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storia della moda XVIII-XXI secolo, Sintesi del corso di Costume E Moda

riassunto di storia della moda XVIII-XXI secolo

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 24/09/2020

Nadine00
Nadine00 🇮🇹

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Scarica storia della moda XVIII-XXI secolo e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! MODA CONTEMPORANEA – RIASSUNTO DEL LIBRO CAPITOLO 1 Quando si parla di moda si parla di qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento. L’abbigliamento riguarda tutta la società nel suo complesso, mentre la moda è stata, a partire dal Medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità. La continuità di una struttura sociale o di un’organizzazione di potere si manifesta in questi casi anche attraverso l’immobilità delle fogge vestimentarie dei suoi rappresentanti, che comunicano, con il loro modo di “apparire”, la saldezza del principio originario da cui discende il patto su cui si fonda un’intera civiltà. Questo modello di collegamento è stato messo in crisi nell’Europa occidentale fra il XIII e il XIV secolo, quando alla fissità tradizionale è stata sostituita la regola della trasformazione e della modernità. Da quel momento l’abito ha cominciato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale della persona secondo regole non rigide, ma soggette all’inventiva, al gusto, alle risorse degli individui… È del tutto evidente che l’introduzione del principio di cambiamento e della moda è stato uno degli effetti di un più ampio processo storico, che ha visto la trasformazione strutturale dell’Europa e il suo passaggio dal mondo antico ad una concezione moderna dello Stato, del potere e dell’evoluzione sociale. Il possesso e la gestione delle ricchezze hanno continuato ad essere il vero fondamento del potere reale, ma le due cose, ricchezza e potere, hanno cominciato ad avere caratteristiche, modalità di formazione e delimitazione diverse e a poter cambiare di mano nel corso del tempo, con conseguenti trasformazioni di carattere sociale e culturale. E dato che l moda fu appannaggio delle classi egemoni e ne rivestì l’apparire pubblico per comunicare il loro ruolo, era inevitabile che uno dei suoi compiti principale fosse mettere in evidenza i segni della ricchezza e del potere, scegliendo gli strumenti più consoni alla cultura e al modello di vita di ogni momento storico. Nell’Ancien Règime vi erano due tipi ti persone: chi aveva il compito di produrre e chi aveva quello di consumare; e il suo consumo doveva essere commisurato al potere e alla visibilità. Il principio dell’inuguaglianza trovava una ragione nel volere divino, me il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua concezione economica precapitalista -> situazione in cui il: lavoro= condanna per l’umanità peccatrice o mezzo per raggiungere la salvezza accumulo di denaro = forma di avarizia sperpero e la prodigalità= potevano essere considerate virtù Solo con Luigi XIV lo sperpero fastoso esplicitò la propria fondamentale funzione sociale ed economica -> la nobiltà costretta a seguire l’esempio del re e dall’appartenenza alla sua corte, portò la loro prodigalità alle estreme conseguenze della rovina -> non potevano in alcun modo recedere dalla pratica del consumo vistoso, se non con l’eventualità di creare difficoltà culturali ed economiche alla società che il governava. La rottura operata dalla Riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura relativa al lusso, alla ricchezza e al loro significato etico. Calvinisti e puritani posero un problema -> la ricchezza, segno del favore divino, non poteva essere sperperata per il piacere o la vanità personale, ma doveva essere gestita in nome della comunità. L’aspetto esteriore non ha relazione diretta con l’importanza sociale della persona, quindi modestia e moderazione diventarono le vere doti da comunicare attraverso l’abito. All’interno di questa nuova cultura, la borghesia inventò la propria moda, non più derivata o ricalcata per sottrazione dal mondo aristocratico, ma una moda che corrispondeva a un ideale di vita, a un modello etico, a principi e gusti che erano specifici. La lezione della corte di Luigi XIV era stata fondamentale per comprendere il senso “borghese”: il lusso era anche un modello di consumo, un modo per far girare merci e produrre ricchezza. Vi era però la necessità di definire in modo preciso i confini, culturali e morali, all’interno dei quali il lusso poteva essere accettabile e la moda vestimentaria poteva diventare segno di valori positivi. Nel corso del Settecento si assiste alla lenta crescita di un modello di consumo borghese, la cui peculiarità e la cui organizzazione presero forma in un lungo lasso di tempo. 1° segno -> riguardava l’abbigliamento maschile -> il completo composto da marsina, sottomarsina, camicia, calzoni restò invariato, ma invece dei tessuti di seta colorata operati iniziarono ad essere usati tessuti di lana in tinta unita o neri. Era una sobrietà programmatica, scelta da chi voleva distinguersi dallo sfrenato sperpero degli aristocratici e dei cortigiani, opponendo al loro ozio un impegno produttivo e culturale che modellava il proprio aspetto su quelli della tradizione terriera o degli intellettuali ecclesiastici. L’abito doveva comunicare valori come l’intelligenza e la lungimiranza negli investimenti o valori concreti quali il benessere, la salute e la comodità. 2° segno -> gli scopi della vita delle donne borghesi erano il matrimonio e la cura dei figli; l’abito diventò lo specchio di questa “virtù” e si privò di tutti gli elementi più teatrali che identificavano la moda rococò e il rigore calvinista e puritano del secolo precedente. L’abito: -non era più solo nero, ma anche colori chiari, nastri, passamanerie, merletti -non più forme rigide e sostenute, ma indumenti leggeri e comodi, che prima assunsero la foggia dell’abito adottato dalle nobildonne di campagna inglesi e poi quelle di un abito assolutamente innovativo che liberava il corpo femminile da tutte le costrizioni, in accordo con le teorie luministiche -> novità della medicina e della filosofia settecentesca riguardanti l’attenzione al corpo e alla salute -> aria, pulizia, movimento furono messi per la prima volta in collegamento con la possibilità di vivere bene. Ciò porto alla creazione di un abito “colto” ->camicia di sotto promossa a vestito, semplicemente legata in vita con un nastro e decorata alla scollatura con uno scialle. Questa forma di moda borghese si sviluppò nei secoli seguenti in due modi antitetici: quella maschile s’istituzionalizzò, mentre quella femminile mutò nel tempo, sottostando a propri riti di trasformazione e invecchiamento. Nel XIII secolo, la differenza di genere diventò la chiave di lettura del modello vestimentario moderno, sia nella foggia sia in questa diversa adesione alla logica del cambiamento e della novità. L’accostamento al potere e la sa assunzione da parte dell’uomo borghese portarono a una codificazione del suo modo di vestire che corrispose alla codificazione del suo ruolo. L’abito divenne una sorta di divisa, destinata a far riconoscere l’adesione a un archetipo di società da parte di chi la portava. Una divisa che non poteva essere soggetta alla moda, perché questo avrebbe comportato la messa in discussione o del patto sociale o dell’appartenenza ad esso. La moda maschile si concentrò sui particolari: i tessuti, le cravatte, i gilet, la perfezione del taglio, la stiratura, l’eleganza del portamento, l’annodatura della cravatta. Nel mondo borghese ottocentesco le donne, private di qualsiasi compito pubblico, si qualificarono per il loro stato. La loro vita le faceva dipendere direttamente dallo status sociale ed economico dell’uomo alla quale “appartenevano”, esattamente come la casa in cui vivevano. Le donne e le case erano incaricate del compito di rendere pubblica testimonianza del successo maschile, Sarte e marchandes de modes si dividevano il compito di realizzare questi indumenti, intervenendo su parti diverse dello stesso capo-> ciò dava la possibilità di adeguare il vecchio abito a nuove mode. Il lavoro era diviso: -il lavoro della sarta riguardava la perfetta costruzione degli elementi base del vestito -il lavoro della modista era finalizzato a ottenere un’infinità quantità di variazioni partendo da questa struttura immutabile Alla logica della decorazione sfrenata corrispondeva, quasi in modo speculrae, quella della semplificazione e della ricerca della comodità, che gradualmente prese il sopravvento, favorita in particolare dalla struttura aderente delle robe à l’angalise. La rielaborazione più diffusa di questa linea fu, dagli anni 70, la redingote -> derivata dal costume da equitazione normalmente indossato dalle signore inglesi, che introduceva nell’abbigliamento femminile alcuni elementi maschili, come il doppio petto, il colletto rivoltato, il gilet e i grandi bottoni. Gli inglesi utilizzarono il riding coat per uno stile campagnolo in relazione all’uso del cavallo, mentre i francesi lo utilizzarono come abito da passeggio e da città. La vera rottura con il sistema vestimentario ereditato dal passato avvenne, però negli anni 80. 1783 -> esposto al Salon un ritratto di MARIA ANTONIETTA, cui la regina indossava un ABITO BIANCO DI MUSSOLINA dalla foggia semplicissima. La scelta della regina s’ispirò alla moda che si andava diffondendo fra le ragazze più giovani, che avevano cominciato a prolungare il periodo in cui indossare gli abiti infantili, di lino o mussolina, con la cintura in vita; di fatto il vestito della sovrana era una semplice camicia dritta con le maniche lunghe e una fascia in vita. -mussolina -> era igienica, comoda, giovane -bianco -> adesione al gusto neoclassico che stava trovando nei reperti del mondo antico la chiave moderna della bellezza. Il bianco stava diventando il colore della fine del secolo e il corpo un fatto culturale e sociale. Gran parte delle novità che fecero la moda di questo periodo furono pensate o scelte da Maria Antonietta e presero forma nelle mani di ROSE BERTIN; per una quindicina di anni le scelte e le creazioni delle due donne furono la “moda”. -magasin della Bertin -> Rose Bertin si serviva di una trentina di persone nella bottega sotto la direzione di una première fille, ma soprattutto di una ramificata rete di fornitori di ogni genere da cui acquistava merci o a cui ordinava la confezione di manufatti da lei stessa inventati. (il mestiere del marchandes de modes non comprendeva la confezione d’indumenti) Dal 1774 Rose Bertin era la più importante e influente fra le marchandes de modes di Maria Antonietta, ciò le consentì di diventare una figura centrale della moda di fine ‘700. Rose Bertin e Maria Antonietta attribuirono un nuovo significato al lusso: ”l’eleganza è subentrata alla magnificenza, il lusso ha sostituito il fasto”. Nel XVII e inizio prima metà XVIII secolo -> fasto e magnificenza della corte trovarono la loro più adeguata manifestazione nei materiali preziosi e nella perizia artigianale -> ancora sotto Luigi XV gli abiti di re, regine e cortigiani erano confezionati con tessuti pesanti e complessi -> i cicli della moda erano relativamente lenti, in gran parte scanditi dai tempi e dai modi di rinnovamento dei motivi tessili, dei decori e delle tecniche d’intreccio dei merletti o dei punti di ricamo Con Maria Antonietta tutto cambiò -> la moda si sottrasse al compito di dare forma al fasto e assunse quello di giocare con i capricci del gusto di chi l’indossava e con la fantasia di chi la creava -> l’interesse non è più per la ricchezza dei materiali, ma per l’infinità di varietà di accessori e ornamenti sopramessi La nuova concezione del lusso della moda, modificò o forse chiarì il ruolo professionale della merchandes de modes -> se fino a quel momento i produttori di vesti erano semplicemente artigiani e merciai erano semplicemente commercianti di accessori, in questo momento cominciò a farsi strada l’idea di un professionista delegato alla creatività. Trasformazioni: -> prezzi -> la semplificazione dell’abbigliamento non corrispose a una diminuzione delle fatture. Inoltre il costo dell’oggetto dipendeva dalla fama della merchandes. -> la moda stava sperimentando il passaggio dall’artigianato all’arte, o forse dalla dipendenza dall’inventiva cortigiana all’affermazione di una creatività professionale. Rose Bertin “non si paga a Vernet solo per la tela e i colori” CAPITOLO 2 L’ultima vera rappresentazione ufficiale dell’Ancient Régime è stato il corte degli Stati generali convocati da Luigi XVI il 5 maggio 1789. Il Gran maestro delle cerimonie, il marchese Brézé, aveva imposto le regole vestimenatrie cui i deputati dovevano attenersi e che avevano il compito di rendere visibili le differenze gerarchiche: -clero -> abiti ecclesiastici appropriati al proprio stato all’interno della Chiesa - secondo stato -> abiti idonei al proprio rango aristocratico (marsina, sottomarsina di seta nera o di panno, decorati con galloni d’oro, mantello, calzoni di seta nera, calze bianche, cravatta, spada e cappello a piume) -terzo stato -> dovevano indossare abiti di panno nero, calze nere, un mantello di seta nera come quelli degli avvocati, cravatta di mussola in tinta unita e un cappello a tricorno nero -> non avevano il diritto alla spada) L’importanza della Rivoluzione francese nella codificazione del modo di vestire borghese iniziò probabilmente da questo atto. L’affermazione del significato politico dell’abito, contro la tradizione del suo codice gerarchico, diede via alla trasformazione e all’invenzione di una serie di segni esplicitamente caratterizzati in senso rivoluzionario o contro rivoluzionario. Dopo la presa della Bastiglia il luogo dell’apparire si spostò violentemente dalla corte alla città, dai salotti alle strade, alle manifestazioni, alle feste pubbliche. L’attore principale era il popolo parigino che elaborò e impose le proprie regole di comportamento politico e io propri codici di comunicazione non verbale -> parole d’odine erano: nazionalismo, uguaglianza, libertà e poi repubblica. La borghesia e il popolo di Parigi scoprirono il potere comunicativo dell’abito. La nuova Francia si rappresentò con il tricolore bianco e blu che diventò, oltre che una bandiera, coccarda da applicare sui vestiti e divisa dei soldati della Guardia nazionale. UGUAGLIANZA Innanzitutto fu contrapposto al lusso: se il “privilegio” gerarchico si mostrava tradizionalmente attraverso il privilegio del lusso, la cancellazione del secondo non poteva che significare l’eliminazione del primo. In generale la moda cambiò punto di riferimento: non più la corte, ma l’abito borghese e quello operaio fornirono ilo modello del nuovo apparire. La foggia vestimentaria di base non subì modifiche sostanziali rispetto alla semplificazione già avvenuta, ma venne rivisitata in ragione del nuovo significato sociale che doveva comunicare. La trasformazione fu più evidente nell’abbigliamento maschile -ABBIGLIAMENTO MASCHILE-> la moda borghese di gusto inglese e poi, nella fase più radicale della Rivoluzione -> dalla prima furono recepiti i tessuti di lana in colori sobri, le tinte unite eliminazione delle decorazioni lussuose, mentre dalle seconde prese forma la divisa del sanculotto, dichiaratamente ideologica e legata alla politica giacobina e montagnarda, che comprendeva i pantaloni lunghi e informi, la “carmagnola” degli operai, gli zoccoli dei contadini e la pipa. -ABBIGLIAMENTO FEMMINILE -> il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere. La moda continuava a proporre mise di derivazione popolare composta da gonna, caraco e fichu, cui venivano accoppiate fantasiose acconciature. Il denominatore comune era la semplicità. Il cambiamento di vita e di centro di attrazione sociale attribuiva nuovi significati anche all’abbigliamento femminile: non si trattava più di un vestito di corte né da casa, ma da città, fatto per ostentare una quotidianità operosa e impegnativa. In questo senso può essere interpretata anche l’assunzione di alcuni segni maschili, come il modo di portare il fichu e i capelli che, per la prima volta nella storia occidentale, vennero tagliati corti, à la Titus, come quelli degli uomini. Se l’abito era il modo più elementare per mostrare le differenze sociali, allora avrebbe dovuto essere anche quello più facile da mutare per comunicare la loro assenza. Dibattito di ottobre del 1793 -> incarico di Jacques-Louis David di creare divise adatte a una società di uguali -> luglio 1794 fine dell’esperimento. La dichiarazione di uguaglianza non poteva che rimanere un principio generico o, nello specifico, un riferimento a un dogma filosofico che proclamava la sostanziale uguaglianza naturale di tutti gli uomini al momento della nascita. LIBERTA’ -Il 29 ottobre del 1793 fu decretata la libertà totale di abbigliamento. -già nel 1789, di fronte all’imposizione del Cerimoniale di Corte, il Terzo stato aveva invocato il diritto di vestirsi secondo la volontà individuale In questo periodo culturalmente così complesso, libertà poteva voler dire molte cose: era un’idea astratta nella sua forma pura enunciata dai filosofi, era un principio assoluto dell’ideologia rivoluzionaria, in entrambi i casi si comunicava attraverso i simboli, il primo è il più semplice dei quali fu il berretto frigio di panno rosso. La libertà vestimentaria contribuiva alla creazione del personaggio. Al di là dell’obbligo all’esibizione della coccarda, la Rivoluzione non stabili regole e in questo modo sancì il passaggio da una moda che esibiva le separazioni di casta a una che proclamava idee politiche, trasformava i principi filosofici in sciarade e , soprattutto, suggeriva le differenze individuali, differenza che in breve si sarebbero trasformate in segni di distinzione anche sociale. CAPITOLO 3 – LA MODA NEOCLASSICA strascico. Dopo la pace di Amiens l’abito da cerimonia divenne obbligatorio e alle Tuileries gli uomini indossarono di nuovo l’habit à la francaise con le culotte corte. Incoronazione imperiale che avvenne a Notre-Dame il 2 dicembre 1804 L’imperatore riprendendo il modello di Luigi XIV, ripristinò la logica del fasto promuovendo feste e occasioni mondane di ogni genere e imponendo un consumo sfrenato. Parigi doveva tornare ad essere un modello di gusto per tutta l’Europa, facendo dimenticare i rivolgimenti politici di pochi anni prima e soprattutto rimettendo in moto l’intera economia del paese. Moda e arredamento potevano essere lo strumento adatto per risollevare l’industria tessile, che dal 1792 aveva avuto un crollo dovuto alla carenza di materia prima e di clientela. La moda aveva poi modificato le abitudini di consumo: la sostituzione dello stile francese con quello inglese aveva indirizzato l’abbigliamento maschile verso il panno abbandonando la seta. Lo stesso accadde per le donne, che l’avevano accantonata rivolgendosi al cotone e alla mussolina indiana. Napoleone intervenne presto in aiuto di Lione reintroducendo l’abito di corte di seta operata e i manti di velluto, e favorendo in ogni modo la sostituzione, nell’abbigliamento delle dame, della mussola con i cotoni francesi, il tulle e la seta leggera. Anche la moda degli scialli cachemire offrì una possibilità di ripresa per l’industria tessile, nonostante l’imitazione di questo prodotto ponesse enormi problemi (preferenza cachemire indiano rispetto a quello francese perché considerato di imitazione). Nel 1813 “Le Moniteur universel” annunciava la presentazione a corte dei dodici scialli che Napoleone aveva commissionato a Ternaux, in cui il boteh era stato sostituito da “mazzolini e ghirlande imitate dai più bei fiori d’Europa”. Era l’inizio di una produzione originale in cui la Francia avrebbe avuto un ruolo di eccellenza fino agli anni 60 del’800. Il disegno politico volto a favorire le più raffinate forme di artigianato interessò anche il ricamo e il merletto. Manti e abiti di corte, completi maschili e oggetti furono decorati con i simboli della nuova iconografia imperiale ricamati in oro e argento, mentre gli abiti femminili furono ricoperti di lievi lavorazioni a plumetis e si arricchirono di bordi, motivi di fiori, ghirlande, greche… realizzati in bianco o con paillettes. Lo stile impero, che si manifestò in tutte le realizzazioni napoleoniche, stabilì anche le regole della moda imperiale, che rimase sostanzialmente uguale a sé stessa fino al 1815 -> il revival neoclassico continuava a essere il modello di base. Le nuove mode più o meno effimere, nascevano spesso intorno alle campagne militari dell’imperatore -> Egitto portò il turbante e gli scialli; Prussia-Polonia-Russia scatenarono l’amore per le pellicce. La nuova politica di conquiste favorì la nascita di nuove mode, come quella del corsetto, che faceva assumere un portamento militaresco, dei ricami e delle spalline, copiati dalle uniformi dei marescialli di Napoleone. La reintroduzione dei rituali, dei cerimoniali e dei protocolli di corte richiese l’elaborazione di un modello vestimentario e di apparato adatto agli eventi ufficiali. Se per gli uomini si tornò all’habit à la francaise, per le donne il problema era più complesso. Napoleone optò per un’immagine moderna e per la vita alta, che rappresentava così bene la cultura del tempo. Ma l’abito di corte non era più solo una questione di moda, la sua funzione doveva essere innanzitutto simbolica -> es. emblema di Napoleone l’aquila -> duplice immagine del potere: quella dell’Impero romano e quella di Carlomagno, anche le api avevano una doppia simbologia: quella dell’antico regno dei franchi e quella borghese del lavoro che Napoleone prometteva di dedicare alla Francia. La preparazione dell’incoronazione doveva comunicare una cesura ideale nei confronti dei re Borbone, mentre la presenza del papa serviva a creare una continuità con Carlomagno e il Sacro Romano Impero. Se l scenografie furono affidate a David, i costumi furono disegnati da Isebey con la costante supervisione dell’imperatore. L’attenzione per gli abiti di Napoleone a Josèphine furono immense -> attraverso l’abito di Josèphine s’intendeva ripristinare la tradizione del grand habit dell’Ancien Régime senza riprenderne la forma. Il vero elemento che trasformava il raffinato abito alla moda di Joséphine in un grand habit di corte era però il manto di velluto porpora, foderato di ermellino e ricamato d’oro, che si allacciava alle spalle con due bretelle. L’abbigliamento delle altre dame di corte era modellato su quello dell’imperatrice, mentre quello maschile prevedeva una giacca-tunica lunga al ginocchio e un mantello corto, entrambi ricamati, culotte e gilet, cravatta di merletto e cappello piumato à la Henri IV. L’incoronazione rappresentò la messa a punto dell’immagine della corte imperiale e la definizione del suo apparire e della nuova etichetta e fissò un modello simbolico e atemporale che non doveva più essere modificato. L’abito da cerimonia si avviò a diventare un’uniforma destinata a rappresentare più la tradizione del potere che la sua vitalità: per questo la borghesia occidentale accettò d’indossare marsina e culotte tutte le volte che una manifestazione ufficiale aveva questo significato. Nonostante questa separazione tutta la moda imperiale fu un affare di corte, legata al suo entourage e al suo apparire. Come tale venne inventata e diffusa soprattutto dalla famiglia imperiale, ma anche dalle mogli degli alti funzionari e dei marescialli e dalle nobildonne che facevano parte del seguito dell’imperatrice. Il vero mezzo di comunicazione dello stile Impero in Francia e all’estero fu “Le Journal des dames et des modes” fondato negli anni del Direttorio. I due strumenti, quello politico e quello a stampa, determinarono gli andamenti della moda europea fino alla caduta di Napoleone. Intervento di nuovi professionisti -> il più famoso fu LOUIS-HIPPOLYTE LEROY, il counturier che seguì le sorti della moda francese dal Direttorio alla Restaurazione, lavorando sempre per livelli più alti della società. All’inizio fu un impiegato in un magasin de nouveautès, poi si mise in società con una famosa counturière, Madame Rainbault e in seguito, probabilmente attraverso contatti professionali con Joséphine Beauharnais durante il Direttorio, riuscì ad ottenere una posizione centrale nel mondo della moda negli anni dell’Impero. Nel 1804 fu incaricato di fornire gli abiti progettati da Isabey per l’incoronazione -> Leroy divenne il solo fornitore dell’imperatrice e il punto di riferimento di tutte le dame eleganti d’Europa. Egli non era un progettista, al contrario fu un perfetto esecutore dei disegni che gli fornivano diversi artisti che si erano specializzati in questa forma di creatività; egli vendeva tutto quello che in qualche misura aveva una relazione con la moda. Egli divenne la guida assoluta del buon gusto femminile e in qualche modo fu il vero depositario dello stile Impero e della moda di corte. La moda imperiale, però, era di fatto limitata alle corti. Al di fuori di esse cresceva quello spirito borghese che aveva provocato i grandi cambiamenti settecenteschi. Nello stesso entourage napoleonico esisteva spesso una sorta di doppia vista: al fasto delle cerimonie faceva riscontro la morigeratezza della vita casalinga. Molte mogli di marescialli, di estrazione borghese, coltivavano nelle proprie dimore il culto del risparmio, della famiglia, della rispettabilità, della semplicità. Dall’altra parte era stato lo stesso Napoleone a sancire il nuovo ruolo femminile, lontano dalla vita pubblica, limitato alla casa, ai salotti e alla maternità. Alla fine dell’Impero la morale borghese prese il sopravvento: la crisi economica che si abbatté sulla Francia costrinse a un ripensamento, all’abbandono del lusso, alla ricerca di modi migliori per gestire i propri affari. CAPITOLO 5 – L’AFFERMAZION DELLA MODA BORGHESE La RESTAURAZIONE non significò un ritorno all’Ancien Régime, ma l’affermazione di nuove regole sociali ed economiche alla cui riuscita era necessario il pacificato apporto dell’aristocrazia. L’età economica iniziata da un livellamento: eliminate le gerarchie ereditarie, ridistribuita la ricchezza, l’identità sociale nasceva da una