiret era ampliamente sancita, e le riviste di costume cercavano sempre di cogliere le sue più piccole novità. Nessuno parlò più dello scandalo della Jupe-culotte, ma venne accettata la nuova versione: il modello abatjour, con una breve gonna rigida. Nell'autunno 1913, Poiret e la moglie compirono un lungo viaggio pubblicitario in quello che era da sempre il vero mercato dell’haute couture parigina: gli Stati Uniti. In quel periodo vi si svolgeva l’Armony Show dove venivano presentate per la prima volta le opere di avanguardia europea, mostrando così un’attenzione dell’America nei confronti dell’Europa. Gli anni di guerra L'anno successivo scoppiò la guerra e venne rotto il precedente equilibrio. La Francia cercò di salvare il settore della moda proponendolo come aiuto bellico. Poiret fu inizialmente sarto per un reggimento di fanteria, poi l’anno dopo venne destinato agli archivi del ministero della Guerra. Nella sua qualità di presidente del Syndicat de défense de la grande couture frangaise collaborò all’organizzazione della Fète parisienne, promossa da “Vogue”, che si svolse nel 1915 al Ritz Carlton di New York, con scopo politico e patriottico.Poiret sfilò con abiti diversi da quelli di gusto orientale che il mondo conosceva: scelse infatti di allinearsi con la tendenza che stava caratterizzando quegli anni con gonne accorciate ampie, sostenute da crinoline, e con elementi di gusto maschile. Lo stesso esperimento venne ripetuto nella primavera del 1917, quando il sindacato organizzò una seconda presentazione di moda a Madrid”. Nel 1916 Poiret aveva lanciato anche un profumo ‘patriottico’, contrassegnato dal tricolore, il cui nome, Mam’zelle Victoire, voleva essere di buon augurio. Nel 1917 pensò di aprire una succursale, Poiret Incorporeited, ma a causa del periodo di guerra non fu possibile. Il dopoguerra Poiret usciva dall’esperienza provato dal punto di vista economico, in quanto ebbe dovuto ipotecare le sue proprietà e gli unici settori rimasti in piedi (moda, profumeria, arredamento) andavano a rotoli a causa della sua assenza, e dal punto di vista umano: la febbre spagnola gli aveva ucciso due figli e la moglie aveva chiesto il divorzio. Poiret si ritrovò a dover rilanciare la griffe, ma rimandò a causa delle condizioni emotive ed economiche in cui si trovava. In questo periodo partì in viaggio con il figlio e Dufy in Marocco da cui tonò ispirato con la voglia di festeggiare la fine della guerra. Istallò una grande tenda, L’Oasis, in cui tutte le sere si organizzavano feste a tema coinvolgendo le vecchie glorie della Belle Époque. Le sue collezioni si fecero via via più sapienti e lussuose, i materiali diventarono sempre più ricercati, i ricami elaborati e le ispirazioni colte ed esotiche. Dal Marocco ai ricami bretoni, dalla Cina all'Egitto (ancora prima della scoperta della tomba di Tutankhamon e dell'esplosione della ‘sua moda), alla Spagna, tutta una serie di percorsi vennero seguiti e proposti in modelli suntuosi e sempre più moderni. Fra il 1921 e il 1922 provò anche a riportare le gonne alla caviglia, ma l’idea venne presa con freddezza e accolta solo da poche nostalgiche. “L’Art et la mode” descrisse la collezione del 1921-1922 come regale e innovativa, citando modelli come Roxane, Samovar, Sabbat e Herodiade. Nel 1922 aveva fatto un nuovo viaggio negli Stati Uniti, dove gli era parso che ci fosse spazio per l'esportazione dei suoi modelli, ma nello stesso anno era esplosa la moda à la garconne che sanciva il successo di Chanel e Patou. L'anno dopo Poiret fu costretto a fare per la prima volta i conti con la fine del proprio successo, decise quindi temporaneamente di affidare la gestione amministrativa dell'azienda a un professionista e cercare un sostegno finanziario nel mondo degli affari. Alla fine del 1924 dovette affidare la Maison a una società di banchieri, che richiese come prezzo di risanamento la vendita delle proprietà parigine compreso l’atelier. Poiret sperava che così avrebbe trovato un periodo di serenità per realizzare gli abiti di Georgette Leblanc per il film L’inhumanine di Mar cel L'Herbier. A questo punto Poiret deve fare i conti con la crisi del suo marchio, l’anno successivo affida la direzione della maison ad un professionista, purtroppo alla fine dovrà affidarla ad una società bancaria e il risanamento sarà così alto che Paul sarà costretto a vendere la sua proprietà di Parigi. Arriva a pensare che l’unica soluzione era l’esposizione che si sarebbe tenuta a Parigi nel 25, ma la società creata a suo nome si rifiuta di pagare il progetto. A questo punto vende l’atelier Martine e la società Rosine, per finanziare la realizzazione di 3 zattera da porre sulla senna. Una chiamata amours, per l’esposizione dei profumi, una délice fu utilizzata come ristorante e una orgues per l’esposizione dei suoi abiti con quadri di Dufy. Nonostante i professionisti restarono affascinati, il grande pubblico disertò sia le zattere sia gli eventi organizzati da Poiret. Il problema era che la sua moda era troppo complicata e decorate e nonostante avesse capito quale fosse il tipo di moda che si stava affermando le sue idee a riguardo erano talmente lontane che non potè far altro che limitarsi alla critica. Poiret non riusciva ad accettare che l’America con il suo funzionalismo e il suo stile di vita moderno si stava imponendo anche in Europa. La società della Belle Époque cui faceva riferimento, era morta con la guerra ed era stata sostituita da una società interclassista che non amava i ruoli imposti. In questa società le donne volevano essere libere, giovani, lavorare e per fare ciò adottavano una moda semplice e comoda che non richiedeva l’intervento di una grande sarto. Poiret, in questo senso, non riusciva a capire come le donne potessero preferire i miseri abiti di Chanel ai suoi. In ogni caso la sua carriera continuò per qualche altro anno. Nel 27 recise i ponti con l’amministrazione dell’azienda. Nel 32 provò ad aprire un nuovo negozio con il nome Passy-10-17 (non potendo più usare il suo nome), ma l’esperienza durò pochissimo. Alla fine si ritrovò solo e confortato dalla sola attività pittorica. COCO CHANEL (1883-1971) GLI INIZI La vita privata di Chanel, in particolare la sua infanzia resa oggetto di un processo di rimozione, è di fondamentale importanza per comprendere la sua produzione nel settore della moda. Nel corso della sua vita, Chanel si è ritrovata in ambienti e luoghi con i quali non aveva nulla a che fare e per ciò è stata costretta a crearsi un personaggio, una storia che le permettesse di adattarsi e di rimuovere quelle parti della sua storia che la ferivano. Fonti di ispirazione per la sua carriera sono stati i luoghi che ha frequentato, i suoi amici e i suoi amori, in particolar modo i loro vestiti dei quali si è talvolta appropriata per dare vita ad un modello vestimentario adatto ad una donna emancipata, da lei stessa incarnata. In questo senso Chanel creò abiti per lei, per il suo personaggio. La storia di Chanel incomincia nel 1883. È figlia di Albert, un donnaiolo e bevitore, e di Jeanne donna fragile che dopo il quinto figlio morì. Ecco che avvenne l’episodio che diede avvio al processo di rimozione: il padre Albert abbandona i 5 figli ai nonni paterni, i quali non essendo meno poveri di lui mettono i 2 maschi a lavorare e le 3 femmine in orfanotrofio. Dai 12 ai 18 anni Chanel vivrà presso l’istituto delle suore del sacro cuore ad Aubazine. A 18 anno deve lasciarlo per trasferirsi nel pensionato di Notre-Dame a Moulins, dove in cambio del suo lavoro, ottenne un’educazione in arti domestiche. Qui incominciò a lavorare insieme a sua zia in un negozio di maglieria e biancheria: Maison Grampayre. Moulins era una località di svago e di militari. Dopo aver lavorato per un anno presso la maison Chanel decide, insieme alla zia, di affittare un locale e di mettersi in proprio. Grazie all’indipendenza economica ottenuta è in grado di vivere a pieno la vita sociale di Moulins e di conoscere diversi militari. Nello stesso periodo pensa di darsi al canto, per emanciparsi, ben presto rinuncia e di quel periodo conserva il soprannome Coco e alcune foto che la ritraggono con abiti, evidentemente realizzati da lei, ma che già lasciano trasparire un gusto per le linee semplici e dritte e per un rigore mascolino. Tra i militari c’era Etienne Balsan, proveniente da una ricca famiglia borghese, nel 1904 acquista l’abazia di Royallieu, dove vuole dare avvio ad un allevamento di cavalli da corsa. Nel 1908, dopo essersi congedato, invita Chanel a seguirlo. A Royallieu Gabrielle entra a contatto con lo stile di vita sereno della campagna, intervallato da momenti di svago durante le visite degli amici di Etienne. Allo stesso tempo entra in contatto con il mondo dello sport professionale e quello delle irregolari. Con questo termine venivano indicate le donne che i ricchi borghesi frequentavano, ma che non essendo socialmente accettabili, dovevano essere frequentate solo in determinati luoghi e momenti. Chanel sapeva di essere una di loro, ma al tempo stesso sfruttò la situazione per elaborare la sua idea di abbigliamento. Essa si rifaceva prima di tutto al mondo delle divise: la divisa aveva contraddistinto la vita di Chanel sin dall’infanzia quando all’orfanotrofio si accorse che la divisa le conferiva un ruolo ed una sicurezza. Al tempo stesso la divisa le era stata ispirata dai grembiuli neri con il colletto bianco di alcuni collegiali. Chanel si rende conto che la divisa può conferire anche ruoli prestigiosi, si pensi alla divisa indossata da militari. arricchiti da colori nuovi come il verde e rosso per accontentare il pubblico di oltre oceano. Dopo la guerra i vestiti di Chanel ritrovarono tessuti come lo chiffon, il velluto ed anche il pizzo chantilly. Le sue proposte erano tutte mirate a combattere il ritrono alle crinoline che adesso venivano utilizzate come gabbie trasparenti da mettere sotto abiti lunghi. Anche le decorazioni si adeguarono con reti trasparenti e ricami in jais. Allo stesso tempo finì la relazione con Boy dato che per conclamare il prestigio ottenuto dalla guerra dovette sposare la figlia di un lord. GLI ARTISTI E LE AVANGUARDIE Dopo la guerra Chanel iniziò a frequentare i principali ambienti artistici parigini, soprattutto grazie alla coppia Sert composta da Josep Maria Sert e Misia Godebska. Grazie a loro Chanel conobbe Picasso e a Venezia conobbe Diaghilev, fondatore dei Ballet Russe. Chanel si accorse dell’immensa importanza rappresentata da quegli spettacoli, che tuttavia non riuscivano a fruttare ottimi guadagni al povero Diaghilev. Ecco quindi che decise di sostenere la produzione artistica finanziando la rimessa in scena della sagra della primavera. Nel 1922 Jean Cocteau affidò a Chanel la realizzazione di alcuni abiti per la sua Antigone, con scenografie di Picasso. La loro collaborazione sarebbe andata