Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia della moda - XVIII/XXI secolo, Appunti di Costume E Moda

Escursus storia della moda dal XVIII al XXI secolo

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 08/01/2021

roby-piras
roby-piras 🇮🇹

4.6

(24)

20 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Storia della moda - XVIII/XXI secolo e più Appunti in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! Breve storia della moda tra ‘700 e ‘800 Le idee di ricchezza, magnificenza, esclusività dell’abito hanno sempre costituito un dato costante della trasformazione della moda. Dal Medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo. Il modello sociale saldo, che si mostra anche attraverso l’immobilità delle fogge vestimentarie, è stato messo in crisi tra il 13 e il 14 secolo, con l’aumentare della trasformazione e della modernità. Da quel momento l’abito ha cominciato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale di chi lo indossava secondo regole non rigide, ma soggette all’inventiva, ai gusti e alle risorse. La moda fu inizialmente appannaggio delle classi egemoni e serviva a mettere in risalto i segni della ricchezza e del potere (far vedere ed essere visti). Con Luigi 14 lo sperpero esplicitò la propria funzione sociale ed economica: la nobiltà portò alle estreme conseguenze della rovina la propria munificenza, e lo Stato favorì la crescita dei fornitori e finanziatori. Le corti allora non potevano recedere dalla pratica del consumo vistoso. In generale, le crociate contro lo spreco non furono mai dirette all’aristocrazia, ma ai gruppi sociali che potevano permettersi di acquistare beni di lusso, pur non appartenendo a quella ristretta gerarchia. Il potere si organizzò anche così per difendere la propria preminenza istituzionale. La rottura della Riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura: calvinisti e puritani in primis credevano che la ricchezza non potesse essere sperperata, e modestia e moderazione diventarono le nuove qualità da comunicare con l’abito. Le loro società utopiche si opponevano al modello della corte. La borghesia inventò la propria moda, che corrispondeva a uno stile di vita, e a principi e gusti specifici. Il lusso poteva essere considerato anche un modello di consumo, e poteva essere positivamente utilizzato all'interno di un’organizzazione economica. Nel ‘700 cresce il modello di consumo borghese, e compaiono nuovi segni di un’etica dell’apparire sociale: • L’abbigliamento maschile è semplificato, in una sobrietà programmatica, che opponeva all’ozio un impegno produttivo e culturale che modellava il proprio aspetto su quelli della tradizione terriera o degli intellettuali ecclesiastici: anche in questo caso l’abito rispecchiava il ruolo e comunicava delle qualità. • La cultura borghese propose anche un nuovo ideale femminile, lontano da quello delle colte cortigiane settecentesche: il ruolo delle donne era quello di madri e mogli, e i loro abiti si privarono di tutti gli elementi più teatrali, diventando più leggeri e comodi. Nel mondo borghese ottocentesco la storia cambiò: la vita delle donne le faceva dipendere dall’uomo alla quale appartenevano, ed erano loro a dover dare pubblica testimonianza del successo del marito, perciò diventarono oggetto di spese lussuose. La differenza di genere diventò la chiave di lettura del modello vestimentario moderno: la moda maschile si istituzionalizzò, quella femminile mutò nel tempo (nella moda maschile le sole cose che venivano cambiate erano i dettagli). Per tutto l’Ancien Regime, l’invenzione delle mode era stato appannaggio delle corti e dell’aristocrazia. Con l’ingresso della borghesia, sono necessari nuovi luoghi e nuovi modelli (tipicamente borghesi) per gestire questo campo. Durante l’Ancien Regime, c’era una distinzione tra fase di ideazione (appannaggio del cortigiano) e di realizzazione (artigiani). L’unica fase autonoma era quella di fabbricazione dei tessuti; i tessuti erano così costosi da essere il segno più lussuoso degli abiti, ma non si conoscono nomi di sarti fino alla fine del ‘700. La conseguenza nell’800 fu quella di affiancare al compratore un professionista (per l’ideazione di un modello), che gli metteva a disposizione un servizio. Fu questo il periodo delle marchandes de mode, con cui nacque una nuova figura professionale. Con la borghesia ci fu anche possibilità per la creatività e la professionalità femminili, con l’espansione del commercio dei complementi di moda, che divennero poi parte essenziale del mercato del lusso. La trasformazione delle professioni della moda avvenne sul fronte culturale ed economico. Da un lato, l’Enciclopedia colse l’importanza del sistema tessile e dell’abbigliamento nello sviluppo di una società, usando come nuovo metro di giudizio il “gusto”. Dall’altro, ci fu più attenzione sulle professioni della moda, considerate al pari dei rappresentanti delle altre scienze, arti liberali e meccaniche, nel progetto illuministico del dominio dell’uomo sulla natura (una prova della sagacità dello spirito umano – D’Alembert). Le corporazioni e le marchandes de mode Il sistema delle corporazioni francese aveva cominciato a subire trasformazioni già alla fine del ‘600. I sarti infatti, nel 1675, avevano visto riconoscere l’esistenza giuridica della corporazione delle couturieres (diritto di vestire donne e bambini). Nel 1595 era nata la corporazione delle lingeres (diritto di fabbricare e vendere tele di canapa e lino). I veri padroni della moda parigina però erano i merciers. Nei loro magazzini si commerciavano tutti gli oggetti e i manufatti di lusso legati alle diverse mode, e dal 1776 saranno aggregati con i drappieri. Svolgevano la funzione fondamentale di intermediari fra la corte, a cui fornivano le novità desiderate, e la società, a cui offrivano quanto era stato precedentemente scelto dai cortigiani; inoltre, avevano un ruolo importante nei confronti dei fabbricanti, a cui trasmettevano i gusti del pubblico. Da questa corporazione prese forma alla fine del 600 la specializzazione delle Marchandes de Mode: la loro attività comprendeva la vendita di ciò che riguardava “le acconciature e gli ornamenti”, e spesso si occupavano anche di disporle sugli abiti. Rose Bertin ne fu il primo sindaco. Furono importanti perché inventavano le novità. La loro funzione era di creare la garnitures per un sistema fatto di pochissime fogge. Tipi di robes Alla metà del secolo, il modello più diffuso era la “Robe a la française”, composta da una sopravveste, una sottana e una pettorina, rafforzata con un panier. La sopravveste, aperta davanti e allacciata in vita, aveva due gruppi di pieghe dietro che ricadevano per tutta la lunghezza dell’abito. La moda inglese si diffuse in Francia con la “Robe a l’anglaise”, che invece prevedeva un corpetto attillato e una gonna più abbondante sui fianchi e sul dietro, aperta davanti per lasciar vedere la sottana (il panier era sostituito da imbottiture e rigonfiamenti a tournure). La gonna, per ottenere un effetto ancora più vaporoso, poteva essere sollevata fino a creare un effetto a festoni rigonfi (moda “a la polonaise”), con tessuti di seta leggera. L’ultima esclusiva dell’èlite dell’Ancien Regime fu il GRAND HABIT, l'abito di corte con lo strascico, irrigidito da corsetti steccati e paniers monumentali, e arricchito con sontuose decorazioni. Nel corso del Settecento le stoffe passarono dai pesanti tessuti operativi alle leggere sete in tinta unita, su cui le marchandes potevano aggiungere decorazioni. All’estremo opposto si trovava il “casaquin”, una versione accorciata dell’abito francese con pieghe sul dorso, da indossare come corpetto con una gonna, per un uso più privato e casalingo. Sarte e marchandes si dividevano la realizzazione di questi indumenti, intervenendo su parti diverse dello stesso capo. Il lavoro della sarta riguardava la perfetta costituzione degli elementi base del vestito, quello della modista serviva a ottenere più variazioni partendo da quella struttura. Gradualmente, prese il sopravvento la logica della semplificazione e della ricerca della comodità, favorita in particolare dalla struttura dell’abito all’inglese. La rielaborazione di questa linea fu la “redingote”, che introduceva alcuni elementi maschili e dava maggiori possibilità di movimento. L’abbigliamento delle classi lavoratrici, invece, prevedeva un corpetto (caraco) e una gonna. La differenza stava soprattutto nel tessuto, più leggero e più adatto al movimento e a stili di vita di città. Le nuove mode che sorsero in quegli anni prendevano spunto dalle opere teatrali di successo, dagli esotismi e dagli eventi politici. Maria Antonietta e Rose Bertin La vera rottura con il sistema vestimentario del passato avvenne negli anni ’80 del ‘700. Nel 1783 fu esposto al Salon un ritratto di Maria Antonietta di Lebrun, in cui la regina indossava un abito bianco di mussola semplicissimo (derivato probabilmente dalla “robe a la creole" e dalle mode delle ragazze giovani, che avevano prolungato l’uso degli abiti infantili). Il nuovo vestito era una semplice camicia diritta con le maniche lunghe e una fascia in vita. L’ampiezza era trattenuta alla scollatura da una coulisse, ricoperta da un colletto, e lungo le maniche da arricciature che formavano sbuffi di tessuto. La qualità stava soprattutto nel tessuto (mussolina di cotone sanculotto e giacobino. Sia la jeunesse dorèe sia i giacobini però erano marginali rispetto alla società che si stava formando. L’abbigliamento maschile aveva due scelte: o la divisa militare o quella da lavoro; la grande rinuncia maschile alla moda era avvenuta. Dopo la caduta di Robespierre, le donne ricominciarono ad usare abiti diritti di mussolina bianca che ricordavano la chemise a la Reine o le tuniche classiche (revival di arti/archeologia/ teatro/musei). Quello della “semplice bellezza" di Winckelmann fu il primo grande revival della borghesia occidentale. Questo tipo di abbigliamento era stato già proposto agli inizi degli anni ’80, ma aveva limitato la sua circolazione alle cerchie intellettuali. Durante il Terrore, la mancanza di riviste di moda non permise di seguire il fenomeno. L’Illuminismo aveva lasciato una nuova concezione del corpo e dell’igiene, e della vita attiva in spazi pubblici. L’abito femminile si adeguò: eliminate le sottostrutture, si ridusse a una camicia di cotone leggero a vita alta, con una cintura che arricciava il tessuto all’interno (che poi divenne una costruzione sartoriale vera e propria). Ai piedi le signore avevano dei sandali e poi scarpine chiamate “coturni”, con i lacci alle caviglie. Portavano una sacca, il “reticule" (“ridicule" per le sue dimensioni minuscole). Non c’erano distinzioni tra abito formale e informale, e la moda era caratterizzata dalla