nuova legittimità politica e culturale, quella dell’uguaglianza dei cittadini sancita dalla legge. Questo principio non eliminava le differenze, semplicemente sostituiva quelle antiche, basate sul diritto di nascita e di primogenitura, con altre più moderne e borghesi, legate al denaro. Politica e morale cominciarono a essere strettamente connesse alla cultura della produzione e alle leggi del mercato e la ricchezza non potè più essere considerata uno strumento di consumo, ma qualcosa da reinvestire e accrescere continuamente. Era finita l’epoca del lusso grandioso delle corti e dei signori e iniziava un mondo borghese fondato sul risparmio, il controllo, la ragionevolezza, la sobrietà. Lo spreco era diventato una colpa. Questo significa che la borghesia che si andava affermando rifiutasse gli agi della ricchezza: semplicemente, non si riconosceva nella cultura del lusso ostentato e dello sperpero. Il lusso borghese prese quindi altre strade, quella dell’eleganza e quella del comfort di matrice inglese, che s’innestò facilmente nella cultura della casa e del privato che contraddistinse l’epoca. La Rivoluzione industriale mise a disposizione di tutti una quantità innumerevole di beni che invasero i mercati nella loro qualità di merci, e quindi riempirono le case borghesi sotto forma di oggetti. La tecnologia fornì nel corso del secolo i veri lussi della borghesia, quelli che l’aristocrazia non aveva mia potuto acquistare: l’acqua corrente, il gas e l’elettricità. La teoria dell’eleganza riguardava il modo di vestire, ma anche il modo di essere. Balzac -> “superiorità morale” -> il gran pregio dato dall’istruzione, alla purità del linguaggio, alla grazia dei modi, alla maniera più o meno elegante di portare un’acconciatura, alle ricercatezze della casa, insomma alla perfezione di quel che deriva dalla persona. La parola, l’andatura, le maniere sono atti che procedono immediatamente dall’uomo e sono interamente sottomessi alle leggi dell’eleganza. Il problema rimaneva però la modalità per acquisire questa “superiorità morale” che si traduceva nell’apparire elegante. Abitudine, educazione, apprendimento, ma anche istinto, gusto innato, intelligenza: erano le qualità che facevano la differenza fondamentale fra un individuo e l’altro -> tutto ciò non era facilmente raggiungibile per un borghese, che normalmente non aveva fruito di un’infanzia circondata dalla “grazia armoniosa” dell’aristocrazia. L’obbiettivo da raggiungere era quello di un vero lusso da veri ricchi, lontano sia dal “fare come” dei falsi ricchi, sia dal “fare troppo” degli arricchiti. Il lusso costa meno dell’eleganza, nel senso che era sufficiente comprarlo, ma a prezzo del ridicolo che circondava ogni parvenue. D’altra parte la nuova società non amava l’ostentazione dello spreco, non amava far vedere la propria ricchezza e detestava la vanità tanto quanto temeva il ridicolo. Semplicità, sobrietà, proprietà, ragionevolezza, naturalezza erano le regole fondamentali del nuovo vivere sociale. ABITO MASCHILE arricchivano la foggia di base che caratterizzò l’abbigliamento femminile dagli anni 30 agli anni 60. La fama della moda parigina, riguardava però le prime fasi della produzione della novità, quelle della creazione e del loro consumo da parte dell’élite. In realtà la diffusione agli altri strati sociali, richiedeva strumenti e mezzi moderni e adeguati, che furono messi a punto da nuovi professionisti. MAGASINS DE NOUVEAUTES Alle merchandes de modes si erano sostituiti i più impersonali magasins de nouveautés, un termine che comprendeva tutti i settori e gli articoli riferiti all’abbigliamento e ai suoi accessori. Questi magasins adottarono l’abitudine di esporre la merce in modo che fosse visibile anche dall’esterno, per attrarre la clientela. Volantini e piccoli manifesti furono il primo veicolo pubblicitario diretto. Dagli anni 40 la loro organizzazione divenne più razionale e moderna. Nel 1841, Deschamps si associò con Collinet per aprire A’ la Ville de Paris -> nuovo sistema che si intendeva seguire: guadagnare poco su ogni cosa per vendere di più/ i prezzi sono fissi e marcati in cifre conosciute/ ogni mercanzia viene cambiata e può anche essere rimborsata. Era l’inizio di un nuovo rapporto tra l’acquirente e la merca, che cominciava a essere totalmente esposta, con un prezzo certo e non più contrattabile, liberamente visibile anche da chi non era immediatamente intenzionato a comprarla e persino sostituibile. Il dato fondamentale era quello dei prezzi: non più un mercato di lusso con prezzi esagerati dalla rarità dei beni, ma l’esatto contrario. La produzione industriale, che cominciava a immettersi sul mercato grandi quantità di prodotti realizzati in serie, aveva costi decisamente più bassi di quelli artigianali, d’altra parte l’incremento delle vendite consentiva ai commercianti di fare acquisti in quantitativi tali da permettere di strappare prezzi di assoluta concorrenza. LA CONFEZIONE La vera grande novità di questa fase della società borghese fu la confezione. Gli abiti delle classi sociali più alte continuarono a essere confezionati da tailleur e couturière, i cui modelli venivano pubblicati sulle riviste. Ma la borghesia era estremamente stratificata e ceti medi e piccoli avevano altri problemi: da un alto erano impossibilitati, per motivi economici, a servirsi degli stessi fornitori dei ceti alti, dall’altro rifiutavano di ricorrere al mercato dell’usato che tradizionalmente forniva gli indumenti agli strati popolari. Il problema riguardava innanzitutto gli uomini, consci del fatto che le esigenze di decoro e di proprietà, da rispettare sul luogo di lavoro, mal si accordavano con il riciclaggio di abiti da grande occasione o di stracci di dubbia sanità che venivano venduti in interi quartieri di Parigi. Per rispondere alla nuova domanda, nel 1824 Pierre Parissot creò un’impresa, all’insegna della Belle Jardinière, in cui vendere indumenti maschili, confezionati in serie e nuovi, che all’inizio erano destinati unicamente al lavoro. La serializzazione riguardava soltanto il taglio delle pezze, dal momento che la cucitura delle parti doveva essere ancora realizzata a mano. Il successo fu tale che in breve tempo Parissot cominciò a confezionare anche abiti borghesi di tipo corrente. Ma fu dagli anni 40 che la realizzazione di abiti pronti ebbe un vero sviluppo. La confezione femminile, dalla metà degli anni 40, riguardò solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo e seguì una logica completamente diversa da quella maschile. Sperimentata negli anni 40 dai magasins de nouveautés, si rivolgeva a un mercato di signore ricche ed eleganti cui proponeva capi e accessori costosi e all’ultima moda. Il successo della nuova iniziativa commerciale creò le condizioni affinché cominciassero a diffondersi due nuovi tipi di professione: -le confezioniste -> fabbricavano, su cartamodello e non su misura, mantelline, mantelle, pellicce destinate ai magasins de nouveautés -sarte confezioniste -> realizzavano, oltre ai normali indumenti su misura per singoli clienti, anche vestaglie, camice, abiti per bambini preconfezionati da vendere direttamente In questa prima fase, la produzione di indumenti pronti non riguardò l’abito intero, che le signore preferivano far realizzare su misura da una sartoria di fiducia, ma anche in questo campo ci fu una novità. Dagli anni 40, l’industria tessile cominciò a realizzare e commercializzare pezze operate o stampate à disposition già pensate in funzione del modello finale. Nel 1848 si verificò una grande crisi economica, che segnò la fine della prima fase dello sviluppo industriale e favorì lo scoppio di una serie di rivolte e rivoluzioni che riguardarono quasi tutta l’Europa. La ripresa iniziò dal 1850 e prese la forma di un vero e proprio boom economico di dimensioni mondiali. La marcia trionfale del capitalismo ebbe nelle Esposizioni universali i suoi giganteschi riti di autoesaltazione -> Crystal Palace a Londra, la Rotunda di Vienna … -> ognuna intesa a mettere in vetrina il numero e la varietà crescente di manufatti. Ma se le esposizioni avevano il compito di mostrare al mondo intero la forza produttiva del capitalismo, la sua vita e il suo progresso erano legati al fatto che lo stesso mondo di ammirati visitatori si trasformasse in un gigantesco mercato per assorbire questa quantità iperbolica di merci. I grandi magazzini furono in qualche modod la forma stabile delle grandi esposizioni, i luoghi in cui la merce poteva essere non solo ammirata, ma anche acquistata. Dagli anni 50 cominciarono a sorgere i nuovi grandi magazzini -> queste imprese cominciarono da subito ad ingrandirsi, inglobando le case intorno, fino ad arrivare ad occupare interi quartieri. Il successo delle imprese attirò presto l’attenzione di finanziatori che investirono grandi somme in questa nuova forma di attività commerciale. La regola del grande magazzino era identica a quella elaborata nell’ultima fase dei magasins de nouveautés: ridurre il margine di profitto sui singoli articoli per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e del capitale. Questo richiedeva una produzione in serie efficace e capace di offrire costanti novità: una caratteristica che per il momento apparteneva solo all’industria tessile e alla produzione di confezione. Per questo, fino agli anni 70 l’oggetto principale della vendita di tali imprese commerciali furono la moda. Solo quando altri comparti industriali furono in grado di avere la stessa duttilità comparvero mobili, vasellame, giocattoli, soprammobili… Ogni reparto +, specializzato in un genere merceologico, era gestito in modo individuale, con un responsabile da cui dipendeva anche il rinnovo delle merci e uno stuolo di commessi. Regole -> ingresso libero, assoluta assenza di qualsiasi coercizione all’acquisto e della sostituzione o restituzione della merce -> la signora borghese doveva essere indotta a entrare e a perdersi nelle meraviglie esposte, fino a dimenticare i propri principi etici e lasciarsi andare agli acquisti. Affascinate dalle vetrine, le signore dovevano essere indotte a entrare: per questo all’ingresso venivano disposte le occasioni, merci a prezzo basso o ribassato, che avevano lo scopo di attirare il maggior numero di curiosi e dare l’impressione di qualche vendita straordinaria. La resa e i prezzi bassi erano ormai il funzionamento classico del nuovo commercio. PUBBLICITA’ E RIVISTE DI MODA A tutto questo si aggiunge la pubblicità, che veniva fatta utilizzando i mezzi più diversi: dalle vetture per la consegna a domicilio, agli striscioni appesi alle immense facciate per annunciare occasioni particolari, dai manifesti grandi e piccoli ai cataloghi e alle riviste, che raggiungono i clienti lontani e favorivano le vendite per corrispondenza. I cataloghi pubblicati dai grandi magazzini avevano di norma uscite stagionali, ma potevano essere anche più frequenti. All’inizio privi d’illusioni, dagli anni 70 cominciarono a presentare le merci attraverso un disegno litografico. Lo sviluppo delle riviste di questo periodo è legato in maniera inscindibile alla vicenda della moda borghese. Lo sviluppo era stato reso possibile dalla diminuzione dei costi degli abbonamenti, che aveva allargato il pubblico delle riviste alla media borghesia, ma anche da un interesse accresciuto nei confronti della moda, che trasformava le imprese editoriali in questo settore in ottimi affari. Le riviste di moda erano destinate o alle donne o ai professionisti dei diversi settori, come sarti da uomo, acconciatori ecc… Se nel secondo caso conservavano un approccio tecnico, nel primo si occupavano, oltre che di moda, di problemi quotidiani, di educazione, di buone maniere e di tutti questi consigli di cui avevano bisogno le buone signore borghesi, soprattutto di provincia, per essere adeguate al modello sociale imperante. L’elemento che differenziava questa stampa da tutte le altre erano però i figurini di moda che richiedevano professionisti specializzati. In generale, gli illustratori provenivano dal mondo della formazione artistica tradizionale e non sempre si dedicavano solo a questa produzione. In questo settore lavorarono anche molte donne, spesso provenienti da famiglie che già operavano nel campo della pittura e che quindi avevano garantito loro la preparazione necessaria (es. le sorelle Collin). L’iconografia più comunemente seguita nelle immagini di moda all’inizio del secolo prevedeva una figura umana caratterizzata secondo l’ideale di bellezza in voga: la modella era semplicemente utilizzata per trasmettere i codici d tale bellezza e per mostrare l’abito che indossava -> lo scopo era la visibilità del vestito. Il disegno quindi doveva essere il più possibile chiaro e la figura atteggiata in modo da mostrare tutto ciò che era necessario a un’informazione completa. Dagli anni 40 le riviste più attente cominciarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato, così da fornire alle lettrici indicazioni non solo sull’abito, ma anche sul modo e l’occasione per indossarlo. “realismo idealizzato” -> un realismo lieve, che presentava alle dame un mondo di signore perbene, che vivevano lontane dalle contraddizioni e rispettavano i riti che una società ordinata aveva affidato loro. CAPITOLO 6 – CHARLES FREDERICK WORTH (1825-1895) Charles Frederick Worth era nato in Inghilterra nel 1825 in una famiglia borghese e aveva svolto il suo apprendistato un due notissime ditte di tessuti londinesi, prima di recarsi a Parigi nel 1845. -----Qui lavorò come commesso a La Ville de Paris, prima di essere assunto come assistente alle vendite da Gagelin (uno dei più importanti magasins de modes della città). Presto fu incaricato di occuparsi del reparto “scialli e mantelli” dove introdusse la prima innovazione: quella di presentare i capi utilizzando come modella una commessa del reparto, Marie Augustine Vernet (futura moglie) -> le realizzò dei semplicissimi abiti per far risaltare gli scialli -> i clineti iniziarono a notarli e le signore dell’alta società cominciarono ad essere attratte dall’idea di acquistare indumenti già fatti, purchè fossero alla moda e lussuosi come quelli che ordinavano alle sarte. Presto nei reparti del magazzino fecero quindi la loro comparsa le prime nouveautés confectionnées. corpo, pur se artefatta, veniva ostentata nella semplicità delle sue curve naturali, anche se questo non significava un’allusione alla nudità. Al contrario, la donna veniva armata con una corazza che certamente doveva contribuire a turbare un immaginario maschile che in questo periodo si mostrava particolarmente sensibile al problema del rapporto fra i sessi. Con questa proposta Worth si inserì in un dibattito culturale che stava coinvolgendo scrittori, artisti e intellettuali. Dall’immaginario dell’uomo borghese della fine dell’Ottocento stava emergendo la figura della femme fatale. La sua regola professionale era sempre quella di essere sempre adeguato allo stile di vita della borghesia internazionale. Gli abiti di Worth erano unici all’interno di una società in cui tutto diventava riprodotto e riproducibile, questo era un elemento di qualificazione e di distinzione che l’alta borghesia era disposta a pagare a carissimo prezzo. Worth impose un costo che fosse di per sé garanzia di una clientela elitaria e di un prodotto di altissima qualità sartoriale ed estetica. In realtà la cosa davvero unica era il modello/prototipo, che poteva venire sviluppato in più varianti per clienti diversi -> variazioni dello stesso modello di base. Si trattava di un concetto di unicità che si legava a una logica di tipo artigianale o artistico. Il capo era creato e realizzato dal maestro dell’eleganza. E questo ne assicurava l’autenticità, sancita dall’etichetta cucita all’interno che aveva lo stesso valore della firma su un’opera d’arte. -Fu negli anni 80 che Worth concentrò la propria creatività sul gusto storicista, ripercorrendo i modi di vestire e gli stili di tutte le epoche. Le fonti d’ispirazione erano quadri celebri conservati nei musei, utilizzati sia come spunti creativi, sia per ricavarne dettagli, citati quasi alla lettera, da riproporre in capi perfettamente adeguati alo stile di contemporaneo. Mentre le fogge rimanevano di norma all’interno delle mode consolidate, i tessuti, i particolari sartoriali e le decorazioni si arricchivano di richiami al passato che si susseguivano e si accavallavano proponendo, sulla scena della couture, secoli e corti diversi a seconda delle stagioni. Dal Cinquecento e dal Seicento furono ripresi i colletti a lattuga o le ampie maniche, mentre da Settecento furono d’ispirazione gli engageants, i fichu, i nastri da collo, le marsine trasformate in giacche femminili, le redingote ecc… Tutta questa ricchezza di elementi decorativi fece sparire la linea verticale dei primi anni 80 e tornare di moda la tournure, che dal 1883 ricomparve trionfante sotto le gonne, dove rimase fino alla fine del decennio. Non era più un rigonfiamento di crine arricciato degli anni 70, ma una piccola gabbia metallica dalla struttura squadrata destinata a sostenere un vero e proprio ampliamento posteriore della gonna. -Gli inizi degli anni 90 segnarono una serie di cambiamenti nella Maison Worth e nel suo gusto. Comparvero infatti le prime concessioni al giapponesismo che, con il suo linguaggio figurativo, stava influenzando ormai da tempo tutta la cultura artistica d’avanguardia. Worth adottò per i suoi abiti decori, tessuti o ricami, che non possono che essere riferiti a quella corrente estetica. Abbandonata per la seconda volta la tournure, la figura femminile assunse quell’andamento verticale che la Maison aveva destinato per anni ai modelli da indossare all’interno delle mura domestiche. La gonna alleggerita di tutti gli elementi di decoro che la tagliavano orizzontalmente e prese una forma a campana. Il revival era iniziato a Londra -> i couturiers francesi, a caccia di novità, si misurarono presto con questi modelli londinesi -> pur conservando il busto steccato e i riferimenti di tipo storico, l’abito si alleggerì e si semplifico. La gonna a campana con il breve strascico venne a volte accompagnata con corpetti aderenti, ma più spesso comparve in abiti princess, che mettevano pienamente in risalto la semplicità della nuova linea. Le signore che si vestivano da Worth rappresentavano ormai un establishment che voleva essere alla moda senza troppe rivoluzioni e soprattutto senza mettere in discussione la certezza di gusto che la Maison rappresentava e garantiva da decenni. Quindi l’introduzione di una semplificazione strutturale non impedì la proposta di nuovi revival, come l’irrigidita linea Impero degli anni 90, come gli scolli quadrati ispirati ai ritratti, il riferimento egizio… Dall’altra parta come avevano intuito le riviste, anche la semplicità di questa moda era ispirata allo stile degli anni 30 dell’800, cosa che risultò ancora più evidente quando Worth “invento” le maniche à gigot, che dovevano avere tanto successo nelle stagioni seguenti. Derivate da una foggia della seconda metà del ‘500 che era stata ripresa nel periodo romantico, esse ebbero il compito di controbilanciare le linearità del modello con un elemento fortemente decorativo. Nei capi di Worth, però, la forma à gigot venne sempre controllata dalla grande sapienza sartoriale della Maison e “gonfiò” la spalla dandole una forma arrotondata senza aggiungere mai gli eccessi che si videro in altri casi. Charles Worth morì nel 1895 -> per diversi anni la Maison continuò a essere uno dei punti di riferimento privilegiati dell’alta società internazionale, poi altri assunsero il compito di cambiare le mode e interpretare i tempi. Nonostante ciò, prima Jean-Philippe e in seguito il nipote Jean Charles le conservarono una posizione di preminenza nel panorama dell’haute couture almeno fino alla fine degli anni 20 del ‘900, quando il suo ruolo divenne piuttosto quello di una sartoria di solida tradizione. IL RUOLO DEL “COUTURIER” Dal 1870-71, quando Bobergh gli vendette la sua quota di partecipazione, Worth diresse sa solo la sua Maison. Già nella seconda metà degli anni 60 aveva coinvolto nell’azienda i figli, in modo da garantirle continuità e futuro. Charles Frederick continuò ad esercitare un controllo diretto sulla produzione almeno fino ai primi anni 90. Worth utilizzò i professionisti dell’estetica e del gusto (gli artisti) come modelli di riferimento per trasformare il proprio aspetto professionale in modo eccentrico e si atteggiò a tiranno delle sue clienti. Il “travestimento” non era casuale, era finalizzato a rafforzare l’idea di originalità del prodotto e di proprietà intellettuale del creatore in un ambito in cui la pratica andava in direzione opposta. Fino a quel momento, le mode nascevano per diffondersi ed essere copiate e riguardavano fogge, accessori, complementi di cui non esisteva un unico modello originale. Con l’affermarsi di una figura professionale incaricata di produrre non generiche tendenze, ma creazioni esclusive, il problema si spostava. Autentico diventava solo l’abito cucito all’interno della Maison e corredato dell’etichetta corrispondente. Il couturier non era più un semplice artigiano, ma rivendicava un ruolo da lavoratore intellettuale o artistico, che aggiungeva alla sapienza del mestiere la propria creatività (“io sono un’artista. Ho il colore di Delacroix: io creo. Un vestito vale un quadro”) CLIENTELA E VISIBILITA’ Fin dal principio Worth si era reso conto che la semplice clientela borghese che lo aveva seguito nella nuova avventura non sarebbe stata in grado di garantirgli il successo che egli cercava; solo le dame dell’aristocrazia potevano operare il miracolo. Il sistema commerciale che egli riuscì poco a poco a costruire si articolava in modo armonico attraverso una complessa trama di clienti, ognuna delle quali apparteneva a un gruppo sociale che andava trattato secondo certe regole e che aveva un determinato peso nell’immaginario collettivo della moda. Aristocrazia e alta borghesia costituivano i modelli di riferimento di gusto cui l’intera società guardava, i due gruppi vivevano paralleli e separati e solo il loro insieme avrebbe consentito alla moda si sviluppare il proprio impero. Worth riuscì a coordinare le loro esigenze, destreggiandosi con grande professionalità fra le loro diverse necessità sociali e utilizzando in maniera estremamente oculata gli strumenti che la modernità offriva. Gran parte dell’aristocrazia europea di servì da lui. In realtà il successo della Maison non dipese tanto dal fatto di essere fornitrice ufficiale di varie case regnanti, ma dal vestire quelle nobildonne molto in vista cui nei diversi paesi era conosciuto il ruolo di leader nella moda e nell’eleganza. Worth curò anche il mondo dello spettacolo e della mondanità, che offriva possibilità straordinarie per far conoscere le nuove mode anche al di fuori della cerchia della clientela diretta. Attrici, cantanti e cortigiane di successo furono un tramite indispensabile con il grande pubblico. Worth cominciò a presentare i propri modelli sulle pagine di “L’Art de la mode” (chiamato poi L’Art et la moda). Fino a quel momento aveva seguito una stretta regole di segretezza, in parte temendo che i disegni divulgati sulle riviste di moda favorissero la copia dei suoi abiti, in parte perché le lettrici cui si rivolgevano non facevano parte della sua clientela. L’Art de la mode -> era la prima testata che sceglieva di rivolgersi a un’élite pubblicando, oltre a notizie di moda, i resoconti degli eventi mondani più rilevanti dal punto di vista internazionale. L’obbiettivo non era quello di propagandare i propri modelli così che le sarte potessero copiarli o di raggiungere un pubblico allargato, ma piuttosto di accrescere la sua fama di artefice del gusto, utilizzando i nomi delle nobili dame o dei personaggi alla moda che si erano affidati a lui. Questa forma di garanzia gli era indispensabile anche per conservare e accrescere la clientela più importante della sua Maison: quella americana, costantemente attratta dalla cultura europea. Recarsi a Parigi a rinnovare il guardaroba divenne un’abitudine diffusa fra le signore delle più importanti famiglie che costituivano l’altissima borghesia di New York e Boston. CAPITOLO SETTE – ANTIMODE E ABITI D’ARTISTA L’opulento stile di vita della borghesia ottocentesca trovò al proprio interno non poche voci critiche e i primi oppositori. Preoccupati dal vorticoso processo di omologazione in atto e dal meccanismo in virtù del quale la moda distruggeva appena nate le proprie creazioni, artisti e intellettuali tentarono di porre un freno a questa estetica dell’effimero e della vanitas proponendo modelli culturali alternativi. La stessa qualità degli oggetti esposti a Londra nel 1851 aveva suscitato critiche impietose: la bruttezza delle falsificazioni industriali di oggetti antichi aveva raggiunto livelli inaccettabili. Anche la moda femminile partecipava alla stessa considerazione negativa: troppo artefatta e artificiale, scomoda, eccessivamente decorata. Le reazioni presero all’inizio la forma di richiami ai principi originali della cultura borghese: la sobrietà, la funzionalità, il modello di vita operose, i valori del lavoro, ma anche gli albori del femminismo. Alla fine degli anni 40, negli Stati Uniti, Amelia Bloomer aveva fondato una rivista, “The Lily”, che dichiarava di dedicarsi “agli interessi delle donne” e diffondeva le idee di un movimento che s’ispirava al principio di temperanza. 