avanti per altri 14 anni. Nel 1924 Diaghilev affidò a Cocteau il soggetto per un’opera danzata: le train bleu. Un’opera che parlava della nuova smania per le vacanze in costa azzurra, del nuovissimo treno che da Parigi arrivava a Nizza e dei giovani che sfruttavano il caldo e il mare per praticare i loro sport preferiti. I protagonisti erano un golfista, due nuotatori e una tennista. I loro abiti oltre che essere ispirati a soggetti reali, erano un omaggio a tutti coloro i quali per mestiere producevano abiti per il mondo dello sport. La tennista era vestita con un abito bianco ispirato a quello che Patou aveva realizzato per una famosa tennista; il tennista era vestito con una cravatta stretta, calzini a righe, pantaloni alla zuava simili a quelli indossati dal principe di Galles in un famoso ritratto; infine i nuotatori indossavano abiti che sembravano essere fatti proprio per nuotare. Al di là dei contatti con le avanguardie, Chanel non perse mai i contatti con l’alta borghesia francese che aveva cambiato, dopo la guerra, il loro stile di vita e che frequentava la sua boutique. IL PROFUMO E L’INFLUENZA RUSSA A Parigi Chanel conobbe il granduca Dimitri, nipote dello zar assassinato durante la rivoluzione di ottobre e che si era salvato solo perché era già esule per aver partecipato all’assassinio di Rasputin. Per un anno lui e Chanel vissero insieme. Fu probabilmente grazie a lui che Chanel si avvicinò al mondo dei profumi, fino ad allora considerato una menzogna per giustificare il cattivo odore derivante da una cattiva igiene. Grazie a lui conobbe Ernest Beaux, chimico con il quale produsse Chanel n.5. Il chimico mischiò essenze naturali e chimiche per stabilizzare la fragranza e renderla duratura. Chanel volle che l’odore non ricordasse nessun profumo conosciuto, ma che fosse un perfetto mix di naturale ed artificiale. Il suo gusto sobrio si tradusse anche nella scelta della boccetta: una bottiglia di farmacia di vetro trasparente con una semplice etichetta. Questo fu anche il primo prodotto ad uscire dalla boutique per entrare nella produzione industriale: nel 1924 Chanel firmò un contratto con la più grande industria di profumi francese per creare Les Parfums Chanel. L’influenza dei balletti russi, delle avanguardie russe e della moda russa promossa da alcune modiste slave come Sonia Delunay e Goncarova, si rifletteva nelle collezioni di quegli anni. In particolare Chanel rimase affascinata dalla roubachka, la tipica camicia con cintura in vita russa. Chanel la considerava una semplice variazione del capospalla diritto e appoggiato sui fianchi che aveva copiato ai marinai e agli stallieri, solo che questo era fatto in tessuto. Rimase anche affascinata dalle decorazioni dei vestiti di Dimitri, caratterizzati da fantasie geometriche o che ricordavano creature fantastiche. Chanel cercò di rileggere in chiave occidentale la pelliccia russa: le fodere e gli ampi bordi in volpe o cincillà vennero applicati ai mantelli da giorno e da sera che differivano solo nel tessuto: seta o lamé per la sera, lana per la mattina, il tutto completato dal cappello a campana di feltro. Tra il 1924-25 la ricerca di moda di Chanel andò sempre più liberamente e si tradusse in abiti lunghi, dalla vita bassa con la cintura in vita e una gonna diritta o con effetti di sbieco per far si che cadesse meglio. Nel 25 ci fu durante l’expo internazionale di arte decorativa, il trionfo dello stile alla garçonne, i cui ideatori oltre a Chanel erano Patou, Vionnet e Doucet. Differentemente da loro Chanel non cercava la decorazione ma la funzionalità: voleva un abito che si adattasse alle condizioni di vita sociali e che permettesse alle donne di vivere e lavorare liberamente. Ecco che nel 1926 propose l’abitino nero che si poteva mettere in qualsiasi occasione a seconda degli accessori, contravvenendo alla consuetudine di produrre abiti a seconda delle occasioni. La sua idea fu così rivoluzionaria che Vogue la paragonò all’invenzione della macchina. STILE INGLESE, GIOIELLI E BIJOUX Il vestito del 26 può essere considerato come l’apice del processo di semplificazione dell’abito. Negli anni seguenti Chanel si dedicò alla creazione di abiti informali e tailleur. Ancora una volta l’ispirazione arrivò direttamente dal guardaroba del suo amante inglese. Il duca di Westminster, con il quale entrò in contatto con lo stile di vita dell’aristocrazia inglese e con i suoi modi di fare apparentemente dismessi. Le collezioni tra il 1927 e il 1930 si concentrarono sulla proposta di completi con giacche diritte di modello maschile, gonna e blusa coordinate, gilet a righe e cappotti ispirati al mondo dello sporto e della moda inglese. In particolar modo è da sottolineare l’utilizzo del tweed inglese per la cui produzione Chanel si rivolse direttamente ad una fabbrica in Scozia. Il completo fatto di tweed, di giacche sportive con la camicia e i pantaloni morbidi poteva essere considerato come la divisa della donna della fine degli anni 20. Le creazioni di Chanel però pur essendo ispirate alla moda maschile, non erano unisex, erano rivolte esclusivamente al pubblico femminile. Queste utilizzavano la filosofia vestimentaria maschile, basata sui concetti di comodità, semplicità, sobrietà. Solo nel momento in cui il suo stile si confermò a pieno titolo iniziò a giocare di più con gli accessori, in particolare con i gioielli. Per lei il gioiello decorava l’abito, lo individualizzava e permetteva alla donna di vivere in un mondo di fantasia. Il gioiello non doveva essere necessariamente vero, tanto è vero che nel 1924 Chanel aprì un laboratorio per la produzione di gioielli falsi, ispirati a quelli veri che venivano esagerati. LO STILE DEGLI ANNI 20 Alla fine degli anni 20 lo stile di Chanel poteva dirsi ormai completato. Era fatto da linee semplici e diritte, tessuti comodi, modelli ispirati alla moda maschile e gioielli falsi. Era il risultato di un lungo percorso che condensava all’interno di sé tutti gli stimoli provenienti dalla cultura contemporanea. Chanel aveva creato l’uniforme della donna borghese moderna. Il problema era rompere con una società che seguitava comportarsi come nell’800. In particolar modo la ricerca di indipendenza individuale di Chanel, ben presto si incontrò con la ricerca di indipendenza sociale delle donne della sua epoca. Ricerche che furono accelerate e facilitate dalla guerra. La chiave di volta della ricerca stava nell’indipendenza affettiva ed economica. La parità sarebbe stata raggiunta solo quando non sarebbe più stato scandaloso vedere una donna comportarsi come un uomo. Le donne dovevano emanciparsi dal patriarcato. Chanel in questo era avvantaggiata dato che non aveva una famiglia alle spalle che le impedisse di realizzarsi, d’altronde per lei l’indipendenza economica era di vitale importanza. Chanel scelse di vivere molto liberamente e di usare tutto ciò che incontrava sulla sua strada per raggiungere i suoi scopi: vivere liberamente e scegliere liberamente i suoi amanti. Il fatto di vivere liberamente la propria vita amorosa creò un alone di immoralità che veniva controbilanciato dal rigore calvinista con cui lavorava. Chanel diede ai suoi abiti il compito di vestire donne che volevano e potevano lavorare accanto agli uomini senza per forza doversi sposare o dover ostentare la propria ricchezza. Tuttavia le sue clienti erano proprio quelle donne che fino a qualche tempo prima si erano vestite per trovare marito e per ostentare lo status di famiglia. All’interno di queste, alcune iniziarono a sentire il bisogno di cambiamento e Chanel si affiancò a loro. Erano signore dell’alta società vestite per esporre la loro ricchezza, e quelle che cominciavano a sentire i segni del cambiamento. La guerra aveva offerto loro un’occasione di emancipazione irripetibile, e il compito di Chanel era inventare una moda che smettesse di decorare le donne del vecchio mondo e che, invece, comunicasse con quelle del nuovo mondo. Alla fine della guerra si trattava di costruire il nuovo e in questo fu prezioso il rapporto con le avanguardie artistiche. Chanel conobbe i cubisti e tutti quelli che stavano lavorando a una seconda fase della loro ricerca ed erano impegnati nell’elaborazione di uno stile ‘maturo’, erano azzerati i legami con il passato e ora si stava costruendo la nuova forma espressiva del XX secolo. Anche la produzione industriale realizzava oggetti usati nella civiltà occidentale e altri nuovi, come per esempio l’automobile, con cui venne paragonato l’abito nero di Chanel. La produzione di massa di merci riproducibili investiva ora l’estetica della vita quotidiana. Chanel applicò tutti questi modelli alla ricerca dell’abbigliamento femminile tenendosi fedele al principio della funzionalità, per questo la interessarono tanto i capi sportivi e quelli maschili. Nella moda femminile della Maison Chanel entrarono in sciopero, impedendole l’accesso alla Maison. Chanel licenziò 300 persone ma senza risultato, allora propose di donare l’azienda alle lavoratrici conservando per sè la direzione ma rifiutarono. In realtà quello che gli operai rivendicavano erano i contratti collettivi, la settimana lavorativa di 40 ore e le ferie pagate. Di fronte al rischio di non poter realizzare la collezione prossima, Chanel dovette cedere. Quando anche il suo lavoro fu minacciato, non seppe fare altro che reagire con rabbia e la sua vena creativa sembrava non essere più in sintonia con i tempi. Il successo di Schiapparelli continuava a crescere, costringendo Chanel a confrontarsi con lei sul mercato della moda. Le sue collezioni continuarono a presentare capi che l’avevano portata al successo: tailleur semplici, abitini neri con il colletto bianco,ecc.. ma non erano in grado di fare prosposte alternative alla concorrenza rappresentata da Schiapparelli e Vionnet. Forse il problema era che Chanel non capiva più le donne, era anche evidente per queste donne, non riusciva più a inventare divise ‘’scelgono un vestito per colore’’, come dire che la scelta di un abito non era più il corrispettivo di una scelta di vita, ma un semplice affare di moda. LA SECONDA GUERRA MONDIALE E LA CHIUSURA DELLA MAISON Nel 1939 Chanel chiuse la Maison, lasciando aperta solo la boutique che vendeva profumi. Le lavoranti licenziate in massa ricorsero al sindacato. La Chambre syndicale de la couture parisienne cercò di convincere Gabrielle a sospendere la decisione, ma non ci fu nulla da fare, non era tempo da vestiti. Pur non avendolo mai dichiarato si era resa conto che non aveva più niente da dire nella moda, che la società aveva assunto una forma che lei non riusciva più a far combaciare con il suo modo di pensare i vestiti, ed era necessario troncare il suo rapporto con esso. Nel 1944 dopo la liberazione di Parigi, fu arrestata e venne rilasciata tre ore dopo, appena potè partì per la Svizzera dove rimase per 9 anni in volontario