semplicità e dalla trasparenza del modello, cose che mettevano in risalto il corpo. Tanta uniformità non corrispondeva a un principio di uguaglianza. L’apparente semplicità inoltre nascondeva una vera struttura sartoriale: la schiena era sagomata in modo da essere molto stretta, la gonna era arricchita da fitte pieghe sciolte che davano ampiezza al dietro, all’interno c’era una specie di corpetto che sosteneva il seno e non faceva spostare l’abito. La mise era poi completata da una stola. Si usavano tessuti preziosi (come il cachemire, portato da Napoleone dall’Egitto), o tessuti indiani o tibetani operati col motivo “a palmette”. Anche i gioielli tornarono in auge, con forme ispirate all’antichità. Tanta ostentazione corrispondeva alla cultura del nuovo gruppo salito al potere, un’elite nata dalla Rivoluzione, ricca e desiderosa di godere dei privilegi appena raggiunti. Ritornano quindi i contrasti violenti tra le classi sociali. Il lusso ritrova il suo meccanismo e una parte della sua “irragionevolezza", ma è praticato da un mondo diverso. La nuova costituzione del 1795 non era più basata infatti sull’uguaglianza, ma sul censo. Nel 1797 avevano ricominciato ad uscire le riviste di moda, come “Le Journal des Dames et des Modes". Si occupò di temi psicologici, linguistici, storici, biografici, di recensioni e di emancipazione femminile; parlò pochissimo di politica e questo gli permise di sopravvivere. Si occupò soprattutto di moda: a ogni numero erano allegati figurini con un commento. Fino al 1800 la rivista non ospitò vere e proprie forme di pubblicità. L'importanza del giornale nella stampa di moda fu merito di Pierre de la Mesangere, che sapeva cogliere le novità in materia di eleganza e buone maniere. Alla fine del secolo Parigi era di nuovo il fulcro della moda, ma la società del Direttorio era fragile. La moda imperiale Il Direttorio terminò nel 1799 quando Napoleone prese il potere con un colpo di Stato. Era il capo che la nazione cercava, ebbe l’appoggio del popolo, ma soprattutto della borghesia arricchita e di gran parte della vecchia nobiltà. Si trattava di due società diverse che Napoleone cercò di amalgamare attraverso moda e mondanità. Il suo progetto era quello di assecondare i desideri dei borghesi con un genere di vita concepito in modo tale da attrarre anche i nobili. Il compito di gestire questo processo culturale fu affidato a Josephine Beauharnais, la moglie, che cominciò a organizzare alle Tuileries feste e ricevimenti in un nuovo protocollo mondano. Anche il modo di vestire fu rivisto: il modello a vita alta rimase, ma non fu lo stesso per le trasparenze in eccesso. La veste lunga si cominciò a portare semicoperta da una tunica più corta ed era completata, per il giorno, dallo spencer, una giacca corta a maniche lunghe, e dallo scialle cachemire. Inoltre Josephine adottò la sopravveste a strascico, destinata a diventare manto di corte. Dopo la pace di Amiens, l’abito da cerimonia divenne obbligatorio e gli uomini indossarono di nuovo l’abito à la française con le coulotte corte. La vita mondana riprese lentamente, con la reintroduzione del ballo dell’Opera e le feste di carnevale. Napoleone riprese l’idea di corte di Luigi 14, ripristinò la logica del fasto e impose un consumo sfrenato. L’imperatrice e le principesse ebbero appannaggi sontuosi per il guardaroba. Parigi doveva essere di nuovo un modello di gusto per l’Europa. L’industria tessile doveva riprendersi dal crollo con il nuovo sviluppo di moda e arredamento; la moda aveva modificato le abitudini di consumo, dalla seta al panno per gli uomini e al cotone e alla mussolina per le donne. Napoleone reintroduce l’abito di corte di seta e tappezza nel nuovo stile Impero i suoi palazzi. Anche la moda degli scialli cachemire offrì una possibilità di ripresa per l’industria tessile, con l’introduzione di “palme di gusto francese" in una produzione più originale. Il disegno politico interessò anche il ricamo e il merletto, con i simboli della nuova iconografia imperiale ricamati e lavorati; gli indumenti femminili si arricchirono di lavorazioni a plumetis, di bordi, e decorazioni a fiori, ghirlande in bianco o con paillettes. Lo stile Impero stabilì anche le regole della moda imperiale, che rimase uguale fino al 1815. Il revival neoclassico continuava ad essere il motivo di base, a cui vennero aggiunte maniche lunghe più caste, e sopra al quale potevano essere indossati altri indumenti. Le nuove mode, più effimere, giravano intorno alle campagne militari di Napoleone, come quella in Egitto, in Prussia, in Polonia, Russia e in Italia (gioielli). Napoleone scelse come emblema l’aquila, quella dell’Impero romano e di Carlo Magno, e diede sempre molta importanza ai riti simbolici, come la sua incoronazione (con scenografia di David). All’incoronazione indossava una tunica di raso bianco ricamata in oro e bordata con una frangia, e un mantello di corte di velluto porpora foderato di ermellino, ricamato con motivi con “N", api, foglie di olivo, alloro e quercia. Portava un paio di scarpe ricamate in oro, con un disegno che imitava i lacci dei sandali romani; un diadema a foglie di alloro, lo scettro, la mano della giustizia e la spada. Josephine aveva un vestito a vita alta di raso bianco broccato d’argento, ricamato in oro e con una frangia. Alcuni particolari arricchivano la linea neoclassica, come il rigonfiamento delle maniche decorato con ricami in oro e diamanti, la cherusque sulle spalle, e il manto di velluto propora, foderato di ermellino e ricamato in oro. L’abbigliamento delle dame di corte era modellato su quello dell’imperatrice, mentre quello maschile prevedeva una giacca al ginocchio e un mantello corto ricamati, coulotte e gilet, cravatta di merletto e cappello piumato. In questo modo, con un modello simbolico e atemporale, Napoleone separò l’abbigliamento di corte dalla moda. L’abito da cerimonia diventò un uniforme che testimoniava la tradizione del potere più che la sua vitalità. Nonostante questa separazione, tutta la moda imperiale fu un affare di corte, inventata e diffusa soprattutto dalla famiglia dell’imperatore, e poi diffusa in tutta Europa grazie alla stampa e dalla politica. Il sistema di produzione si mostrò adeguato alle nuove esigenze; il più famoso couturier fu Louis-Hippolyte Leroy, che lavorò sempre per i livelli più alti della società. Divenne il solo fornitore dell’imperatrice e il punto di riferimento di tutte le dame europee; la sua attività, in Rue de Richelieu, rispondeva a tutte le possibili richieste. Egli non era un progettista, ma un perfetto esecutore dei disegni che utilizzava anche competenze esterne al proprio atelier. Una sua specializzazione erano gli scialli cachemire. L’Affermazione della Moda Borghese La restaurazione non significò un ritorno all’ Ancien Régime, ma l’ affermazione di nuove regole sociali ed economiche alla cui riuscita era necessario il pacificato apporto dell’aristocrazia. L’ età economica iniziava sotto la bandiera dell’uguaglianza dei cittadini sancita dalla legge. Questo principio non eliminava le differenze, sostituiva quelle antiche con altre più moderne e borghesi legate al denaro che diventò la misura del talento, dell’intelligenza e del successo. Era finita l’ epoca del lusso e iniziava un mondo borghese fondato sul controllo e sul risparmio; i veri lussi della borghesia erano l’ acqua corrente, il gas e l’ elettricità, ma tutto ciò non era considerato un vero e proprio lusso: rapidamente quello che apparteneva alla sfera del comfort diventava semplicemente utile, abitudine e quindi cultura del benessere intesa come necessità generale ed egualitaria. Una logica analoga accompagnava la teoria dell’eleganza della quale Balzac ne parlò in termini di “superiorità morale “. Si trattava di una teoria adatta all’ uomo che non fa nulla e che dedicava la propria intelligenza alla realizzazione estetica della vita elegante, ma anche un insieme di principi che riguardava l’ intera borghesia ottocentesca. Il problema di fondo rimaneva però la modalità per acquisire questa superiorità. Abitudine, apprendimento, educazione, ma anche istinto, gusto innato e intelligenza: erano queste le qualità che facevano la differenza fra un individuo e l’ altro, che però non erano facilmente raggiungibili alla borghesia; il rischio era che la nuova elite imitasse i nobili dell’Ancien Régime, circondandosi di oggetti che corrispondevano a un modello di vita che non le apparteneva. L’ obiettivo da raggiungere era “ un vero lusso da veri ricchi “, anche perché la nuova società non amava gli eccessi e gli sprechi ma la semplicità e la sobrietà che mostravano innanzitutto a partire dall’abbigliamento. In questo campo la borghesia della prima metà dell’ottocento mostrò di avere idee precise: uomo e donna si vestivano per comunicare il proprio ruolo/status. L’ uomo adottò la divisa di Lord Brummel che, in base al principio egualitario, non doveva ostentare nessuna differenza gerarchica o lusso; l’ unica distinzione stava nei particolari: il nodo alla cravatta, la lucentezza delle scarpe ecce cc. Anche l’ abito femminile assumeva una caratteristica simbolica precisa: comunicare la virtù della donna che lo indossava. La donna assunse una forma a campana con l’ aiuto di sottovesti inamidate, il punto vita rimase alto fino agli anni venti per poi riacquistare una posizione normale, ma la forma e la postura rimasero le stesse grazie all’ aiuto di un busto steccato e la scollatura fu limitata agli abiti da sera; la vera novità furono le maniche che cominciarono ad arricchirsi e a gonfiarsi. Stava avvenendo un processo di occultamento del corpo femminile che giunse al culmine negli anni trenta, quando la toilette fece assumere al corpo la forma di tre triangoli ( testa, torace e gonna capovolto rispetto agli altri due ). Nella prima metà del secolo, il movimento romantico diffuse nella cultura borghese europea una moda storicista che si manifestò attraverso la letteratura, l’opera lirica, il teatro le arti figurative, l’architettura, la miniatura etcc. Dal Medioevo al tardo Rinascimento, tutto era diventato un enorme bacino di storie e fonti di ispirazione per la creatività moderna e, ovviamente, anche l’abito femminile percorse lo stesso cammino.
 A volte, la ripresa fu diretta, a volte indiretta ed ispirata a vicende letterarie. Anche la serie di riferimenti, più o meno fedeli alla storia medioevale, rientravano in un generale gusto neogotico o trobubadour.
 Le ragioni di questa moda erano molteplici: era il desiderio di possedere il lusso di cui si era stati per tanto tempo privati, era la fierezza del vincitore che si decorava delle spoglie del nemico battuto, era una maniera per smitizzare il valore simbolico dei preziosi originali , era un modo per costruirsi un passato.