1851 Mrs. Bloomer decise di adottare un abbigliamento più pratico delle ingombranti gonne con la crinolina e cominciò a indossare corti gonnelloni con pantaloni alla turca, certamente ispirati all’esotismo che da tempo caratterizzava il gusto occidentale -> la provocazione ebbe un’eco clamorosa. Il suo modo di vestire non si A Vienna, il luogo dedicato alla ricerca sull’abito d’artista fu la Wiener Werkstatte, la scuola di arti applicate fondata nel 1903 da Josef Hoffman e Koloman Moser, che dal 1911 ebbe un laboratorio stabile dedicato alla moda. Anche se pieni di fantasia, i modelli progettati in questa sede rimasero spesso al livello di disegno. Questo però non impedì che la loro forza innovativa colpisse Poiret, che dall’esperienza viennese trasse una serie d’ispirazione che contribuirono a modificare la moda parigina. L’ABITO ALLA GRECA Negli anni 70 era avvenuto un fatto straordinario: Schliemann aveva riportato alla luce Tria, Micene e Tirinto, dimostrando qualcosa che nessuno aveva mai osato pensare e cioè che le favole degli antichi, raccontate da Omero, avevano un fondo di verità. Molti pittori fecero del mondo classico lo scenario e il soggetto principale dei loro quadri, che ebbero uno straordinario successo. Era inevitabile che tutto ciò avesse un’influenza sulla moda, anche quella colta e alternativa che perseguivano gli artisti. Nel 1890 si formò un’associazione The Healthy and Artistic Dress Union, che intendeva promuovere un modo di vestire che non fosse contrario alla salute, ma che soprattutto avesse un lato valore estetico. L’idea di un ritorno all’abito delle origini si andava diffondendo in ambiti culturali molto lontani e diversi fra loro. Pochi anni dopo, Isadora Duncan iniziò la sua particolare rivoluzione della danza esibendosi vestita con una candida tunica che trasformava il suo corpo in una statua classica in movimento. Ma il vero interprete moderno dell’abbigliamento greco fu artista catalano eclettico che operava a Venezia, Mariano Fortuny. Da un lato, egli reinventò il modello del chitone e lo tradusse in una tunica, il “Delphos” e dall’altro tributò con la sciarpa “Cnossos” un omaggio alla scoperta delle civiltà minoica e agli scavi che Evans stava conducendo a Creta. Le ricerca di Fortuny intorno al tema Reform non si limitò alla riedizione dell’abito greco, ma si estese ai sistemi di taglio degli indumenti orientali o etnici e alla creazione di tessuti adatti a una loro traduzione in termini “estetici”, elaborando tecniche di colorazione e stampa che sapevano rendere gli effetti e i disegni degli antichi velluti operati. In tutti i modelli di Fortuny l’equazione corpo-donna-movimento-bellezza era raggiunta. Egli aveva creato qualcosa che costituiva una vera alternativa all’abito con il busto e le sottogonne. Questo non significa, però, che un oggetto cos’ elitario e raffinato come il “Delphos” potesse immediatamente entrare nell’uso comune e spazzare via tutte le sedimentazioni culturali di un secolo di moda, ma, come accadde per goni opera d’avanguardia, la sua esistenza condizionò certamente le elaborazioni e le trasformazioni vestimentarie successive. I FUTURISTI Il primo decennio del nuovo secolo vide nascere un’altra forma di ricerca artistica che affermò sé stessa attraverso l’opposizione dura al modello culturale borghese: quella delle avanguardie che scelsero per esprimersi l’intervento violento e provocatorio. Il gruppo futurista comunicò la propria idea della modernità e dell’arte attraverso un manifesto pubblicato su un quotidiano francese: l’artista intellettuale sceglieva così di estendere la propria area di intervento ai luoghi di dibattito e di formazione delle opinioni. I diversi manifesti esposero sia i modi in cui doveva avvenire il rinnovamento sia il significato sociale e culturale delle trasformazioni. I miti futuristi erano la metropoli, la macchina e la tecnologia e significavano di fatto una rottura totale con le estetiche del revival che aveva caratterizzato il secolo precedente. In particolare fu il modo di vestire gli uomini che venne messo in discussione fin dall’origine. Gli artisti futuristi cominciarono ad adottare il colore e l’asimmetria, prima nella forma di calzini colorati e spaiati, poi di cravatte variopinte e di indumenti dall’aspetto inusuale. BALLA -> disegnò e realizzò per se abiti innovativi in cui forme e ritmi cromatici dovevano suggerire effetti dinamici. Nel 1914 fu pubblicato “Le vetement masculin futuriste”: manifesto in cui Balla prendeva le distanze dall’aspetto “desolante, funerario e deprimente” del costume del momento e dettava i nuovi precetti dell’abito futurista. L’abbigliamento doveva modificarsi secondo regole generali, ma ciascuno era libero di cambiare l’aspetto esteriore di un indumento attraverso i “modificanti”, elementi geometrici di tessuto e colori diversi, forniti insieme al capo, da applicare a piacere. L’11 settembre 1914, dopo l’attentato a Sarajevo, il testo venne ripubblicato con il titolo “Il vestito antineutrale” -> riprendeva le idee già espresse in un linguaggio marinettiano e di un significato interventista. Negli anni successivi i futuristi diedero forma concreta alle loro ideologie estetiche aprendo, in molte città italiane, laboratori in cui realizzare oggetti d’arte applicata dalle forme eccentriche e innovative. La collaborazione tra il futurismo italiano e la produzione di moda fu pressochè assente, anche perché la ricerca di questo movimento d’avanguardia di dedicò soprattutto all’abito maschile e in modo più teorico che concreto (i gilet ad assemblage progettati da Balla e Depero negli anni 20 ebbero scarsissima diffusione). COSTRUTTIVISMO E RIVOLUZIONE RUSSA La Russia postrivoluzionista aveva il sogno di creare un mondo e una società completamente nuovi. I vestiti vennero presi in esame come componente simbolica e produttiva del nuovo progetto. L’obbiettivo del dopo 1917, non era più scandalizzare i borghesi, era piuttosto creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più segni della distinzione sociale. Uno scopo che richiedeva anche un ripensamento di tipo produttivo: non più piccoli numeri destinati a un’élite, ma i grandi numeri di una produzione industriale di massa. La Russia non aveva una tradizione nel campo della confezione: la nobiltà si era sempre servita a Parigi o dai grandi sarti della capitale, la borghesia faceva realizzare i propri abiti nelle sartorie e il popolo aveva continuato a vestire i costumi tradizionali cuciti in casa o da piccoli artigiani. Il nuovo percorso iniziò nel 1919 con la creazione di laboratori e scuole (es. quella della Lamanova) L’obbiettivo politico era dare una nuova forma estetica alla società, come aveva affermato Lamanova alla 1° Conferenza generale russa sull’arte industriale: “Nel campo dell’abbigliamento, gli artisti devono prendere l’iniziativa di creare, con stoffe a buon mercato, abiti estremamente semplici, ma di buon taglio, adatti alle nuoce esigenze lavorative”. Fu la nuova politica economica (NEP) a dare un vero impulso alla liberta creazione di modelli vestimentari e fu nel 1923 che si costituì il primo atelier di moda, che presentò la sua filosofia e i suoi modelli attraverso una rivista “Atelier”. La ricerca di una nuova bellezza in ambito vestimentario tenne conto di due elementi di fondo: la possibilità di una produzione industriale e il legame con la tradizione popolare russa. LAMANOVA -> di grande competenza sartoriale, si concentrò sulla funzione, i materiali, le forme e la decorazione. EKSTER E MUCHINA -> concentrarono la loro creatività sulla produzione teatrale, che consentiva sperimentazioni molto più complesse e inventiva di quanto non permettesse le produzione di abbigliamento di tipo quotidiano. STEPANOVA E POPOVA -> si concentrarono sul tessuto, modificarono il disegno tessile della prima fabbrica di cotone stampato di Mosca, innovando secondo i principi geometrici del movimento d’avanguardia cui appartenevano, ma in modo totalmente originale e creativo. Tessuto e stampa tessile furono i mezzi attraverso cui svilupparono la loro ricerca in campo artistico e non riduzioni di elaborazioni compiute altrove. Quando la loro ricerca si rivolse alla moda, coerentemente fu adottato come obbiettivo l’abito produttivista da lavoro. Stepanova lo affrontò dal punto di vista teorico: “il vestito attuale è la tenuta produttivista (prozodezda), cioè la tenuta da lavoro che si distingue e secondo la professione e secondo la produzione. Le divise della nuova società si differenziavano in base alla funzione, ma anche all’apparenza. Popova realizzò l’abito produttivista puntando però soprattutto sul rapporto fra tessuto e vestito femminile, costruito secondo linee diritte e morbide che esaltavano appieno il disegno dello stampato. L’arretratezza del sistema produttivo sovietico però non consentiva una vera produzione di massa. I progetti rimasero in gran parte irrealizzati o limitati a prototipi da esporre nelle periodiche mostre nazionali o al pubblico internazionale. GLI ARTISTI E LA MODA PARIGINA DEGLI ANNI VENTI La Prima guerra mondiale portò una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fec3 sempre più dritta, il taglio si semplificò in modo deciso. In particolare, le nuove forme d’arte e il gusto déco, che si diffuse con grande rapidità, erano in grado di mettere a disposizione della moda una nuova concezione della decorazione dell’abito, sia come disegno tessile sia come applicazione a ricamo. Molte case di moda ricercarono quindi il contributo, spesso temporaneo, degli artisti. THAYAHT, LA TUTA E MADELEINE VIONNET Particolare è il caso di Thayaht, spesso associato al futurismo anche se i suoi rapporti con il movimento di Marinetti risalgono solo alla fine degli anni 20. Faceva parte di una ricca famiglia colta e decisamente cosmopolita che per una serie di motivi si era stabilita a Firenze ->bisnonno materno-scultore americano, madre-anglo-americana, padre- svizzero di origini tedesche + clima internazionale della Firenze di quegli anni. I viaggi e le frequentazioni di personalità non comuni concorsero a dare forma a una creatività poliedrica, frutto anche di un’apertura mentale e di curiosità culturale. Nel 1920 propose la tuta -> era un indumento intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura, progettato secondo uno schema geometrico semplice e molto rigoroso, che privilegiava la bidimensionalità del tessuto piuttosto che le forme del corpo da rivestire. Non si trattava propriamente di un’invenzione, dato che questo tipo di vestito era già in uso come capo di biancheria, da lavoro e da aviatore. Insieme alla versione maschile Thayaht propose una tuta da donna: una sorta di camicia da uomo allungata, con una parziale abbottonatura sul davanti e le maniche corte, da indossare con la cintura stretta in vita. La tuta femminile era molto più coerente con il modo di vestire che le donne avevano adottato dopo la Prima guerra mondiale ed ebbe sviluppi insperati. modellata dal busto e dai corpetti aderenti. Nello stesso tempo dava inizio al suo particolare modo d’intendere l’esotismo, mescolando segni che venivano da culture diverse (Cina e Giappone). Il 1905 fu fondamentale nella vita di Poiret per un altro motivo: sposò Denise Boulet (figlia di un commerciante di tessuti) che divenne la sua musa ispiratrice e una delle donne più eleganti ed estrose di Parigi. L’atelier stava ottenendo il successo sperato e lo spazio divenne troppo angusto per le sue necessità. L’espansione avvenne grazie al trasferimento al 37 di Rue Pasquier, dove fu possibile procedere a una riorganizzazione del lavoro per reparti specializzati, seguiti da una nuova équipe. La prima vera sfida di Poiret fu eliminare il busto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea ad s e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. “Fu ancora nel nome della Libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha fatto fortuna”. È certamente vero che egli non utilizzò più il busto tradizionale che stringeva in vita, ma lo sostituì con una guaina più lunga, che aderiva al copro in modo uniforme e costringeva soprattutto il seno e il sedere. Un0altro passo importante fu l’eliminazione di quasi tutta la biancheria che fino ad allora si collocava sotto le gonne. I nuovi abiti, morbidi e leggeri, lasciavano spazio alla sola camicia e così eliminavano il peso che le donne erano abituate ad indossare. L’ISPIRAZIONE NEOCLASSICA Da quel momento, Poiret cominciò a lavorare intorno alla nuova li9nea e a un’idea di donna assolutamente innovativa. L’ispirazione era rivolta alla moda neoclassica degli anni del Direttorio, ma il percorso creativo fu estremamente più complesso rispetto a quello di un semplice revival: egli non pensava di riproporre un’epoca storica all’attenzione del presente, al contrario si concentrò sulla struttura di quel modello vestimentario cercando di coglierne gli elementi fondamentali a cui agganciare la progettazione di un abito completamente nuovo. Il risultato fu un modello diritto, a vita alta, in cui la tradizione settecentesca fu abbinata a suggestioni che venivano da altre fonti, come quelle orientali ed etniche e certamente anche quelle dell’abito Reform. Il tutto venne realizzato con materiali innovativi, colori e stoffe che derivavano direttamente dalle culture vestimentarie extraeuropee, unite a un’attenta osservazione della pittura d’avanguardia e in particolare di quei pittori fauves, come Matisse e Derain. Il modello chiave della collezione prese il nome di “Joséphine” -> ispirazione Impero, ma la sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto al seno gli toglievano ogni rigore filologico. Insieme ad esso propose una serie di capi dalla chiara ispirazione esotica. C’erano: - la tunica “Cairo”, che riprendeva nei ricami idee prese dal folklore mediterraneo -il modello “Eugénie”, che accostava la linea Impero a una sfolgorante garza di cotone rossa broccata a pois dorati molto probabilmente proveniente dall’India -il mantello “Ispahan”, di velluto di seta, che testimoniava “una dettagliata conoscenza del taglio degli indumenti dell’Asia centrale”. Realizzata la grande trasformazione, Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo adatto per comunicarla. Paul Iribe -> aveva fondato un giornale “Le Témoin”, che era redatto con molto umorismo e un tocco di novità, inoltre era quasi interamente illustrato da Iribe stesso. Poiret confidò a Iribe la volontà di realizzare una pubblicazione, destinata all’élite della buina società, ossia un volume di suoi disegni (Iribe) degli abiti di Poiret. Nell’ottobre 1908 uscì Les Robes de Paul Poiret raccontées par Paul Iribe, un album contenente dieci tavole a colori, realizzati à pochoir. La novità non era solo di ordine stilistico, perché le figure femminili rappresentata erano diverse: alte, sottili, senza forma evidenti o artefatte, con i capelli corti semplicemente avvolti da un nastro, colorato in armonia con l’abito. L’album fu inviato a tutte le clienti di Poiret e soprattutto a quelle dame del gran mondo che avrebbero potuto diventarlo, ma venne anche messo in vendita come cartella di stampe d’arte per collezionisti e bibliofili. In questo modo per la prima volta Poiret dichiarava esplicitamente la propria attenzione per il mondo delle arti figurative, riconoscendo a Iribe il valore estetico del suo lavoro. L’IIMAGINE “POIRET” Egli incarico Iribe di progettare il marchio a forma di rosa. Il secondo elemento fondamentale della nuova immagine che Poiret stava costruendo intorno a sé fu la sede in cui trasferì la Maison nel 1909: un hotel particulier del XVIII secolo con un grande parco intorno, che diventò il luogo preferito di tutte le sue uscite pubbliche. Se la prassi di utilizzare l’interno dell’atelier come palcoscenico era ormai consolidata nel mondo della moda, Poiret si servì per i suoi scopi professionali anche del parco, che divenne, di volta in volta, una specie di secondo marchio della Maison con cui decorare i coperchi delle scatole, lo sfondo delle sfilate, il luogo delle sue feste mirabolanti. L’ORIENTALISMO Fra il 1909 e il 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Ballets Russes, che fece della capitale francese il centro delle ricerche nel campo della danza e della musica, e non solo. La danza classica si apriva alle sperimentazioni di altri modi di sentire e raccontare le storie narrate -> i costumi e le scenografie aprivano squarci sulla cultura e l’immaginario di un folklore orientale mai visto. Ma ciò che colpì maggiormente gli spettatori occidentali fu la rivoluzione effettuata nella presentazione dei balletti: fino a quel momento la danza classica era vestita in tutù e calzamaglia e le sue scene erano estremamente semplificate. Benois, e soprattutto Bakst vestirono i danzatori con costumi mirabolanti e li fecero muovere in scene elaboratissime e colorate. Tutti notarono una straordinaria somiglianza tra i costumi dei nuovi balletti e i modelli di Poiret. Il couturier si difese dalla accusa di aver copiato Bakst, ma è difficile non pensare che il clima culturale e figurativo che essi rappresentavano non abbia, se non influenzato, almeno favorito e amplificato il percorso creativo che egli stava compiendo. Da questo momento infatti, scomparvero dei suoi modelli i richiami al Direttorio e si fecero sempre più forti quelli alle culture etniche, orientali e arabe. Il punto di passaggio fu rappresentato dalla jupe entravéè, una gonna lunga e dritta che veniva serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di impedire il passo. Sembrò la negazione di tutto quello che il sarto aveva realizzato prima del 1910, ma probabilmente si trattava solo di un esperimento alla ricerca di una nuova linea da attribuire all’abito oppure, di un freno a un movimento di liberazione che rischiava di sfuggirgli di mano. La donna che Poiret aveva in mente non era certamente una suffragetta o un’intellettuale indipendente: era una signora del “bel mondo” che non doveva avere alcun rapporto concreto con la vita reale -> femme fatale o fatata, circondata di un alone di erotismo misterioso, che la trasformava in oggetto di desiderio e di lusso. Fu l’anno successivo che l’immagine della donna di Poiret venne esplicitata, quando egli presentò la prima jupe-culotte (pantaloni per le donne) con il conseguente, immaginabile, scandalo. Ma la proposta di Poiret non voleva essere rivoluzionaria, né spezzare una lancia a favore del movimento femminista; al contrario si trattava di un paio di pantaloni da harem da portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava al polpaccio. Il secondo album pubblicitario che raccoglieva le immagini degli ultimi modelli, che proseguivano il discorso avviato nel 1907 aggiungendo però alla linea di base, diritta e sobria, tutti quei colori orientali e quegli elementi decorativi preziosi che potevano suggerire un’idea di femminilità molto presente ed esotica. Il nuovo album fu affidato a Lepape, un giovane disegnatore e fu pubblicato il 15 febbraio 1911 con il titolo Les Choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape. Lepape aveva uno stile diverso da Iribe, molto più sensibile al colore, agli elementi di ambientazione e alla pittura giapponese, e interpretò in modo perfetto lo stile di vita che Poiret intendeva proporre. Questo però fu l’ultimo album prodotto direttamente da Poiret: il successo delle due iniziative stimolò finalmente Lucien Vogel, che convinse alcuni couturiers a finanziare una rivista di moda da vendere in edizioni limitate, con tavole illustrate à pochoir da disegnatori affermati -> “Le Gazette du Bon Ton”, ovviamente fu attraverso questo strumento che vennero pubblicizzate le realizzazioni della moda parigina degli anni successivi. La Festa della Milleduesima Notte -> serata in costume organizzata da Poiret e che si svolse il 24 giugno del 1911 nel giardino della Maison. Fu la realizzazione di un sogno privato o una proiezione psicanalitica vivente cui tutti furono chiamati a partecipare come attori protagonisti, secondo il copione pensato da Poiret stesso. Poiret non voleva presentarsi alla società come un sarto e un imprenditore, ma come un’artista e un uomo di mondo, che amava circondarsi della stessa bellezza che forniva alle donne attraverso i suoi abiti. Per questo ricercò l’amicizia di pittori come Derain e Vlaminck e mescolò volentieri il proprio lavoro a quello di artisti cui, riconobbero sempre il merito e la paternità del lavoro che gli fornivano. Collezionò opere d’arte moderna per il piacere di circondarsene, acquistando solo quello che incontrava il suo gusto. Nel 1910 organizzò un lungo viaggio per l’Europa per mostrare le sue collezioni -> iniziativa che aveva l’obbiettivo di fare il tour delle più importanti città europee accompagnato da nove indossatrici. LA SECESSIONE VIENNESE E L’ATELIER MARTINE Da questo viaggio Poiret non ricavò solo clienti, anzi forse il risultato maggiore che ottenne fu quello di conoscere direttamente realtà diverse da quella francese e movimenti artistici d‘avanguardia da cui prendere insegnamenti per il futuro. L’esperienza russa ebbe probabilmente un preciso taglio professionale, anche perché Poiret ebbe come guida la Lamanova, la couturier moscovita che stava conducendo nel suo lavoro esperimenti innovativi. L’Europa dell’est offrì al sarto nuove idee e soprattutto una serie di elementi decorativi popolari che aggiunsero a quelli esotici e che trovarono collocazione nei modelli degli anni seguenti. L’incontro che doveva segnarlo maggiormente fu quello a Vienna dove conobbe Gustav Klimt, Emilie Floge e Josef Hoffman. Affascinato dal progetto estetico della secessione viennese, ri recò a non si riconoscevano più nei lussuosi idoli da boudoir che Poiret sapeva evocare, al contrario volevano essere giovanili, libere e indipendenti. Per questo avevano adottato una moda facile, semplice e comoda, che poteva essere riprodotta senza dover necessariamente ricorrere alla sapienza di un sarto eccezionale. Nel 1927 si consumò la rottura con l’amministrazione della Maison, che continuò la sua attività fino al 1933 con il nome, ma senza di lui. Nel 1932 il couturier riprovò ad aprile una casa di moda usando come griffe il numero di telefono “Passy-10-17”, ma per un brevissimo periodo. Nel 1933 in seguito al successo ottenuto con la pubblicazione delle sue memorie, fu chiamato da Grand Magasins du Printemps per realizzare ogni anno una collezione di abiti, ma dopo sei mesi anche questo rapporto terminò. CAPITOLO 9 – COCO CHANEL La vita privata di Gabrielle Chanel ebbe un’importanza fondamentale nel suo percorso creativo a partire dalla sua infanzia. La necessità di inserirsi continuamente in ambienti che non le erano propri e la mancanza di radici cui affidarsi la costrinsero a inventarsi un’identità che adeguò progressivamente ai “mondi” con cui aveva rapporti. Fonti d’ispirazione furono la sua vita, le persone che amò e gli ambienti che frequentò, ai quali “rubò” gli indumenti che la affascinavano per dare forma all’abbigliamento di un modello ideale di donna emancipata e libera che lei stessa impersonava. In qualche modo creò abiti solo per sé, per essere quello che voleva essere, per non essere più quello che voleva dimenticare di essere stata, per essere adeguata alla vita che voleva fare. Era nata il 19 agosto del 1883. Il padre Albert era un venditore ambulante occasionale, bevitore e donnaiolo, mentre la madre Jeanne era una donna delicata e malata di asma, che morì nel 1895. Albert abbandono i figli e sparì per continuare altrove la sua vita da sottoproletario. I nonni, che esercitavano lo stesso mestiere del padre e non erano meno poveri di lui, misero i due maschi a lavorare e affidarono le tre femmine a un orfanotrofio. Dai dodici ai diciotto anni Gabrielle visse nell’istituto delle suore del Sacro Cuore di Maria, tranne i brevissimi periodi in cui si recava a trovare i suoi nonni e sua zia. A diciotto anni dovette lasciare l’orfanotrofio e fu traferita al pensionato di Notre-Dame a Moulins, dove in cambi del suo lavoro interno ebbe un’educazione in “arti domestiche”. La vita pubblica di Gabrielle iniziò a Moulins, quando terminato il suo internato da orfana, venne messa a lavorare alle Maison Grampayre, un negozio di biancheria e maglieria, insieme alla coetanea zia Adrienne. Gabrielle e Adrienne rimasero per un anno nel negozio come commesse e sarte, poi aprirono una piccola attività in proprio affittando una stanza in cui realizzare quelle riparazioni che fino ad allora avevano fatto per la Maison. La conquistata autonomia consentì loro di cominciare a frequentare la vita sociale della città e i giovani ufficiali che la popolavano. Chanel tentò la carriera di cantante prima a Moulins e poi a Vichy -> di quel periodo rimase il soprannome “Coco” dal ritornello di una delle sue canzoni. Fra gli ufficiali di cavalleria che componevano il gruppo di cui le due Chanel facevano parte c’era Etienne Blasan, che nonostante la sua passione per l’equitazione era stato arruolato in fanteria. Balsan proveniente da una solida famiglia borghese di industriali tessili e nel 1904 aveva comprato un antico monastero in cui aveva voluto iniziare un allevamento di cavalli da corsa. Al momento del congedo nel 1908 chiede a Gabrielle di andare con lui. Iniziò una vita in cui ebbe modo di sperimentare a fondo due cose: lo sport a livello professionale e il mondo delle “irregolari” (compagne socialmente inadeguate di giovani ricchi o aristocratici, alle quali erano riservati momenti e spazi che non dovevano incrociarsi in nessun modo con le famiglie di provenienza e con la buona società) -> Chanel sapeva di essere una di loro Probabilmente fu in quegli anni che cominciò a elaborare un suo modo di concepire l’abbigliamento, mettendo a confronto esperienze avute e il significato degli abiti con cui si era incontrata. Un peso fondamentale ebbero le uniformi: si rese conto che la sostituzione del povero abito che aveva vestito la sua infanzia incerta con una divisa nera, uguale a quella di tutte le sue compagne, la immetteva in una società in cui si acquisivano, per miserabile che fosse, un ruolo e una sicurezza -> conclusione: l’identità sociale aveva bisogno di un abito adeguato. Ma l’uniforma non significava solo ruoli marginali e temporanei: quella degli ufficiali di cavalleria, per esempio, era un segno di riconoscimento di grande rilevanza sociale. Più tardi giunta a Royallieu, scoprì un’altra uniforme: quella indossata dagli uomini che si occupavano di cavalli: panatoli jodhpur, semplici camicie, cappelli funzionali e gli stivali. Una vera divisa per lo sport, pensata per i movimenti da fare, per le mansioni da svolgere. L’equazione ruolo sociale/uniforme aveva poi un polo opposto: anche le “irregolari”, le mantenute avevano un modo di vestire riconoscibile, ma i segni di cui si servivano erano quelli del lusso, dell’eccentricità, dello stile