esilio. Nel 1976 uscì un libro in cui Chanel parla in prima persona. Nel 1947 affidò la propria autobiografia a Luoise de Vilmorin, nella speranza di vendere i diritti delle sue memorie agli americani, ma non trovò editori interessati. Il testo uscì a puntate su ‘’Jours de France’’ nel 1971 e fu pubblicato solo nel 1999. IL RITORNO ALLA MODA Nel 1946 la sua parabola sembrava definitivamente chiusa. Un anno dopo Dior sarebbe comparso sulla passerella con uno stile, il New Look, che era l’esatto opposto da quello che lei aveva sempre ricercato, e che ebbe un successo travolgente. Chanel era scomparsa dal mondo della moda, le uniche cose che resistevano erano i tessuti, commercializzati con il marchio Chanel, e il ‘suo’ profumo che era considerato un mito, ma nel 1953 le vendite calarono in modo vistoso, i profumi delle nuove griffe stavano soppiantando un marchio non più sostenuto dall’immagine di una Maison. Pierre Wertheimer decise di ammodernare gli uffici di New York della Parfums Chanel e Gabrielle si occupò dell’arredo. Tornata a Parigi, prese la decisione di riaprire l’atelier. Lei stessa sostenne i costi della sfilata di riapertura del 1954. Compratori, fotografi, giornalisti, celebrità accorsero, convinti di assistere a una nuova rivoluzione, ma la collezione venne interpretata come una semplice ripetizione della moda degli anni 20. Chanel incassò il colpo e decise di continuare e la società dei profumi acquistò tutto dagli accessori alla Chanel couture per finanziare nuovamente la maison. La prima reazione positiva arrivò dagli USA: i modelli della prima collezione furono venduti bene, alle donne era piaciuta la nuova rivoluzione Chanel, poi arrivò la stampa, per prima ‘Life’ che dedicò alcune pagine a Chanel, ma anche ‘Vougue’ francese. La collezione autunnale ebbe un’accoglienza tiepida, ma l’influenza di Chanel stava cominciando a farsi sentire nelle altre sartorie. Balenciaga, Patou e Lanvin proposero abiti diritti e morbidi. Stagione dopo stagione, il progetto di Coco diventava sempre più chiaro: creare uno stile riconoscibile e non soggetto ai repentini cambiamenti di moda. IL TAILLEUR CHANEL Il suo proposito era costruire una divisa o una ‘macchina’ perfetta per vestire il corpo femminile, un oggetto di design studiato per rispondere a diverse esigenze come il movimento, l’eleganza, la duttilità. Le collezioni comprendevano modelli da giorno e da sera, ma l’oggetto intorno al quale si concentrò la ricerca fu il tailleur, creato con materiali diversi quali jersey o velluto, ma quello che passerà alla storia sarà il tweed, un tweed morbido, a trama larga, tessuto con fili di fibra e torsione diverse in modo da ottenere un effetto elastico. Il completo era composto da tre pezzi: una giacca, una gonna o un vestito senza maniche e una blusa che, costituivano un insieme indissolubile calcolato in ogni minimo particolare. ‘’Il tailleur in tweed era foderato con una seta identica a quella della blusa, in modo da comporre un insieme, per evitare che il tweed si deformasse, fordera e tessuto facevano corpo unico. Per conservare la caduta a piombo di questi materiali leggeri, una catenella in fondo alla giacca che assicurava verticalità all’insieme. Chanel sentì che stava rinascendo un’epoca che aveva gli stessi gusti che lei aveva coltivato negli anni 20 e si dedicò a compleatare la sua opera: realizzare il vestito perfetto. Chanel decise di compiere quest’impresa e continuò per tutti gli anni 60 a raffinare il suo stile, a realizzare capi sempre più perfetti, a cercare un’armonia sempre maggiore ed ottenere il risultato cercato, il lavoro di Chanel era un perfezionamento continuo che dipendeva dal perfetto adattamento dell’abito alla figura cui doveva appartenere. Il lavoro stava tutto nel modellarli su un corpo di cui saper vedere i particolari, nell’utilizzarli come mappa per costruire il vestito. Era l’esatto contrario del pret à porter, della taglia, dell’abito che va bene a tutti, era individuale. Era un perfetto oggetto di design che nasceva per una precisa funzione ed era espressione di una cultura, per questo era necessario circondarlo di altri oggetti che completassero la sua funzionalità. Chanel riprese la sua produzione dei suoi bijoux (catene e perle); spilla con grandi pietre colorate; riutilizzò i suoi cappelli e inventò la borsetta 2.55 di pelle impunturata, sostenuta da una catena dorata, e più tardi i sandali con la punta di colore contrastante. Il rilancio del marchio era riuscito a creare un mercato internazionale che li ricercava come oggetti di moda, tutte le riviste parlavano di lei. Lo stile Chanel era diventato una valida alternativa al New Look, un sistema vetimentario moderno ed elegante. Era il momento di utilizzare l’immagine dell’Heute couture per imporre sul mercato tutti quei prodotti che avrebbero ripagato l’investimento iniziale. Anche il profumo ritornò in auge con la riapertura della Maison, tanto che nel 1955 persino Marilyn Monroe dichiarò di dormire con cinque gocce di Chanel N° 5, con un effetto pubblicitario di dimensioni mai viste. Chanel morì nel 1971 al Ritz. MADELEINE VIONNET (1876-1975) Il lavoro di ‘première’ Madeleine Vionnet era stata destinata a fare la sarta in un paese della provincia francese. Era nata nel 1876, a undici anni abbandonò gli studi per andare a imparare il mestiere della sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, si sposò ed ebbe una figlia. Nel 1895 partì per l’Inghilterra, sua figlia morì e divorziò dal marito. Ricominciò da capo la sua vita a Londra, prima come guardarobiera e poi nell’atelier di Kate Reily, un’importante sartoria specializzata in capi da giorno dal taglio inglese, ma soprattutto nella confezione di modelli acquistati a Parigi. La Rational Dress Society che dal 1881 aveva sostenuto la necessità di trasfromare l’abbigliamento femminile, era stata sostituita nel 1890 dalla Healty and Artistic Dress Union che proponeva una riforma di tipo estetico. La nuova associazione si schierò a favore di un modello derivato dall’abito dell’antica Grecia. Nello stesso periodo Isadora Duncan cominciava a danzare con una tunica bianca. Corpo e abito erano diventati il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una trasformazione culturale. Il percorso di Madeleine risentirà in modo profondo sia dei principi basilari della Healty and Artistic Dress Union sia della proposta di Isadora Duncan. Agli inizi del nuovo secolo tornò a Parigi dove era stata assunta dalla Maison Callot Soeurs, ma nel 1907 lasciò le sorelle Callot per diventare modellista alla Maison Doucet, che le aveva chiesto di ringiovanire la sua produzione e Vionnet realizzò una collezione di abiti molto innovativi. I suoi modelli non prevedevano l’uso del busto. Vionnet fu repressa dalle clienti, l’unico campo in cui le fu lasciato un vero spazio fu quello dei deshabillès che, ovviamente, rispondeva a logiche vestimentarie più libere rispetto a quelle dell’abito. Nato come un indumento intimo, il deshabillè era diventato nell’800 il vestito da casa da indossare per ricevere visite e prendere il tè (guadagnò il nome di tea down nei paesi anglosassoni). Alla fine del secolo era ormai considerato un capo di abbigliamento che si poteva mettere anche a cena, purchè in famiglia. L’ATELIER Nel 1912 Madeleine Vionnet aprì il suo primo atelier sostenuta nella decisione da una delle clienti di Doucet che avevano apprezzato il suo stile e che si era proposta come socio finanziatore, ma morì e il suo posto venne preso da un’altra cliente di nome Germanie Lillaz, nipote del proprietario del Bazar de l’Hotel de Ville che mise a struttura proporzionale dei vasi greci, da cui risultò che i vasai utilizzavano la sezione aurea e il rettangolo radice di due alla diciassettesima. Nel 1912 la Maison Vionnet sperimentò la struttura proporzionale della pittura greca a ricamo: provò ad utilizzare la superficie del vestito come se fosse stato un vaso da dipingere. Vionnet progettò un disegno di cavalli, volute e triangoli combinando la decorazione di alcuni vasi greci conservati al Louvre, calcolando anche, in modo preciso, il modulo di ogni figura che ripeteva secondo uno schema circolare... tale tema divenne un simbolo di questa Maison! Un'altra suggestione, che la ricerca artistica forni a Vionnet, fu quella di una nuova rappresentazione della struttura proporzionale del corpo umano (ricerca che in realtà apparteneva già a tutto il mondo dell’arte). Dall’esigenza di trovare un rapporto armonico fra la misura dell’uomo e quella delle cose, derivò una molteplicità di ricerche che, alcune delle quali, si concentrarono sulla relazione interiore dei due poli, altre sulla possibilità di progettare un mondo che avesse come centro l’uomo stesso. Il simbolo compiuto di questo modello di pensiero fu il “Modulor” di Le Corbusier, che rappresentava una gamma di dimensioni armoniche a “misura d’uomo” utilizzabili per normalizzare tutta la progettazione architettonica. Il nome “Modulor” derivava da “module” e “section d’or”, e indicava la matrice matematica del suo sistema. Tutte queste ricerche Vionnet decise di condividerle: scelse di progettare le sue opere utilizzando un manichino da sarta, che non aveva le taglie reali di un corpo umano, ma era basato su di uno schema proporzionale perfetto. Su di esso costruiva abiti che non “imitavano” le linee esteriori del corpo, ma lo utilizzavano come sostegno di piani geometrici che costruivano solidi complessi e perfetti. Fin dalla ripresa del dopoguerra, i suoi modelli cominciarono a rispettare alcune idee guida: il costante uso del diagonale, la sperimentazione di figure geometriche come il quadrato/ triangolo, la sezione aurea, il quadrante e la spirale logaritmica (con cui realizzava le sue famose rose in tessuto). L'abito era quindi il risultato della composizione, o scomposizione, di queste figure, senza che più comparisse nessuno degli accorgimenti sartoriali (come, ad esempio, i tagli sagomali usati per far aderire il tessuto alle forme del corpo. Adesso l’aderenza di un capo era determinato da un calcolo accurato dell’elasticità delle stoffe e dalla deformazione cui venivano sottoposte per effetto del loro stesso peso). Lo sbieco “A seconda della sua materia, e del modo di tessitura, ogni tessuto ha un suo modo di “cadere” formando delle pieghe, delle increspature con cui il couturier deve fare i conti. Sia per andare nel verso del tessuto che per contrastarlo”. - Chapsal Contrastare il verso del tessuto, usandolo in sbieco, voleva dire trovarsi di fronte a comportamenti della materia completamente differenti dal drittofilo: si richiedevano accorgimenti particolari (da qui forse la scelta della couturier di tagliare secondo schemi geometrici e non utilizzare un corpo femminile), ma anche la lunghezza dei capi era soggetta alle naturali dilatazioni della stoffa lungo la diagonale di caduta. Questa deformazione, era studiabile dal punto di vista fisico, e poteva essere pilotata con strumenti meccanici per controllarne il risultato finale. Gli abiti realizzati con quadrati e rettangoli, erano quindi appesi al manichino fino a che non avessero raggiunto la loro massima lunghezza (punto di indeformità) su cui regolare l’orlo delle gonne. Tale operazione risultava più complessa quando lo sbieco si combinava con la forma geometrica del quadrante: in questo caso, il tessuto, una volta tagliato, veniva appeso al muro lungo i raggi (i lati rettilinei costituiti dalla trama e dall’ordito) e sottoposto alla tensione di pesi calcolati lungo il quadrato di circonferenza. I fili così subivano una deformazione omogenea e definitiva, che arrivava a disegnare la catenaria... e solo allora il materiale poteva essere utilizzato per un abito. La ricerca dello sbieco e la geometria di svolse in modo graduale. Nelle collezioni tra il 1921 e 1922, Vionnet ricercò soprattutto gli effetti di “caduta”. A tutto ciò si aggiunse lo studio di un modo che permettesse di ricamare con il filo sullo sbieco, senza creare tensioni o effetti fisici indesiderati. sarà proprio Lesage ad inventare una nuova tecnica, che fu chiamata “vermicelle au droit” o “vermicelle au carré”, in cui ogni punto veniva fissato nel drittofilo del tessuto e le minuscole perline erano collocate un l’aiuto di un uncinetto. Tale ricerca si impose poiché Vionnet dava grande importanza al ricamo poiché lo considerava un elemento connesso con la struttura dell’abito, completava – definiva la sua forma e ne sottolineava le linee di forza. 