 Il revival ed il kitsch, che caratterizzavano la maggior parte dei manufatti di questo periodo, costituivano una vera e propria negazione dell’eleganza teorizzata da Lord Brummel e Balzac, ma diventarono una parte importante della cultura medio borghese. Il cattivo gusto, infatti, non era altro che uno dei tanti effetti della democrazia: la società borghese non era composta da una piccola élite che si autoriproduceva, al contrario, era un gruppo sociale allargato e composito, che ebbe il suo simbolo nella folla . L’arricchimento rapido e tumultuoso , prodotto dal sistema di produzione capitalistico, stava creando una situazione di benessere improvvisa, che non aveva dato il tempo alla media borghesia di educarsi al buon gusto di cui era depositaria l’aristocrazia. In realtà, la moda rimase a lungo esente dalle esagerazioni più vistose e limitò lo spazio della copia fedele alle numerose feste in costume, private o pubbliche che avevano tanto successo nella buona società borghese. Le sarte parigine, continuavano ad essere l’unico riferimento per la moda internazionale. Questo controllo estetico , riguardava però le prime fasi della produzione delle novità; in realtà la diffusioni agli altri strati sociali, al mercato indifferenziato rappresentato dalla folla, richiedeva strumenti e mezzi moderni ed adeguati, che furono messi a punto da nuovi professionisti. Il commercio degli articoli di moda, si era fortemente sviluppato nel periodo napoleonico: alle marchandes de modes, si erano sostituiti i più impersonali magasins de nouveautés, un termine che comprendeva tutti i settori e gli articoli riferiti all’abbigliamento ed ai suoi accessori. Questo magasins, adottarono l’abitudine di esporre la merce in modo che fosse visibile anche dall’esterno, per attrarre la clientela. Spesso collocati nei passages, si aprivano sulla strada con una porta centrale e due vetrine laterali in cui venivano disposti ad arte tessuti, cappelli ed indumenti su sostegni e manichini. Volantini e piccoli manifesti furono il primo veicolo pubblicitario diretto, senza che questo sostituisse la funzione delle riviste di moda. Dagli anni “40” la loro organizzazione divenne più razionale e moderna. Nello stesso periodo, subì una trasformazione fondamentale anche il rapporto con la clientela. Era l’inizio di un nuovo rapporto fra l’acquirente e la merce, che cominciava ad essere totalmente esposta, con un prezzo certo e non più contrattabile, visibile anche da chi non era immediatamente intenzionato all’acquisto, e perfino sostituibile. Ciascuno era libero di aggirarsi fra i banchi di vendita per vedere quanto era esposto e decidere l’acquisto anche in base a quello che gli si offriva. Ma il dato fondamentale, era quello dei prezzi, non era più un mercato di lusso con prezzi esagerati dalla varietà dei beni, ma l’esatto contrario. La produzione industriale, aveva costi nettamente più bassi di quelli artigianali. Lo sviluppo dei Magasins de nouveautés prima e dei grandi magazzini poi, ebbe nell’industria tessile la grande alleata: perché il commercio potesse espandersi, c’era bisogno di quantitativi di merce adeguati ad una richiesta allargata e di medio livello. La vera grande novità di questa fase della società borghese, fu la confezione. La borghesia era estremamente stratificata ed i ceti medi e piccoli avevano altri problemi: da un lato erano abiti di crinolina ed anche le signore dell’alta società, cominciarono ad essere attratte dall’idea di acquistare abiti già fatti. All’esposizione universale di Londra del 1851, la Maison Gagedin, fu la sola ditta a presentare una produzione di capi pronti e, a quella di Parigi del 1855, la Maison vinse la medaglia nella sezione confezione di articoli di abbigliamento; il merito è da attribuire all’opera di Worth che, dal 1853 era entrato in società con Opigez- Gagedin ed a Walles. Il sodalizio durò fino al primo luglio 1858, quando si sciolse ma, nell’aprile dello stesso anno, Worth e Bobergh, crearono una nuova società che offriva servizi diversi: vendeva stoffe, ma soprattutto proponeva abiti progettati da Worth anche con varianti di colore e tessuti, che venivano confezionati su misura; fu questa la nascita dell’haute couture. Il mondo che cominciò a rivolgersi a Worth, era quello del secondo impero, che ruotava intorno alla nuova corte ed ai gusti dell’imperatrice Eugenia. Questa società, cercava di dare al proprio denaro un’immagine che fosse capace di rendere visibili i propri trionfi, ma anche l’adozione di un modello politico-sociale conservatore. Il colpo di stato del 1851, aveva trasformato un socialista in imperatore e questo aveva portato al potere un’intera classe dirigente che guidava una borghesia affamata di ricchezza e lusso, ma aveva necessità di mascherare attraverso un aspetto rassicurante, la propria ambizione: da un lato, vennero riesumate le regole delle vecchie etichette di corte, e dall’altro ci si affrettò a fregiarsi di insegne di nobiltà pagate con il denaro. L’imperatrice aveva il mito dell’ancien régime e di MariaAntonietta, al quale si adeguò anche la moda, che segnalò il lusso e la ricchezza attraverso i metraggi di tessuto. Worth, si inserì in questa moda, proponendo vestiti più semplici; la sua esperienza e la conoscenza della sartoria inglese, divennero le basi per abiti in cui tessuto e forma erano strettamente correlati ed in cui il taglio si incaricava di costruire una struttura perfetta, su cui poteva essere applicato ogni tipo di decorazione. La sua fama iniziale, derivò anche da un modello da sera dall’aspetto lieve e romantico, in cui il tessuto della gonna era coperto di tulle e risultava ancora più lussuoso grazie al raddoppio del tessuto, ma che contemporanemente, suggeriva quell’idea di frivolezza, caratteristica della pittura del “700”. Il successo in una ristretta cerchia di clienti non era sufficiente perché il nome di Worth diventasse sinonimo di moda: per raggiungere questo risultato, era necessario conquistare l’imperatrice ed inserirsi in quell’élite di fornitori che potevano realizzare modelli costosissimi ed utilizzare l’immagine della corte per accreditarsi nei confronti del pubblico borghese. L’obiettivo fu raggiunto nel 1860, quando la moglie di Worth fu mandata a sottoporre i figurini di un album di modelli alla Principessa Von Metternich, che ordinò un completo da giorno ed uno da sera con il quale si presentò a corte; l’interesse suscitato nell’Imperatrice, aprì al couturier, la porta dell’alta società e segnò il suo definitivo successo. Raggiunta la fama, Worth presentò un nuovo coprispalle in merletto, di dimensioni ridotte ed un cappello che lasciava vedere l’acconciatura, eliminando il bavolet. Il 1864 fu l’anno dell’affermazione: Worth divenne fornitore ufficiale degli abiti da sera di rappresentanza dell’Imperatrice. A questo punto, poteva permettersi di uscire con proposte davvero innovative: La prima fu creata per Eugenia, gande amante delle passeggiate, per la quale Worth creò un abito il cui orlo si fermava alle caviglie: l’abito era costituito da una sottoveste corta e da una sopravveste drappeggiata; la seconda proposta, ebbe un peso ancora più grande nello sviluppo della moda: Worth, infatti, intervenne sulla forma della crinolina, riducendola sul davanti e spostando l’ampiezza sul dietro che, così, assunse la forma di un piccolo strascico; la diminuzione fu compensata con l’adozione di un elemento decorativo: una sopragonna lunga fino al ginocchio, chiamata tunica. Nel 1869, la mezza crinolina si ridusse ulteriormente, trasformandosi in un sellino: la tournure, che sosteneva solo la parte alta del dietro della gonna, creando un effetto di ricaduta verso il basso. La proposta di Worth divenne vincente negli anni “70”, quando il panorama politico francese mutò. La vecchia classe dirigente venne spazzata via dalla guerra prussiana e Parigi fu sottoposta ad un duro assedio ed all’esperienza della Comune; in questa situazione, anche se per un breve periodo, Worth chiuse la Maison. La borghesia che uscì da questa esperienza, chiedeva di trovare nuove forme di lusso per esibire il denaro ed altri revival per collegare il potere raggiunto alle immagini dell’antica aristocrazia: il passato diventò sempre più di moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore di decorazioni e drappeggi, rappresentò il passaggio fra il secondo impero e la terza repubblica. L’eccesso di tessuto, trovò una giustificazione patriottica: venne considerato indispensabile per l’economia della nuova Francia borghese.
 Di conseguenza, il couturier ridusse il busto con un effetto di vita alta (Josephine), a favore della gonna e delle sue decorazioni; nello stesso periodo, propose anche il modello PRINCESS realizzato in un solo pezzo, che, però, in quel periodo ebbe successo solo nell’ambito degli abiti da casa. Dalla struttura della Princess, derivò una nuova moda che si impose intorno al 1874: quella della corazza, un busto-corpetto, steccato e modellato, che arrivava ai fianchi e si allungava sia davanti che dietro; la sua comparsa, modificò la sopragonna, che venne aperta al centro, in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico. Dalla forma rigonfia ed opulenta, si passava ad una struttura longilinea dall’aspetto corazzato. La figura femminile, perdeva il tratto fragile e bamboleggiante e la forma del corpo veniva ostentata nella semplicità delle sue forme naturali, anche se questo non significava un’allusione alla nudità, ma, al contrario, la donna veniva corazzata turbando l’immaginario maschile che, in questo periodo, si mostrava sensibile al problema del rapporto fra i sessi: Worth si inseriva in un dibattito culturale che coinvolgeva scrittori, artisti ed intellettuali e vedeva emergere la figura della “femme fatale”. Anche in questo caso, Worth si mostrò perfetto nell’interpretare gli stimoli che si muovevano nella cultura borghese e nel tradurli in abiti che ogni signora avrebbe voluto, potuto, indossare; i suoi abiti, infatti, rispondevano alla necessità di ostentazione ed erano: ricchi, vistosi, unici (in una società in cui tutto poteva essere riprodotto, questo era un elemento di qualificazione e distinzione), erano segreti (le riproduzioni degli abiti di Worth, fino alla fine degli anni “70” sulle riviste, erano inesistenti), ed infine, erano sempre più ispirati a modelli storici. Negli anni “80”, Worth concentrò la propria creatività sul gusto “storicista”, che veniva adeguato allo stile di vita contemporaneo; mentre infatti le fogge rimanevano di norma all’interno delle mode consolidate, i tessuti, i particolari e le decorazioni, si arricchivano di richiami al passato: dal 500 e dal 600, furono ripresi
 i colletti a lattuga e le ampie maniche; mentre il 700 rappresentò una fonte di ispirazione inesauribile con i nastri da collo, le marsine, trasformate in giacche femminili, etcc. etcc. Gli inizi degli anni 90 segnarono una serie di cambiamenti nella Maison Worth: Jean Philippe, figlio maggiore del couturier, assunse la maggior parte dei compiti creativi e contemporanemente, si assistette
 a nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni; comparvero infatti, le prime concessioni al giapponesismo, che stava influenzando da tempo, tutta la cultura artistica d’avanguardia. La figura femminile, assunse l’andamento verticale dei modelli domestici: la gonna fu alleggerita da tutti gli elementi di decoro che la tagliavano orizzontalmente e prese una forma a campana; si trattava di una soluzione moderna e più funzionale della precedente, ma il pubblico femminile non era ancora preparato a tanto rigore, per cui, la stampa si affrettò ad attribuire all’innovazione, un significato storico. Pur conservando il busto steccato ed i riferimenti storici, l’abito si alleggerì e si semplificò. La gonna a campana con lo strascico, venne accompagnata da corpetti aderenti, e sempre più spesso, comparvero gli abiti Princess; l’introduzione di una semplificazione strutturale, non impedì la proposta di nuovi revival, come la giacca Louis Quatorze, che venne utilizzata nei tailleurs da passeggio.