più eccessivo e fantasioso. “non fu per creare quello che mi piaceva, ma proprio, dapprima e anzitutto, per far passare di moda ciò che non mi piaceva” E quello che non le piaceva era innanzitutto il ruolo femminile che la moda incarnava. L’odalisca di Poiret, la donna fastosa della Maison di Worth, la femme fatale, inutile, bisognosa di cure e protezione che popolava le riviste femminili. Chanel non si cimentò subito con gli abiti, ma partì modificando i cappelli che acquistava per sé: eliminava gli elementi decorativi troppo pesanti, riduceva le forme, li rendeva più portabili e adatti alla vita che conduceva fra campagna e cavalli. Presto la sua abilità destò interesse fra le donne che frequentavano Royallieu e la cosa dovette suggerirle l’idea di tentare questa strada per raggiungere l’indipendenza. Chiese a Etienne Blasan di aprirle una modisteria a Parigi e la ottenne nel 1909. L’attività ebbe un immediato successo nel giro delle amiche di Etienne e delle corse, ma Gabrielle non era ver modista e aveva difficoltà a mettere in pratica le sue idee. Fu contattata quella che tutti consideravano una promessa nel mestiere, Lucienne Rabaté, che accettò la proposta di lavorare per lei e portò con sé due vere lavoranti. Un vero sostenitore fu Arthur Capel, uomo d’affari inglese, che con il suo aiuto economico portò Gabrielle ad affittare la prima sede di Rue Cambon, la stessa in cui si trova ora la Maison Chanel. Gli anni 1910 3 1911 segnarono il primo successo: le riviste cominciarono a pubblicare i suoi cappelli indossati da attrici famose, dive del teatro che diventarono modelli di eleganza da copiare. Ma la pubblicità maggiore venne dai cappelli indossati da Gabrielle Dorziat sulla scena del teatro Vaudeville -> l’attrice era considerata una specie di arbitro della moda parigina. Chanel fece di tutto per fornire i copricapo e realizzò due paglie senza fronzoli e pennacchi che, ovviamente, vennero immediatamente riprese dalle riviste di costume. Nel 1913 la sua ttenzione era ancora compresa fra due poli: Boy Capel e la modisteria. Le avanguardie di Parigi erano fuori dei suoi orizzon6ti, come forse la minacci di guerra che sembrava arrivare dalla Germania. Durante l’estate la coppia seguì l’alta società parigina che, per allontanarsi dai cattivi presagi, si recò in vacanza a Deauville, in Normandia (cittadina di mare in cui i parigini e i londinesi si recavano per la villeggiatura). Gabrielle e Boy intuirono che quello poteva essere il luogo in cui iniziare una vera attività di moda. Boy le finanziò l’apertura della sua prima vera boutique situata nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi, ma le loro esigenze erano un po’ diverse: - gli sport lentamente stavano entrando a far parte dello stile di vita esercitando un’attrazione nuova -la moda “balneare” dell’epoca prevedeva abiti di lino bianco ricamati Eppure l’aria di vacanza e il contatto con le più spigliate signore inglesi facevano desiderare un abbigliamento un po’ più confortevole. I cappelli semplificati di Chanel conquistarono anche qui il “bel mondo”. Ma modificare la foggia del copricapo lasciando inalterato l’abbigliamento non dovette sembrarle sufficiente. Ancora una volta, chanel si rivolse all’abbigliamento maschile: nel guardaroba “inglese” di Boy esistevano indumenti pensati apposta per lo sport e per le occasioni non formali. Poi, osservando la vera gente di Deuville, quelli che lavoravano sul mare, scoprì che indossavano maglioni, cuffie di lana, pantaloni comodi. Non era forse più razionale adeguarsi alla sapienza antica di quanti da sempre vivevano il mare -> provò a realizzare, innanzitutto per sé, capi di maglia diritti e comodi, e così vestita si fece fotografare in giro per Deuville. Poi cominciò a produrre capi da vendere nella boutique: marinare in maglia, pullover sportivi, blazer di flanella copiati da quelli di Boy. Era la sua prima esperienza ufficiale di sarta, ed ebbe un successo immediato, un successo cui, però la guerra contribuì in modo fondamentale. LA GUERRA La prima guerra mondiale era scoppiata -> Deauville si svuotò: tutti tornarono a casa tranne Chanel, che rimase in attesa degli eventi su consiglio di Capel. E il consiglio si rivelò giusto: alla fine del mese i tedeschi cominciarono l’invasione della Francia e furono fermati poco lontano da Parigi. Deauville divenne la meta di una fuga precipitosa dalla capitale. Le signore non potevano considerarsi in vacanza, ma nello stesso tempo erano lontane dalla normalità della città, ma nello stesso tempo erano lontane dalla normalità della città. Per affrontare la nuova situazione iniziarono rifacendosi il guardaroba nella boutique Chanel, l’unica aperta, e comprarono gonne dritte, giacche alla marinara, camicette, scarpe a tacco basso e cappelli di paglia: una divisa adatta per camminare a piedi e per svolgere le attività quotidiane. Passata la paura che l’invasione tedesca facesse crollare tutte le difese alleate, Gabrielle tornò a Parigi insieme a “bel Mondo” che era fuggito a Deauville pochi mesi prima. Ma la situazione del cosiddetto “fronte interno” non era facile. La vita si riorganizzò intorno alle donne, che cominciarono a fare cose fino ad allora non consentite e a impegnarsi in attività “necessarie”. Lavoro e volontariato “patriottico” furono le grandi scoperte delle signore borghesi, insieme, a una serie di libertà mai sperimentate prima. Ma c’era un altro luogo, oltre a Parigi e Deauville, che la società del lusso aveva scoperto in questi primi anni del conflitto: si trattava di Biarritz. La vicinanza del conflitto spagnolo aveva trasformato la cittadina basca in un centro di attrazione soprattutto per gli imboscati e per quelli che stavano approfittando della guerra per arricchirsi. Boy e Coco decisero di ripetere l’esperimento di Deaulìville, ma questa volta con maggiori pretese: aprirono una vera e propria maison de couture che fu collocata in una villa posta di fronte al casinò. La clientela comprendeva i nuovi ricchi che si erano rifugiati a Biarritz, ma fu soprattutto l’élite spagnola a scoprire la nuova moda e a decretarne il successo. Tra il 1924 e il 1925 i modelli assunsero una linea a “tubo” con la vita bassa, una cintura annodata sui fianchi e una gonna, che poteva essere diritta o con effetti di sbieco che ne favorivano la caduta. L’orlo si alzava sempre più verso il ginocchio. Tutte le citazioni e i riferimenti maschili che Chanel aveva usato per costruire il “suo” abito erano ormai diventati invisibili. Nel 1926 presentò un abitino nero che poteva essere indossato in qualsiasi occasione, contravvenendo alla regola tradizionale di realizzare capi diversi per situazioni sociali differenti. STILE INGLESE, GIOIELLI E BIJOUX Il vestito nero può essere considerato il risultato finale del lavoro di semplificazione cui Chanel sottopose l’abito intero femminile; la sua ricerca negli anni successivi si concentrò quindi sul tailleur e sull’abbigliamento informale. Lo spunto venne ancora una volta dal guardaroba di un suo amante: il duca Westminster. Attraverso lui Chanel aveva sperimentato lo stile di vita dell’aristocrazia inglese. Le collezioni degli anni 1927-30 si specializzarono nei completi da giacca dritta di modello maschile, gonna e blusa coordinata, cui si aggiunsero gilet a ricche e cappotti sportivi ispirati alla sartoria inglese. E soprattutto si arricchirono dei tweed che Chanel fece tessere appositamente in Scozia. Blazer di tweed, cardigan di lana, camicia bianca e pantaloni morbidi erano le parti della divisa sportiva che ormai era stata messa a punto per le donne della fine degli anni 20. Ma le creazioni di Chanel, nonostante l’ispirazione maschile, erano sempre rigorosamente femminili: non si trattava di capi unisex, ma di indumenti da donna che rispondevano alla filosofia vestimentaria dell’abbigliamento da uomo: comodità, semplicità, tessuti morbidi e piacevoli da indossare, stile impeccabile, distinzione. Per Chanel i gioielli avevano una funzione nuova: servivano a decorare e rendere femminile l’abito e a individualizzare il modo di portarlo -> in questa maniera personalizzava un modello molto uniforme. Nel 1924 Chanel aprì un laboratorio per produrre gioielli falsi, bijoux fantastici copiati da quelli veri, ma esagerandone le proporzioni e i colori. LO STILE DEGLI ANNI VENTI Alla fine degli anni 20 lo stile Chanel era stato raggiunto -> il risultato finale della sua idea era un’informe per la donna borghese moderna. La sua ricerca di un’identità individuale s’incontrò con la ricerca d’identità sociale che le donne cominciarono a compiere nello stesso periodo, un processo che, in entrambi i casi, ebbe una facilitazione e un’accelerazione nella guerra. Le chiavi di volta di tale processo erano l’autodeterminazione affermativa e l’autonomia economica derivata dal lavoro: la parità di genere poteva essere raggiunta solo nel momento in cui fosse diventato socialmente accettabile che le donne avessero gli stessi comportamenti degli uomini. Chanel non aveva alcuna famiglia che potesse assumere il compito di limitare la sua indipendenza, anzi l’autonomia economica era per lei una necessità per la sopravvivenza e quella amorosa un fatto obbligato, dal momento che non aveva nessuna delle qualità che potevano renderla “appetibile” come moglie. Essendole preclusi i comportamenti femminili, non poteva fare altro che adottare regole di vita maschile. Probabilmente il rigore calvinista che assunse nei confronti del lavoro e l’onesta” dei suoi abiti furono una risposta etica al disordine della sua vita provata e un costante riferimento ai principi che aveva appreso da adolescente. Il compito che affidò al suo lavoro fu inventare un abbigliamento femminile che andasse bene a quelle che, come lei, si vestivano per lavorare e vivere insieme a uomini, senza pensare di poter usare gli abiti per affascinare eventuali mariti e ancor meno per diventare espositori dello stato sociale della famiglia di appartenenza. Le sue clienti erano le signore dell’alta società, quelle che fono a quel momento si erano vestite per conquistare un marito e per esporre la ricchezza della propria famiglia. Ma erano anche quelle che, all’interno di questo gruppo sociale, cominciavano ad avere voglia di dare una svolata alla propria esistenza. La guerra aveva offerto loro un’occasione di emancipazione irripetibile: la possibilità di creare un vero ruolo femminile borghese, con una funzione attiva nella società. Inventare una moda che smettesse di decorare le donne del vecchio mondo che, al contrario, comunicassero l’identità e il ruolo sociale di quelle del nuovo. Alla fine della guerra si trattava di costruire il nuovo e in questo le fu prezioso il rapporto con le avanguardie artistiche. Quando Chanel incontrò Diaghilev e il suo entourage, amò il poeta Reverdy, conobbe i cubisti e tutti quelli che Misia frequentava, essi stavano lavorando a una seconda fase della loro ricerca: superato il periodo di rottura, tutti erano impegnati nell’elaborazione di un linguaggio positivo, di uno stile “maturo”. In ogni campo erano stati azzerati i legami con il passato e ora si stava costruendo la forma espressiva del XX secolo. Chanel rimase costantemente fedele a un principio, la funzionalità: per questo la interessarono tanto i capi sportivi e quelli maschili. Nella moda femminile tutto era assoggettato al sistema del lusso e dello sfarzo, in cui l’unico elemento di differenziazione era l’occasione cui l’abito era destinato, ma la variazione riguardava solo i materiali e le decorazioni, dato che, comunque e in ogni caso, alle donne non era chiesto altro che di stare ferme a farsi ammirare. Chanel spostò il concetto di funzionalità sull’attività che dovevano o volevano svolgere e che l’indumento era chiamato a favorire. Chanel inventò una uniforme da donne che eliminava tutti gli abbellimenti e le variazioni della moda “antica”, che potevano essere utilizzate da tutte e in ogni occasione, che dovevano passare inosservata per la sua austerità -> niente fronzoli e niente colori arditi. Forse era meno cosciente di fare sull’abito femminile lo stesso lavoro che il Movimento Moderno faceva sull’architettura e il design. Leggendo gli articoli di Adolf Loos o i testi attraverso cui Gropius spiegava gli obbiettivi della Bauhaus, si ha la stessa impressione di ricerca di “onestà”, si coglie lo stesso desiderio dio collaborare alla fondazione di un’umanità nuova, capace di vivere la crudezza della modernità senza nascondersi dietro nostalgie del passato o favole esotiche. In un momento in cui tutti sembravano terrorizzati dalle copie o dalla contraffazione, lei dichiarava tranquillamente che essere imitati era un segno di successo. Il suo abito non era di per sé un segno di distinzione, era un abito moderno adatto a tutte. La distinzione stava nel saperlo portare, nell’essere abbastanza giovani e moderne da essere chic in un vestito “dal taglio monacale”, nell’essere tanto sicure di sé da non avere bisogno di “mascherarsi”. Nei suoi comportamenti è facile ritrovare quello dei dandy ottocenteschi. Lo stile Chanel era lo stile di vita individuale della donna Coco Chanel, quella che riempiva i rotocalchi con le sue straordinarie storie d’amore, che frequentava “il bel mondo”, che riceveva nella sua casa gli artisti più famosi, ma anche i “più particolari”. IL CINEMA E L’AMERICA Il 29 ottobre 1929 ci fu il crollo della borsa di Wall Street. Nel giro di un anno fu evidente che anche la moda parigina ne sarebbe rimasta travolta: ormai il lusso era diventato irraggiungibile per una parte sempre maggiore della popolazione e gli americani erano tornati rapidamente a casa. L’America era diventata non solo povera, ma anche austera: nessuno si sentiva abbastanza cinico da ostentare una ricchezza che altri avevano perso nella maniera più brutale e improvvisa. Non era nemmeno questione di prezzi: la moda degli anni 20 non era più “di moda”. Questo significava che l’haute couture parigina rischiava di perdere la sua clientela, quella americana. Chanel capì che lo stile di vita del nuovo decennio non sarebbe nato né a Parigi né in Europa, ma negli Stati Uniti. In particolare intuì che, per affrontare il futuro, bisognava studiare lo strumento di comunicazione e spettacolo che stava cambiando il modo di pensare di mezzo mondo: il cinema -> Un film raggiungeva in un tempo brevissimo una quantità di spettatori. Andare negli Stati Uniti era facile. Hollywood stava coinvolgendo tutta una serie di personaggi legati alla couture francese cui l’industria cinematografica offriva occasioni irrepetibili per raggiungere una fame insperata e guadagnare cifre capogiro. Nel 1931 anche Chanel decise di fare l’esperienza americana, accettando l’offerta che Samuel Goldwyn le stava facendo da molto tempo: vestire le sue dive nei film e nella vita privata. Il cinema stava proponendo all’immaginario collettivo una figura femminile tanto emancipata da poter recuperare anche qui mezzi di seduzione, quella frivolezza e quel sex appeal che gli anni 20 avevano sdegnosamente rifiutato. Nello stesso tempo a New York, si rese conto di persona della struttura economica della moda americana. Scoprì che i suoi abiti erano copiatissimi, ma invece di preoccuparsi, constatò che questo era l’unico modo per avere successo in una società di massa. Quando tornò in Europa fece due cose: -innanzitutto una collezione ispirata a quanto aveva visto negli Stati Uniti: facile e con tessuti poco costosi, ma anche abiti da sera dalla linea nuova e scivolata in sbieco sul corpo -iniziò a lavorare al primo film di Goldwyn -> la pubblicità per Chanel fu incredibile e il suo prestigio nel mondo della moda aumentò Il compito dell’haute couture erano la previsione e l’invenzione creativa, due cose che potevano svilupparsi solo nel lusso di una produzione ristretta e senza limiti di prezzo. E il mercato della moda disponeva ancora di una clientela che poteva pagare questo lusso -> a seguito del crollo della borsa, la ricchezza si era concentrata in poche mani. Per questo pubblico nuovo era necessario inventare cose nuove e soprattutto cose che non avessero l’aspetto austero e monacale che lei ricercava negli anni 20. Era una generazione di donne che non aveva vissuto l’esperienza emancipatrice della guerra, ma che ne stava godendo le conquiste. E allora Chanel cominciò da qui, sviluppando un progetto di differenziazione della produzione della Maison a cui aveva dato vita qualche anno prima. BIJOUX DE DIAMANTS Nel 1932 l’international Diamond Guild, l’associazione che riuniva i produttori e i mercanti di diamanti, le chiese di progettare gioielli con gemme autentiche a scopo benefico. Chanel lavorò cin un gruppo di amici e in particolare con Paul Iribe, il suo nuovo compagno, e preparò una serie completa di pezzi, sodabili e trasformabili. Negli anni successivi Coco tornò al suo primitivo amore per la bigiotteria e Fulco Santostefano della Cerda la creò per lei. Era un nobile siciliano arrivato a Parigi nel 1927 per fare il pittore ed era nella maison Chanel come disegnatore tessile, ma presto gli era stato affidato il laboratorio di gioielleria. A secondo dei casi Fulco s’ispirò, copiò o prese spunto da originali appartenenti alle più diverse epoche storiche o tradizioni culturali. vedere i particolari, nell’utilizzarli come mappa per costruire il vestito. Era l’esatto contrario del pret à porte, della taglia, dell’abito che va bene a tutti quelli che hanno le stesse caratteristiche morfologiche. Era talmente individuale che se per caso la modella che lo aveva provato si fosse ammalata, il vestito non avrebbe potuto sfilare. Era un perfetto oggetto di design che nasceva per una precisa funzione. E come ogni oggetto di design, era espressione di una cultura e di uno stile di vita. Per questo era necessario inserirlo on un contesto adatto, circondarlo di altri oggetti che esprimessero lo stesso significato e che completassero la sua funzionalità. Nel caso di un abito, questi “oggetti” sono gli accessori che ogni donna indossa per sentirsi davvero vestita. Chanel riprese la produzione dei suoi bijoux, ma questa volta limitandone la gamma tematica alle catene e alle perle. Ridusse i fiori alle camelie bianche da appuntare sull’abito o sul nastro nero che legava i capelli. Inventò alcuni complementi nuovi: la borsetta e i sandali con la punta di colore contrastante. Chanel lo sapeva e lo sapevano soprattutto i suoi finanziatori, che la ricerca nel campo dell’alta moda non avrebbe potuto continuare se non fosse stata sostenuta economicamente dalla vendita di accessori e profumi. Il rilancio del marchio era riuscito a creare un mercato internazionale che li ricercava come oggetti di moda. Lo stile di Chanel era diventato in poco tempo una valida alternativa al New Look, un sistema vestimentario, moderno ed elegante, destinato a chi non voleva sottoporsi alla scomodità di busti e crinoline o voleva cambiare aspetto nelle diverse occasioni della propria vita. Era quindi il momento di utilizzare l’immagine dell’haute couture per imporre sul mercato tutti quei prodotti che avrebbero ripagato dell’investimento inziale e avrebbero sostenuto il costo della sua ricerca. Anche il profumo ritornò immediatamente in auge con la riapertura della Maison. Chanel morì il 10 gennaio 1971 al Ritz all’età di ottantotto anni. CAPITOLO 10 – MADELEINE VIONNET Madeleine Vionnet era nata nel 1876, allevata dal padre a Aubervilliers e aveva frequentato la scuola con risultati brillanti. Il padre fu consigliato da un0amica di avviarla a un futuro più normale e “nelle regole”. A undici anni, quindi, abbandonò gli studi per andare a imparare il mestiere di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, dove diventò premiere due anni dopo. Si sposò ed ebbe una bambina -> nel 1895 partì per l’Inghilterra, la bimba morì per un incidente il mese dopo e in seguito divorziò con il marito. A questo punto abbandonò anche il lavoro e la capitale francese. Ricominciò da capo la sua vita a Londra, prima come guardarobiera in un asilo per malati di mente e poi nell’atelier di Kate Reily, un’importante sartoria specializzata in capi da giorno dal rigoroso taglio all’inglese, ma soprattutto nella confezione di modelli acquistati a Parigi. In quegli anni in Inghilterra vi erano un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire le donne. La Rational Dress Society, che dal 1881 aveva sostenuto con fervore la necessità di trasformare l’abbigliamento femminile per motivi igienici, era stata sostituita nel 1890 dalla Healthy and Artistic Dress Union, che proponeva una riforma di tipo estetico. Coerente con le idee espresse dalla pittura più innovativa, la nuova associazione si schierò a favore di un modello derivato dall’abito dell’antica Grecia e diffuse le proprie convinzioni attraverso una rivista. Nello stesso periodo Isadora Duncan cominciava a danzare a piedi scalzi indossando una tunica bianca. Copro e abito erano diventati il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una grande trasformazione culturale. Il percorso di Vionnet risentì in modo profondo sia dei principi basilari della Healthy and Artistic Dress Union sia della proposta di Isadora Duncan. -agli inizi del nuovo secolo tornò a Parigi dove era stata assunta dalla Maison Callot Soeurs come premiere di Madame Marie. Il compito di Madeleine era di realizzare i modelli di tela degli abiti che madame Marie ideava e drappeggiava sulla mannequin -> Madame Gerber trasportata del suo genio creativo non si faceva carico del lato pratico delle cose ed era qui che interveniva Madeleine -nel 1907 lasciò le sorelle Callot per diventare modellista alla Maison Doucet. Il couturier le aveva chiesto di ringiovanire la sua produzione e Vionnet realizzò una collezione di abiti molto innovativi ispirati alle performance della Duncan. I suoi modelli non prevedeva l’uso del busto -> questa eliminazione era oramai nell’aria e nel giro di pochi anni molti creatori di moda la proposero, ma la sua concreta diffusione richiedeva una trasformazione dell’ideale di bellezza femminile che non aveva ancora oltrepassato i confini delle avanguardie mediche, letterarie o artistiche. Vionnet fu repressa nelle sue decisioni -> l’unico campo in cui le fu lasciato un vero spazio fu quello dei deshabillés che, ovviamente, rispondeva a logiche vestimentarie più libere rispetto a quelle dell’abito. Nato come indumento intimo, il deshabillés era diventato nel corso dell’800 il vestito di casa da indossare per ricevere visite e prendere il tè. L’ATELIER Nel 1912 Vionnet aprì il suo primo atelier al 222 di Rue de Rivoli, sostenuta nella decisone da Lantelme, une delle poche clienti Doucet che avevano apprezzato il suo stile e che si era proposta come socio finanziatore. Ma Lantelme morì improvvisamente, prima di aver potuto dare seguito alla propria idea. Il suo posto nell’imprese Vionnet venne presto preso da un’altra cliente, Germaine Lillaz. Si trattò di una singolare storia di donne, unite solo da un fatto di gusto, che si trovarono insieme a tentare un’operazione da uomini: diventare imprenditori di un’idea. E fin dall’inizio si unì al gruppo Marcelle Chaumont, che fu la collaboratrice più importante di Vionnet per tutta la sua carriera. Madeleine fu protagonista di una storia di donne, condotta al servizio delle donne, per valorizzarne la cultura, la capacità creativa e la bellezza. Non ci sono molte testimonianze della produzione di questi primi anni, ma i due soli modelli certi mostrano l’insistenza su un tipo di indumento diritto e scivolato sul corpo che non richiedeva busto. Ispirazioni ed influenze -> kimono (la cui conoscenza in Occidente era iniziata nella seconda metà dell’800 e che ormai era diventato un oggetto di moda), Vionnet era interessata alla semplicità della sua struttura sartoriale e in particolare all’adattamento della sua manica agli indumenti occidentali; la rivoluzione portata nelle arti figurative dai movimenti d’avanguardia dovette avere il suo peso nell’impianto geometrico dei suoi modelli. Nel 1914, allo scoppio della guerra, Vionnet chiuse l’atelier e per la seconda volta partì. Viaggiò in Europa scegliendo i luoghi coinvolti direttamente nel conflitto e soggiornò a lungo a Roma. Permise alle lavoranti di continuare a utilizzare i locali di Rue de Rivoli, ma senza che ciò comportasse la riapertura della Maison. Per farlo aspettò il 1918 e la fine della guerra. LO SBIECO E LA GEOMETRIA Riprese l’attività fonando la nuova società Madeleine Vionnet et Cie e con una produzione assolutamente rivoluzionaria: si ripresentò a Parigi con abiti in sbieco. Era come se negli anni precedenti avesse fatto un suo percorso individuale, del tutto ignaro delle tendenze che si erano viste nelle mode di quegli anni. Questo, però, non significava che fosse fuori dai tempi, al contrario li stava affrontando da un altro punto di vista. Quando i vestiti apparvero si cominciò a parlare di robe à la grecque e si collocò nel mondo classico l’origine della sua ispirazione. Probabilmente anche lei, come Chanel, aveva cominciato a ricercare un modello vestimentario su cui elaborare l’abbigliamento della donna moderna. Una donna che autonomamente aveva accorciato le gonne, tagliato i capelli, rinchiuso busto e biancheria ricamata negli armadi, che aveva iniziato a curare feriti, guidare automobili, fabbricare munizioni e soprattutto scoprire la propria identità. Vionnet ricominciò da capo, tornando all’antico abito mediterraneo e lavorando con il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera che potesse seguire autonomamente le fattezze corporee. Une delle sue prime realizzazioni in questa direzione fu un modello composto di quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo ciascuno. Quattro cuciture lo tenevano insieme e una cintura annodata in vita era il massimo intervento di costrizione. Il risultato era una specie di chitone greco con una caduta del tutto nuova. Il taglio di sbieco prevedeva l’uso della stoffa in obliquo (al contrario del drittofilo). Si è detto che Vionnet abbia inventato questo metodo, ma lei stessa ha negato l’attribuzione. La possibilità di usare il tessuto in diagonale rispetto alle coordinate cartesiane d’intreccio