50, Avenue Montaigne La proposta di moda di Vionnet, venne accolta positivamente sul mercato francese ed americano, tanto che presto l’atelier, dove tutto era iniziato, non bastava più: così dovette trovare un modo per espandersi. Furono presi i contatti con Bader (che divenne anche nuovo socio) e Kahn, che si proposero di investire nella Maison. La conversione dello spazio da casa d’abitazione a locale commerciale creò diversi problemi, ma nel giro di un mese si cominciarono i lavori. La ristrutturazione, condotta da un architetto fidato dei due investitori, riuscì a realizzare la nuova sede non solo basandosi sull’aspetto estetico, ma anche alla funzionalità, a cui Vionnet era molto attenta. La stessa, introdusse nel suo nuovo spazio di lavoro diverse innovazioni che riguardavano sia i rapporti contrattuali che le condizioni di lavoro (ad esempio, anziché utilizzare degli sgabelli come di consueto, arredò i laboratori con delle sedie). Inoltre nell’edificio c’erano una mensa, una nursery, un’infermeria e un dentista, e per e sue operaie fondò una cassa di soccorso per le malattie, introdusse congedi di maternità e le ferie pagate (di li a poco ci sarebbero stati degli scioperi che sconvolsero la Francia: i lavoratori chiesero tutte quelle innovazioni promesse dalla sinistra che la maison Vionnet aveva già messo in pratica!). Nel 1927 istituì un corso di formazione, della durata di 3 anni, per le apprendiste, che risultò più moderno rispetto a quelli tradizionali (e dove veniva anche insegnato l’uso dello sbieco. Il copyright Nello stesso periodo in cui si dedicava al problema della nuova sede, Vionnet condusse un’altra battaglia riuscendo a imporre una novità fondamentale per l’haute couture parigina: il copiright dei modelli. Uno dei problemi più diffusi della moda era la diffusione delle imitazioni, intorno alle quali si era creata una industria della contraffazione. Vionnet cercò un modo di difendersi, ma il problema era di ordine legale: la legge infatti difendeva dai falsi la produzione artistica, ma fino ad allora le creazioni dei couturier non venivano assimilate a quelle degli artisti (e quindi non tutelate). Nel 1921, il Tribunal correctionel de la Seine, alla fine di un processo, emise una sentenza che assicurava ai modelli di abiti – costumi la protezione della legge. Dopo la sentenza, la Maison procedette di conseguenza: fece pubblicare su “Vogue” e “L’illustration” un comunicato in cui si spiegava come riconoscere gli originali (attraverso l’etichetta, che presentava la firma e l’impronta digitale della couturière. Inoltre si decise di documentare tutti i capi attraverso una serie di fotografie che furono accompagnate dal numero e la data di realizzazione, tutte raccolte “nell’Album di Copyright”. Pret à porter Il successo di Vionnet fu immediato, tanto che fu aperta una succursale a Biarritz esperta in abiti per le vacanze e per lo sport. La vera sfida fu però il mercato americano: nel febbraio 1924 Vionnet presentò la collezione primaverile a New York, ma sarà solo successivamente che la couturière si trasferirà nella Fifth Avenue. In questi stessi anni fu fondata una nuova società, ovvero la “Madeline Vionnet Inc.”, finalizzata alla vendita di abiti “one-size-fits-all" (taglia unica), una novità assoluta per haute couture. L’esperimento, che sarebbe durato sei mesi, era nato dall’esigenza di assecondare la clientela statunitense, abituata ad acquistare capi confezionati. Nonostante il successo ottenuto, alla fine dei sei mesi tale esperimento non proseguì più, probabilmente perché la clientela preferiva acquistare nell’atelier di Parigi o nei magazzini di lusso. Nel 1926, Vionnet decise di tentare un secondo esperimento: realizzò 40 capi che vennero venduti in 3 taglie, griffati e con l’etichetta della Maison. Anche in questo caso però l’impresa non ebbe successo, dimostrando che i tempi non erano abbastanza maturi per l’ingresso del redy-to-wear nel mercato. Questi furono i soli tentativi estranei alla produzione di haute couture. Stile anni 20 ELSA SCHIAPPARELLI (1890-1973) UNA GIOVINEZZA INQUIETA Elsa Schiapparelli aveva alle spalle una situazione familiare estremamente privilegiata eppure nonostante questo la sua vita non fu tranquilla, inoltre essere una donna emancipata nei primi decenni del secolo (19009 comportava comunque compiere delle scelte andando così contro il modello della società del tempo. Elsa Schiapparelli nata a Roma in una famiglia di intellettuali avrebbe potuto far presumere per Elsa una tranquilla vita borghese o al massimo un impegno in qualcuno dei campi culturali che cominciavano a essere aperti alle donne ma questo non era il suo destino. Ella avrebbe voluto fare l'attrice ma la posizione sociale della sua famiglia non poteva conseguire consentirle di salire su un palcoscenico perciò iniziò a scrivere poesie che un suo cugino scoprì convincendo un editore a pubblicarle con il titolo di “Arethusa” ma il padre non lesse il libro e decise di spedirla a pentirsi in un convento della Svizzera tedesca per tenere sotto controllo quel suo temperamento troppo focoso, ma il risultato fu opposto perché Elsa cominciò uno sciopero della fame convincendo così i genitori a recedere dalla decisione. Era evidente che ella non riusciva a trovare la sua strada ma l'occasione le si aprì quanto un'amica della sorella, un intellettuale di avanguardia, cominciò a occuparsi di bambini orfani e chiese informazioni a proposito di una ragazza che potesse aiutarla, così Elsa decide di cogliere l'occasione e partì alla volta di Londra passando per Parigi. quello fu il suo primo contatto con le città d avanguardia e fu anche il primo approccio con la sartoria: infatti quando un amico di famiglia la invitò ad un ballo ella dovette realizzarsi il suo primo abito da sera. Quando arrivò nella capitale inglese conobbe il Conte William de Wendt and Kerlor, uno strano personaggio che praticava e predicava le nuove dottrine filosofiche-religiose di ispirazione orientale, essi si sposarono pochissimo tempo dopo ma con lo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza poi nel 1919 ripartirono per gli Stati Uniti: lì tutto era diverso. La sua vita privata poi incominciò a cambiare: Elsa ebbe una figlia ma il matrimonio si rivelò un disastro e il marito se ne andò, nello stesso momento inoltre morì suo padre, perciò Schiapparelli si trovò da sola a New York con una bambina senza più il sostegno economico della famiglia di origine. Elsa si mise a cercare un lavoro qualsiasi e conobbe Gabriel Buffett una poetessa dadaista, ex moglie di Francis Picabia che si offrì di occuparsi della bambina mentre Elsa cercava lavoro e anche se Gabriella non fu in grado di garantirle un lavoro, fu di fondamentale importanza per lei perché le permise di inserirsi nella vita di New York e frequentare gruppi di artisti dada e fotografi d'avanguardia che ebbero un'importante influenza nel suo lavoro successivo. In seguito nel 1922 Schiapparelli, con la figlia che si era ammalata di poliomielite tornarono a Parigi dove la bambina fu ricoverata ed Elsa trovò lavoro presso un antiquario. Tutto sembrava ricominciare come a New York fra lavori saltuari, amicizie anticonformiste, e dimore precarie ma fu proprio in questo momento che avvenne l’incontro che segnò il suo destino essa infatti ricorda che un giorno mentre accompagnava una ricca amica americana nella piccola e coloratissima casa di moda di Poiret per la prima volta entrò in una maison de couture e iniziò a provare abiti e le prese un tal entusiasmo che fu in quel periodo che cominciò a inventare abiti e concentrarsi sulle innovazioni di colore e di ricamo. Per iniziare scelse il settore di moda che negli anni 20 stava aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. LO SPORT E LA MAGLIA Fu negli anni 20 che la cultura del corpo e l'attività sportiva divennero una moda diffusa tanto da giustificare l'invenzione di un abbigliamento specifico. In particolare l'esplosione dell' eleganza sportiva trovò il suo modello in Susan Lenglen, la famosa tennista che con grande scandalo entrò nei campi da gioco indossando un completo di Patou composto da una gonna a pieghe senza sottovesti e una corta blusa derivata dal gilet maschile, delle calze di seta bianca e una fascia colorata intorno alla testa: sii trattava di un completo che lasciava libero il corpo. Elsa capì che questa poteva essere una strada di sicuro futuro e cominciò a realizzare abbigliamento sportivo. La prima collezione fu presentata nel 1927 in un minuscolo appartamento, si trattava soprattutto di maglieria dai brillanti colori che si ispirava sia al futurismo sia a Poiret, ed era realizzata anche con materiali nuovi come il Kasha, un tessuto di Carmine particolarmente morbido ed elastico. Il gioco dell' accostamento dei colori e dei materiali prevedeva cardigan abbinati con gonne in crepe de Chine, ma anche calze e sciarpe coordinate. IL GOLF “ARMENO” Elsa Schiapparelli poco tempo dopo lanciò nella moda un modello particolare di golf che aveva visto addosso ad un'amica che l’aveva colpita per il suo aspetto solido ed elastico. Dopo un’indagine aveva scoperto che era stato eseguito da una donna armena, una dei tanti profughi. Su di esso Elsa apportò subito innovazioni: inventando effetti di disegno utilizzando fili di colore diverso, ad esempio un golf con un grande fiocco disegnato sul davanti. Fu lei stessa a indossare la maglia in pubblico e ciò immediatamente attirò l'attenzione sulla novità. E a tempo di record furono trovate le donne armene che sapevano lavorare a maglia e furono riunite in un albergo dove realizzarono i maglioni inoltre furono cucite le gonne da accompagnare a ciascuno di questi. Questa nuova moda si impose a Parigi attraverso il canale delle attrici e dei personaggi da rotocalco. La fantasia di Elsa si scatenò sui golf dove comparvero cravatte da uomo, nodi, fazzoletti da collo, scialli, schemi per cruciverba o cinture disegnate e chiuse con vere fibbie di metallo. Il successo fu tale che Schiapparelli dovette assumere un responsabile per questo settore. DALLO SPORT ALL’HAUTE COUTURE Nel 1928 Elsa trasferì abitazione e l'attività in un vecchio appartamento nella zona della moda dove espose l'insegna “Schiapparelli Pour le Sport” e cominciò a presentare collezioni di abiti sportivi ben costruiti e progettati per i movimenti richiesti ma allo stesso tempo colorati e decorati con immagini e scritte fantasiose: come pesci rossi, ancore, stelle, cuori trafitti anche sui costumi da bagno. La diffusione del nuoto e delle vacanze al mare aveva portato alla trasformazione del costume da bagno realizzato con lavorazioni a maglia più elastiche aderenti e ridotto eliminando la copertura di braccia e gambe aprendosi in profonde scollature sulla schiena: questa novità fu ripresa da Schiapparelli e divenne una delle sue specialità insieme a quella del pijama da spiaggia. Anche per lo sci cercò soluzioni più eleganti proponendo completi molto colorati ed estendendo a questo sport i “pantaloni jodhpur” normalmente utilizzati nel costume da cavallerizzo. Nei primi anni 30 poi la collezione si allargò alle toilette da città e da sera trasformando quindi quella che era stata fino ad allora una produzione specializzata, in una vera e propria Maison de Couture. Schiapparelli inoltre segnò la fine della moda degli anni 20 che era stata caratterizzata da linee diritte, cinture morbide sui fianchi, gonne sempre più corte; invece, l' imperativo di Schiapparelli era: “Su con le spalle! che il seno torni ad avere il posto che gli compete, si imbottiscano quelle spalle e la si finisca con quella brutta posizione curva, e si rimetta la vita dov'era, si allunghino le gonne!!!”. Ma come venivano presentati i nuovi modelli? Le sfilate rappresentavano solo la parte tecnica della comunicazione, infatti Elsa seguendo l'esempio di Chanel scelse di indossare personalmente a party e occasioni mondane i propri abiti. Elsa si sentiva un artista, fare un abito non era solo un problema tecnico di sartoria ma era un vero e proprio modo per intervenire nella cultura estetica di un'epoca: il vestito era il primo strumento di comunicazione delle idee, ed Elsa si informava sulle esigenze delle donne del tempo così che queste si affidavano a lei per cercare di trovare un abito adatto a loro tipo di look. I look delle donne corrispondono al loro stile di vita, al loro lavoro, ai loro amori, e anche alle loro tasche LA MODA SECONDO SCHIAPPARELLI All'inizio degli anni 30 dopo la grande crisi del 1929 il mondo si trovò di fronte allo spettro della povertà: così la ricchezza tornava a essere un bene rarissimo che si poteva comunicare attraverso il lustro e l' estrosità di cui Schiapparelli si mostrò maestra. La sua ipotesi vestimentaria nasceva da un'idea fondamentalmente femminista: si trattava di comunicare la donna del nuovo decennio, gli abiti dovevano proteggere la nuova donna dai contrattacchi del maschio di cui stava sfidando superiorità e dominazione. Gli abiti riflettevano un'intera rivoluzione sociale di una donna che doveva essere difensiva sicura di sé di giorno e aggressivamente seducente l'abito può dare veramente un significato all' essere inanimato e introdurlo così nell'unico spazio di vita possibile quello della comunicazione sociale. LA MODA, L’INCONSCIO, L’IMMAGINAZIONE POETICA Da sempre, nella cultura occidentale, l’abito assumeva il ruolo di tramite sociale del corpo, così “cancellato”. Per la Schiapparelli, però, la donna era un insieme complesso, dotato di forma anatomica, di status sociale e di un mondo interiore. Il nuovo ruolo delle donne degli anni Trenta doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionale e stabile (cfr. divisa inventata da lei a inizio decennio). Gli abiti realizzati da Dalì secondo il metodo “objects à réaction poétique” le sembrarono fin troppo rigidamente finalizzati a comunicare un unico significato erotico-sessuale, che invece a suo parere andava ricercato secondo le regole della libera associazione utilizzate da psicanalisti e surrealisti. Innegabile però che il linguaggio della moda femminile esprima principalmente due contenuti: quello erotico/seduttivo (ovviamente meno esplicito di quello di Dalì) e quello sociale. Nel manifesto del 1924, Breton definisce il surrealismo come un “automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”. Quindi, solo la rottura dei vincoli razionali rendeva possibile ritrovare la forza interiore del soggetto, secondo un metodo di libera creazione di immagini prive di significato e scopo, nate dalla realtà onirica o fantastica. Il sogno, l’infanzia, il favoloso e il meraviglioso erano le fonti a cui ricorrere. Ciò permise alla Schiapparelli di creare un linguaggio vestimentaria che comunicasse la dimensione interiore della donna, scegliendo il metodo della liberazione dell’immagine su temi specifici che affondavano nella sua infanzia. Ciò che la stimolava maggiormente era considerare il corpo della donna e la forma dell’indumento una specie di pagina bianca su cui “scrivere” il flusso delle “fantasticherie” che sorgevano spontaneamente nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema. Si trattava sempre di immagini isolate e precise in libera sequenza; nel momento in cui queste dovevano essere accostate alla realtà degli abiti, però, le venne in aiuto il ricordo dei ready-made di Duchamp (conosciuto in giovane età in USA). Schiapparelli scelse di utilizzare il suo stesso sistema: le figure si aggregarono sui modelli senza un senso preciso che non fosse quello della sua fantasia poetica. Le sfilate iniziarono ad essere messe in scena in modo sempre più teatrale: Collezione primavera 1938 a tema “Circo”: la Maison fu riempita di acrobati, numeri incredibili, attori e pagliacci. La sfilata venne organizzata come una parata: tema ricorrente la calzamaglia sotto gli abiti e le scarpe-trampolo di André Perugia. I vestiti presentati erano i soliti (gonne, pantaloni, giacche squadrate), ma la novità stava nella decorazione dei ricami e delle stampe: straordinari ed enormi cavalli, elefanti, trapezisti… anche i bottoni, i cappelli e i gioielli erano accoppiati alla decorazione dell’abito, su temi circensi. Anche in questa collezione la Schiap riservò a Dalì il compito di realizzare due abiti da sera: uno bianco e uno nero. La ricchezza inventiva delle proposte di Elsa, però, poteva fare ormai a meno dell’aiuto dei professionisti dell’arte e questa fu di fatto l’ultima collaborazione fra i due. Collezione estate 1938 a tema “natura”, col nome “Paienne”: seguendo i dettami del surrealismo brentoniano, si ispirò alla Primavera di Botticelli, in cui gli dèi celesti assistono alla rinascita della natura “bassa”, quella del prato e del boschetto. Fra i fili d’erba e le foglie, ricercò piccoli animali, insetti cangianti, fiori di campo, nocciole etc. che si trasformassero in bottoni o si posassero sugli abiti o si incastonassero nelle collane. Collezione inverno 1938-1939 sempre a tema “natura”, ma più alta, aulica, celeste: ritrovò e riscrisse i mille segni con cui è stato tracciato il mito del cielo: lo zodiaco, il carro del Sole di Apollo, le vetrate gotiche variopinte, gli angeli, etc. finirono tutti trascritti a ricamo sui capi. Prima sfilata del 1939 a tema “maschera”, ispirata dalla Commedia dell’Arte: anche in questo caso viene ricreato un grande spettacolo popolare, probabilmente riemerso dalla sua infanzia. Sceglie di complicare la faccenda celando i visi delle modelle con piccole maschere di merletto, per dare libero sfogo alla propria immaginazione e affidare il rapporto con gli altri solo al linguaggio dell’abito. Non è escluso che il tema della Commedia dell’Arte sia stato scelto come metafora della sensazione psicologica che la gente comune aveva di fronte alla situazione politica del 1939 (il Fronte Popolare aveva fallito sia in Francia sia in Spagna e la minaccia di Hitler si faceva sempre più forte) che sembrava avere già un finale prestabilito: la guerra. LA GUERRA La collezione dedicata alla Commedia dell’Arte fu l’ultima in cui si espresse il desiderio di Schiapparelli di studiare il profondo significato dell’abito femminile: la percezione che il mondo stesse per finire era diventata una certezza. Realizzò ancora due sfilate, ma la sensazione che si percepiva era che tentasse una fuga dalla realtà rinchiudendosi all’interno del linguaggio della moda e accettando di cercare spunti nelle fogge del passato. Per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della Tour Eiffel, fu incaricata di creare abiti per una quadriglia. Propose una collezione “revival”, recuperando con molta ironia la Tournure, il rigonfiamento artificiale nella parte posteriore dell’abito femminile. Collezione autunno 1939 a tema “musica”, già affrontato ma scelto per alleggerire un’atmosfera ormai pesantissima: nonostante la frenesia di feste parigine, era evidente che il mondo si trovava alla vigilia del conflitto e Schiapparelli decise di allestire la vetrina della boutique in Place Vendome “all’insegna della pace, un patetico tentativo di contribuire a una causa persa. C’era un grande globo terrestre con sopra un uccello che teneva nel becco un ramo d’ulivo, intorno a quale volavano colombe bianche”. Ma la guerra scoppiò e costrinse la Schiapparelli, che per scelta politica non aveva chiuso l’atelier, a ridurre drasticamente il personale, cercando comunque di organizzare i turni di lavoro in modo da far lavorare quante più persone possibili. La prima sfilata dopo l’inizio delle ostilità contava solo trenta modelli pensati per le nuove condizioni di vita: collezione “Cash and Carry”, con abiti pieni di grandi tasche, adatti a donne lavoratrici e impegnate, che potessero così avere tutto a portata di mano senza dover portare una borsa. In questo modo si conservavano le mani libere e l’aspetto femminile allo stesso tempo. Creò un abito che si potesse trasformare da “giorno” a “formale, da sera” e una tuta di lana da infilare in un attimo in caso di raid aereo. Presto la moda dovette fare i conti con una doppia realtà: da un lato la quotidianità dei poveri sempre più