 Dal 1870 al 1871, Worth diresse da solo la sua maison. Già nella seconda metà degli anni 60, aveva coinvolto i figli nell’azienda: Jean Philippe ricoprì i compiti creativi e Gaston Lucien quelli amministrativi; C.F.continuò ad esercitare un controllo diretto sulla produzione fino ai primi anni 90 ed assicurò una presenza rassicurante anche nel periodo successivo. Per arrivare a questo risultato, Worth aveva operato con impegno, consapevolezza e sapienza, non solo realizzando abiti perfetti, ma anche costruendo il personaggio del couturier che scelse di comunicare utilizzando i segni che caratterizzavano altri professionisti dell’estetica e del gusto: gli artisti. Seguendo questo modello di riferimento, trasformò il proprio aspetto professionale: Isabella Stewart Gardner, raccontò di essere stata ricevuta da Worth avvolto
 In una vestaglia indossata sopra ad un camicione ed un paio di pantaloni sformati; il “travestimento” era finalizzato a rafforzare l’idea dell’originalità del prodotto e di proprietà intellettuale del creatore.
 Con l’affermarsi di questa figura professionale, esclusivo era solo l’abito cucito all’interno della maison e corredato con l’etichetta corrispondente, e l’autenticità era la parte più importante del valore dell’oggetto.Worth scelse di non esporre le proprie creazioni sulle riviste di moda per introdurre la novità di un diverso statuto professionale del sarto: i couturiers rivendicava un ruolo da lavoratore intellettuale ed artistico, che aggiungeva alla sapienza del mestiere, la propria creatività.
 Il successo della maison, non dipese tanto dal fatto di essere fornitrice ufficiale di alcune case regnanti, ma dal vestire quelle nobildonne molto in vista, cui nei diversi paesi era riconosciuto il ruolo di leader nella moda e nell’eleganza. In ugual misura fu curato il mondo dello spettacolo e della mondanità: attrici, cantanti e cortigiane di successo, furono il tramite indispensabile con il grande pubblico, attraverso il loro apparire in occasioni di visibilità, o nelle cronache di giornali e riviste.
 Fu probabilmente per raggiungere quell’immaginario, che Worth cominciò a presentare i propri modelli sulle pagine di “L’art de la mode”, la prima testata che sceglieva di rivolgersi ad un élite pubblicando, oltre alle notizie di moda, i resoconti di eventi mondani più rilevanti. Seguendo la stessa logica, furono amministrate anche le apparizioni su “L’illustration” e sul periodico inglese “the woman’s world” diretto da O.WILD; l’obiettivo non era quello di propagandare i propri modelli, ma di accrescere la sua fama. Questa forma di garanzia, gli era indispensabile anche per conservare ed accrescere la clientela, soprattutto quella americana proveniente da New York e Boston. A partire da questo nucleo eletto, la moda di Worth arrivò ad un pubblico più vasto attraverso i sistemi di comunicazione e diffusione messi a punto per l’occasione.
 Dal 1863, il nome di Worth, cominciò ad essere citato da Harper’s Weekly, ma fu alla fine degli anni 80 che Harper’s Bazar e the Queen assunsero il ruolo che, nel decennio precedente, era stato affidato a “L’art de la mode”: vennero usati dalla maison per pubblicizzare i propri modelli. Antimode e Abiti d’artista L’opulento stile di vita Borghese ottocentesco ha avuto numerose critiche e oppositori, tra cui artisti che tentano di porre fine a questo ideale di vanitas con modelli culturali alternativi. Le reazioni furono anche da parte delle femministe, come Mrs. Bloomer che decise di adottare un abbigliamento più pratico con corti gonnellini e pantaloni alla turca, in maniera provocante e clamorosa: era un abbigliamento che doveva permettere alle donne di muoversi senza problemi, ma che comunque non si discostava dalle norme di pudore della metà del secolo. LO͛ccidente però non poteva accettare che una donna indossasse i pantaloni, simbolo della mascolinità, e Bloomer dovette tornare alla͛bbigliamento tradizionale. Li͛dea fu ripresa nel 1881 dalla viscontessa Haberton, che fondò “The Rational Dress Society”͟. La͛spetto più rilevante dei due movimenti era quello che legava la forma dell'abbigliamento femminile al processo di emancipazione della donna. Il risultato fu una sorta di alleanza tra la medicina ufficiale, che temeva malformazioni e sterilità, e i movimenti femministi. Il filone più fecondo fu quello di matrice estetica. Brown aveva realizzato modelli medievali e Rossetti indumenti morbidi; le donne della confraternita preraffaelita venivano ritratte con capelli sciolti, con abiti che non richiedevano né busto né crinolina, in composizioni simboliche. Il gruppo proponeva un ritorno al lavoro manuale, recuperava la raffinatezza delle lavorazioni artigianali, e un ideale di gusto che ritornava a un Medioevo fantastico e mitico, in un contesto in cui fratellanza, forza ideale e coesione sociale erano alla base. Il modo di vestire delle donne doveva essere parte di questa nuova bellezza complessiva. Morris nel suo quadro “La belle Iseult”, del 1858, dipinse la donna con i tratti della futura moglie e con una semplicissima veste medievale, in un interno in cui ce͛rano tutti quegli oggetti estetici tipici del movimento. Con la scoperta della cultura giapponese, Whistler cominciò a vestire le sue clienti con kimono e vestiti di sua invenzione. L’abito estetico uscì dalla cerchia artistica che lo aveva prodotto e divenne un segno di riconoscimento delle signore. Si formarono gruppi di artisti che seguivano questa utopia, per cui il vestito estetico o “riformato”divenne una sorta di simbolo. Era un modello di bellezza che rivoluzionasse prima di tutto la vita quotidiana, modificando la forma degli oggetti in chiave estetica e abituando a un gusto più colto e raffinato. La rivoluzione del sistema delle arti applicate infatti aveva anche lo scopo di intervenire sulla produzione industriale che si stava spersonalizzando. L’idea si diffuse presto nei paesi di area tedesca e portò alla nascita dei movimenti secessionisti. Deneken organizzò in Germania nel 1900 una mostra dedicata alla͛bbigliamento d’artista nel Kaiser Wilhelm Museum di Krefeld, città sede di un’importante industria tessile. Era la prima volta che degli abiti venivano esposti in un museo e che erano considerati alla stregua delle opere d’arte. L’iniziativa ebbe grande successo e rappresentò l’inizio di un sodalizio tra artisti e cultura vestimentaria. Più rivoluzionari furono i risultati di Klimt a Vienna, che disegnò per sé e la compagna modelli ispirati alle tradizioni orientali, semplici nella linea e raffinati nei tessuti e negli schemi decorativi, vicini ai suoi quadri. A Vienna il luogo dedicato alla ricerca fu la Wiener Werkstatte, la scuola di arti applicate fondata nel 1903 da Hoffmann e Moser, che dal 1911 ebbe un laboratorio stabile dedicato alla moda. I modelli però rimasero spesso solo al livello di disegno. I pittori fecero del mondo classico lo scenario e il soggetto principale dei propri quadri. L’idea di un ritorno l’abito delle origini si andava diffondendo. Il vero interprete moderno fu Mariano Fortuny, che reinventò il modello del chitone greco e lo tradusse nella nuova tunica “Delphos” insieme alla sciarpa “Cnossos” un omaggio alla riscoperta della civiltà minoica. La sua ricerca si estese ai sistemi di taglio degli indumenti orientali e etnici e alla creazione di tessuti adatti a una loro traduzione in termini estetici. Si trattava ormai di vestiti che venivano indossati per decenni, riteneva che il gusto per le raffinatezze del 7͚00 avesse soppresso ogni vitalità e portato le donne alla decadenza. Il modello chiave prese il nome di J͞osephine:͟ dichiarava li͛spirazione Impero, ma la sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa sotto al seno gli toglievano ogni rigore. Insieme ad esso, Poiret propose capi ispirati alle͛sotismo, come la tunica C͞airo,͟ il modello E͞ugenie,͟ il mantello ͞Ispahan.͟ Per pubblicizzare i suoi lavori, non poteva ricorrere alla normale stampa di moda, e decise di agire trovando un artista adatto alle sue necessità, come Jean Villemot e Paul Iribe. Nel 1908 un album di Iribe di 10 tavole a colori, in cui era usato un linguaggio grafico mai visto prima con punti di contatto con la bidimensionalità giapponese. I disegni rappresentavano figure femminili collocate in ambienti sommariamente definiti in cui si trovavano mobili, quadri e oggetti che richiamavano il periodo Impero. Il colore era riservato solo alle figure femminili. Queste erano diverse: alte, sottili, senza forme evidenti, con i capelli corti avvolti da un nastro e colorato come la͛bito. Poiret incaricò Iribe di progettare il marchio a forma di rosa, simbolo della Maison, per costruire una sua immagine. Realizzò una specie di comunicazione integrata della͛zienda, e trasferì poi la maison nel 1909 in un h͞otel particulier ͟ del 18 secolo con un grande parco intorno. Li͛nterno fu arredato in modo da diventare la cornice perfetta per i modelli, accostando elementi in stile Direttorio a elementi orientali in una cornice colorata. Anche il parco intorno diventò una specie di secondo marchio. Con la stagione dei Ballets Russes a Parigi, la città diventò il centro delle ricerche nel campo della danza e della musica. La͛vanguardia aveva un fascino irresistibile, proponeva luoghi esotici da favola, costumi e scene elaboratissimi e colorati. Tutti notarono una somiglianza tra i costumi dei balletti e gli abiti di Poiret, ma egli si difese dalle accuse di aver copiato. Il punto di passaggio fu la ͞jupe entravèe,͟ una gonna lunga e diritta serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia, che impediva il passo e costringeva quasi a pattinare o a piccoli movimenti. Sembrò la negazione di tutto ciò che era stato fatto prima del 1910, ma probabilmente si trattava solo di un esperimento. La donna che Poiret aveva in mente non era una suffragetta o uni͛ntellettuale indipendente: era comunque una signora del b͞el mondo ͟che non doveva avere rapporti concreti con la vita reale. Egli la liberò nel corpo, ma non nel ruolo. Era una femme fatale circondata da un erotismo misterioso, oggetto di desiderio e di lusso, tradotta in uni͛conografia favolosa e naturalistica dallA͛rt nouveau. Poiret presentò la prima jupe-culotte: pantaloni per le donne. La sua proposta non voleva essere rivoluzionaria, erano pantaloni da harem da portare come abito da casa, sotto una tunica al polpaccio. Davano li͛mmagine di una donna colta, raffinata, elegante, erotica e nata per il piacere maschile, a contatto con lO͛riente favoloso e romantico. Col secondo album venne confermata questa impressione, aggiungendo colori orientali ed elementi decorativi preziosi che suggerivano uni͛dea di femminilità molto presente. Lo stile di vita a cui Poiret alludeva non aveva niente a che fare con i modelli borghesi. Il nuovo album fu affidato a Lepape e pubblicato nel 1911. Lepape aveva uno stile diverso da Iribe, molto più sensibile al colore e alla͛mbientazione giapponese, e interpretò perfettamente lo stile