dei fili era già stata sperimentata nell’800 per confezionare colletti, cuffie e parti di maniche. Non era però mai stata provata per realizzare un vestito intero. Nella sua ricerca di un abito che non costringesse il corpo si sovrapposero sia la pratica fatta da Doucet sia le statue classiche avvolte in pepli, chitoni e tuniche dagli elaborati panneggi che aveva certamente visto a Roma. Ma se l’aspetto dei suoi capi poteva fra pensare alla classicità greca, la loro struttura nascosta derivava da matrici del tutto diverse: la chiave segreta dei suoi modelli era la geometria. Già nelle collezioni dal 1918 al 1922 furono elaborati i motivi fondamentali del nuovo linguaggio: le spalle diventarono il supporto di indumenti diritti, formati da una serie di pannelli di tipo diverso che si articolavano intorno al corpo in modo dinamico, o di giacche e volte tagliate in un pezzo unico. Nelle sue realizzazioni non esisteva un rapporto tradizionale fra la vestibilità del capo e il modo di tagliare il tessuto: se la prima era perfettamente coerente con la tridimensionalità del copro, il secondo era costruito solo da figure geometriche piane. I suoi abiti però non venivano progettati “in piatto” attraverso il disegno, ma lavorando il tessuto con un “corpo” particolare. Vionnet usava per questo un manichino di legno da “artista” alto 80 cm su sui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Solo alla fine schizzo e figurino erano realizzati dalla disegnatrice della Maison. Vionnet partiva dal risultato finale che lei sola immaginava e lo svolgeva fino a ottenerne il sistema di costruzione. Tutto ciò era in massima parte dovuto alla scelta di usare il tessuto in sbieco, ma essa era il “cuore” della filosofia di Vionnet. Le chiavi del nuovo abito diventavano quindi due: la materia tessile e il corpo, entrambi “liberati” e cioè valorizzati nelle loro potenzialità espressive. Le proporzioni anatomiche e i movimenti naturali erano i fondamenti della nuova bellezza e della nuova eleganza. Il peso effettivo di un tessuto e la sua elasticità dovevano essere valorizzati da forma, cadute e lavorazioni adeguate, così da creare un perfetto equilibrio. Orli, cuciture, tasselli dovevano essere studiati in modo da non contrapporsi al naturale andamento della stoffa e non provocarne mai effetti disarmonici. LA RICERCA DELL’ARMONIA Dopo la guerra Madeline scelse collaboratori che venivano dal mondo dell’arte, come Thayaht (giovane fiorentino) e Marie-Louise Favot (chiamata Yo, che si specializzò nell’invenzione di disegni PRET A’ PORTER Il successo di Vionnet fu immediato, tanto che nel 1925 fu aperta una succursale a Biarritz, specializzata in abiti per le vacanze e per lo sport, che dipendeva dalla Maison parigina per la realizzazione dei capi. Nel febbraio 1924 Vionnet presentò la collezione primaverile a New York da Hickson Inc. Sual singer aveva firmato un accordo con la Vionnet et Cie per la produzione in esclusiva dei modelli della Maison, ma soprattutto fu formata una nuova società, Madeleine Vionnet Inc., finalizzata alla vendita di abiti “taglia unica”, un’assoluta novità nel settore dell’alta moda. L’ipotesi che doveva essere sperimentata per sei mesi, era nata dall’esigenza di assecondare la clientela statunitense, abituata ad acquistare capi confezionati, e trovava un punto di forza nella realizzazione degli abiti di Vionnet. L’esperimento non proseguì oltre i sei mesi; probabilmente la clientela di élite preferiva acquistare i Vionnet di haute couture a Parigi o nei magazzini di lusso che avevano l’esclusività della riproduzione dei modelli. Nel 1926 Vionnet tentò un secondo esperimento nel pret à porter con un altro socio americano, lo store John Wanamaker’s, realizzando quaranta capi, che vennero venduti in tra taglie, griffati con l’etichetta della Maison cui era aggiunta la dicitura “Repeated original”. Anche in questo caso, però l’impresa non ebbe successo. Questi furono i soli tentativi estranei alla produzione di haute couture. STILE ANNI VENTI Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea si fece più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Scomparvero le sovrapposizioni, i petali e tutto quello che aumentava il volume dell’abito in favore di singoli elementi di ricamo o di assimmetria. Vionnet non seguì la tendenza, ma la interpretò a suo modo ammorbidendo il parallelogramma con lo sbieco, montando le frange a lisca di pesce, giocando con i ricami e il crepe romain broccato di Ducharne, con i disegni geometrici fatti con intarsi, con nervature che modificavano le tensioni del tessuto, con le pieghe cui veniva data una profondità diversa dall’alto al basso in modo che non irrigidissero la figura. Indubbiamente le sue realizzazioni non producevano le forme anatomiche, ma non perché fossero diritte e bidimensionali; al contrario erano sempre più studiate in modo che l’architettura del vestito poggiasse sulla struttura portante del copro per evidenziarne la naturale armonia. Vionnet non faceva nulla per essere un personaggio “alla moda” -> lavorava come sarta o meglio come un’artista che segue il proprio processo creativo e il proprio obiettivo estetico, cercando in sé stessa la ragione di tale ricerca e nell’abito finito la verifica della perfezione raggiunta. GLI ANNI TRENTA Anche le arti visive abbandonarono lo stile di rottura delle avanguardie storiche e si dedicarono a nuove ricerche che furono spesso indicate con il termine “neoclassico”. Persino i regimi totalitari, che segnarono la vita politica del decennio, costruirono la loro immagine sul recupero d’improbabili relazioni con l’Impero romano e le sue insegne. Anche la moda adottò un linguaggio “classico”. Il metodo Vionnet diventò di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il copro senza costringerlo in forme precostituite dal taglio. Tutti o quasi si cimentarono con lo sbieco, ma i modelli di Madeleine continuavano ad avere un aspetto più sciolto, maturale e meno revival. LA GONNA AMPIA Nel 1934 ci fu una svolta nella produzione. Quando “Vogue” pubblicò la moda della nuova stagione, rappresentò lo stile Vionnet attraverso un vestito dalla gonna larga coperta da file di volant, certamente ispirato all’800 più romantico. Da quel momento, il modello scivolato sul corpo e quello con la gonna ampia procedettero in parallelo. Negli anni successivi gli abiti si fecero più lussuosi e sensibili al gusto hollywoodiano. La vita segnata, spesso alta, dava spazio a larghe gonne che potevano essere sostenute utilizzando diversi accorgimenti tessili come le imbottiture di crine… Utilizzò tessuti nuovi e antichi, sperimentò anche il materiale alla moda: il merletto -> insieme a Lesage, Vionnet inventò nuove tecniche di decorazione. Furono creati inediti effetti di contrasto applicando mille materiali diversi sui tessuti dei vestiti. Furono reinventati procedimenti di tintura usando bagni di differente intensità di colore per le diverse parti dell’abito o togliendo i fili del ricamo dopo la tintura così da ottenere un effetto a “riserva”. Sperimentò la piegatura in rilievo su un taglio circolare. Il 15 giugno madeleine Vionnet et Cie era stata messa in liquidazione: era il termine di scadenza della società nata nel 1919 e rifondata nel 1922. A settembre scoppiò la Seconda guerra mondiale e nel giugno del 1940 la Francia era occupata dai tedeschi. Nel 1952 Madeleine Vionnet donò all’UFAC, che ora fa parte del Musée de la Mode et du Textile di Parigi, quello che le era rimasto del suo lavoro. Morì nel 1975 a novantanove anni. CAPITOLO 11 – ELSA SCHIAPRELLI (1890-1973) Era nata a Roma in una famiglia di intellettuali piemontesi. Avrebbe voluto fare l’attrice, ma la posizione sociale della famiglia non poteva consentirle di salire su un palcoscenico. Scrisse poesie e un suo cugino convinse un editore a pubblicarle con il titolo di Arethusa. Il padre considerava l’intera vicenda una terribile disgrazia e per punirla e per tenerla sotto controllo, decise di mandarla in un convento in Svizzera. Ma la soluzione fu temporanea: Elsa cominciò uno sciopero della fame che convinse i genitori a recedere dalla decisione. Un’amica della sorella cominciò a occuparsi di bambini orfani e chiese informazione a proposito di una ragazza che la potesse aiutare. Elsa decise di cogliere l’occasione. Partì accompagnata da amici di famiglia alla volta id Londra passando per Parigi: fu il suo primo contato con la città delle avanguardie e della vita mondana più affascinante d’Europa. Fu anche il primo approccio con la “sartoria”: un amico di famiglia la invitò a un ballo per il quale realizzò il suo primo abito da sera tenuto insieme da spilli. Conobbe il conte William de Wendt de Kerlor con cui si sposò. Allo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza, ma nel 1919 ripartirono questa volta per gli Stati Uniti. Ebbe una figlia, ma il matrimonio si rivelò un disastro e il marito se ne andò. Si trovò sola a New York, con una bambina dalla salute cagionevole da allevare, senza più il sostegno economico della famiglia di origine. Si mise a cercare un lavoro qualsiasi -> conobbe Gabrielle Buffet, poetessa dadaista, che si offerse di occuparsi della bambina mentre lei cercava lavoro e che la coinvolse in un tentativo di vendita duretta di biancheria portata a Parigi per questo scopo. Ma la merca si rivelò inadatta al mercato americano e l’esperienza fallì immediatamente. Gabrielle fu fondamentale perché le permise di inserirsi nella vita di New York e frequentare un gruppo di artisti dada e di fotografi d’avanguardia che si erano trasferiti o lavoravano nella città americana. Sua figlia si ammalò di polmonite e Blanche Hays (che aveva un matrimonio ormai deteriorato) le propose di trasferirsi con a Parigi -> partirono nel giugno del 1922. La bambina fu ricoverata in una clinica ed Elsa trovò lavoro da un antiquario. Il clima culturale e mondano della capitale francese era vivacissimo. Gaby la introdusse nel gruppo dada che s’incontrava, come tutta la Parigi che contava, in un locale a Montmartre. Fu in questo periodo che avvenne l’incontro che, secondo le sue affermazioni, segnò il suo destino -> un giorno accompagnò una ricca amica americana nella casa di moda di Poiret (storia del cappotto). Fu in quel periodo che cominciò a “inventare abiti” e il colore e il ricamo, due caratteristiche dello stile Poiret, furono sempre fra i segni distintivi delle sue creazioni. Ma non cominciò da quell’idea di lusso Belle Époque che stava portando il couturier al fallimento, scelse invece un settore che negli anni 20 stava aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. LO SPORT E LA MAGLIA Già dalla fine dell’800 le donne avevano cominciato a praticare alcuni sport, ma fu negli anni 20 che la cultura del corpo e l’attività sportiva divennero una moda diffusa, tanto da giustificare l’invenzione di un abbigliamento specifico. L’esplosione dell’eleganza sportiva trovò il suo modello in Suzanne Lenglen, la famosa tennista, la cui divisa si impose e si introdusse nei campi da tennis internazionali. Un completo che lasciava libero il corpo che univa al bianco d’obbligo estrosi tocchi di colore acceso. Elsa capì che questa poteva essere una strada di sicuro futuro e cominciò a realizzare dell’abbigliamento sportivo. Nel 1925 acquistò la Maison Lambal, una piccola sartoria. La prima vera collezione fu presentata nel gennaio 1927 in un minuscolo appartamento dove Schiaparelli abitava. Si trattava soprattutto di maglieria dai brillanti colori, che si ispirava sia al futurismo sia a Poiret ed era realizzata anche con materiali nuovi. IL GOLF “ARMENO” Il modello che poco tempo dopo la lanciò definitivamente nella moda fu un golf particolare. Ispirazione -> golf visto indosso ad una amica, realizzato da donne armene che utilizzavano un particolare punto a magli ottenuto con due fili di lana. L’idea di golf trompe-l’oeil fu immediata -> golf con un grande fiocco sul davanti, come sciarpa intorno al collo (fiocco bianco su sfondo nero) Quando finalmente venne raggiunto l’effetto desiderato, fu lei stessa a indossare la maglia in pubblico e immediatamente attirò l’attenzione della novità. La nuova idea si impose a Parigi attraverso un canale che ormai stava diventando normale per la diffusione delle mode: quello delle attrici e dei personaggi da rotocalco. “Vogue” francese pubblicò nel numero di agosto 1927 con il titolo L’eleganza del golf lavorato a mano e il 15 dicembre “Vogue” America li presentò come Opere d’arte. A questo punto la fantasia di Elsa si9 scatenò e sui golf comparvero cravatte da uomo, nodi, scialli… Negli anni seguenti la ricerca sul trompe-lìoeil si radicalizzò e la maglia divenne immagine del corpo, allora Elsa la riempì di tatuaggi con cuori trafitti e scritte allusive. Elsa ne limitò sempre in modo drastico la produzione per conservare loro un valore elitario e di alta moda. un’intera immagine femminile armonizzata in tutte le sue parti. Ma scoprì soprattutto che il sistema le permetteva di scatenare la creatività in voli di fantasia ricchi di humour e di teatralità. La collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’Oriente più esotico, non mancarono elementi di eccentricità e di ricerca sui materiali che erano diventati un segno di riconoscimento della sua moda. In mezzo agli abiti esotici c’erano, infatti, oggetti d’avanguardia come la cosiddetta cape de verre, un corto mantello da sera realizzato in Rhodophane, un materiale trasparente e molto fragile che somigliava al vetro. La collezione dell’autunno 1935 affrontò l’attualità. Si chiamava “fermati, guarda, ascolta” e s’ispirava a fatti e personaggi reali: Giorgio V d’Inghilterra, Sinistra francese, conflitto italo-etiopico La novità della stagione furono le cerniere -> realizzate in colori contrastanti rispetto al vestito così da accentuare la loro visibilità, esse furono un vero successo di vendite, tanto che si dovette modificare un trattato economico che ne impediva il commercio dalla Francia agli Stati Uniti. In ottobre presentò la collezione “Eskimo”, basata sull’uso d’inserti di pelliccia a scopo decorativo. Nel dicembre 1935 Schiaparelli andò a Mosca per rappresentare le couture francese alla Prima fiera internazionale sovietica, che Stalin aveva organizzato sia per aprire canali commerciali con l’estero, sia per cominciare a modificare il modello di vita dell’Urss. Il motivo del volo e dei nuovi mezzi di trasporto che cominciarono a solcare i cieli, fu alla base di entrambe le prime sfilate del 1936: in febbraio si materializzò nella silhouette “stratosferica e aeroplano. Nella stagione successiva, il ricordo dei progetti sul volo di Leonardo da Vinci e dei cittadini sovietici che si paracadutavano su un treno da una torre fece nascere la linea “Parachute”. La linea “Neoclassique” fu probabilmente realizzata per accontentare una clientela che aveva accolto con grande entusiasmo il nuovo modo di vestire, ma Schiaparelli interpretò a suo modo l’idea e realizzò sia abiti morbidi di raso sia modelli più vicini al suo stile, decorati da un motivo, probabilmente ripreso da una tappezzeria del primo ‘800, costituito da un nastro che si appoggiava sugli indumenti ripiegandosi su sé stesso, durante il percorso. Ancora una volta, quindi, interveniva il meno possibile sulla silhouette, ma suggeriva il tema di moda attraverso un elemento decorativo neoclassico da usare in collocazioni e maniere diverse. Agli inizi degli scioperi, Schiaparelli risolse la situazione garantendo salari più alti della media, tre settimane di ferie all’anno e una particolare forma si assistenza malattia -> le sue operaie non si unirono allo sciopero del maggio del 1936. IL RAPPORTO CON IL SURREALISMO Dal 1936 cominciò un periodo particolare nella ricerca di Schiaparelli: fu come se a questo punto Elsa avesse sentito il bisogno di chiarire a sé stessa i contenuti culturali del lavoro che stava facendo sul linguaggio dell’abito, cercando di approfondire la riflessione sul corpo e sul rapporto era soggetto e indumento. L’unica cosa che non aveva mai fatto era stata seguire i metodi e i contenuti tradizionali dell’alta moda: non le interessava creare indumenti graziosi, eleganti e tali da rassicurare il desiderio di status della buona borghesia. Voleva che le dinne fossero sé stesse, osassero essere femminili, fantasiose ed estrose, comunicassero agli altri la propria individualità e la propria forza sfrontata - > emanciparsi anche nell’aspetto. La sua moda non si era limitata a intervenire sulla linea dei vestiti, sulla maggiore o minore comodità e libertà di movimento. Quello che stava facendo agiva sulla cultura vestimentaria, sul significato dei segni vestimentari e corporei tradizionali. C’era qualcosa nella sua maniera di fare moda che somigliava al sovvertimento delle regole dell’espressione e della comunicazione messo in atto dagli artisti dada e surrealisti che Schiaparelli aveva frequentato prima a New York e poi a Parigi. Le collezioni, a partire dall’autunno 1936, si articolarono tutte su doppi filoni: -da un lato Schiaparelli si concentrò sull’elaborazione di alcuni temi decorativi specifici attorno ai quali sviluppare l’intera collezione, -dall’altra Cocteau e Dalì crearono singoli capi attraverso i quali doveva emergere il nuovo rapporto tra abito, corpo, pulsioni inconsce. Per l’autunno 1937, Cocteau lavorò sul “doppio” e l’ambiguità (giacca di lino con ricamato la silhouette di una donna virtuale a grandezza naturale). Dall’inverso 1936-37 Dalì rielaborò invece il tema del riochiamo sessuale nascosto nella fascinazione vestimentaria. Nell’estate 1937 fu dipinta l’aragosta sulla gonna di un abito di organza di seta candida, circondata da ciuffi di prezzemolo. Verso la fino del 1937 la ricerca dell’artista catalano sembrò fissarsi sul feticcio sessuale: nella collezione invernale venne presentato un tailleur di crepe nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso -> il cappello fu progettato da Dalì e rielaborato da Schiaparelli. Mettendo insieme una serie di ambiguità diverse, si arrivò quindi a costruire una perfetta iconografia fallica che veniva peraltro completata dal simbolo sessuale femminile rappresentato dalle bocche decorate sul tailleur. Segni erotici e feticci dichiaravano finalmente quello che la forma rigorosa del tailleur aveva sempre cercato di mascherare. La conclusione cui sembrava essere giunto Dalì era che, per la cultura occidentale, il corpo femminile è un artificiale insieme di simboli di significato erotico che possono essere smontati e isolati per trasformarsi in feticci -> la donna non era altro che un “busto da sarta” da vestire per comunicare con gli altri e da adattare all’idea di bellezza che di volta in volta la moda indicava. La “persona”, intesa come immagine sociale dell’individuo, stava solo nei vestiti. Sempre nel 1937, Schiaparelli comunicò esplicitamente questa “scoperta” in due diverse occasioni: -l’Exposition des Arts et des Techniques, inaugurata a Parigi il 24 maggio -> realizzò un allestimento in cui il manichino che le era stato assegnato fu adagiato nudo (e quindi incapace di comunicare) su un prato e i suoi abiti furono appesi ad un filo, come per un bucato. -il nuovo profumo che si chiamò Shocking come il suo colore rosa -> la boccetta aveva le forme del busto di Mae West e il tappo coperto di firoi, ancora una volta ispirato a Dalì. Il marchio era scritto su un metro da sarta che passava intorno alò collo del flacone. Il messaggio era esplicito: la moda è un metro e un manichino da decorare. Solo l’abito può dare un significato a questo essere inanimato e introdurlo nell’unico spazio di vita possibile: quello della comunicazione sociale. LA MODA, L’INCONSCIO, L’IMMAGINAZIONE POETICA La donna era per lei un insieme complesso, composto da una forma anatomica e uno stato sociale, ma anche da un mondo interiore. Se la prima era semplicemente un dato materiale e naturale sempre uguale a sé stesso, il nuovo ruolo che le donne avevano assunto negli anni trenta doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionale e stabile, come la divisa che lei stessa aveva “inventato” all’inizio del decennio. Rimanevano il mondo interiore, la psiche o l’Es, che andava ricercato secondo le regole della libera associazione studiate dalla psicanalisi e utilizzate dai surrealisti. A questo punto gli abiti realizzati da Dalì dovettero sembrarle troppo rigidamente finalizzati a comunicare un unico significato erotico-sessuale. Dall’altra parte, era innegabile che il tradizionale linguaggio della moda femminile fosse stato elaborato nel corso del tempo per esprimere fondamentalmente due concetti: quello erotico/seduttivo e quello sociale. Si trattava allora di ricorrere ad altri universi linguistici, di adottare altri modelli iconografici per esprimere altri significati e altre pulsioni della psiche femminile. Breton -> manifesto del 1924 -> obbiettivo di liberare l’immaginazione poetica, consentirle di ritrovare la strada del meraviglioso, dare sfogo al mondo dei sogni. Il metodo era libera creazione d’immagini prive di significato e di scopo, lasciate scaturire come nascono nell’interiorità onirica o della fantasia, attraverso l’accostamento di realtà più o meno distanti. Il sogno, l’infanzia, il favoloso e il meraviglioso erano le fonti cui ricorrere. Schiaparelli probabilmente scoprì che questo metodo le era congeniale per creare un linguaggio vestimentario che comunicasse la dimensione interiore della donna. Scelse il metodo della liberazione dell’immaginazione su temi specifici che certamente affondavano nella sua infanzia. Capì che quello che la stimolava maggiormente era considerare il corpo della donna e la forma dell’indumento una specie di pagina bianca su cui “scrivere” il flusso delle “fantasticherie” che sorgevano spontaneamente nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema. Il problema poteva sorgere nel momento i cui queste immagini dovevano essere accostate alla realtà degli abiti e qui, probabilmente, le viene in aiuto Marcel Duchamp e del metodo di creazione che egli aveva inventato prima del 1915: il ready-made. Prendere un oggetto qualsiasi dalla realtà che gli è propria per immetterlo in un’altra, scelta dall’artista, crea, secondo l’ipotesi di Duchamp, uno spostamento totale di significato nella direzione indicata dall’autore che ha compiuto tale spostamento. Schiaparelli scelse lo stesso sistema: le figure si aggregarono sui suoi modelli senza alcun senso preciso che non fosse quello della sua fantasia poetica e quindi furono opere della sua immaginazione. La prima collezione che seguì fino in fondo questo criterio fu quella della primavera 1938, dedicata al circo. La sfilata venne organizzata come una parata e molti capi vennero indossati su calzamaglie -> era la prima volta che una sfilata aveva le caratteristiche di uno spettacolo. La novità dei vestiti stava nelle decorazioni -> Lesage eseguì ricami straordinari ed enormi che rappresentavano il circo: cavalli, elefanti, trapezisti… Anche in questa collezione Schiaparelli aveva dedicato uno spazio a Dalì, che disegnò due modelli da sera: il primo bianco, con il velo, che mostrava vistosi strappi, stampati e applicati, da cui traspariva un fondo rosso, come carna viva; mentre il secondo nero, percorso dal disegno dello scheletro umano ricamato a rilievo -> questa fu di fatto l’ultima collaborazione tra i due. Nell’aprile 1938 Schiaparelli presentò la collezione per l’estate intitolata “Paienne”, in cui esplorò il mito della natura. Per la collezione estiva e autunnale fece partire il suo flusso creativo dalla primavera di Botticelli -> tema della “natura bassa” quella del boschetto, piccoli animali, insetti, fiori di campo… Per la collezione invernale presentò la collezione “Cosmique” in cui emergeva tutto il suo immaginario sulla “natura alta”, quella celeste -> emersero immagini dello zodiaco, del sole… Partire dalla propria sfera interiore per “riconoscere” ciò che ci circonda. Questo sembrava il “metodo” raggiunto da Elsa Schiaparelli. La prima sfilata del 1939 si articolò intorno a un tema più ambiguo: la maschera. L’oggetto da cui mosse il flusso fu la Commedia dell’Arte. Anche in questo caso ricreò un grande spettacolo popolare, probabilmente riemerso dalla sua infanzia, ma lo complicò con piccole maschere di merletto che celavano i visi delle modelle. Non è da escludere che il tema della Commedia famigliare si era ulteriormente aggravata e fu necessario che cercasse un lavoro per aiutare il padre e la sorella. La realtà economica della Francia alla metà del decennio era però durissima, l’unico settore che ancora resisteva era quello della moda e fu lì che Dior s’indirizzò, utilizzando la creatività nell’invenzione dei travestimenti che realizzava per le sciarade in maschera con gli amici. Riuscì a vendere uno dei quadri che gli erano rimasti dalla chiusura della galleria e con il guadagno sistemò i problemi più gravi della sua famiglia e si concesse un periodo di studio: imparò a disegnare figurini. Il suo maestro fu Jean Ozenne, che era ormai un modellista di successo e lavorava per molte maison de couture. Iniziò a vendere i suoi disegni prima alle modisterie, poi alle maison, anche le più famose. Infine Paul Caldaguès gli offrì di collaborare regolarmente alla pagina di moda di “Le Figaro”. Nel 1938 Piguet gli propose di entrare nel suo atelier come modellista e mise in collezione “Café Anglais”, un abito pied-de-poule disegnato da lui. Anche gli amici sostennero in ogni modo la sua ascesa: nel 1939 Marcel Herrand gli fece progettare i costumi per un’opera teatrale (i primi abiti che firmò). DIOR, LA GUERRA, L’HAUTE COUTURE Nel 1939 scoppiò la guerra e Dior fu mobilitato nella riserva e occupato a Mehun-sur-Yèvre, a sostituire gli agricoltori impegnati al fronte. Al momento dell’armistizio, nel giugno 1940, la Francia risultò divisa in due ed egli si trovò nella zona non occupata dai tedeschi. Smobilitato, decise di ritirarsi in campagna, a Callian, a casa della sorella. Ma la moda si organizzò presto e Christain venne interpellato da Alice Chavanne, che curava le pagine femminili del “Figaro”, con la proposta di continuare ad illustrare i suoi articoli come aveva