poveri, dall’altro l’ostentazione del lusso dei nuovi ricchi legati agli affari degli eserciti invasori. Schiapparelli dice: “Molte persone pativano la fame, ma quelli che potevano pagare avevano a disposizione più cibo del necessario. C’erano anche approfittatori di altro genere, e questi entrarono a far parte della nostra clientela, trasformandola profondamente, con il risultato che anche la moda ne risentì”. Infatti, tutto mostrava come Parigi, pur sconvolta e calpestata, non avesse perso il senso dell’umorismo e fosse pronta ad assumere un aspetto che sfiorava volutamente il ridicolo, per difendere la sua vera anima. Subito dopo l’invasione, Elsa Schiapparelli partì per gli Stati Uniti: parlò di moda in una serie di conferenze, fece beneficienza e volontariato e le venne assegnato il Neiman Marcus Award. Contro il parere di tutti, tornò a Parigi per riprendere il suo lavoro, ma presto fu costretta a fuggire per evitare di essere catturata dai nazisti. Tornò così dopo varie peripezie in America, dove tenne altre conferenze, concerti e mostre per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione francese. Tornò in Francia nel 1944, appena dopo la liberazione di Parigi, e partecipò a tutte le iniziative per far rinascere l’haute couture francese, ma la situazione era difficilissima: mancava tutto il necessario per fare abiti e tutto costava moltissimo. Anche la clientela d’alta moda era nuova: mogli arricchite di loschi trafficanti di ogni genere, nuovi poveri che non avevano perso l’abitudine ma si presentavano solo per le svendite. Christian Dior fu mobilitato nel 1939, con l’inizio della guerra, e smobilitato nel 1940 con l’armistizio francese-tedesco. Dopodichè visse un po’ in campagna con la sorella e qualche tempo anche a Nizza, poiché in Provenza si era concentrata la vita elegante della Francia libera e in fuga dalla miseria parigina. Qui Dior prendeva ispirazione, consegnava disegni, ritrovava i suoi amici e la vita di un tempo. A Parigi, la sopravvivenza dell’haute couture era ancora più incerta: dal momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti, gli Stati Uniti e tutti i paesi alleati cessarono i rapporti con la moda parigina, e in più il governo di occupazione vietò le esportazioni. A questo problema si aggiunse il drastico ridimensionamento della clientela e la mancanza dei materiali necessari alla confezione di abiti (Francia fornitore ufficiale di materie prime della Germania = derubata). La limitazione nell’uso dei tessili ebbe effetti immediati sulla vita e sul modo di vestire dei francesi, ma anche sulla couture. La moda era una delle più importanti industrie francesi per il suo giro d’affari (come fonte d’occupazione e come fattore di prestigio), perciò attirò l’interesse del governo di occupazione nazista, che requisì tutte le informazioni produttive e commerciali della Chambre syndacale de la couture parisienne. Il presidente della suddetta Chambre, Lucien Lelong, però, dopo una lunga e difficile trattativa, riuscì a riottenerli insieme alla possibilità di continuare a produrre moda a Parigi. Ottenne infatti che un certo numero di case di moda, accreditate dal governo tedesco, potessero disporre di una quantità di materiali superiore a quella consentita per il consumo normale dei francesi, sufficiente a garantire una produzione accettabile, anche se molto ridotta. I modelli per ogni collezione furono limitati a sessanta, la loro confezione sottoposta a controlli, l’uso dei tessuti di lana ridotto a quantità modestissime, ma Lelong riuscì a conservare l’impiego al novantasette per cento dei lavoratori dell’industria dell’haute couture. Successivamente il governo nazista fece cessare la pubblicazione di Vogue per la presa di posizione politica di Michel de Brunhoff, passò la direzione di altre riviste direttamente in mani tedesche oppure ne contingentò la carta. Come risposta, fra il ’43 e il ’44 furono pubblicate a Montecarlo tre album stagionali con le nuove mode di Parigi, che ebbero un discreto successo all’estero. Come rappresaglia, nel ’43 le autorità proibirono la pubblicazione di fotografie di abiti, interrompendo la tradizionale comunicazione fra creatori di moda e pubblico. Anche la clientela delle case di moda cambiò molto e in fretta: scomparvero le straniere, tranne le tedesche, e anche le francesi diminuirono drasticamente (dal ‘41 al ’44, un terzo di clienti in meno). Il nuovo pubblico era rappresentato da due categorie: Mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti che “avevano bisogno del vestito giusto per partecipare ai ricevimenti tedeschi” e spendevano in moda quello che non potevano più investire in altri beni di lusso come automobili o viaggi. Mogli, figlie e amanti dei cosiddetti BOF, cioè quelli che con il mercato nero stavano costruendo enormi scandalose fortune; queste erano disposte a sperperare molti soldi pur di ostentare la propria ricchezza. Grazie a queste due categorie e ai prezzi molto alti, gli affari delle maison prosperarono per tutto il periodo di guerra. In questo contesto, nel ’41, Robert Pinguet invitò Dior a riprendere il proprio posto di lavoro. Dopo molte esitazioni decise di accettare l’offerta, ma ormai il suo posto era stato preso da Antonio de Castillo. Dior non restò comunque senza impiego: un suo amico gli procurò un lavoro da modellista nella Maison di Lucien Lelong, insieme a Pierre Balmain. I problemi però restavano gli stessi: il gusto eccessivo e poco raffinato delle nuove clienti e la mancanza di materiali. Quest’ultima incise molto sull’inventiva dei creatori, con il risultato che infine le linee proposte dagli atelier non si differenziavano molto da quelle della moda di strada: gonne corte e spalle larghe. La fantasia venne impiegata soprattutto per ricercare un modo per sostituire l’introvabile cuoio con legno, sughero, carta, finta pelle, etc. Figura 221: stereotipo della donna del tempo, con le scarpe con la suola a zeppa di sughero, calze, gonna corta con lo spacco per poter andare in bicicletta e giacca rigorosamente squadrata. A tanta miseria si contrapponeva un elemento di fantasia: il cappello, spesso e volentieri composto di ritagli inutilizzabili per ogni altro uso. L’unico spazio di sperimentazione rimasto era nella creazione dei vestiti di scena per i film in costume. Dior si specializzò nei modelli romantici e Belle Époque: busto stretto ad esaltare vita e seno, gonne ampie e gonfie, strati di tessuto per dare sostegno alle ampiezze, drappeggi eleganti, che gli ricordavano il gusto borghese della ricchezza raffinata di sua madre. Solo nel 1944, quando l’esercito francese si riprese Parigi, si iniziò molto lentamente a tornare alla normalità, ma la guerra non era finita e continuavano a mancare cibo e materie prime. Fra disoccupazione e miseria, solo a questo punto risultò chiara a tutti l’importanza del lavoro diplomatico di Lelong: impedendo che fosse estirpata l’industria della moda e costringendola a sopravvivere, egli aveva creato i presupposti per una sua ripresa interamente francese. Ed effettivamente, non si perse tempo. Il “Théatre de la Mode” Nell’autunno del 1944, Raoul Dautry, a cui era affidata la gestione dei soccorsi alle vittime di guerra, propose a Robert Ricci, responsabile delle relazioni pubbliche della Chambre, di organizzare una manifestazione a sostegno del programma di aiuti, che mostrasse la vitalità delle industrie della moda, ma anche e soprattutto la loro disponibilità e preoccupazione nei confronti dei deboli. La Chambre accolse la proposta e ne affidò la realizzazione allo stesso Ricci e a Paul Caldaguès, che progettarono una mostra di bambole vestite da sarti parigini. Trattandosi di manichini alti circa settanta centimetri, era possibile creare modelli nuovi senza impiegare tutto il materiale necessario per vestire una persona in carne ed ossa (soluzione al problema della carenza dei tessuti). Sulla struttura in fil di ferro vennero poi applicati dei visi di bronzo realizzati da Joan Rebull, scultore catalano in fuga dal generale Franco. Era il “Théatre de la Mode”, inaugurato il 27 marzo 1945 e accolto dal pubblico con grande entusiasmo: aveva raccolto un milione di franchi dell’epoca e aveva anche ottenuto il risultato di riunire l’industria della moda intorno a un progetto volto al futuro e alla ripresa. Quando la mostra venne portata a Londra, René Massigli, l’ambasciatore francese, chiede l’aiuto degli inglesi affinché la Francia potesse tornare a esportare “il suo gusto per le cose belle e l’abilità delle sue maison de couture”. Dopo Londra lo stesso discorso convinse anche Copenhagen, Stoccolma, Vienna e in fine, nel ’46, anche gli Stati Uniti. Quindi, il “Théatre de la Mode” fu solo una grande operazione di promozione infondo, dato che non fu grazie alle bambole che si diffusero le novità. Nonostante ciò, e nonostante la situazione tragica in Europa, questa mostra fu importante come segno che i tempi stavano cambiando e che la guerra stava volgendo verso il termine. La produzione doveva riprendere per rimettere in moto anche la normale macchina dell’economia. Dior e Boussac Le molte case di moda chiuse nel periodo bellico avevano lasciato dei vuoti che potevano essere colmati con nuovi nomi, Dior e Balmain si misero in società cogliendo l’occasione, ma l’iniziativa fallì sul nascere. Balmain non si arrese e aprì una Maison in Rue François, dove nell’ottobre del ‘45 fece sfilare la sua prima collezione. Dior invece rimase da Lelong in attesa di un’occasione migliore che arrivò poco dopo, Georges Vigorous stava cercando di rilanciare la Maison Gaston et Philippe. L’impresa era finanziata da Marcel Boussac (il più grande industriale cotoniero della Francia) investì un enorme cifra nel progetto, il direttore generale Henri Fayol scelse Dior come modellista. Egli si rese conto che poteva usare la risorsa Dior per qualcosa di diverso rispetto a “risuscitare i morti”, ma poteva puntare sull’invenzione di nuove mode, creare una maison innovativa nel gusto e nell’aspetto, piccola ed elitaria, capace di creare uno Eccessivo utilizzo del drappeggio Uniformi Spalle boxeur “Disegnai delle donne fiore, spalle morbide, busto prosperoso, vite sottili come liane e gonne larghe come corolle”. Tanta lievità nascondeva però una progettazione rigorosa e una grande capacità professionale. “Volevo che i miei abiti fossero modellati sulle curve del corpo femminile, di cui essi avrebbero stilizzato la morbidezza”, ma ebbe difficoltà nel trovare i tessuti adatti perché erano rarissimi. Le spettatrici della sfilata furono consapevoli di essere state testimoni di una rivoluzione della moda, e Carmel Snow ne fu la madrina, battezzandola New Look e affermando che Dior aveva “salvato la couture”. Di fronte all’entusiasmo delle signore della moda, anche i buyer statunitensi e alcune dive Hollywoodiane acquistarono i modelli Dior. Il tailleur “Bar” (fig 229) con la piccola giacca di shantung crema dalle baschine arrotondate e l’ampia gonna di lana nera a pieghe, che riprendeva l’immagine dell’imperatrice Eugenia da un ritratto di Winterhalter, divenne simbolo della collezione e del nuovo stile: richiesto, indossato e fotografato da tutti, è ancora oggi uno degli indumenti più documentati della storia della moda. La seconda collezione per l’autunno inverno, presentata il 6 agosto 1947, confermò la linea New Look accentuandone le caratteristiche. “La collezione afferma le grazie naturali della Donna. Donna stelo, donna fiore. La silhouette Corolle è morbida e svasata a forma di tulipano. La sua espressione più spinta è l’abito Diorama (fig.230) che riprende la linea ‘Derrière de Paris’, di cui l’abito Scarabée è l’esempio tipo. I corpini piatti e molto stretti aderiscono al seno ed esplodono in plissé, in pieghettature che amplificano il petto. Ma il dato più rilevante è relativo alla lunghezza e all’ampiezza della gonna, ottenuta con incredibili metraggi di tessuto: Diorama aveva una circonferenza all’orlo di 40 metri. Un lusso scandaloso considerando che siamo nel dopoguerra. L’obbiettivo di Dior e Boussac non era tanto la clientela europea, quanto quella americana. Gli Stati Uniti, vincitori della guerra, stavano attraversando un periodo di grande sicurezza economica e di modernizzazione, con anche l’introduzione di nuove tecnologie, che offrivano possibilità impensate fino ad allora. Inoltre, il benessere riconquistato dopo la grande depressione si era esteso anche alla media e piccola borghesia, creando un nuovo tipo di consumatore. L’Europa si americanizzava, mentre l’America guardava all’Europa per apprendere la sua cultura. Nel frattempo, la capitale francese tornava ad essere un punto di riferimento per gli intellettuali e gli artisti d’oltreoceano, nei mass media si diffondeva una idea ‘favolosa’ di Parigi: la città del Moulin Rouge, i panorami sulla Senna e la Tour Eiffel. Dior sfruttò questo immaginario. Il revival che egli propose s’ispirava ai momenti di maggiore felicità inventiva e della massima centralità del gusto parigino, ovvero il Secondo Impero e la Belle Époque, con un sottile richiamo al Settecento. L’eleganza che nel Settecento aveva avuto il marchio dell’aristocrazia, nell’Ottocento quello della grande borghesia, ora dichiarava la sua disponibilità alla media borghesia americana. L’America voleva una moda che comunicasse i suoi valori piccoli borghesi, la sua ricchezza, il suo senso della famiglia e della comunità. Immaginario femminile Dior offrì l’immagine di una donna fragile, tanto raffinata quanto priva di ironia e di fremiti femministi. Una donna che seguiva la moda ed era capace di apprezzare la bellezza di un ricamo o di un cappello, non si occupava di cose che non la riguardavano, come bombe, i problemi giovanili e la politica. Una donna irreale che somigliava al ricordo che Dior aveva di sua madre, una signora borghese, perbene, ossessionata dalle forme e dalle apparenze, ma che corrispondeva anche ai desideri di un immaginario maschile che cercava rassicurazioni nel contemplare la bellezza femminile e che pensava di risolvere i conflitti di genere accontentando la vanità delle donne. Dior rappresentò tutto ciò attraverso il lusso e le lavorazioni preziose. La donna reale è stata sostituita dalla donna modella, non è un caso che in questo periodo sia stata così importante la favola di Cenerentola in cui la parte della fata era sostenuta dai grandi sarti francesi. Il canone di bellezza del vitino da dea ne precisava la circonferenza esatta, che doveva misurare 50 cm ed essere quasi sempre sottolineata da una cintura di cuoio sagomata. Elementi imprescindibili per la nuova moda: gonna a corolla cintura stretta cappello minuscolo scarpe col tacco pennacchio e spilloni per quanto riguarda i capelli. Nelle stagioni successive il riferimento storico divenne ancora più esplicito e più sapiente. Ormai fissata la silhouette di base, gli abiti avevano: strutture asimmetriche effetti di sovrapposizioni geometriche La tunica di Worth si trasformava in una sovrapposizione zigzagante e la decorazione della tournure in una costruzione di linee ondulanti che percorrevano il dietro della gonna (fig. 232), le scollature quadrate si spostavano di lato, la princess si articolava con abbottonature e con spacchi diagonali. Solo le toilettes da gran sera continuavano a sviluppare la linea a corolla della prima collezione (però arricchite). La collezione Milieu de siècle, per l’autunno-inverno 1949-1950, rappresentò l’apoteosi del modello Dior: enorme varietà di linee e temi, alternando tessuti. Anche qui, per la sera, abiti da favola di tulle alternati a satin, finalmente ricamati con materiali luminosi. I simboli della collezione non sono a caso dedicati a Venere e Giunone (tav.61), presentavano la gonna o lo strascico a balze sagomate punteggiati di paillettes, piume e strass che suggerivano la chioma marina da cui era nata Venere e i pavoni del corteo di Giunone. Persino il modello da sposa, chiamata Fidelitè, recuperava la sua matrice ottocentesca: composto da un casto abito di raso con colletto, maniche lunghe e sopragonna drappeggiata su un’enorme sottana di tulle di seta. La donna di Dior Come già detto la couture parigina di metà secolo non si limita in uno spazio che va ad evidenziare la realtà, ma in una dimensione di sogno. Gli abiti di Dior erano adatti solo a un certo tipo di vita: quella del “bel mondo”, che aveva ripreso a pieno i ritmi dell’anteguerra, con la conseguente richiesta di guardaroba estremamente vari per le varie occasioni della giornata, per esempio: la donna elegante doveva usare un abito per andare a teatro, ma uno diverso per andare al vernissage della galleria Charpentier e così via. Questo mondo era fatto di apparenze che sfruttavano i mass media per essere esposte. Le attrici diventarono ideali di moda e di successo. I vestiti di Dior volevano comunicare l’idea di uno stile di vita lussuoso ed elitario, infatti erano perfetti per il rito di eleganza del bel mondo. Erano difficili da indossare, quindi richiedevano la presenza costante di una cameriera ed erano pesanti ed ingombranti, tanto da costringere chi li portava ad un’immobilità forzata, che però non costituiva un ostacolo. Al contrario, diventava un elemento di fascino, perché la Cafè Society voleva prima di tutto apparire e non aveva l’esigenza di agire. Lo stile Dior Il New Look durò 7 anni ed ebbe il suo apogeo nella Ligne Muguet per la primavera 1954, poi venne sostituito dalla linea H della stagione successiva. Iniziava una nuova fase, caratterizzata dagli abiti confezionati e da una nuova visione della donna. L’immaginario della donna-fiore stava per essere eliminato. Era accaduto anche un fatto imprevisto: Chanel era tornata dall’esilio e aveva presentato una collezione rivolta a una donna moderna e occupata in cose più interessanti che inseguire i minimi cambiamenti delle mode. Chanel fece anche delle dichiarazioni polemiche nei confronti di Dior: «Se ho la testa grossa, devo gettarmi dalla Senna quando questi signori decretano che quest’anno va di moda la testa piccola Dior? La moda è diventata assurda, i couturier si sono dimenticati che dentro i vestiti ci sono delle donne”. Il nuovo modello femminile si avvicinava di più alla nuova diva holliwoodiana Audrey Hepburn, eterea ed efebica protagonista della moderna favola di Cenerentola. La linea H era basata sulla lunghezza e sull’assottigliamento del busto, perciò si studiò un nuovo modo per guarnire il corpo, flessibile, a volte indipendente dall’abito. Una rivoluzione che provocò uno sconcerto iniziale ma che presto si trasformò in pubblicità. Ancora una volta la Francia appariva colta, aristocratica, e supremamente raffinata. Nelle collezioni successive il nuovo modello ‘diritto’ venne riproposto in variazioni che continuarono la serie delle lettere dell’alfabeto: “A” e ”Y”. Dior si adattò alla nuova moda senza tradire il suo gusto originario: continuò a preferire la donna che ostentava le sue forme e che amava le gonne lunghe e I ricami fioriti. La linea “A” del 1955 ebbe un successo strepitoso negli Stati Uniti, ma essendo un momento di crisi per l’haute couture, la Maison Dior decise di aprire un dipartimento di prêt à porter (la cosiddetta grande boutique). Nel 1957 la fama di Dior era giunta al culmine e la sua azienda era valutata 7 miliardi di franchi, ma il 27 ottobre di quell’anno, Christian morì improvvisamente. Poteva essere la fine di tutto, ma la Maison decise di mandare avanti il progetto mantenendo lo stile, il gusti e l’organizzazione che c’era stata sino ad allora. Per non rompere con la tradizione si decise di mantenere l’equipe di 4 persone fondamentali costruita da Dior: Madame Zehncker Madame Carrè Madame Bricar Monsieur Yves-Saint-Laurent Le nuove collezioni dovevano rispecchiare ciò che amava e desiderava Dior. La collaborazione con Yves-Saint-Laurent era iniziata nel 55, quando Laurent entrò nella Maison come assistente e creò un modello della linea “Y”, un fourreau di velluto nero dalle maniche molto larghe e scollatura profonda, una larga cintura di raso drappeggiato, piazzata al di sopra del punto vita normale. Dior si era accorto dell’enorme talento di YSL, infatti nella sua ultima collezione (da vivo), aveva inserito su 180 modelli , 34 modelli di YSL. YSL presentò la sua prima collezione il 30 gennaio del 1958. Era concepita su due linee: la prima era costruita sulla figura geometrica del trapezio. La seconda riprendeva lo stile Dior, gonfiando le gonne a cupola o a palloncino. Come afferma Benaïm “Questa collezione funziona come uno specchio di due facce. Da un lato il Giorno, il rigore, la semplicità, la spoliazione di una giacca che cita Chanel. Dall’altra la Jotte, il teatro, i capricci della seduzione, che citano Dior.” Il successo della collezione fu travolgente. Il giovanissimo couturier avrebbe disegnato collezioni di Avenue Montaigne fino al 1969, quando partì per il servizio militare. Il suo ruolo fu affidato a Marc Bohan, che dal 1957 si occupava della casa Dior a Londra. LA MODA ITALIANA La moda italiana è nata nel secondo dopo guerra, quando s’incominciarono a creare le condizioni per iniziare una moda innovativa e internazionale. 