di vita proposto. Li͛dea che più colpì la fantasia del tempo fu una serata in costume, L͞a Festa della Milleduesima Notte,͟ il 24 giugno 1911 nel giardino della Maison. Tutti furono chiamati a partecipare come protagonisti, secondo un copione di Poiret stesso. La casa era coperta con pesanti tendaggi, alle͛ntrata ce͛rano anziani che controllavano i costumi ponendo soluzioni se non in tema, ce͛ra un cortile cosparso di sabbia con fontane, poi une͛norme gabbia dorata in cui si trovava sua moglie circondata da dame di compagnia che cantavano canzoni persiane, e poi acquari, volatili, specchi, abiti. In una͛ltra stanza ce͛ra una montagna di cuscini multicolore in cui si trovava la͛ttore de Max, che raccontava le storie delle Mille e una notte. Nel giardino ce͛rano tappeti che ricoprivano la scalinata, e un grande silenzio. Le luci nascoste illuminavano le piante in modo insolito, e ce͛rano scimmie e animali vivi. Lui stava in fondo, simile a un sultano con le sue concubine. Altrettanto spettacolare era il buffet, e tutto finì con una danza e con scintille e une͛splosione di fuoco. Questo evento aveva dato la migliore rappresentazione del suo mondo creativo e della sua tendenza alla teatralità. Ma Poiret avrebbe voluto essere davvero il sultano del sogno e non poteva riconoscere la͛spetto commerciale di questo evento. Non voleva presentarsi come un sarto o imprenditore, ma come un artista e un uomo di mondo, che amava circondarsi della stessa bellezza che metteva nei suoi abiti. Mescolò infatti il proprio lavoro a quello di artisti, collezionò opere d͛arte, aiutò giovani talenti. Per attirare la͛ttenzione del resto dellE͛uropa, iniziò un tour delle più importanti città accompagnato da 9 indossatrici, tutte con lo stesso vestito, unu͛niforme molto parigina completata da P. Nelle͛sperienza russa Poiret ebbe come guida la Lamanova. LE͛uropa delle͛st gli offrì nuove idee ed elementi decorativi popolari. Li͛ncontro con Klimt, Floge e Hoffmann lo colpì e lo fece avvicinare alla secessione. Allora si recò a Bruxelles per vedere la costruzione di Palazzo Stoclet di Hoffmann. La suggestione scatenò in lui una serie di riflessioni sul ruolo della moda. Poiret sposò la nuova cultura, che vedeva una fusione di varie arti, e aprì nel 1911 in Rue Saint Honorè lA͛telier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazzine davano sfogo alla creatività in tutti i campi delle arti applicate, attraverso la ricerca del nuovo (al contrario dei cattivi metodi d͛insegnamento troppo rigidi usati nelle scuole austriache). Capì che la griffe di moda poteva estendersi anche a prodotti non di abbigliamento. La͛telier Martine fu dotato di un punto vendita, partecipò a esposizioni, realizzò arredamenti e vi collaborarono da professionisti, come Dufy. Proprio a Dufy Poiret affidò la decorazione di tessuti di abbigliamento. Tutte queste iniziative colpirono il mondo dei designer e degli architetti e vennero accolte molto bene dalle riviste di settore. Ebbe successo anche con la produzione di profumi, con la collaborazione del dottor Midy. Si aprì anche un laboratorio di cartonnage, Colin, che produceva le scatole e gli oggetti pubblicitari. Alla produzione di profumi quindi venne associata una gamma intera di prodotti di bellezza, per la prima volta. Ormai la fama di Poiret era assodata e influenzava la moda. Nel 1913 lui e la moglie compirono un lungo viaggio negli Usa. Con la guerra, la Francia tentò di salvare la produzione di moda. Poiret fu inizialmente mobilitato in un reggimento di fanteria, ma nel 1915 venne destinato agli Archivi del ministero della Guerra. Come presidente del sindacato di difesa della grande couture francese collaborò alla F͞ete parisienne,͟ promossa da Vogue, al Ritz Carlton di NY. Lo scopo era quello di mantenere uno stretto rapporto col mercato americano, e creare un clima di solidarietà interalleata. Poiret sfilò con abiti diversi dai soliti, allineandosi con la tendenza di quegli anni di gonne accorciate e ampie, sostenute da crinoline, e con elementi di gusto maschile. Nel 1916 propose anche un profumo patriottico, M͞am͛zelle Victoire,͟ e nel 1917 tentò di aprire una sede a NY, senza riuscirci. Dopo la guerra, Poiret era provato dal punto di vista economico e umano. Partì per il Marocco, dove ritrovò lo stimolo creativo, e tornò alla moda. Installò nel giardino una tenda araba, lO͛asis, e coinvolse nella nuova impresa tutte le vecchie glorie della Belle Epoque per ricreare un ponte fra il presente e il magico passato. Le sue collezioni si fecero più lussuose, più ricercate ed elaborate, con soluzioni sartoriali nuove. Provò anche a riportare le gonne alla caviglia ma la͛ccoglienza fu fredda. Le͛nfasi data al lusso e alla teatralità sempre maggiore allontanò il pubblico dalla Maison. Nel 1922 fece un nuovo viaggio negli USA. Nello stesso anno era esplosa la moda alla garçonne di Chanel. La͛nno dopo Poiret dovette fare i conti con la fine del proprio successo. La soluzione temporanea fu quella di affidare la maison a un professionista e cercare un sostegno finanziario, ritentò anche un viaggio pubblicitario ma senza risultati. Organizzò poi il trasferimento della Maison nella nuova sede degli Champs-Elysèes con una trovata spettacolare, un falso incendio. LE͛xposition del 1925 gli parve lo͛ccasione adatta per il rilancio, ma il consiglio di amministrazione della società creata a suo nome rifiutò di sostenere le spese. Poiret vendette Rosine e Martine per affrontare da solo le spese di 3 grandi zattere poste sulla Senna: gli abiti furono ammirati da fotografi e giornalisti, ma non dal pubblico, e fu un disastro finanziario che lo portò a vendere la sua collezione. I suoi modelli erano troppo complicati, decorati e lussuosi. Non voleva accettare che lA͛merica avesse invaso lE͛uropa in un modello interclassista. Le donne non si riconoscevano più nei lussuosi idoli che proponeva; ora volevano essere libere, giovani, indipendenti, con una moda semplice e comoda, nei m͞iseri ͟ abiti di Chanel. Nel 1927 ruppe con la͛mministrazione della Maison, che continuò la sua attività fino al 1933. Nel 1932 egli riprovò ad aprire una casa di moda col nome di P͞assy-10-17 ͟(numero di telefono), ma per un brevissimo periodo. Con il successo ottenuto dalla pubblicazione delle sue memorie fu chiamato dai Grands Magasins du Printemps per realizzare ogni anno una collezione di abiti, ma dopo sei mesi il rapporto terminò, ed egli decise di ͞tornare con passione alla pittura.͟ Coco Chanel (1883-1971) La sua vita privata ebbe uni͛mportanza fondamentale nel suo percorso creativo. Aveva una personalità difficile, la necessità di inserirsi in ambienti che non erano propri e la mancanza di radici, e ciò la costrinse a inventarsi uni͛dentità da adeguare progressivamente agli ambienti con cui aveva rapporti, e che modificava per rendersi accettabile dagli altri. Dalla sua ͞leggenda ͟ nacquero le sue mode, che erano i travestimenti con cui costruiva il proprio personaggio e lo comunicava agli altri. Le sue ispirazioni erano la sua vita, le persone che amò e gli ambienti che frequentò. Nacque nel 1883; il padre era un venditore ambulante, alcolista e donnaiolo, la madre morì molto giovane. Lei e le sue due sorelle furono affidate ad un orfanotrofio fino ai 18 anni, ed ebbe une͛ducazione in a͞rti domestiche.͟ Venne poi messa a lavorare alla maison Grampayre insieme alla zia (biancheria e maglieria), a Moulins, una piccola cittadina, luogo di stanza di diversi reggimenti militari. Chanel tentò la carriera di cantante (da cui il nome Coco), e alcune foto testimoniano (dagli abiti che si cuciva da sola) i suoi gusti per uno stile più mascolino, semplice e lineare. Insieme a Etienne Balsan (fante che proveniva da una famiglia di industriali tessili e aveva acquistato un monastero per allevare i cavalli da corsa, e chiese a Chanel di andare con lui) lei conobbe un nuovo mondo: quello dello sport, e delle ͞irregolari ͟, le compagne inadeguate di giovani ricchi o aristocratici, a cui erano riservati spazi che non dovevano incrociarsi con quelli delle famiglie di provenienza e con la buona società, e Coco sapeva di essere una di loro. In quegli anni cominciò a mettere a punto le sue idee sulla͛bbigliamento, e in tale processo ebbero un peso fondamentale le uniformi (dello͛rfanotrofio, o degli ufficiali, o quella indossata dagli uomini che si occupavano dei cavalli) -> anche le irregolari, le c͞ocottes,͟ avevano un modo di vestire riconoscibile, coi segni del lusso e delle͛ccesso. Per differenziarsi da loro, era necessario evitare gli stessi segni e trovarne altri per le b͞rave ͟mogli borghesi. Le fotografie di questi anni mostrano Chanel a cavallo vestita da uomo. Si lanciò nella moda soprattutto p͞er far passare di moda quello che non mi piaceva.͟ Non si cimentò subito con gli abiti, ma prima con i cappelli che portava, eliminando gli elementi decorativi e riducendone le forme, e ottenne presto successo con le donne di Royallieu. Ottenne grazie a Balsan di poter aprire la garçonniere, che ebbe un grande successo. Sostenitore delli͛niziativa fu Arthur Capel (detto Boy), un uomo d͛affari inglese appassionato di cavalli, presentato da lei come lu͛omo fondamentale della sua vita. Con il suo aiuto economico, nel 1910 lasciò la͛ppartamento in cui aveva iniziato e si trasferì a Rue Cambon, dove si trova tuttora la Maison Chanel. In quegli anni ebbe i primi successi, e le riviste cominciarono a pubblicare i suoi cappelli indossati da attrici famose. Chanel scoprì poi una produzione artistica d͛avanguardia che stava distruggendo il modello culturale ottocentesco alla prima di un balletto musicato da Stravinskij. Vide una forma espressiva che la lasciò sbalordita e una donna con i capelli corti inalberati. Durante le͛state, a Deauville, Gabrielle e Boy intuirono che quello poteva essere un luogo dove iniziare una vera attività, perché frequentato dalla͛lta società parigina. Le signore avevano esigenze un po͛ diverse: gli sport, la moda balneare, gli abiti di lino ricamati e decorati di pizzo valenciennes, cappelli ricoperti di fiori e piume e altre cose graziose, eleganti e ingombranti, ma desideravano una moda più leggera. I cappelli semplificati di Chanel conquistarono anche loro. Ancora una volta, Chanel si rivolse alla͛bbigliamento maschile osservando gli indumenti di Boy pensati apposta per lo sport, e osservando la necessità delle persone di Deauville di indossare qualcosa di più adatto a un paese di mare. Provò realizzare per se stessa capi di maglia diritti e comodi, e poi cominciò a produrre capi da vendere nella boutique, ͞frugò negli armadi dei suoi amanti ͟ per vestire altre donne, ed ebbe un successo immediato. Con la WW1, la cittadina si svuotò, ma poco dopo diventò la metà di una fuga dalla capitale, e le signore cominciarono una vita inusuale, rifacendosi il guardaroba nella boutique. Quando gli alberghi cominciarono ad essere trasformati in ospedali dovettero impegnarsi in senso patriottico. Le uniformi vennero affidate a Chanel, e