fatto negli anni precedenti il conflitto. Molte maison avevano trasferito la loro attività sulla Costa Azzurra, la vita elegante della Francia libera era concentrata in Provenza, dove nei suoi periodici viaggi per prendere idee e consegnare i disegni, Dior ritrovava i suoi amici e la vita di un tempo. Le sfilate del gennaio 1940 furono le ultime a vedere la presenza dei buyer e dei giornalisti americani. Dal momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti, gli Stati Uniti e tutti i paesi alleati cessarono i rapporti con Parigi e la sua moda. D’altro canto il governo di occupazione vietò le esportazioni. Era la fine di uno dei canali commerciali più importanti per l’haute couture, che vide un drastico ridimensionamento della sua clientela. a questa si aggiunse il problema dei materiali necessari alla confezione di abiti e accessori. Con fine dell’armistizio il 22 giugno 1940, la Francia diventava fornitori ufficiale della Germania. Tutto ciò ebbe effetti immediati sulla vita e il modo di vestire dei francesi, ma anche sulla couture. La moda rappresentava per la Francia anche un fattore di prestigio e fu questo che dovette attirare l’attenzione del governo di occupazione nazista: gli archivi della Chambre syndicale de la couture parisienne furono requisiti nel luglio 1940 e portati in Germania, con l’intenzione dichiarata di trasferire nelle nuove capitali del Reich tutta questa attività. Il presidente delle Chambre, Lucien Lelong, riottenne i propri archivi e la possibilità di continuare a produrre moda a Parigi. Lelong ottenne che un certo numero di case di moda, accreditate dal governo tedesco, potessero disporre di una quantità di materiali superiore a quella consentita per il consumo normale dei francesi, sufficiente a garantire una produzione accettabile anche se molto ridotte rispetto al passato. I modelli per ogni collezione furono limitati, la loro confezione sottoposta a controlli e la loro concezione regolamentata in modo preciso. Anche la stampa passò momenti difficili -> “Vogue” francese cessò le pubblicazioni, gli altri ebbero la carta contingentata e furono sottoposti a controlli di censura. Nel tentativo fi aggirare tutti questi ostacoli, fra il 1943 e il 1944 furono pubblicati a Montecarlo tra album stagionali con le nuove mode di Parigi che ebbero una buona diffusione all’estero. Per rappresaglia, nel febbraio 1943 le autorità proibito la pubblicazione di fotografie e di modelli di abiti. Il vero pubblico era rappresentato da due nuove categorie: -la prima era composta dalle mogli, filglie e amanti dei collaborazionisti di ogni tipo che avevano bisogno del vestito di buon gusto per partecipare ai ricevimenti tedeschi -la seconda era costituita dai cosiddetti BOF, cioè quelli che con il mercato nero stavano costruendo tanto enormi quanto scandalose fortune Grazie a loro e a prezzi molto elevati, gli affari della maison prosperavano e i bilanci furono in crescita per tutto il periodo di guerra. Fu in questo contesto che, nel giugno 1941, Robert Piguet invitò Dior a riprendere il proprio posto di lavoro. Solo dopo molte esitazioni decise di accettare l’offerta, ma ormai era troppo tardi, il suo posto era stato preso. Ma Dior non rimase senza impiego: Paul Caldaguès fece da tramite con Lucien Lelong, che in ottobre gli propose un ruolo di modellista nella sua Maison. La nascita di un nuovo mercato per la creazione di moda esclusive non cancellava però i problemi: da un lato c’era la necessità di confrontarsi con il gusto eccessivo e poco raffinato delle nuove clienti, dall’altro la costante lotta con la mancanza di materiali. La capacità inventiva di creatori e modellisti risentì delle difficoltà del periodo e della povertà dei materiali con cui si doveva lavorare, con il risultato che le linee proposte dagli atelier non si differenziarono molto da quelle della moda di strada: gonne corte e spalle larghe, seppur con qualche accorgimento sartoriale in più. In entrambi i casi furono sperimentati tessuti fabbricati con ogni tipo di succedaneo dei filati tradizionali, ma soprattutto si ridussero i consumi usando il minor quantitativo possibile di stoffa. Se questa era la situazione della moda alla vita reale, rimaneva uno spazio di sperimentazione nel cinema, in particolare nella creazione dei vestiti di scena per i film in costume. Dior si specializzò neo modelli romantici e Belle Époque: nel 1942 Roland Tual lo chiamò per alcuni suoi film, nei quali ebbe la possibilità di ricercare una silhouette femminile opposta a quella che gli imponeva il lavoro quotidiano nell’atelier di Lelong. Solo nell’agosto 1944, quando l’esercito francese entrò a Parigi, si potè cominciare a pensare a un ritorno alla normalità -> ma tutto era molto lento, continuavano a mancare cibo, combustibile e tutto ciò che serviva alla vita normale. A questo punto risultò chiaro a tutti l’importanza del lavoro diplomatico di Lelong: impedendo che fosse estirpata l’industria della moda e costringendola a sopravvivere, egli aveva creato i presupposti per una sua ripresa interamente francese. Dior ricordava che, al momento della liberazione di Parigi, l’atelier stava “preparando, superando ogni ostacolo, la collezione invernale”. Così, qualche settimana più tardi, a prezzo di ingegnosità e sforzi, Lelong fu in grado di presentare agli Alleati una moda parigina molto vitale. All’inizio del 1945 si stava lavorando alla realizzazione di un’idea che avrebbe dovuto rilanciare a livello internazionale il gusto francese. IL “THEATRE DE LA MODA” Nel 1944 Raoul Dautry a cui era affidata la gestione della distribuzione e del coordinamento ei soccorsi alla vittime di guerra, propose a Rober Ricci, responsabile della commissione che si occupava della relazione pubbliche della Chambre syndale de la couture parisienne, di organizzare una manifestazione a sostegno del programma di aiuti, “una manifestazione che mostrasse la vitalità che continuava a esistere nelle industrie della moda e della couture e che queste industrie erano molto preoccupate per la sorte della persone sfavorite ed erano disposte a fare un grosso sforzo per aiutarle”. La Chambre accolse la proposta e ne affidò la realizzazione allo stesso Ricci e a Paule Caldaguès, che progettarono una mostra di bambole vestite dai sarti parigini. Mandare in gito per il mondo della bambole-manichino per far conoscere le ultime tendenze era un’idea antica quanto la moda francese. Non solo tutte le maison, ma tutti gli artisti che in quel momento erano a Parigi parteciparono all’impresa realizzando i manichini, gli abiti e gli accessori per vestirli, gli scenari in cui inserirli. Era il “Theatre de la Mode”, che fu esposto al Pavillon Marsan -> ottenuto il risultato di riunire l’industria della moda intorno a un progetto volto al futuro e alla ripresa. Anche Dior aveva partecipato all’impresa, molto probabilmente i suoi modelli furono presentati sotto il nome di Lelong. Ma il “Theatre de la Mode” rimase solo una grande operazione di promozione e non fu attraverso le sue bambole che si diffusero le novità. Nonostante questo esso fu importante come segno che i tempi stavano cambiando, che la guerra era ormai al termine e che, prima o poi, sarebbero finiti i suoi effetti sulla vita quotidiana. DIOR E BOUSSAC Dior e Balmain si misero in società per fondare un atelier, ma l’iniziativa abortì sul nascere per indisponibilità della sede che i due avevano scelto. Balm ain non si lasciò scoraggiare da questo incidente e iniziò da solo, aprendo una maison. Dior rimase da Lelong, in attesa di un’occasione migliore. Un’amica dei tempi di Granville, seppe che George Vigoroux stava cercando di rilanciare la Maison Gaston et Philippe. L’impresa era finanziata da Marcel Boussac, il più importante industriale cotoniero di Francia, ma non aveva un modellista. Il suggerimento del nome Dior fu immediato. Certamente Boussac aveva valutato che il momento era propizio per investire in questo settore e i guadagni fatti con il cotone e con la produzione tesile a basso costo gli davano la possibilità di tenere l’impresa di rilanciare la grande sartoria francese. La prima idea doveva essere stata quella di partire da una vecchia azienda che aveva goduto di buona fama senza mai toccare le vette dei grandi, pensando più al tipo di produzione che a una griffe di prestigio. Durante l’incontro tra Boussac e Dior, il primo espose il suo progetto: creare una maison innovativa bel gusto e nell’aspetto, piccola ed elitaria, capace di produrre uno stile diverso, ma in cui lavorare secondo le più raffinate tradizioni dell’artigianato di qualità. Stipulato l’accordo iniziale, l’impostazione dell’impresa passò nelle mani del couturier, che cominciò a dare forma al proprio progetto, innanzitutto costituendo una squadra con cui lavorare e poi ricercando la sede adatta alla maison. Dopo aver formato la squadra si cominciò a cercare una collocazione che fosse all’interno del perimetro del commercio del lusso, ma anche vicina a un albergo adatto alla clientela cui si stava pensando -> fu scelto il Plaza LA MAISON DIOR I lavori iniziarono il 16 dicembre 1946, mentre si preparava la collezione che doveva sfilare in febbraio, durante la settimana dedicata alla presentazione della moda della primavera. Tutta la Parigi che contava parlava del nuovo astro nascente e gli amici che Dior aveva accumulato nel corso degli anni nei diversi ambiti che aveva frequentato facevano da cassa di risonanza. Vi furono diversi imprenditori che offrirono a Dior il proprio contributo: -il primo fu Serge Heftler-Louiche, un amico d’infanzia -> propose di costruire insieme una società per i profumi con il nome della nuova griffe, l’idea fu proposta a Boussac che diede il proprio assenso -> l’anno seguente fu formalizzata la SARL dei Parfums Christian Dior -industriale americano che propose a Dior di utilizzare nelle collezioni le sue calze Prestige anche sulla moda. Il risultato fu che non solo i grandi magazzini di lusso imboccarono la strada del New Look, ma anche l’industria di confezione potè concentrarsi sulla nuova linea. Dior aveva capito che la scelta stilistica della scomodità aveva rischiato di mettere in crisi la diffusione del new Look e a partire dal 1948 nelle press release delle collezioni si cominciò a insistere su caratteristiche come la morbidezza, l’ampiezza o le correzioni apportata alla silhouette per lasciare al corpo la sua agilità e all’andatura tutta la sua libertà. IL MERCATO DELLA MODA Era evidente che l’America rappresentava per la moda un mercato straordinario, molto diverso e molto più ampio di quello europeo, e anche molto più ricco. Quando, nel 1940, gli Stati Uniti avevano interrotto i legami commerciali con la moda francese si erano dedicati alla riorganizzazione del sistema produttivo interno e alla creazione di una moda americana. Eppure, nel 1945 i fili interrotti cominciarono a riannodarsi, forse in ossequio al fascino che lo stile francese aveva sempre esercitato sul pubblico d’oltreoceano. Apparentemente il pubblico statunitense era meno esigente di quello che le case perigine erano abituate a servire: l’abitudine a indossare ready-to-wear aveva sollecitato maggiormente il desiderio di cambiare piuttosto che quello di avere un vestito perfetto o un prodotto di lusso esclusivo, come quello che Dior offriva. Clienti -> gruppo di élite e un gruppo che cercava una moda più abbordabile -> si trattava di un pubblico che negli Stati Uniti aveva già assunto dimensioni tali da sostenere un intero sistema moda e che nel resto del mondo occidentale avrebbe preso forma e si sarebbe sviluppato nel corso degli anni 50. Il boom economico di cui godette l’America dalla fine degli anni quaranta avvicinò all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiori, che presentavano precise esigenze. Rimanevano la ridotta élite dell’haute couture, la grande massa, che cercava il prodotto a basso prezzo ein mezzo uno strato sociale con esigenze nuove che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma chiedeva qualcosa di raffinato, ben fatto ed esclusivo. Tutto questo offriva alla Maison Dior la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo, che avesse il marchio del counturier, ma senza avere i costi e i rituali dell’alta moda. La risposta non poteva essere che il pret à porter di lusso. Alla fine del 1947, quando Dior tornò in Francia, tutto il gruppo cominciò a lavorare all’ipotesi di aprire a New York una “casa di confezioni di grande classe” e Boussac finanziò totalmente l’iniziativa. La prima collezione, interamente realizzata negli Stati Uniti dallo staff Dior in trasferta, sfilò l’8 novembre 1948. Nel frattempo era iniziato anche un serio lavoro di licenze, partito dalla riconsiderazione del contratto per le calze, stilato con la Prestige. La ridiscussione del contratto portò a una rottura e alla prima licenza: dal 1949 Kayser cominciò a produrre per il mercato statunitense le calze Christian Dior sotto lo stretto controllo della Maison. La seconda licenza, del 1950, riguardò un prodotto maschile: le cravatte. Le licenze si moltiplicarono e con loro i mercati raggiunti. Nel 1952 si giunse alla conclusione che era preferibile concentrare a Parigi la creazione di tutte le collezioni, anche quelle americane, in modo da evitare i trasferimenti stagionali dello studio Dior a New York, e affidare in loco solo la loro fabbricazione. La stessa logica venne seguita per la sede di Londra, inaugurata quell’anno. Per arginare il mercato delle copie e favorire i venditori accreditati, si decise di vendere i modelli degli abiti delle collezioni -> vi erano due possibilità: -il modello in tela, corredato di tute le referenze necessarie alla realizzazione -quello in carta, che lasciava la scelta di materiali e accessori al fabbricante L’IMMAGINE DELL’HAUTE COUTURE Fin dalla prima collezione del 1947 era stato evidente che la novità che più aveva colpito l’immaginario collettivo era stato il repentino allungamento delle gonne, al polpaccio o alla caviglia, negli abiti da giorno: era il segno del New Look e Dior lo utilizzò nelle stagioni successive per indicarne i mutamenti. Dior scelse di sviluppare in ogni sua collezione solo due temi, cui venivano attribuiti nomi che riassumevano le caratteristiche fondamentali della silhouette. Le denominazioni scelte avevano lo scopo di suggerire immagini grafiche o dinamiche cui collegare, in modo immediato e diretto, le complesse strutture sartoriali degli abiti. La rappresentazione teatrale della sfilata era presentata con metodo e vedeva Dior al centro dell’intero progetto. Il mito del couturier creatore trovò in lui la più perfetta personificazione: l’ideazione dipendeva solamente da lui, dal suo gusto, dalla sua capacità evocativa. Il lavoro creativo si svolgeva nella casa di campagna, dove egli veniva accompagnato solo dai collaboratori più stretti. 1° fase -> partecipava l’intero gruppo e consisteva nel buttare giù idee di ogni tipo e doveva servire al couturier per identificare il tema che lo interessava 2° fase -> a questo punto si chiudeva nella sua camera e lasciava che le idee si sviluppassero intorno al primo spunto 3° fase -> fase progettuale, iniziava la selezione dei disegni insieme al suo staff Il nome veniva dato al modello al momento della prima prova generale, quando si decideva quali abiti sarebbero entrati in collezione. La composizione della sfilata dipendeva da diverse variabili, ma soprattutto teneva conto dello spettacolo finale e della sua regia. La sua riuscita era essenziale, perché su questo spettacolo si giocava ogni volta il nome della griffe. La produzione Dior rappresentava, da sola, quasi metà delle esposizioni della couture parigina e la collezione di alta moda era essenziale per conquistare l’attenzione della gente comune. LO STILE DIOR Il New Look durò sette anni. Ebbe il suo apogeo nella “Ligne Muguet” per la primavera 1954 e venne cancellato dalla linea “H” della stagione successiva. Da un lato il gioco delle variazioni doveva avere dato fondo alle sue possibilità, dall’altro era chiaro che stava per nascere qualcosa di nuovo. Era poi accaduto un fatto imprevisto: Chanel era tornata dall’esilio e aveva presentato una collezione rivolta a una donna moderna e occupata in cose più interessanti che inseguire i minimi cambiamenti delle mode. La press release della collezione autunnale 1954 si basava su una linea del tutto diversa basata sulla lunghezza e l’assottigliamento del busto. È sulle parallele che formano la lettera H, tutte in altezza, che si costruiscono abiti, tailleur e mantelli. Nelle collezioni successive il nuovo modello “diritto” vene riproposto in variazioni che continuarono la serie delle lettere dell’alfabeto. “A” e “Y”, ma a parte alcune uscite che avevano lo scopo di esemplificare la struttura della silhouette, Dior non abdicò mia dal suo gusto per assumere quello di altri e continuò a vestire una figura femminile che ostentava le curve del suo corpo, che amava le gonne larghe e i ricami fioriti. La correzione era necessaria, perché di diffusione e la concorrenza di altri stili avevano messo in serie dubbio il New Look, ma l’innovazione era stata creata senza cancellare del tutto quella che ormai era diventata l’immagine Dior. Nel 1957, a dieci anni dalla prima collezione, la fama di Dior era giunta al culmine e il 27 ottobre morì improvvisamente. Il 15 novembre, Rouet convocò una conferenza stampa per comunicare le decisioni sul futuro dell’impresa -> la Maison Dior continuò perché già nel 1948 Dior aveva posto le basi affinchè la Maison potesse proseguire nel senso desiderato. In effetti era stato creato uno stile, un gusto, una tecnica, un’organizzazione che caratterizzò la Maison e tutte le sue creazioni. Le creazioni rimasero in mano all’équipe costituita da quattro persone che era stata formata da Dior. Si trattava di una gestione collegiale, ma l’immagine Dior da questo momento sarebbe stata legata al nome di Yves Saint Laurent, che era entrato alla Maison come assistente allo studio. Saint Laurent presentò la sua prima collezione il 30 gennaio 1958. Era concepita su due linee: la prima era costruita sulla figura geometrica del trapezio e sulla purezza della sua costruzione; mentre la seconda riprendeva lo stile Dior, gonfiando le gonne a cupola o a palloncino. Il successo fu travolgente. CAPITOLO 13 – LA MODA ITALIANA La moda italiana è nata nel secolo dopoguerra. Dopo un passato glorioso nella creazione di beni di lusso durante l’Ancien Régime, l’Italia era diventata in età borghese un paese marginale. Le novità venivano da Parigi e la produzione locale si concentrò in sartorie, anche di altissima qualità, che eseguivano abiti su modello o ispirati alle creazioni d’oltralpe. In due momenti di revanche nazionalista si tentò di stabilire le basi di moda italiana, una prima volta sotto la spinta della regina Margherita e una secondo in epoca fascista, ma in entrambi i casi non si superarono i confini di un dignitoso provincialismo. Solo nel secolo dopoguerra s’incominciarono a creare le condizioni per avviare un percorso di tipo innovativo e internazionale. GLI STATI UNITI E LA MODA ITALIANA Il processo di rinnovamento che il settore tessile e moda affrontò nel periodo della ricostruzione fu favorito dal rapporto che il paese intrecciò con gli Stati Uniti -> piano Marshall -> attraverso un complesso sistema di crediti, l’America mise a disposizione finanziamenti e macchinari, ma soprattutto assunse il ruolo modello per modernizzare un sistema produttivo in parte di matrice ottocentesca, in parte ancora più antico. Il 1947 fu un anno chiave. In agosto la rivista “Fortune” dedicò un articolo all’Italia -> fra i settori di eccellenza delle “fine italian hand” pose la moda romana accanto alla chimica, all’industria automobilistica milanese, alle macchine per ufficio della Olivetti. “Vogue” era uscita con un articolo con il titolo Italian Fashion. In agosto “Vogue British” dedicò due pagine alla “Italian school of fashion”- fashion made with the famous fine Italian hand”, con modelli di Gabriellasport. Il Neiman Marcus Fashion Award fu assegnato a Christian Dior per l’haute couture e a Salvatore Ferragamo per le calzature. Durante la guerra, l’industria della moda americana si era affrancata dall’influenza francese e aveva creato uno stile estremamente innovativo e specificamente pensato per il modello di vita di quel paese. Produceva un’alta moda di altissima qualità e uno sportwear adatto a tutte le occasioni, che potevano tranquillamente continuare a rispondere alle esigenze delle consumatrici. I primi viaggi di osservatori e buyer americani in Italia alla ricerca di articoli da acquistare risalgono all’immediato dopoguerra. L’Italia stava diventando interessante sia per i suoi paesaggi sia per il suo fermento culturale. Ancora una volta “Vogue” assunse il ruolo di promotore, pubblicando un articolo sul nuovo design milanese. comunicazione rivolta agli innumerevoli consumatori di stoffe ancora presenti sul mercato della moda. LA PROMOZIONE DELLA MODA L’invenzione del sistema che mise in relazione in modo organizzato e professionale la creatività italiana e il mercato americano fu GIOVANNI BATTISTA GIORGINI. Era un Commissario di Firenze che comprava il meglio della produzione italiana per i grandi magazzini dislocati sulle due coste degli Stati Uniti. Nel 1950 egli intuì che era giunto il momento di investire sull’abbigliamento italiano come settore adatto all’esportazione e, puntando sulla propria credibilità professionale e sull’immagine internazionale di Firenze, il 12 febbraio 1951 organizzò la prima manifestazione internazionale di moda italiana a casa usa, villa Torrigiani. Il successo ottenuto convinse Giorgini a continuare l’esperimento, cercando però un’organizzazione anche logistica meno artigianale: per le due edizioni successive venne utilizzato il Grand Hotel di Firenze. Nel 1952 la moda italiana era una realtà concreta sia per la stampa sia per il mercato americano e aveva bisogno di presentarsi con un’immagine forte e ben radicata nella tradizione culturale del paese. Il 22 luglio 1952 si svolse la prima sfilata nella sala Bianca di palazzo Pitti, che da quel momento diventò la sede ufficiale della passerella del made in Italy. Le sfilate della sala Bianca erano collettive: le case di moda si susseguivano l’una dopo l’altra sulla stessa pedana con diciotto capi ciascuno secondo un calendario tematico. C’erano l’alta moda, la boutique dell’artigianato di lusso, ma c’erano anche le linee sport delle grandi sartorie romane e milanesi, che di fatto si configuravano come un pret à porte di alta moda. LA COMUNICAZIONE Il confronto e la concorrenza fra le case di moda, enfatizzati dalla passerella unica, la necessità di assumere comportamenti professionali adatti a un mercato internazionale, le precise richieste dei consumatori americani portarono gradualmente sarti e artigiani a ricercare una propria cifra creativa e a caratterizzare le collezioni attraverso temi o linee guida. Nel giro di poco tempo, Firenze divenne una meta abituale sono solo per i buyer, ma anche per i giornalisti di moda italiani e stranieri, in particolare statunitensi. Ormai la moda non era più solo un affare di sartorie di grido e delle loro clienti di élite, ma era un sistema produttivo sempre più complesso che richiedeva una comunicazione adeguata. Il clima creato dal successo della moda italiana e dalla diffusione di uno stile di vita più moderno favorì anche la nascita di testate nuove. La più importante fu “Novità” e riviste femminili come “Grazia” e “Annabella”, riservarono ala moda uno spazio sempre più importante, ma anche i settimanali “più impegnati” cominciarono a occuparsene. La promozione della moda italiana all’estero coinvolse, oltre alla stampa, una serie di enti statali o di categoria che organizzarono innumerevoli fiere e presentazioni. Nel maggio 1952 ci fu la New York Fair of Italian Manufacturers, in cui erano esposti “esempi di ogni ramo della produzione italiana, dagli aratri alla sciarpe di velo”. Nel febbraio 1956 il Centro per la moda italiana e il turismo di Firenze organizzò una crociera a New York, cui parteciparono case di moda milanesi e romane -> gli abiti furono presentati a un party e in latri eventi di gala e in televisione. La forma di comunicazione più spettacolare di cui godette la moda italiana fu comunque offerta dal grande schermo. Cinecittà, fondata dal regime fascista nel 1937, fu rimessa in funzione nell’immediato dopoguerra e diventò un polo di estrema importanza per il cinema degli anni 50. Nel giro di poco tempo Roma divenne una delle capitali dell’industria cinematografica mondiale, con la conseguente concentrazione di attività e, soprattutto, di attori famosi o aspiranti tali. Negli anni 50 i divi del cinema furono modelli di riferimento estremamente popolari sia per quanto riguarda il modo di vestire sia per i loro stili di vita, è comprensibile che le case di moda romane pensassero di utilizzare la loro celebrità e il loro carisma per farsi pubblicità. Le Sorella Fontana furono probabilmente tra le più abili nel servirsi di questo potenziale. Tutte le sartorie romane, comunque vantavano fra la loro clientela, più o meno saltuaria, nomi celebri dello star system. Il sodalizio con il cinema consentì alla moda italiana di uscire dalle pagine delle riviste specializzate o da quelle che le altre testate dedicavano a questo specifico argomento raggiungendo un pubblico molto vasto e una popolarità di cui in passato non aveva mai goduto. CAPITOLO 14 – PRET A’ PORTER La fine della guerra aprì un nuovo capitolo nel modo di vestire dell’intera Europa occidentale. L’influenza americana sulla sua cultura, sul suo stile di vita e sul suo modo di produrre ebbe in quegli anni un peso incommensurabile: il Vecchio continente cominciò a guardare agli Stati Uniti come a un modello su cui plasmare il proprio futuro. Anche la moda risentì di questo clima, importando un sistema di produzione che era stato inventato in Europa più di un secolo prima, ma che aveva avuto il suo vero sviluppo negli Stati Uniti: la confezione industriale o ready to wear. LE ORIGINI DEL PRET A’ PORTE La parziale riapertura delle frontiere