1. Gli Stati Uniti e la moda italiana Il rapporto che il paese intrecciò con gli Stati Uniti favorì il processo di rinnovamento del settore tessile e di moda nel periodo della ricostruzione. Con il piano Marshall del 1947 e attraverso a un sistema di crediti, l’America mise a disposizione finanziamenti e macchinari con l’obiettivo di trasformare le modalità di consumo che l’Italia seguiva da secoli e fabbricare beni adatti al mercato statunitense. Nella pianificazione degli aiuti all’Europa s’identificarono i settori in cui i paesi potevano svilupparsi in tempi abbastanza brevi. Il 1947 fu un anno chiave, diverse riviste (es. Vogue—ruolo di promotore) scrissero sulla moda italiana, in quell’anno inoltre il Neiman Marcus Fashion Award fu assegnato a Christian Dior per l’haute couture, ma anche a Salvatore Ferragamo per le calzature. Queste attenzioni si giustificavano solo con una scelta politica, rispetto all’America che poteva offrire di più. Durante la guerra la moda americana si era affiancata all’influenza francese, producendo un’alta moda di altissima qualità e uno sportswear per tutte le occasioni. I primi viaggi di osservatori e buyer americani in Italia, alla ricerca di articoli da acquistare si intensificarono del 1949 quando alcuni giunsero a Milano per vedere la produzione di Noberasco, Vanna, Fercioni e Tizzoni, e poi a Roma. 2. La sartoria di alta moda I nomi famosi del periodo prebellico erano stati sostituiti da imprese giovani, alcune nate verso la fine degli anni trenta, come Biki, le Sorelle Fontana, Antonelli, Vanna, Gabriellasport, altre nuove, come Carosa, Simonetta, Gattinoni, Marucelli, Veneziani, Curiel e poi Capucci—> tutte in sintonia con lo spirito di rinnovamento e rilancio del paese. Caso simbolico fu quello della sartoria Ventura, che aveva servito negli anni venti e trenta la Casa reale: la sua sede romana fu acquistata da Gabriellasport e quella milanese da Germana Marucelli con il sostegno di Franco Marinotti L’invenzione del nuovo necessitava di punti di riferimento, così si riprese ad andare a Parigi per guardare e per comprare modelli, ma si diede anche spazio all’invenzione e alla creazione di collezioni. In questa prima fase la capacità progettuale di molte delle sartorie era di acquistare schizzi da disegnatori occasionali o professionisti, coem John Guida, Antonio Pascali, Mario Virgolo e tanti altri, solo Germana Marucelli ed Emilio Pucci si occuparono probabilmente della progettazione diretta dei propri modelli 
 —> dunque il ricorso a fonti creative eterogenee rendeva forse queste prime collezioni scarsamente caratterizzate, ma stimolava la nascita di una cultura di ricerca dell’originale e cominciarono a identificarsi nel ruolo di creatori di alta moda. Il problema fu superato attraverso contratti di esclusiva che legarono alcuni designer a una singola casa di moda—> definizione di un’identità di stile precisa Per buona parte degli anni cinquanta l’alta moda italiana fu ispirata alla cultura sartoriale francese e alla sua capacità inventiva—non era un problema Il compito che il mercato americano aveva assegnato alla produzione italiana era quello di fornire alta moda a prezzo ridotto e sportswear di gusto europeo. 3. Moda, boutique e accessori In questo caso il problema era dare una veste estetica alta e accettabile per il gusto americano, come le aziende Ferragamo e Gucci. Accanto a esse nascevano nuove imprese che fondarono il loro successo su una singolare collaborazione di antica nobiltà e alta borghesia, l’élite aristocratica si dedicò a questo lavoro per ragioni economiche— come si è dimostrato nel corso della storia, quella della moda è un tipo di professione che l’alta società sa svolgere con successo. La nascita della moda italiana fu un’operazione di carattere culturale che consistette nell’utilizzare competenze artigianali sia blasonate, come quelle della Tessitura “Bellezza” si rinnovarono. 
 Il clima creato dal successo della moda italiana e dalla diffusione di uno stile di vita più moderno favorì anche la nascita di testate nuove. La più importante “Novità” si pose l’obiettivo di raggiungere un pubblico borghese colto, interessato alla moda come componente di un panorama culturale più ampio Una vera comunicazione di moda che necessitava di professionisti. I servizi di moda, ma anche la pubblicità delle singole case, richiedevano ormai un uso della fotografia più specializzato—>nuova generazione di fotografi e di modelle professioniste, che sostituirono le nobildonne. La promozione della moda italiana all’estero coinvolse inoltre una serie di enti statali o di categoria che organizzarono innumerevoli fiere e presentazioni: - Maggio 1952: New York Fair of Italian Manufacturers 
 - Febbraio 1956: crociera a New York, sulla Cristoforo Colombo, cui parteciparono case di moda milanesi e 
 romane 
 - 1958: il Centro italiano della moda di Milano coordinò una manifestazione che prevedeva una serie di 
 presentazioni negli Stati Uniti 
 La forma di comunicazione più spettacolare per la moda italiana fu offerta dal grande schermo—Cinecittà diventò un polo di estrema importanza per il cinema degli anni cinquanta—> i divi del cinema divennero modelli di riferimento popolari sia per quanto riguardava il modo di vestire sia per i loro stili di vita—> le case di moda utilizzarono dunque la loro celebrità e il loro carisma per farsi pubblicità. - Le Sorelle Fontana furono le più abili nel servirsi di questo potenziale, si prestarono anche a recitare la parte di sé stesse, come in Le ragazze di piazza di Spagna di Luciano Emmer. - Emilio Federico Schuberth vestì le nuove dive italiane, come Sophie Loren e Gina Lollobrigida, interpretando in modo perfetto la sontuosa opulenza dei loro fisici da maggiorate. - Fernanda Gattinoni si occupò di costumi cinematografici, sia storici, come quelli per Audrey Hepburn in Guerra e pace, sia contemporanei come quelli per Ingrid Bergman in Viaggio in Italia. Il sodalizio con il cinema consentì alla moda italiana di raggiungere un pubblico molto vasto e una popolarità di cui in passato non aveva mai goduto. Prêt à porter La fine della guerra aprì un nuovo capitolo nel modo di vestire dell’intera Europa occidentale. Il vecchio continente cominciò a guardare gli Stati Uniti come a un modello su cui plasmare il proprio futuro. Le tradizioni vecchie di decenni furono eliminate per essere rapidamente sostituite con un modo di vivere che aspirava a una più “democratica” società di costumi. Tutto in Europa aveva preso una via di modernizzazione, anche la Moda ne risentì di questo clima; importando un sistema di produzione che era stato inventato in Europa ma che si era sviluppato negli USA: la confezione industriale o ready-to-wear Le origini del Prêt à porter La parziale riapertura delle frontiere commerciali tra Europa e Stati Uniti fornì l’occasione per organizzare una serie di scambi culturali che portarono agli imprenditori europei a visitare le aziende americane. Il settore della Moda scoprì il ready-to-wear; era un vero e proprio sistema di moda progettato da disigner che nulla avevano da invidiare ai couturier francesi e articolato in una gamma di offerte estremamente ricca e di alta qualità. Alla fine degli anni ’40 la società europea iniziò ad adottare il modello di consumo che arrivava dall’oltreoceano cancellando definitivamente quella struttura gerarchica e tradizionale e adottando i caratteri tipici di una civiltà di massa; fù un processo graduale che richiese più di un decennio. La strada più rigorosamente industriale fu adottata dalla Francia e che aveva un’antica tradizione nella confessione popolare di lusso e una buona rete di distribuzione. Da qui nasce il pret-à-porter che avevo cominciato a girare tra gli addetti ai lavori per tradurre il ready to wear, divenne il modo per definire una produzione industriale di qualità che si adeguava agli stili proposti dell’ haute Couture e che poteva sostituire il “fatto su misura”. Non so l’ora è conosciuta da tutti i francesi, ma ha conquistato ilo mondo intero. Era l’EMBLEMA il segno della democratizzazione della moda, della possibilità per tutte le donne di accedere a questo mercato una volta privilegio di una piccola Elite. Nel marzo 1952 il neologismo fece la propria comparsa in una rubrica dell’edizione francese di Vogue che periodicamente dedicò servizio al nuovo tipo di produzione. L’alta moda aveva cominciato a sentire i primi segni di crisi. Niente la privata ,in particolare quella americana, cominciava a diminuire o a limitare i propri ordini, attratta da una produzione di ready to wear sempre più raffinata ed elegante. Dior aveva accolto il mutamento di costumi e aveva risposto con una linea di pret-à- porter di lusso destinato al pubblico statunitense e presto anche altri couturier sperimentarono questa via. In Italia iniziarono Jole Veneziani e Fernanda Gattinoni; Fun negli anni ’60 che le sartorie diedero vita a vere e proprie linee di prêt à porter che cominciarono a sfilare con l’etichetta di alta moda pronta. L’industria della confezione in Italia: In Italia la produzione di abiti in serie non aveva tradizioni. La conformazione sociale del paese non aveva mai favorito la nascita di una vera industria di confezione, contrastata dalla presenza di una fitta rete di sarti artigianali in grado di rispondere alle richieste di abbigliamento di tutti gli strati della popolazione. Il settore mosse i primi passi negli anni ‘50 stimolato dall’esempio degli altri paesi e soprattutto dal miraggio dello stile di vita americano e di un modello di consumo che avrebbero potuto modernizzare l’Italia. Nel 1945 era nata l’associazione italiana industriali dell’abbigliamento (AIIA), un organismo di categoria con compiti organizzativi che nel 1947 aveva partecipato alla fondazione dell’associazione europea dell’industria di abbigliamento (AEIH) a Lione. Già alla metà degli anni ‘50 l’industria italiana della moda cominciava essere una realtà concreta che necessitava di strumenti organizzativi e commerciali nuovi per il proprio sviluppo. In quei primi anni l’industria di confezione non si era posta il problema di creare tendenze o di competere con la grande moda: il suo pubblico di riferimento era composto dalle signore di media borghesia italiana che non amavano l’eccentrità, conducevano una vita ancora legata alle tradizioni. Il gruppo dei confezionisti italiani cominciava a essere consistente e stava affrontando un problema che riguardava l’intero comparto moda internazionale: quello del rapporto di dipendenza creativa dell’alta moda. Essi si sono posti un’obiettivo; volevano una versione Europea dell’obbiettivo americano di rendere l’haute couture accessibile a tutti. Il problema relativo all’aspetto creativo era forse meno evidente e non tutti lo ritennero così rilevante: nei primi anni 60 solo alcune grandi aziende cercarono la collaborazione di un designer; L’industria però arrivava troppo tardi all’appuntamento con la moda. I 10 anni che erano passati dei primi suggerimenti del comitato moda avevano portato novità rivoluzionaria nel settore, novità che la confederazione aveva saputo cogliere solo in pochissimi casi. La stagione della grande industria della confezione stava volgendo al termine. Cresciuto in modo vorticoso grazie al basso costo dei materiali e della manodopera, nei primi anni 70 attraverso un periodo di profonda crisi strutturale. Nel
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