occorreva semplicità e comodità. Quando Gabrielle tornò a Parigi ce͛rano una serie di carenze, ma la vita girava intorno alle donne. Biarritz, sul confine spagnolo, stava diventando un centro d͛attrazione per gli imboscati e per la buona società spagnola in vacanza. Boy e Coco aprirono lì una vera e propria maison, rifornita direttamente da Parigi. La guerra non ridusse la produzione dellh͛aute couture parigina, anzi, fu proprio la crisi ad attribuire alla moda un nuovo ruolo sociale: la moda era una delle poche attività che potevano sostenere il bilancio del paese. Il problema era acquistare i materiali: Coco allora acquistò interi lavoratrici, conservando per sé la direzione, ma rifiutarono e dovette cedere. Probabilmente fu convinta dagli ideali di Iribe, nazionalista e antisemita. Il mondo che aveva costruito era in crisi, il compagno morì e la sua vena creativa sembrava non essere più adatta ai tempi. Dal 1938 comparvero tinte e forme prese dai vestiti da festa di contadini e zingari; nel 1939 propose i colori della patria e del nazionalismo; negli stessi anni aveva continuato la collaborazione con Cocteau, ma senza grandi risultati. Era come se il suo percorso creativo si fosse scontrato con le͛ccesso di fantasia e lusso di quegli anni, e come se il suo senso del rigore fosse stato messo in crisi. Alli͛nizio di WW2, a dispetto del fatturato e delle lavoranti, Chanel chiuse la Maison. Si era resa conto che non aveva più nulla da dire nella moda, che la società aveva una nuova forma che lei non riusciva a far combaciare con i suoi vestiti. Negli anni della guerra visse al Ritz, dove ebbe una storia con un ufficiale nazista che la coinvolse in uno͛perazione di spionaggio. Dopo la liberazione di Parigi nel 1944 fu arrestata e interrogata. Rilasciata dopo qualche ora, partì per la Svizzera per 9 anni in volontario esilio, e lì cercò di dare alle stampe la propria leggenda (molti provarono a scrivere la sua autobiografia). Nel 1953 le vendite calarono in modo vistoso; Pierre Wertheimer decise di ammodernare gli uffici di NY della Parfums e Coco si occupò della͛rredo. Tornata a Parigi, voleva riaprire la͛telier, pensando di trovare un fabbricante americano con cui collaborare. Li͛ngresso di un nuovo collega avrebbe complicato ancora di più i rapporti tra Coco e la società di Wertheimer dei profumi, così Wertheimer si occupò direttamente della riapertura. Il 5 febbraio 1954 ci fu sfilata: il pubblico e la stampa non si aspettavano quello che videro, non lo capirono e pensarono alla collezione come una semplice riedizione della moda degli anni 2͛0. Wertheimer la sostenne e le propose di accollarsi le spese della Maison e personali, in cambio però riaffermando la proprietà della griffe Chanel per i profumi. La prima reazione fu positiva: i modelli della prima collezione negli USA furono venduti meglio del previsto, e accettati dalla stampa. Li͛nfluenza Chanel stava cominciando a farsi sentire nelle altre sartorie. Il progetto di Coco era sempre quello di creare uno stile riconoscibile e non soggetto ai cambiamenti di moda. Voleva costruire una divisa che rispondesse alle esigenze di movimento, eleganza, duttilità. Oggetto della ricerca fu il tailleur. I materiali erano i più diversi: jersey, velluto, merletto, mussola, specialmente tweed. Il completo era formato da giacca, gonna o vestito senza maniche, e blusa. Chanel ormai vecchia si rese conto che stava rinascendo une͛poca che aveva gli stessi suoi gusti del passato e si dedicò a completare lo͛pera, concentrandosi sulla realizzazione del v͞estito perfetto,͟ provando e riprovando, come un rituale. Doveva essere una s͞econda pelle,͟ in cui fosse possibile fare ogni movimento con facilità. Il modello era semplice e sempre uguale e così il tessuto; il lavoro stava nel modellarli su un corpo di cui saper vedere i particolari. Doveva essere espressione di una cultura e di uno stile di vita. Riprese la produzione di bijoux, limitandone la gamma alle catene e perle, al massimo spille colorate; recuperò i cappelli; inventò complementi nuovi per il tailleur, come la borsetta di pelle impunturata e i sandali con la punta colorata. La ricerca nella͛lta moda non sarebbe stata possibile se non fosse stata sostenuta dalla vendita di accessori e profumi. Chanel morì al Ritz nel 1971. Madeleine Vionnet (1876-1975) Nata nel 1876, imparò presto il mestiere di sarta e trovò il lavoro nella Maison Vincent a Parigi. Si sposò ed ebbe una figlia che morì molto piccola, e Madeleine divorziò. Ricominciò la sua vita a Londra, come guardarobiera e poi nella͛telier Reily. In Inghilterra era in corso il dibattito medico- artistico sul modo di vestire femminile, e in Europa erano gli anni di una grande trasformazione culturale. Agli inizi del 9͚00 tornò a Parigi, assunta dalla Maison Callot Soeurs e poi dalla Maison Doucet. Realizzò abiti innovativi ispirati alle performance della Duncan. I suoi modelli non prevedevano lu͛so del busto. Fu repressa nelle sue proposte sia dalle clienti, sia dalle vendeuses di Doucet. Lu͛nico campo in cui le fu lasciato spazio fu quello dei deshabilles, che rispondevano a logiche più libere. Nel 1912 Vionnet aprì il suo primo atelier a Rue de Rivoli, sostenuta prima da Lantelme e poi da Lillaz e Chaumont. Si trattò di una storia di donne unite da un fatto di gusto, in uno͛perazione da uomini: diventare imprenditori di uni͛dea, per valorizzarne la cultura, la capacità creativa e la bellezza. I due soli modelli certi di questi anni mostrano li͛nsistenza su un indumento diritto e scivolato sul corpo senza busto, tratto dal kimono o forse anche dalla rivoluzione delle avanguardie (impianto geometrico). Nel 1914 Vionnet chiuse la͛telier e partì in Europa; permise alle sue lavoranti di utilizzare i locali, ma senza aprire la Maison prima della fine della guerra. Riprese la͛ttività con abiti rivoluzionari in sbieco. Si cominciò a parlare di ͞robe a la greque,͟ di ispirazione classica. Anche lei come Chanel pensava a un modo di vestire per la donna moderna. Chanel aveva scelto il modello maschile, Vionnet era tornata alla͛ntichità, lavorando il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera che potesse seguire da solo le fattezze corporee. Uno dei suoi primi modelli era composto di 4 quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo ciascuno e una cintura in vita: era una specie di chitone con una ricaduta nuova. Di norma le parti della͛bito vengono tagliate rispettando il senso della tessitura; il taglio in sbieco, invece, prevede il taglio della stoffa in obliquo. La struttura interna dei suoi abiti deriva dalla chiave geometrica: le spalle diventano il supporto di indumenti diritti, e il modo di tagliare il tessuto era costituito da figure geometriche piane. Non progettava gli abiti ͞in piatto ͟attraverso il disegno, ma lavorandoli su un c͞orpo:͟ un manichino di legno di 80 cm da artista, facendo quindi una miniatura del modello. Alla fine schizzo e figurino erano realizzati dalla disegnatrice della Maison. Era un modo di procedere contraddittorio, perché si lavorava su un abito p͞iatto ͟che solo sul corpo diventava tridimensionale. Vionnet, in questo procedimento architettonico, partiva dal risultato finale che immaginava, e lo svolgeva fino a ottenerne il sistema di costruzione. Le chiavi del nuovo abito erano materia tessile e corpo, entrambi liberati nelle loro potenzialità espressive. Le proporzioni anatomiche e i movimenti erano i fondamenti della nuova bellezza ed eleganza. Orli, cuciture e tasselli non dovevano mai contrapporsi al naturale andamento della stoffa provocando effetti disarmonici. Il tessuto era usato come materia scultorea. I collaboratori venivano dal mondo della͛rte, come Thayaht. Nel 1921 sperimentòla struttura proporzionale della pittura greca attraverso il ricamo, provando a usare la superficie del vestito come quella di un vaso. Il tema con un disegno di cavalli, volute e triangoli e decorazioni di vasi greci del Louvre diventò un simbolo della Maison. Una͛ltra suggestione fu quella della nuova rappresentazione della struttura proporzionale del corpo umano (il Modulor di Le Corbusier). La ricerca artistica studiava le͛ssenza delle forme per originare un nuovo modello di armonia e bellezza: anche il manichino da artista era lo strumento proporzionale perfetto. Ad esempio (per lo sbieco) gli abiti realizzati con quadrati e rettangoli venivano appesi al manichino finchè non avessero raggiunto la massima lunghezza su cui regolare lo͛rlo delle gonne. Lo͛perazione era più complessa quando lo sbieco si combinava con la forma geometrica del quadrante. Il comportamento del materiale in sbieco originava sul corpo petali, volute, drappeggi di cui era difficile cogliere la͛rchitettura nascosta. Vionnet continuò la ricerca soprattutto sugli e͞ffetti di caduta.͟ Dava molta importanza al ricamo, ma come elemento connesso alla struttura della͛bito e non decorazione: aveva valore di luce e di disegno, e completava e rafforzava la forma definitiva del modello. Nel 1922 Vionnet prese contatti con i proprietari di Lafayette e ampliò i suoi spazi acquistando un hotel particulier di Avenue Montaigne, a cui diede grande funzionalità come luogo di lavoro. Nonostante questo, e il suo modo di lavorare da self build woman, anche lei fu colpita dallo͛ndata di scioperi, che però non crearono grandi problemi. Una battaglia fu quella sul copyright dei modelli. La legge difendeva dai falsi la produzione artistica, ma la moda non era assimilata alla͛rte. Dopo una serie di cose e sentenze, la Maison fece pubblicare un comunicato in cui spiegava il modo per riconoscere gli originali, cioè attraverso le͛tichetta con la firma e li͛mpronta digitale della couturiere. Nel 1924 la collezione fu presentata a NY; fu anche creata una nuova società, la M͞adeleine Vionnet Inc. ͟, finalizzata alla vendita di abiti a taglia unica, novità assoluta nella͛lta moda. La collezione del 1924 era chiamata M͞ade while you wait ͟. Le͛sperimento durò solo sei mesi. Nel 1926 tentò un nuovo esperimento nel pret-a-porter con un altro socio americano, ma li͛mpresa non ebbe successo. Il suo obiettivo principale allora fu sempre lh͛aute couture. Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono, con una linea più squadrata, e meno elementi di decoro. Vionnet interpretò la tendenza e il nuovo modello di donna ammorbidendo il parallelogramma con lo sbieco, montando le frange a lisca, giocando con i ricami, con i disegni, con pieghe e le nervature, in modo che non irrigidissero la figura. Non riproduceva le forme anatomiche ma era studiata perché la͛rchitettura del vestito poggiasse sulla struttura portante del corpo per evidenziarne la naturale armonia. Lei non faceva nulla per essere un personaggio alla moda: lavorava come una͛rtista. Negli anni 3͛0 si ha una nuova definizione della giovinezza e della snellezza, che smettono di dipendere dalla linea stretta, le dive hollywoodiane hanno un nuovo tipo di lusso. Le arti visive hanno un ritorno al n͞eoclassico,͟ e così anche la moda: il fisico sportivo degli anni 2͛0 venne preso a simbolo di una bellezza statuaria. Il metodo Vionnet diventò di moda, tutti si cimentarono con lo sbieco, ma il normale vocabolario della moda non sapeva descrivere gli abiti di Vionnet: dialogavano direttamente con il corpo inteso come sostegno reale e non potevano vivere senza di lui. Nel 1934 ci fu la svolta della gonna larga coperta da file di volant, ispirata all8͛00. Negli anni successivi gli abiti si fecero più lussuosi e sensibili al gusto hollywoodiano, con gonne larghe, tessuti nuovi o antichi, e nuove tecniche di decorazione. La collezione sontuosa del 1939 fu lu͛ltima ad essere messa in commercio: la compagnia era stata messa in liquidazione; durante la guerra furono venduti gli arredi della maison. Nel 1952 Vionnet donò allU͛FAC ciò che le era rimasto del suo lavoro, e morì nel 1975. Elsa Schiaparelli (1890-1973) Schiaparelli aveva alle spalle una situazione familiare privilegiata. Era nata a Roma in una famiglia di intellettuali, archeologhi, astronomi, e la madre faceva parte dell’aristocrazia napoletana. Avrebbe voluto fare l’attrice, ma la famiglia non glielo permise; scrisse anche poesie, ma non riusciva a trovare la sua strada. Partì per Londra passando per Parigi, per aiutare una sua amica che si occupava di bambini orfani. A Parigi ebbe il suo primo contatto con la sartoria. A Londra vide un’atmosfera sociale austera unita a profondi movimenti di innovazione, e conobbe il conte de Kerlor, con cui si sposò. Allo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza, e poi ripartirono per gli Stati Uniti. Ebbero una figlia ma poi il matrimonio finì. Allora Elsa conobbe Gabrielle Buffet, che la inserì nell’ambiente di artisti dada e fotografi di NY, un po’ bohemien. Blanche Hays, una delle sue amiche, le propose di trasferirsi entrambe a Parigi, dove Elsa trovò lavoro presso un antiquario. Il clima culturale era vivacissimo, e anche lì tutto ricominciò con i gruppi di artisti a Montmartre. L’incontro che segnò il suo destino fu quello con Poiret, definito scontro di personalità. In quel periodo cominciò a inventare abiti e il colore e il ricamo (segni di Poiret) li contraddistinsero. Schiaparelli però non cominciò dall’idea di lusso di Poiret, ma dallo sport. L’eleganza sportiva aveva raggiunto il culmine con Suzanne Lenglen, che fece scalpore indossando una gonna a pieghe senza sottovesti e una corta blusa derivata dal gilet, calze di seta bianca e una fascia in testa: la nuova divisa s’impose nei campi da tennis. Nel 1925, Schiaparelli acquistò la Maison Lambal, una piccola sartoria, e trovò tra i suoi finanziatori anche Kahn. La prima vera collezione fu presentata nel 1927 in un piccolo appartamento a Rue de l’Universitè: si trattava di maglieria dai colori brillanti, ispirata a Poiret e realizzata con materiali nuovi come il kasha. Il modello che dopo poco tempo la lanciò definitivamente nella moda fu un particolare golf, che aveva visto addosso a un’amica, e che l’aveva colpita per il suo aspetto solido ed elastico. Era stato eseguito da un’armena (profughi), in un punto a maglia ottenuto con due fili di lana, per un capo più consistente e con disegni di colore diverso: era l’idea del golf trompe l’oeil. Fu lei stessa a indossarlo in pubblico e attirò l’attenzione sulla novità; trovò allora le armene che lavoravano a maglia, le radunò in un albergo, e cucì le gonne da accompagnare ad ogni maglione in un tessuto acquistato in saldo alle gallerie lafayette. La nuova idea s’impose anche con le nuove attrici e vip di Parigi. Vogue li pubblicò nel 1927 come opere d’arte; la fantasia allora si scatenò e comparvero sui golf cravatte da uomo, nodi, fazzoletti da collo, scialli, schemi per cruciverba ed effetti misti. Anche il mercato delle copie si impadronì del modello, il successo fu tale che Elsa dovette scegliere un responsabile per questo settore, Mikaelian, detta Miki. L’attività nel 1928 si trasferì a Rue de la Paix, in un vecchio appartamento, con l’insegna Schiaparelli pour le sport: erano abiti sportivi riprogettati, colorati e decorati. Schiaparelli riprese anche le innovazioni del costume da bagno (lavorazioni più elastiche e aderenti, senza copertura di braccia e gambe e con scollature sulla schiena) con i pijama da spiaggia e i completi di spugna. Estese allo sci i pantaloni jodhpur normalmente usati a cavallo. Nelle foto di moda accostava attrezzi da ginnastica alle modelle. Nei primi anni ’30 le collezioni si allargarono anche a toilettes da città e da sera, trasformando la sua produzione in una maison de couture. Sentiva che i vestiti dovevano ispirarsi all’architettura, con armonia. Christian Dior (1905-1957) Nato nel 1905 in una solida famiglia borghese, si trasferì a Parigi, e studiò e frequentò le gallerie d’arte, il teatro, i balletti, il cinema. Avrebbe voluto iscriversi all’accademia delle belle arti ma la famiglia glielo impedì, e fu iscritto alla scuola di scienze politiche. In cambio potè approfondire gli studi di musica, e conobbe lì un musicista d’avanguardia, Henri Sauguet, il pittore Berard, e poi Gaxotte e Ozenne. Nel 1928 diventò collaboratore di Jean Bonjean in una galleria d’arte. Ciò che accomunava quegli artisti era un ritorno al soggetto umano, al sentimento, all’eleganza delle forme e a un rifiuto per le avanguardie, ma si organizzarono anche mostre a tema. Dopo la morte dei genitori, e della rovina economica di Bonjean, Dior vendette i quadri della galleria e cercò di mettersi in società con Pierre Colle, ma i clienti del mercato dell’arte erano scomparsi; fu colpito poi dalla tubercolosi e dovette curarsi al sole delle Baleari. L’unico settore artistico che ancora resisteva era quello della moda. Per un caso fortunato riuscì a vendere una delle grandi tele, e con il guadagno si concesse un periodo di studio da Ozenne, modellista e couturier di successo. Riuscì a vendere dei disegni propri, e provò a proporre idee originali. Tra il 1938-39 fu definito promessa della moda parigina, e gli fu proposto di entrare nell’atelier di Piguet; progettò inoltre i costumi per un’opera teatrale di Sheridan. Durante la guerra fu occupato a sostituire gli agricoltori impegnati al fronte. Smobilitato, si ritirò in campagna a casa della sorella. Venne richiamato da Alice Chavanne con la proposta di continuare a illustrare i suoi articoli sulle Pages feminines del Figaro, come aveva fatto negli anni prima della guerra. Molte maison avevano trasferito le sedi in Costa Azzurra, e la vita elegante era concentrata in Provenza. Le sfilate del 1940 a Parigi furono le ultime a vedere la presenza di buyer e giornalisti americani; il governo di occupazione vietò poi le esportazioni e ci fu un drastico ridimensionamento della sua clientela. Con l’armistizio del 1940, la Francia diventava fornitore ufficiale della Germania. La moda rappresentava per la Francia un prestigio e fu questo che attirò l’attenzione del governo nazista. Nel tentativo di aggirare questi ostacoli, tra il 1943-44 furono pubblicati a Montecarlo tre album stagionali con le nuove mode di Parigi; per rappresaglia, le autorità proibirono la pubblicazione di foto e modelli di abiti, interrompendo la comunicazione di moda. In quegli anni, la composizione sociale delle signore che frequentavano gli atelier conservava poche tracce dei decenni precedenti; il vero pubblico era composto da mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti, dai BOF, che lavoravano nel mercato nero ed erano i nuovi ricchi. Piguet invitò Dior a riprendere il proprio posto, ma accettò l’offerta troppo tardi; allora Lelong gli propose un ruolo di modellista nella sua Maison. Le linee proposte dagli atelier, a causa della difficoltà e della povertà dei materiali, non si differenziavano molto da quelle della moda di strada, con gonne corte e spalle larghe. La fantasia si esercitò in mille modi per ridurre i consumi. L’elemento più fantasioso era il cappello, composto di ritagli inutilizzabili per ogni altro uso. Dior si specializzò nei modelli romantici e Belle epoque: il busto che stringeva la vita ed esaltava il seno, le gonne ampie con le crinoline o la tournure, gli strati di tessuto per dare sostegno alle ampiezze. Solo nell’estate 1944 si potè ricominciare a pensare a un ritorno alla normalità. Lelong aveva creato i presupposti per una ripresa della moda interamente francese. Fu organizzato dal governo francese e dalla camera sindacale della couture parigina una manifestazione a sostegno del programma di aiuti che mostrasse la vitalità dell’industria della moda. Furono progettate delle bambole manichino da mandare in giro per il mondo. Non si trattava di recuperare una raffinata tradizione del passato, ma di trovare una soluzione al problema della carenza di tessuti e creare modelli nuovi senza usare tutto il materiale necessario per vestire una persona. Erano manichini alti 70 cm, costruiti in filo di ferro, con visi di bronzo. Tutti gli artisti di Parigi parteciparono all’impresa realizzando manichini, vestiti e scenari. Il Theatre de la Mode ebbe un grandissimo successo, perché unì l’industria della moda intorno a un progetto volto al futuro e alla ripresa. Fece il tour dell’Europa e dell’America, e anche Dior aveva partecipato all’impresa. Non fu importante per le bambole in sé, ma perché era il segno che i tempi stavano cambiando e che la produzione doveva riprendere. Dior e Balmain si miserò in società per fondare un atelier, ma l’iniziativa finì sul nascere. La voce si sparse e Luling, un’amica, seppe che Vigoroux voleva rilanciare la sua maison, Gaston et Philippes, e che l’impresa era finanziata da Boussac, il più importante industriale cotoniero di Francia. Fu suggerito Dior come modellista. L’impresa non doveva essere limitata al recupero dell’atelier, e venne usata la risorsa Dior in maniera imprenditoriale. Il progetto era di creare una maison innovativa nel gusto e nell’aspetto, piccola ed elitaria, capace di produrre uno stile diverso ma secondo le più raffinate tradizioni dell’artigiano di qualità, per un modello di raffinatezza da estendere al resto della società. L’assunzione di Dior non fu gestita dal responsabile della maison, ma dal direttore generale delle imprese di Boussac; l’impostazione dell’impresa passò nelle mani del couturier, che costituì la squadra con cui lavorare e cercò la sede adatta. La prima collaboratrice fu Suszanne Luling (pubblicità e moda), che ebbe la direzione dei saloni e delle vendite, e la promozione; poi ci fu Elliott, responsabile dell’ufficio stampa; Zehnacker, direttrice dello studio; Carrè, direttrice tecnica; Bricard, consigliere artistico. Il direttore amministrativo era Rouet. Dovevano creare attenzione intorno all’impresa e al nome di Dior. Per la sede fu scelto il Plaza, all’interno del perimetro della moda, ma adatto alla clientela a cui stavano pensando. Aveva un aspetto nouveau riche. Fu ristrutturato nello stile Luigi XV 1900, piaciuto alla borghesia d’inizio secolo, e ci fu una grande attività di