commerciali degli Stati Uniti fornì l’occasione per riorganizzare una serie di scambi culturali che portarono gli imprenditori europei a visitare le aziende americane. Fu un modo diretto e rapido per capire come e in quali direzioni si doveva muovere l’industria europea per recuperare il tempo perduto. Il settore moda scoprì il ready-to- wear. Non era la confezione che si conosceva in Europa, limitata alle fasce più alte o più basse del mercato, ma un vero e proprio sistema moda, progettato da designer che nulla avevano da invidiare ai couturier parigini e articolato in una gamma di offerte estremamente ricca e di alta qualità. Negli anni 50, la società europea cominciò ad adottare il modello di consumo che arrivava d’oltreoceano e adottando i caratteri tipici di una civiltà di massa. L’adozione di un abbigliamento informale e, almeno teoricamente, alla portata di tutti esprimeva la messa in crisi a livello individuale sia dei tradizionali modelli di comportamento e di bon ton, sia dei rituali di diffusione delle nuove mode. La strada più rigorosamente industriale fu adottata dalla Francia. L’obbiettivo che si posero gli imprenditori francesi fu creare un prodotto di moda che fosse alternativo all’haute couture, ma soprattutto alla confezione di basso prezzo che si era diffusa negli anni 30: senza avere i costi della prima, non doveva neppure avere la mediocre qualità della seconda. Dopo un viaggio negli Stati Uniti organizzato nel 1948 dalla Chambre syndacale de la confection, Robert Weill decise di perseguire questa strada e di intervenire sulla percezione che il pubblico francese aveva dell’abbigliamento confezionato innanzitutto cambiandogli nome. Pret à porter, che aveva cominciato a girare tra gli addetti ai lavori per tradurre ready-to-wear, divenne il modo per definire una produzione industriale di qualità, che si adeguava agli stili proposti dell’haute couture e che poteva sostituire il “fatto su misura”. La relazione diretta tra produzione e pubblico era assolutamente fondamentale, poiché bisognava guidare le donne verso un altro gusto, diverso da quello elitario e fantasmagorico dell’haute couture, su cui erano abituate a sognare, e più vicino al loro standard di vita quotidiano. Redattrici specializzate cominciarono a creare mide scegliendo con grande libertà fra le diverse proposte delle aziende e promuovendo direttamente vere e proprie tendenze. Bisognava abituare le lettrici a un’offerta nuova del gusto, nella concezione e nella distribuzione, favorendo l’informazione e la ricerca dei capi nella prima rete di boutique che si andava creando nel paese. Mel marzo del 1952 il neologismo fece la propria comparsa in una rubrica dell’edizione francese di “Vogue”. La sua ufficializzazione, però dovette attendere il 1956, quando l’intero numero di agosto fu dedicato alla collezione di pret à porter e uno speciale sullo stesso tema uscì fra settembre e ottobre. La novità era che diversi couturier fra i più noti, disegnarono modelli che erano realizzati in serie da industriali o atelier specializzati. L’alta moda aveva cominciato a sentire i primi segni di crisi. Gli enormi impegni di capitale necessari per realizzare i modelli da presentare nelle sfilate stagionali non erano più compensati dalle vendite. La clientela provata, in particolare quella americana, cominciava a diminuire o a limitare i propri ordini, attratta da una produzione di ready-to-wear sempre più raffinata ed elegante. Dior aveva colto il mutamento di costumi e aveva risposto con una linea pret à porte di lusso destinata al pubblico statunitense e presto anche altri conturier sperimentarono questa via. Fu però negli anni 60 che le sartorie diedero vita a vere e proprie linee di pret à porter che cominciarono a sfilare con l’etichetta di alta moda pronta. L’INDUSTRIA DELLA CONFEZIONE IN ITALIA In Italia la produzione di abiti in serie non aveva tradizioni. La conformazione sociale del paese non aveva mai favorito la nascita di una vera industria della confezione, contrastata dalla presenza di una fitta rete di sarti artigianali. Il settore mosse i primi passi negli anni 50, stimolato dall’esempio degli altri paesi e soprattutto dal miraggio dello stile di vita americano e di un modello di consumo che avrebbe potuto modernizzare l’Italia. Nacque principalmente all’interno di alcune aziende tessile, come la Marzotto e il Gruppo Finanziario Tessile, ma non mancarono iniziative imprenditoriali nuove che ne fecero il centro della loro attività. La maggior parte della produzione riguardò l’abbigliamento maschile, ma anche quello femminile fu sperimentato sia in linee particolari, sia in modo esclusivo. Il modello di riferimento era la grande industria americana: anche se gli inizi furono semiartigianali, le aziende si svilupparono presto in quel senso con ampi stabilimenti e grandi quantità di manodopera. Nel 1945 era nata l’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento (AIIA). Se agli inizi il settore della confezione di cui essa di occupava era composto da una galassia di specializzazioni in gran parte attinenti al passato piuttosto che al futuro, già nella metà degli anni 50 l’industria italiana della moda pronta cominciava a essere una realtà concreta che necessitava di strumenti organizzativi e commerciali nuovi per il proprio sviluppo. Il 24 novembre 1955 fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone mercato internazionale dell’abbigliamento (SAMIA) per promuovere le vendite della moda pronta sia sul mercato interno che su quello esterno. Organizzato dall’Ente italiano moda, l’appuntamento si ripeteva due volte all’anno. Nel 1957 si svolse a Milano la prima edizione del Mercato internazionale dei tessili per l’abbigliamento e l’arredamento (MITAM), che doveva svolgere un analogo compito nel settore delle stoffe. In quei primi anni l’industria di confezione non si era posta il problema di creare tendenze o di competere con la grande moda: il suo pubblico di riferimento era composto dalle signore della moda che veniva venduta in negozi esclusivi concepiti per un pubblico di adolescenti. Mary Quant lanciò la moda più famosa degli anni 60: un abito con la gonna a metà coscia, di modello decisamente infantile ispirato alle divise scolastiche e alle linee degli anni 20. La minigonna nacque come divisa di una ragazzina che rifiutava di crescere e che voleva differenziarsi dal modello adulto delle madri. Comunicava, insieme ai pantaloni e ai collant, la voglia di non avvilire un corpo adolescente in indumenti non pensati per esso e di esprimere attraverso i colori la propria voglia di vivere. La tendenza più nostalgica delle fine del decennio fu rappresentata da Barbara Hulanicki, che aprì Biba, dopo il successo ottenuto con la vendita per corrispondenza dei modelli, più economici, ma pur sempre in serie limitati. Il suo stile aveva un aspetto più decisamente revival. Anche a Parigi si assistette allo stesso fenomeno. Le boutique si moltiplicarono, modificando con le loro vetrine l’aspetto di alcuni quartieri e contribuendo a un particolare sviluppo di pret à porte. Il progetto era partire dalla presenza di una nuova clientela di adolescenti, con esigenze alternative rispetto alla corrente produzione di abbigliamento, e lanciare mode selezionando le proposte più innovative e stilisticamente più consone al gusto di un tale pubblico. Le mode non potevano trarre ispirazione che dagli stili di vita dei teeneger, dai loro miti musicali o cinematografici, modificandoli secondo un progetto di gusto commercializzabile. All’estro del couturier si sostituiva quello dello stilista, che proteggeva collezioni da produrre con metodi industriali per un proprio marchio oppure per una o più aziende. Alla metà del decennio anche l’haute couture cambiò radicalmente e propose uno stile ispirato all’era spaziale, il cui mito stava invadendo l’occidente. Presentarono collezioni di modelli dritti, privi di riferimenti al passato, che ostentavano le caratteristiche strutturali cucite sottolineate, impunture, saldature e l’uso di materiali tecnologici assolutamente inusuali. La geometria imperava e rivestiva un corpo femminile asciutto, androgino e vagamente infantile. L’alta moda non rappresentava più lo strumento principale per diffondere le nuove idee, la sua parabola aveva cominciato a scendere e i risultati diminuivano stagione dopo stagione, nonostante il sistema di licenze compensasse le perdite. I primi tentativi di organizzare una produzione di pret à porter avevano portato risultati modesti, ma un grande arricchimento dal punto di vista dell’esperienza. Gli anni 60 erano maturati per realizzare il progetto che vedeva legati insieme un creatore di moda, un industriale, un sistema vendite. Nel 1965 Courrèges presentò nella stessa sfilata haute couture, pret à porter e maglieria, in modo che fosse evidente che si trattava di un’unica proposta di moda. Il risultato fu una totale rivoluzione nella figura professionale del couturier, che trovò nel nuovo sistema produttivo un’alternativa per esprimere la propria creatività, meno legata alla perfezione dell’oggetto e più vicina alla cultura moderna. La distribuzione avvenne attraverso boutique monomarca prima a Parigi e poi nelle più importanti città del mondo, rifornite attraverso modi di produzione diversi: Courrèges scelse di aprire una fabbrica, mentre Yves Saint Laurent stipulò un contratto. Solo Balenciaga non accettò il cambiamento, che gli sembrò uno svilimento della professione. Ma la stagione aristocratica della grande couture era finita e Balenciaga fu costretto a chiudere il suo atelier nel 1968. Nei primi anni 70 il pret à porte aveva completamente conquistato il pubblico. La moda era ormai guidata da giovani stilisti che avevano raggiunto notorietà pari a quella dei couturier. Nel 1971 venne creata la società Crèateurs & industriels con il compito di stabilire corretti rapporti tra le parti: gli stilisti avrebbero progettato e firmato le proprie collezioni, gli industriali le avrebbero prodotte e ne avrebbero finanziato la comunicazione. Dallo stesso anno si cominciò a organizzare un calendario di sfilate. Le somiglianze tra il lavoro degli stilisti e quello dei couturier che firmavano pret à porter si facevano sempre più evidenti, tanto da indurre un avvicinamento formale fra le due professioni attraverso la creazione delle Chambre syndicale du pret à porte des couturiers et des crèateurs de mode, con il compito di organizzare manifestazioni unitarie dei due settori. Due facce della nuova moda francese e al loro difficile rapporto reciproco: nel primo caso si sottolineava la valenza industriale del lavoro degli stilisti, collocandoli nella punta più alta della piramide della confezione, nel secondo si sottolineava la continuità fra la loro attività creativa e quella dei couturier, ponendoli all’interno di una logica ancora guidata dalla couture. IL PRET A’ PORTE ITALIANO In Italia la grande industria di confezione non era attrezzata per affrontare un così repentino mutamento di gusti e di consumi. L’unica azienda che seppe trarre vantaggio dal cambiamento fu Max Mara, creando prima una collezione e poi una linea specificamente pensata per i giovani. Dal 1967, riportate tutte le sfilate di alta moda negli atelier, la passerella di palazzo Pitti fu riservata alle presentazioni stagionali di queste linee di 2alta moda pronta”, molto più simili alle soluzioni che le maison parigine avevano sperimentato negli anni 50 che non alla più recenti proposte di couturier come Saint Laurent o Courrèges. Nelle grandi città e nei luoghi di vacanza si moltiplicarono le boutique che mescolavano abiti d’importazione con piccole collezioni prodotte direttamente. Per fare capi di avanguardia erano necessarie professionalità nuove: creativi con un gusto preciso, produttori di materiali innovativi ma poco costosi, confezionisti consapevoli del fatto che la lavorazione doveva adattarsi alle nuove idee e non viceversa. Si trattava di creare abiti “di moda” per un mercato affamato di “moda”, disposto a cambiare la propria immagine in tempi rapidissimi, insieme ai richiami elitari delle raffinatezze haute couture, attratto dall’idea dell’abito come divertimento, travestimento, divisa. Era quindi indispensabile che la figura che “inventava” le novità fosse omogenea al proprio pubblico e avesse quel gusto internazionale che caratterizzava tutte le manifestazioni culturali giovanili, ma anche che fosse un vero professionista della moda. Non fu quindi un caso che i primi stilisti che operarono in Italia fossero francesi o avessero svolto l’apprendistato. Agendo come free lance, essi offrivano competenze e creatività a committenti diversi, lavorando anche per più aziende contemporaneamente e magari per breve periodo. La nuova moda aveva una forza di rottura e un potere catalizzante che non tardarono ad attirare l’attenzione del sistema ufficiale: già nel 1865 Giorgini aveva colto l’importanza del fenomeno e l’anno successivo Firenze si organizzò per dare spazio nel proprio calendario delle sfilate alle aziende che producevano questo tipo di confezione. Le collezioni furono presentate sia a palazzo Strozzi, sia in diversi alberghi. Dal 1967, con la sostituzione delle sfilate di alta moda con quelle di pret à porter, anche la sala Bianca di palazzo Pitti aprì le sue porte alle creazioni di stilisti e piccoli aziende nascenti. LA PROFESSIONE DI STILISTA: WALTER ALBINI Il primo a cogliere l’eccezionalità della situazione e la sua ambiguità fu Walter Albini: in un momento in cui la quantità artigianale dei capi passava in secondo piano rispetto al loro “contenuto moda”, gli sembrava evidente che la figura chiave del processo dovesse essere il creatore di questo contenuto. Fare mergere il nome dello stilista dall’anonimato significava, come era accaduto in Francia, ratificare l’esistenza di un terzo polo all’interno del sistema di produzione, un polo che prevedeva una produzione industriale di piccola serie progettata e seguita da un “creativo” che adottava metodiche completamente diverse rispetto al passato. Per raggiungere questo obbiettivo le strade da percorrere erano due: una di tipo contrattuale, l’altra di tipo estetico. Albini le sperimentò entrambe. Il primo passo era creare un rapporto paritario con un produttore, così da non essere nella condizione del semplice consulente e di poter determinare on modo totale l’aspetto formale della collezione: questo era lo scopo che egli raggiunse fondando una piccola società per la produzione di abiti, che venne chiamata Misterfox. La collezione per l’autunno-inverno 1970-71 ebbe un successo incredibile, tanto da mettere in crisi la limitata capacità produttiva della neonata azienda. Lo stile revival proposto dai capi presentati e dalla press release venne ripreso, diventando uno degli elementi cardine della tendenza della stagione. Il nuovo modello che si stava imponendo non aveva bisogno di legami con passati nazionalistici illustri; al contrario, cercava di utilizzare uno strumento moderno come la produzione industriale per rivolgersi a un mercato di massa che stava articolando il proprio gusto. Albini intuì che era giunto il momento di una cesura con il vecchio e di tentare una strada diversa, che comunicasse immediatamente un’idea di modernità. Soprattutto comprese che era necessario non disperdere in mille canali la proposta dello stilista, ma presentarsi sul mercato con un’unica idea, forte e riconoscibile, che qualificasse una grande varietà di prodotti. Innanzitutto s’imponeva la separazione da Firenze e da tutta la sua storia. Fu scelta Milano, una città industriale, poco affezionata al proprio passato, priva di legami con i riti dell’alta moda e, al contrario, estremamente sensibile alla boutique più giovane. Scegliere il capoluogo lombardo significava puntare su un’altra Italia, quella che non viveva nel mito dei fasti del passato, ma che cercava uno spazio attivo nella modernità. Il secondo nodo era il rapporto tra stilista e compratore finale: quello che si offriva non poteva essere semplicemente un indumento confezionato, ma qualcosa di più complesso che doveva collocarsi in una zona intermedia fra il gusto e lo stile di vita della nuova società emergente. Il rifiuto del modello tradizionale della società borghese occidentale aveva avuto in entrambi i casi il corollario del rifiuto del consumo di merci prodotte “attraverso lo sfruttamento dell’uomo e/o dell’operaio”, con il risultato di favorire l’adozione di abbigliamento proveniente da aree culturali e/o produttive precapitalistiche oppure totalmente marginali. Nel primo caso gli indumenti orientali, accompagnati da accessori etnici o autoprodotti, si mescolavano ad abiti si seconda mano, degli anni 30 e 40, dando vita, senza volerlo, alle prima realizzazioni di gusto postmoderno. Nel secondo, l’eskimo si accompagnava all’abbigliamento più neutro possibile, quello che non richiede cura, quello che non si fa notare. E nonostante il rifiuto ideologico e sdegnoso della categoria borghese della moda, anche questa fu una moda. Albini comprese che, se il problema era culturale e di stile, il compito dello stilista non poteva essere quello di progettare singoli indumenti, ma un clima di gusto in cui i compratori potessero riconoscersi. Questo era possibile solo controllando una collezione completa, e cioè tutti gli indumenti e gli accessori necessari ad accontentare le richieste di un (o tanti) ipotetico compratore per un’intera stagione. Il 27 aprile 1971 sfilò al Circolo del Giardino di Milano la collezione per l’autunno-inverno 1971-72: fu il punto di svolta fra passato e futuro. I capi, progettati da Albini, erano realizzati da cinque aziende, ognuno delle quali era specializzata in un determinato settore merceologico. La colezione era unica, lo stile era unico, quello che era ancora diviso era il marchio: ogni etichetta portava la dicitura “Walter Albini per” seguita dal nome dell’azienda. Molti nodi, però, erano ancora irrisolti, primo fra tutti quello del rapporto fra stilista e azienda. Ancora una volta fu Albini a fare da battistrada: nel dicembre 1972 presentò a Londra una LA GIACCA ARMANI Il casual italiano cominciò con la giacca, l’indumento più difficile, quello che più strettamente rappresentava da un lato il ruolo maschile e dall’altro la sapienza sartoriale. L’idea di Armani fu proposta a metà degli anni 70, la generazione del dopoguerra si trovò di fronte alla necessità di assumere un ruolo adulto entrando nel mondo del lavoro. I provocatori e colorati abiti indossati fino a quel momento dovettero essere abbandonati, per essere sostituiti da qualcosa di più consono e professionale, ritmi di vita e responsabilità nuove. Missoni creò un cardigan che per un certo periodo diventò una specie di divisa colta per intellettuali e uomini di spettacolo. Armani propose una moda che teneva conto dei mutamenti culturali e sociali in atto e presentò un indumento formale classico, ma totalmente rinnovato. Era una giacca di foggia maschile realizzata con tessuti morbidi che venne proposta con lievi differenze, a uomini e donne. La trasformazione riguardava il suo aspetto esteriore, ma anche la sua concezione: lo stilista la ridusse al solo involucro esterno, annullando fodere, imbottiture, rinforzi… in questo modo un indumento “difficile” venne sottratto al sapere del sarto e offerto all’industria della confezione. Dal punto di vista culturale l’operazione di Armani fu indubbiamente rivoluzionaria: inventò una giacca nuova, che non era più né rigorosamente, maschile, né femminile, adatto ad ogni occasione e con ogni abbinamento. STILISTI E INDUSTRIA Parallelamente alla ricerca dello “stile” procedeva la costruzione di un nuovo modello produttivo. Si trattava di stringere un’alleanza fra l’industria e gli stilisti, in modo da utilizzare il potenziale della prima per creare una nuova moda. La svolta fu rappresentata ancora una volta da Armani, che riuscì a imporre le proprie richieste a un GFT in seria crisi di sopravvivenza. L’industria assunse il ruolo di semplice produttore “muto” delle collezioni firmate dallo stilista, che si occupava anche della loro comunicazione e dalla loro distribuzione. Il modello non fu generalizzato, ma fu una filosofia di questo tipo che ebbero la possibilità di affermarsi le firme che nel decennio successivo diventarono le chiavi di volte del “made in Italy”. In generale la moda degli stilisti fu resa possibile del decentramento produttivo, caratterizzato da innumerevoli piccole aziende, concentrate in distretti, adatte a soddisfare una domanda in forte crescita dal punto di vista qualitativo. RESTAURAZIONE ANNI OTTANTA Dal punto di vista sociale e culturale la fine degli anni 60 rappresentò un momento di svolta, segnalato dal distacco con il decennio appena trascorso. In Italia i giovani abbandonavano le piazze e si concentravano nelle discoteche. La banalità del quotidiano trovò un antidoto nelle notti di disco dance. Senza apparenti contraddizioni, la ricerca di sé cominciò a trasferirsi sul corpo, cui le diete, il jogging, la danza e la perenne abbronzatura conferivano un aspetto atletico e sano. Anche gli adulti stavano preparando un ritorno dello stile di vita borghese e ritrovavano il gusto della mondanità. Carriera, successo, denaro e potere diventarono le nuove parole d’ordine -> un mondo guidato dall’ambizione e dalla mancanza di scrupoli di cui tanti desideravano far parte. In Italia i nuovi ricchi iniziarono ad esibire il loro successo, la licenza di snobismo ed eccentricità. Persino il popolo dei giovani si fece ingabbiare in questa nuova frenesia del consumo di lusso e si riconobbe in uno dei trend di strada più conformisti del dopoguerra, quello dei cosiddetti “paninari”. LE SECONDE LINEE Nel marzo 1981 erano state presentate in Fiera le sfilate per l’autunno-inverno 1981-82, la rielaborazione più creativa di temi etnici che si fosse mai vista. Coerenti con il metodo di lavoro adottato, gli stilisti di punta avevano proposto collezioni spettacolari ispirate all’Oriente. Si trattava di una moda difficile ed estremamente lussuosa, realizzata con tessuti ricercati e con lavorazioni innovative, che sconfinava nell’haute couture. Nel marzo 1982 Armani aveva deciso di non sfilare e di non mostrare alla stampa la sua nuova collezione. Motivazioni: innanzitutto c’era un ragionamento sulla natura del lavoro di stilista. Il pensiero di Armani rifaceva il punto sullo stato della professione, ma era avvenuto un fatto che lo aveva provocato: l’insuccesso della collezione invernale, osannata dai guru della moda, ma rifiutata dal mercato. Nel 1982 Armani e Galeotti ridiscussero il contratto con il GFT e riprogettarono la configurazione dell’azienda: al gruppo torinese venne affidata la produzione di Mani, commercializzata come seconda linea per l’Italia e con l’etichetta Giorgio Armani Made in Italy per l’esportazione. La prima linea Armani assunse un carattere più artigianale ed esclusivo: la sua realizzazione, direttamente controllata dallo stilista, fu affidata a piccole aziende specializzate, funzionali di volta in volta alla caratteristica del prodotto. Doppio mercato: quello che già si era configurato negli anni 70 e quello di lusso che alla moda cominciava a chiedere rassicurazioni di status e di identità. Ma esisteva anche un intero mercato, quello dei giovani, che di nuovo cercava moda a prezzi contenuti. Armani e Galeotti avevano da tempo intuito questa realtà e nel 1981 avevano lasciato la linea Emporio Armani, da vendere in negozi monomarca appositamente creati, che univano un alto valore innovativo e d’immagine a un prezzo pensato per i giovani. L’esperimento iniziò in Italia, ma presto si estese a tutti i paesi verso cui si muoveva l’esportazione. Poi c’erano le licenze, che utilizzavano la fama della griffe per veicolare prodotti caratterizzati da un alto “contenuto moda”, ma collaterali rispetto all’industria dell’abbigliamento. Attraverso questi passaggi fu possibile organizzare un sistema che sfruttava a pieno le risorse professionali di Armani e le collocava in una giusta dimensione di interazione con il consumatore finale. Alla prima linea, destinata a un pubblico di élite, venne attribuito un compito di immagina e di sperimentazione: comunicare le novità e le linee di t6endenza, per dare spazio alla ricerca creative dello stilista, sia nel campo progettuale sia in quello dei materiali. Alla seconda linea venne assegnato l’obbiettivo della vendita di massa, con tessuti meno innovativi e con una produzione decisamente industriale. La linea giovane, pur essendo realizzata industrialmente, ebbe connotazioni più forti e trasgressive. IL LOOK E GLI STILI Non si trattava di una semplice innovazione produttiva; al contrario, rispondeva a una situazione culturale e sociale che si stava configurando con grande rapidità. Il rifiuto della dimensione politica e il cosiddetto “ritorno al privato” assunsero presto l’aspetto di uno stile di vita specifico, in cui ricchezza e presenzialismo divennero i valori dominanti. Come era accaduto nell’800, durante il Secondo Impero, il loro obbiettivo era “esibire”, si cominciò a parlare di look, ossia di una struttura comunicativa, fatta di abiti e oggetti di consumo, capace di costruire l’immagine di ciò che non è. Non c’erano più rituali certi cui adeguarsi per mostrare la propria ricchezza, si scelse la strada dell’ostentazione e del consumo mettendosi “i soldi addosso”. Ma anche la scelta dell’abito per creare un proprio personale look non si rivelò essere impresa facile: era necessario un mediatore professionale che garantisse la corrispondenza fra stile di vita adottato e abito adeguato a comunicarlo. La collezione per la primavera-estate 1983 segnò la svolta: abbandonati gli eccessi rifermenti al passato, tutti si concentrarono nella ricerca del nuovo e di un nuovo linguaggio personale. -Ferré -> s’impose con una moda sobria, netta, pulita -Krizia -> operando una sintesi fra l’esperienza fatta sugli abbigliamenti etnici e l’amore per le avanguardie astratte, propose forme geometriche -Versace -> si focalizzò sulla traduzione al femminile di capi di abbigliamento maschili e sulla loro struttura proporzionale, presentò il primo abito in maglia metallica, materiale che sarebbe diventato il simbolo della sua griffe. Molti stilisti abbandonarono il Centro sfilate della Fiera per organizzare le presentazioni in spazi diversi e individuali. L’immagine collettiva del made in Italy, si articolò in tante proposte di gusto diverse e ben caratterizzate, ognuna della quali corrispondeva a una firma, cui era possibile ricorrere per ottenere il look prescelto. La firma divenne quindi la chiave estetica dei nuovi consumi. “donne in carriera” -> la battaglia che le donne dovevano combattere per imporsi in un mondo del lavoro sempre più duro e competitivo richiedeva che anche l’abito fosse trasformato in un’arma. Esasperando la proporzione del torace, che assunse le forme della corazza maschile cinquecentesca. Le spalle si imbottirono, e la parte superiore del corpo fu enfatizzata in maniera esasperata a scapito di quella inferiore. Se da un lato accentuava l’aspetto androgino, dall’altro riproponeva una silhouette artificiale dopo decenni di dibattiti femministi e di movimenti di liberazione della donna e del suo corpo. L’abito tornava ad assumere il significato di rappresentazione di un ruolo. Non seguiva più le forme del corpo, le attribuiva forza maschile. La giacca divenne la nuova divisa femminile, come parte di un tailleur, ma anche indumento basic con una vita propria, da accompagnare indifferentemente con minigonne, pantaloni, bermuda e scarpe con tacchi altissimi. Ogni stilista la interpretò e la variò a seconda del proprio modello di gusto e della donna cui si riferiva. IL SUCCESSO DEL MADE IN ITALY Nacque una moda che metteva a disposizione di un ceto medio molto allargato la fascia più alta della produzione. Era finito il modello secondo cui le nuove tendenze venivano create per una ristretta élite, per poi essere riprese e diffuse da sistemi meno costosi. Lo stilista aveva sostituito il couturier nel ruolo d’interpretare i cambiamenti sociali e culturali e trasportarli in prodotti diversi per una clientela allargata e internazionale. Nell’immaginario collettivo la boutique monogriffe sostituì l’atelier del couturier e divenne il luogo in cui acquistare o semplicemente vedere le ultime novità del look di moda. Come ai tempi di Napoleone III, il consumo di moda assunse un significato culturale preciso, cui la relativa dispendiosità dei capi forniva sostegno: essere alla moda e farlo sapere, anche in modi vistosi, dava la sicurezza di uno stato sociale raggiunto. Il cosiddetto “Italian look” appieno il desiderio di essere e mostrarsi alla moda. -Armani -> divenne quasi sinonimo di un abbigliamento funzionale e discreto, una sorta di nuova classicità adeguata a stili di vita e tipi di lavoro moderni. -Ferrè -> lavorò a un’immagine di donna al limite con la tradizione dell’alta moda, unendo elementi etnici con effetti da haute couture e una spiccata predilezione per le sperimentazioni sui materiali -Versace -> si specializzò in un abbigliamento aggressivo e provocatorio, sapientemente ispirato agli accessori del mondo dello spettacolo CAPITOLO 15 – HAUTE COUTURE E INDUSTRIA DI LUSSO: CHANEL La rivoluzione dei costumi degli anni 60 e 70, l’affermazione delle culture giovanili, il profondo processo di democratizzazione intervenuto in Occidente e, soprattutto, la diffusione del consumo di massa avevano favorito lo sviluppo di un pret à porte sempre più qualificato e creativo, capace di soddisfare esigenze anche dei pubblici più esigenti e raffinati. Del sistema commerciale che era stato costruito negli anni del grande successo sopravviveva ben poco: nessuno si rivolgeva più all’haute couture per comprare creatività. L’industria di confezione aveva ormai i propri stilisti, quindi non aveva più bisogno di andare a Parigi ad acquistare i modelli da copiare e trasformare. La sartoria era del tutto scomparse. Quei reparti erano stati sostituiti con il pret à porte firmato dagli stessi couturier. Rimaneva la clientela privata che frequentava gli atelier di Parigi, ma irrimediabilmente ridotta nel numero e nelle richieste. Il vero volume d’affari delle poche maison rimaste era ormai rappresentato dalla profumeria, dalle licenze e dal pret à porter, spesso però inadatto a fare concorrenza a quello creato dagli stilisti, molto più libero da vicoli di tradizioni e da modelli di eleganza legati al passato. Nonostante ciò, due volte l’anno Parigi continuava a mettere in scena il grande spettacolo delle sfilate dell’haute couture. Quella straordinaria esibizione di abiti irraggiungibili e bravura artigianali antica continuava a rappresentare nell’immaginario collettivo uno dei momenti più importanti della moda. Tanto interesse era determinato e coltivato da molte componenti, alcune culturali, altre economiche, altre ancora del tutto interne alle dinamiche del sistema moda; esso poteva però significare che il potenziale dell’haute couture non era completamente esaurito. Se ne resero conto i proprietari di alcune delle più famose maison parigine che negli anni 80 iniziarono a riconoscere il tema del lusso. Un lusso non così esclusivo come nei decenni precedenti, ma finalizzato a creare uno status symbol, una categoria che dagli anni 60 sembrava essere stata cancellata. Il nuovo corso cominciò ancora una volta con Chanel. KARL LAGEFELD E LA MAISON CHANEL Il 15 settembre 1982 la Maison Chanel annunciò alla stampa di aver affidato a Karl Lagerfeld il ruolo di consulente artistico per l’haute couture. La notizia creò un certo scalpore: era strano che la più antica fra le case di alta moda ancora esistenti nella capitale francese si affidasse a uno straniero, per di più specializzato nel pret à porter. È vero che lo stilista aveva iniziato la sua carriera nell’haute couture, ma dagli anni 60 la sua creatività era stata messa al servizio di un’innumerevole quantità di aziende e firme di pret à porte. Era quindi comprensibile un certo stupore di fronte al fatto che una delle case di moda più famose e tradizionaliste di Parigi si mettesse nelle mani di qualcuno che non aveva una pratica assodata nel campo dell’alta sartoria e aveva scelto di operare lontano dal mondo del lusso e aristocratico dell’haute couture. LA MAISON CHANEL Dopo la morte di Coco (1971), la Maison Chanel aveva continuato a proporre il tipo di modelli che ne avevano segnato il successo negli anni 50 e 60, fedele al bagaglio di gusto e di sapienza sartoriale che una cliente affezionata continuava a richiedere. Per tutti gli anni 70 la sopravvivenza della Maison fu affidata all’atelier, con i suoi specializzato professionisti che avevano lavorato a fianco di Mademoiselle e che conoscevano i segreti dei suoi perfetti modelli. Il problema era però che mancavano di quello slancio creativo che distingue un creatore di moda da un grandissimo sarto. Alla fine degli anni 70 le tendenze di moda non erano più dettate dalla maison di haute couture che sfilavano a Parigi, ma dagli stilisti che presentavano su passerelle meno lussuose e tradizionali i prototipi industrialmente e messi in vendita in boutique e negozi di mezzo mondo. Agli inizi del decennio successivo la scena fu occupata da milioni di “donne in carriera” nate dopo la Seconda guerra mondiale che si facevano strada nel mondo del lavoro. La capitale francese aveva da tempo perso il privilegio di essere l’unico polo capace di irradiare nuove mode: New York, Firenze, Londra e ora anche Milano si erano via via assunte questo ruolo trovando pubblici nuovi e attenti. I costumi stavano cambiando e con loro anche la maniera di guardare la moda. Nel panorama che andò delineandosi, la scelta di rimanere indissolubilmente legati alla tradizione mostrò alla lunga i propri limiti e già nella seconda metà degli anni 70 Chanel non era più una griffe di punta e aveva una clientela che andava diminuendo e invecchiando. Proprietaria del marchio era la famiglia Wertheimer che nel 1954 aveva acquistato l’intera Maison. Il successore dell’impero di famiglia Jacques, che però mostrò fin da subito di non avere le capacità imprenditoriali del padre, decide nel 1966 di nominare Jacques Helleu come direttore artistico del comparto profumi. Fu l’inizio di una politica commerciale, campagna pubblicitaria di Chanel N°5, che portò a una distribuzione incontrollata del più famoso profumo del XX secolo, che ben presto prese l’aura di prodotto di lusso. Nel 1973 la Chanel Inc. fu spostata in una nuova sede. Jacques Wertheimer nel 1974 fu sollevato dall’incarico dal Consiglio di amministrazione del gruppo e sostituito dal figlio. Innanzitutto si lavorò per riportare la distribuzione del profumo entro i canali più controllati e per restituirgli quell’immagine di prodotto di lusso che lo aveva caratterizzato nel tempo. La lunga esperienza della famiglia Wertheimer nel campo della profumeria dovette suggerire di valorizzare questo settore, senza però proporre altre fragranze. La scelta quindi cadde sui cosmetici e nel 1975 comparve la line Beauté. Seguendo l’esempio della maggioranza dei couturier parigini, si decise di sperimentare il metodo delle licenze per proporre quella che fu chiamata Boutique Chanel: borse, scarpe, foulard, cravatte e pret à porte. La storica boutique collocata al piano terra della sede della Maison fu il punto di partenza di una rete distributiva, che cominciò presto a espandersi nel mondo. Tutto ciò, però, presentava dei rischi -> le entrate finanziaria che venivano dalle licenze non controbilanciavano l’impoverimento d’immagine che ne risultava. Ciò costrinse a ripensare tutta la strategia Chanel. Da un lato, infatti, aveva messo in primo piano l’immenso potenziale del settore boutique, dall’altro aveva evidenziato una volta in è più la necessità di far recuperare all’intera Maison il ruolo che le competeva nel sistema della moda parigina, ma anche nel più generale panorama internazionale. Era, infatti, sempre più evidente che la moda che faceva notizia era quella degli stilisti, aggressiva, ma anche facile da portare, giovane e adeguata ai tempi. Questo fu il momento in cui Alain Wertheimer prese i contatti con Karl Lagerfeld e gli affidò il compito di far rinascere a nuova vita il nome Chanel. L’HAUTE COUTURE DI KARL LAGERFELD La collezione presentata da Lagerfeld nel gennaio 1983 non suscitò grandi entusiasmi. Alcuni la giudicarono in base alla sua aderenza alla tradizione Chanel, altri alla sua capacità d’innovazione: due criteri opposti che corrispondevano a due tipi di aspettative antitetici. Lagerfeld aveva avuto solo il tempo di iniziare quella che sarebbe stata un’esplorazione approfondita dell’universo Chanel, quindi aveva proposto temi di sicura presa sulla clientela abituale. In mezzo a tutto ciò c’erano però due modelli che facevano presagire un nuovo corso. Il primo era un tailleur nero con la giacca lunga e diritta portata su un paio di pantaloni caratterizzati da una vistosa abbottonatura alla marinara + una camicia bianca maschile, completamente lavorata a nervature, con il colletto chiuso sa un papillon nero. Il secondo era un semplice fourreau di crepe di seta nero, con una scollatura sulla schiena e maniche lunghe, trasformato in un modello da gran sera dall’atelier Lesage. Il primo completo apriva un dialogo fra lo stile che aveva segnato gli esordi di Chanel, la collezione del ritorno sulle passerelle nel 1954 e la moda contemporanea. Il secondo modello era frutto di una riflessione più complessa. Non si trattava semplicemente di un’ispirazione al passato, ma di un lavoro di decostruzione del mondo Chanel e di un’analisi semiotica. IL “PATRIMONIO SPIRITUALE” DI CHANEL Nel 1989 fu organizzata la mostra “Chanel. Ouverture pour la mode à Marseille”, il progetto di rilancio era ormai riuscito e Legerfeld ne tracciò le linee nel saggio di apertura del catalogo. LA NUOVA MODA CHANEL Dal 1983 Karl teneva saldamente in mano l’intera direzione artistica della Maison parigina: dall’haute couture al pret à porter, agli accessori, alla pubblicità. Fu dal pret à porter che cominciò il ringiovanimento della moda Chanel. Il mercato pret à porter era invece del tutto nuovo, potenzialmente enorme e composto soprattutto di donne giovani che non avevano mai varcato la soglia di Rue Cambon. Con loro era più facile osare. La collezione per la primavera-est. 1984, la prima ufficialmente firmata da Legerfeld, aprì un nuovo corso sia dal punto di vista della moda sua da quello delle strategie aziendali. La sfilata di settembre aveva ovviamente presentato i classici, ma anche una rivisitazione più trendy dello stile Chanel degli anni20. Il completo bianco indossato da Coco (foto) era stato lo spunto per un’apertura verso l’abbigliamento sportivo, così di moda in quei primi anni 80. Anche i costumi per il Train bleu furono riportati in passerella, ma progettati secondo le regole della pratica sportiva più recente. Erano un completo da cricket, uno da scherma, un insieme da tennis, una tenuta da polo e da motociclista. Tutti erano provvisti di attrezzi e accessori, firmati Chanel, ma tutti erano presentati per poter essere indossati nella vita quotidiana. Infine la collezione proponeva un esperimento: il denim, un materiale povero e molto popolare con cui altri stilisti stavano lavorando con successo. Lagerfeld non si avventurò nella creazione di jeans griffati, ma lo utilizzò per confezionare un tailleur e una sorta di chemisier senza maniche. L’idea era senza dubbio coerente con il carattere sportivo e informale della collezione, ma dovette avere poco successo. L’avvicinamento alla modernità proseguì nelle stagioni successive, infrangendo a uno a uno i tabù di Coco. L’imperativo era fare di nuovo moda, essere al passo con i tempi e magari anticiparli, sorprendendo il pubblico seduto ai lati della passerella con proposte originali e trasgressive. Questo vale per il pret à porter, ma anche per l’haute couture che doveva essere sottratta al suo sempre più evidente declino. IL CODICE CHANEL Nel 1977 la Maison distribuì un piccolo catalogo in folio disegnato da Karl dal titolo Les éléments nd’identification instantanée de Chanel -> un vero catalogo delle innumerevoli maniere in cui era possibile creare oggetti diversi pur essendo fedeli a un codice dato. Il rapporto amore e odio dello stilista tedesco con il mito Chanel produceva soluzioni sempre più irriverenti e ironiche. Presto le mode di strada entrarono impetuosamente in passerella mettendo a dura prova le lezioni sull’eleganza che Mademoiselle amava impartire, ma parendo definitivamente le porte alla clientela più giovane. lavorare nella moda dopo la laurea in Architettura, prima collaborando con diverse aziende sia in modo anonimo sia firmando collezioni, poi, dal 1978, con un marchio proprio. Il suo stile, che si basava su un nuovo modo di progettare gli abiti e un sapiente uso dell’esotismo, ebbe una rapida affermazione. Ferré fu uno degli stilisti che crearono la fama del pret à porter made in Italy nel mondo. Fra il 1988 e il 1989 Ferré era al culmine del suo successo in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti. La consegna che gli fui affidata al momento del primo contratto quadriennale come créateur della Maison parigina era “faire du Dior”. Restituire alla moda quel valore di status symbol che l’aveva caratterizzata in certi momenti della sua storia e che sembrava ormai superato. Ferré colse che quanto gli si stava chiedendo era ridare alla Maison Dior quell’immagine di sogno meraviglioso e irraggiungibile che aveva avuto in passato. Il 23 luglio 1989 fu proposta al pubblico la prima collezione haute couture dello stilista italiano: un omaggio a Christian Dior e al New Look. Il risultato più importante fu costituito dall’arrivo dei compratori americani e dalla ricomparsa dei modelli Dior nelle vetrine dei più importanti stores statunitensi. Il ritorno alle origini non fu però il tratto principale della progettazione di Ferré. Certamente la giacca del tailleur “Bar” fu alla base di molte rielaborazioni, ma il designer italiano propose soprattutto un proprio stile, una personale interpretazione del lusso e un ideale femminile che egli stesso identificò con le clienti Dior, di grandes dames che possono permettersi di portare abiti unici, fatti esclusivamente per loro. Per questa lady raffinatissima egli inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante in cui portò alla perfezione i codici del proprio linguaggio. Un lusso vistoso, barocco, dispendioso caratterizzò invece la progettazione degli abiti da sera, cui fu demandato il compito di rinnovare il sogno. Ferré si innamorò dell’haute couture e la mise alla prova sperimentando abiti e decorazioni sempre più complessi ed elaborati. L’alta moda era in una situazione sempre più difficile. Lagerfeld da un lato e Versace dall’latro avevano cecato di rinnovarla immettendovi contenuti nuovi e più giovani, Ferré e la Maison Dior continuarono invece a rimanere legati alla tradizione elegante ed esclusiva del passato. Ancora una volta fu il mercato americano a decidere, apprezzando gli svelti tailleur da giorno, ma rifiutando un abbigliamento da sera adatto solo a eccezionali occasioni mondane, rarissime anche nella vita delle poche clienti. La fine del rapporto si consumo nel 1996. JOHN GALLIANO E L’HAUTE COUTURE A metà degli anni 90 le ricerche di mercato segnalavo la presenza di un potenziale pubblico giovane e soprattutto di nuovi ricchi provenienti da paesi che per la prima volta si affacciavano al consumo della moda e soprattutto del lusso. Il richiamo di Arnault allo spirito innovatore del fondatore della Maison segnalava la volontà di un deciso cambiamento di rotta e la nomina di John Galliano, già sperimentato per due stagioni di Givenchy, come créateur di Christian Dior Couture ne fu la conferma. Neto nel 1960 a Gibilterra da un inglese e una spagnola, ma trasferito a Londra già dalla metà del decennio, Galliano aveva seguito un regolare corso di studi e si era diplomato al Central Saint martins College of Arts and Design. Il gusto per il travestimento e per lo spettacolo era frutto della sua esperienza nella Londra thatcheriana degli anni 80, quella in cui la ribellione o la diversità giovanile si organizzavano in gruppi di strada. Finita la più scioccante e dura era punk, la scena fu occupata dai neo Romantics, che si distinguevano per la ricerca di una nuova eleganza, piena di riferimenti al passato e di particolari bizzarri, al limite del travestimento. Fu il momento dei nuovi dandies. A tutto ciò si aggiunse la scoperta del teatro e del valore dei costumi per la narrazione di una storia: fu nel backstage del National theatra, dove per qualche anno lavorò come vestiarista per pagarsi gli studi. Già la sua prima collezione, quella per il diploma alla Saint Martins nel 1984, fu messa in scena come fosse una performance. Tutto ciò era presenta a Arnault quando gli affidò la guida artistica di Givenchy. Le due collezioni di haute couture sconcertarono il pubblico delle sfilate. Il passaggio di Galliano alla Maison Dior fu annunciato durante la settimana delle collezioni dell’ottobre 1996 e ufficializzato il 9 dicembre all’inaugurazione della mostra dedicata a Dior dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. La prima sfilata haute couture si svolse il 20 gennaio 1997 nel Salon Opéra del Grand Hotel. La collezione era principalmente un omaggio a Dior, in parte perché coincideva con il cinquecentenario dalla prima sfilata, in parte perché il “paradigma Lagerfeld” aveva ormai creato una tradizione che si ripeteva ogni volta che un nuovo stilista assumeva la direzione artistica di una vecchia maison. Il patrimonio culturale della Maison era riproposto in tante soluzioni diverse, dalla citazione diretta alla semplice allusione trasfigurata. Lo spunto esotico, introdotto dal disegno animalier dipinto sull’organza e i crepe di seta più leggeri, tornava nelle pettinature da sera, c’era un riferimento diretto all’Africa colorata e altera dei guerrieri masai. I loro vistosi ornamenti di perline multicolori trasformarono radicalmente lo stile parigino dei modelli su cui furono indossati: la stampa ne rimase colpita e la loro immagine fu pubblicata ovunque. Nella collezione successiva, dedicata a Mata-hari, all’Art Nouveau, lo stesso ruolo fui giocato da bijoux ad anelli dorati paralleli ispirati alle donne ndebele dell’Africa dell’est. Quella con cui il giovane stilista si presentò al pubblico di Dior era una nuova lingua, fatta di commistioni fra gli oggetti provenienti da culture e costumi differenti. Bagaglio culturale: famiglia metà inglese e metà spagnola + infanzia in quartieri di immigrati L’IDENTITA’ DIOR Il problema dell’identità Dior e della sua individuazione immediata da parte del pubblico era più complesso di quanto non fosse stato nel caso Chanel. Christian Dior aveva lavorato solo per dieci anni: troppo poco per avere il tempo di fossilizzare la propria idea di eleganza in icone immutabili. Dior aveva avuto uno stile inconfondibile, ma questo era estremamente difficile da tradurre in un messaggio diretto e immediatamente comprensibile per il grande pubblico. Era necessario cambiare prospettiva. Quella che doveva essere comunicata la pubblico non era una continuità di segni, ma di atteggiamento verso la moda e la società, una sorta di filosofia o di maniera di pensare. Dior era stato un grande innovatore che aveva osato cambiare il modello culturale cui la moda faceva riferimento e con esso la maniera di vestire delle donne; la Maison Dior, 50 anni dopo, si ricollocava su questa strada maestra assumendo di nuovo il compito di guidare il cambiamento delle donne che si affacciavano al XXI secolo. C’era però un latro retaggio del patrimonio storico che doveva essere assolutamente salvaguardato: il lusso e le sue declinazioni. Christian Dior aveva inventato un modello molto complesso che vedeva al centro il lusso assoluto ed esclusivo della couture, ma che si diramava poi per i mille rivoli delle licenze per arrivare a un pubblico più ampio. Lo staff di Arnault creò una nuova mitologia del lusso, da un lato l performance dell’haute couture, un pret à porte di assoluta avanguardia, l’alta gioielleria, dall’altro abiti pensati per donne giovani e moderne, ma anche profumi, prodotti cosmetici e accessori vendibili a un pubblico di massa. La nuova identità Dior doveva quindi essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po’ trasgressivo. MARKETING E CREATIVITA’ Tutto questo fu sostenuto e guidato da un sistema marketing che utilizzò per la comunicazione i canali ormai assodati della pubblicità e delle boutique monomarca. A questo scopo nel 1997 venne rinnovata la boutique in Avenue Montaigne e ne furono aperte a Tokyo, a Parigi, a New York e a Mosca. Il centro della comunicazione diventava la sfilata -> vettore d’immagine e non un mezzo per mostrare ai compratori e stampa il nuovo campionario. In questo quadro l’haute couture, con il suo limitatissimo potenziale di vendita, ritrovava finalmente uno spazio adeguato ai ritmi e ai modelli di consumo più moderni: il suo scopo era trasformare la moda in un grande spettacolo capace di calamitare l’attenzione di pubblico e media sul marchio. La sua stessa natura veniva rivoluzionata affinché potesse diventare il palcoscenico della creatività più libera, della ricerca e della sperimentazione di nuove idee moda. Era irrilevante il fatto che le mises di sfilata potessero essere ritenute importabili: non erano pensate per questo. La Maison inventò un sistema di “couture a due velocità” che contemplava “uno show eclatante che implica la creazione dell’altra collezione destinata ai clienti, presentata da Dior su appuntamento del giorno successivo a quello della sfilata, prodotto dagli atelier e progettata da John Galliano contemporaneamente a quella mostrata in passerella. I modelli della sfilata erano invece a disposizione delle cosiddette celebrities, popolari personaggi del mondo dello spettacolo disposti a indossarli in occasioni mondane di particolare impatto mediatico. Questo ruolo liberava l’haute couture da tutti i retaggi e le tradizioni del passato, ormai inattuali, e consentiva di salvarla come strumento di comunicazione di straordinaria forza e come laboratorio di ricerca. La maison Dior aveva però messo in discussione anche la sfilata del pret à porter. Il nuovo progetto la attribuiva più il valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale, di solito appena mascherata da musica, regia e top model. La maggior parte delle vendite sarebbe stata fatta con le precollezioni, create appositamente per i compratori. L’immagine della proposta Dior del momento e quindi veniva mostrato alla stampa e al pubblico presente nella forma di un grande spettacolo che, attraverso i media, sarebbe poi giunto al compratore finale. Lo stesso Galliano entrava a far parte dello spettacolo sfilata come attore principale, non come semplice creatore. Gallino cominciò a offrirsi alla platea con i più bizzarri travestimenti, creando ben presto un clima di attesa quasi superiore a quella che precedeva la collezione stessa. Utilizzare il breve attimo in cui tutti gli obbiettivi sono puntati verso il creatore della collezione per moltiplicarne l’effetto mediatico fu un’idea da grande comunicatore. LA SILATA SPETTACOLO Per la collezione primavera-est. 1998 Arnault mise a disposizione il grande scalone e il foyer dell’Opéra di Parigi, per rendere omaggio a una vera eccentrica degli inizi del 900: la marchesa Luisa Casati. Ciò che rendeva il tutto fuori norma erano la regia, il trucco, le pettinature e la recitazione delle modelle. La collezione successiva, quella per l’autunno-inverno dello stesso anno, fu un vero delirio creativo che travolse e lasciò esterrefatto il pubblico. Il titolo della collezione era “Principessa Pocahontas”. LA NUOVA GENERAZIONE DIOR La “Nuova Generazione Dior” entrò in scena sul palcoscenico della reggia di Versailles. La più magniloquente icona della grandezza francese fece da sfondo alla prima di una serie di sfilate all’insegna della provocazione e dell’avanguardia più estrema. Fu però la collezione di inzio millennio a portare all’estremo questo nuovo metodo di costruzione, ma soprattutto a creare un
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