promozione e clima d’attesa. Molti imprenditori offrirono il proprio contributo. Louiche propose di costituire una società per i profumi col nome della nuova griffe: il nuovo profumo fu Miss Dior. Fu poi la volta di un industriale americano e di un produttore di seta cinese. Alle sfilate di primavera il bel mondo francese c’era tutto. La prima uscita fu il modello Acacia, poi la silhouette Corolle, la vera novità. In entrambi i casi c’erano gonne nettamente allungate, vite marcate, giacche accorciate per slanciare la silhouette. Erano linee tipicamente femminili. La proposta di Dior aveva delle caratteristiche revival del secondo Ottocento, reso più aggraziato con un richiamo di gusto al Settecento. Si rimodellava il corpo della donna ricorrendo all’aiuto del corsetto, e una sottogonna rigida. Era una nuova immagine femminile (senso tradizionale del termine), ma anche un’immagine di lusso e di scomodità, di un abito fatto più per apparire che per agire. L’intento di Dior era di cancellare la guerra e ripartire da capo, proponendo il contrario di ciò che si era dovuto indossare per necessità. Gli abiti erano costruiti e modellati sul corpo femminile con grande capacità professionale. Le spettatrici, rapite dalla novità, definirono la linea New Look, che fu ammirata anche dagli americani e dalle dive hollywoodiane. Il tailleur Bar divenne il simbolo della collezione e del nuovo stile. La seconda collezione, sempre del 1947, confermò la linea accentuandone le caratteristiche nell’abito Diorama. I corpini piatti e stretti aderiscono al seno, e le gonne sono sempre più ampie e lunghe. Questo lusso era scandaloso in un momento in cui molte cose continuavano ad essere razionate. L’obiettivo di Dior e Boussac era la clientela americana. In quel periodo l’Europa si americanizzava, ma l’America guardava all’Europa. L’idea di Parigi che si diffondeva era quella di città favolosa da fin de siecle. Solo puntando sulla francesità la couture poteva ritrovare l’antico primato. Il revival si ispirava ai momenti di maggiore felicità inventiva e della massima centralità del gusto parigino, il Secondo Impero e la Belle Epoque. Si voleva rimettere al centro dell’attenzione uno stile e un’eleganza tutta francese, però al servizio della media borghesia americana, che voleva una moda che comunicasse i suoi valori. Dior le offrì l’immagine di una donna-fiore, fragile, raffinata, priva di ironia e fremiti femministi, che prendeva la moda sul serio, capace di apprezzare la bellezza, una donna irreale (ricordo di sua madre). Rappresentò tutto questo in modo semplice e diretto, scegliendo da un lato il lusso e dall’altro i segni dell’abito da principessa, eliminando dai suoi modelli l’idea di avanguardia. Non parlava di donne reali, ma aveva la forza evocativa di un potere magico: la couture aveva il potere di trasformare qualsiasi donna reale nella Donna, esemplificata dalla modella, come una sorta di Cenerentola. Lo stile aveva segni precisi. Gli abiti di Dior servivano solo a un certo tipo di vita, cioè quella del bel mondo, l’universo delle apparenze. Le attrici diventarono sempre di più ideali di moda e di successo, e nessuno dei protagonisti di questo mondo si sottrasse a Dior, persino l’Inghilterra. Erano capi difficili da indossare, ingombranti, pesanti, incantevoli per farsi fotografare, e quindi con elementi di fascino. C’era un nuovo bisogno di lusso ostentato, come in una favola o un film. I grandi party di quegli anni erano a tema e in maschera e Dior partecipava a tutti, e realizzò i costumi per molti film. Questa però era solo un’isola felice, e non il vero mercato della moda. Negli Usa si era formato un gruppo di donne contrarie al New look: non volevano che qualcuno imponesse alle donne americane, che avevano conquistato i propri diritti, un modo di vestire così. Con la scadenza della legge L-85, nel 1947, si tornava a liberalizzare il mercato dell’abbigliamento. Era questo il momento giusto in America per lanciare una nuova moda che funzionasse da spinta per le donne. Il tour di Dior lì era stato progettato proprio con questo intento. Il successo dell’operazione dimostrò il potere dei media anche sulla moda; si era promosso il suo creatore prima ancora che i suoi abiti comparissero nelle vetrine. Dior però aveva capito che la scelta della scomodità aveva rischiato di mettere in crisi il new look. Accanto ai compratori d’elite, c’era un gruppo che cercava una moda più abbordabile, composto di fasce di pubblico maggiori dopo il boom economico americano alla fine dei ’40. C’era uno strato sociale con esigenze nuove che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma chiedeva qualcosa di raffinato, ben fatto ed esclusivo, e anche di gusto francese. La Maison Dior poteva allora sperimentare qualcosa che avesse il marchio del couturier ma senza avere i costi e i rituali dell’haute couture: il pret a porter di lusso. La sede fu collocata a Fifth Avenue, e decorata con un rifacimento dello stile della Maison di Parigi. Dal 1949 Kayser cominciò a produrre per il mercato usa le calze Dior (contratto), e addirittura il piede fu progettato da Dior in modo che non girasse. La seconda licenza riguardò le cravatte maschili (società Stern, Merrit & Co). Le licenze si moltiplicarono e con loro i mercati. Nel 1952 si giunse alla conclusione che era meglio concentrare a Parigi la creazione di tutte le collezioni, anche quelle americane, per evitare il trasferimento dello studio, e affidare in loco solo la fabbricazione. Per arginare il mercato delle copie si misero a disposizione dei buyer il modello in tela, corredato di tutte le referenze necessarie alla realizzazione, e quello in carta, che lasciava la scelta di materiali e accessori al fabbricante. Solo nel primo caso era possibile usare la doppia etichetta con la griffe. Gli elementi dello spettacolo su cui si concentrò l’attenzione della stampa erano sempre la lunghezza delle gonne e della linea. Dior scelse di sviluppare in ogni collezione solo due temi. Anche i singoli modelli erano accompagnati da un nome, che faceva riferimento all’ispirazione del couturier o all’immaginario del pubblico (fiori, paesi esotici, musicisti, favole). La rappresentazione teatrale della sfilata era preparata con metodo. L’ideazione dipendeva solamente da Dior, che svolgeva il lavoro creativo nella casa in campagna, buttando giù le idee e progettando i primi schizzi con il metodo delle associazioni libere; poi iniziava la selezione dei disegni insieme al suo staff e i modelli scelti venivano affidati a Carrè per essere realizzati in tela; il nome veniva dato al modello al momento della prova generale. I modelli dovevano colpire il pubblico nell’insieme (erano circa 200) e offrire un’immagine di armonia; l’evento veniva organizzato nei dettagli e provato su un pubblico ristretto. Il New Look ebbe il suo apogeo nella linea Muguet nel 1954, e venne cancellato dalla linea H successiva. Stava per nascere qualcosa di nuovo. La moda, secondo Chanel, era diventata assurda, e i couturier si erano dimenticati che dentro ai vestiti c’erano delle donne. Il modello femminile stava cambiando. La linea H era basata sulla lunghezza e sull’assottigliamento del busto, e il corpo affusolato della donna era quello delle ninfe di Fontainebleu (chiamato per sfottò haricot vert, fagiolino verde). Anche in questo caso lo scandalo iniziale si trasformò in pubblicità. Dava l’idea di una Francia colta e aristocratica. Nelle collezioni successive il modello diritto venne riproposto con le altre lettere dell’alfabeto. A parte alcune uscite, Dior non abdicò mai dal suo gusto per assumere quello di altri e continuò a vestire una figura femminile che ostentava le sue curve, con gonne larghe e fiori. La correzione era necessaria, ma l’innovazione era stata creata senza cancellare l’immagine Dior. La Maison aprì un dipartimento di pret-a-porter e inagurò la Grande Boutique. Nel 1957, quando la sua fama era giunta al culmine, Dior morì improvvisamente a Montecatini. Per non rompere con la tradizione, Rouet convocò una conferenza stampa in cui affermava che la creazione sarebbe restata nelle mani dell’equipe costituita da 4 persone, formata da Dior: Zehnacker, Carrè, Bricard e Yves Saint Laurent. Da quel momento l’immagine di Dior fu legata proprio a lui. Aveva una responsabilità enorme: presentò la sua prima collezione nel 1958. Era basata su due linee, la prima riprendeva la figura del trapezio e la purezza della costruzione, la In quegli anni l’industria di confezione non si era posta ancora il problema di creare tendenze o competere con la grande moda; questo fu affrontato dall’AIIA nel 1959, con la creazione del Comitato moda, che aveva il compito di coordinare creazione, produzione e distribuzione, e far circolare le novità. La haute couture allora occupava una posizione incontrastata, ma le sue innovazioni erano accettate dal grande pubblico con circa un anno di ritardo; allora si potevano costruire delle collezioni in funzione di quella che sarebbe stata entro un anno la domanda delle donne. Il problema del contenuto moda si affrontava ricorrendo a disegnatori creativi, o usando in maniera più originale gli stimoli dell’alta moda. La pubblicità era data dalla stampa (Grazia, Linea, Bellezza, Arianna, Amica). Solo alcune grandi aziende però cercarono la collaborazione di un designer. Ad esempio, Max Mara sperimentò la consulenza di Bonfils. Nel 1969 fu aperta a Torino la prima edizione di Modaselezione, e a Milano Milanovendemoda. Nei primi anni ’70 la grande industria della confezione entrò in una crisi strutturale, e anche dal punto di vista dei consumi le cose stavano cambiando; la domanda giovanile andava verso capi semplici, poco costosi e diversificati. Tutto ciò creò problemi alle aziende specializzate nel vestiario tradizionale. La haute couture stava progressivamente perdendo il proprio ruolo di guida del gusto a favore del pret a porter più giovane e d’avanguardia. Molte grandi industrie fallirono. Nel 1975 fu fondata la Federtessile per affrontare insieme la crisi; gli industriali cominciarono a investire su un nuovo modello produttivo decentrato, e fu individuato un ruolo centrale per la progettazione creativa. La rivoluzione vestimentaria proponeva blousons noirs, blousons dorès, i blue jeans come abbigliamento da città. Alla fine degli anni ’50 appaiono i primi stilisti di pret a porter, come Courrèges (moda strutturata e corta); presso gli hippies appare la moda maxi, e al contrario, dopo gli anni ’70, i primi shorts e le mode cominciano a mescolarsi. Il 1970 è l’anno della totale anarchia, con mode selvagge che daranno vita un anno dopo alla tenuta militare e al kitsch. Attore principale fu il popolo degli adolescenti, un gruppo sociale che la moda non aveva mai considerato possibile mercato, e che stava cominciando a scoprirsi. L’alta moda fu semplicemente ignorata dai giovani, che adottarono i nuovi stili (teddy boys, rockers, mods, beatniks, hippies), attraverso canali completamente diversi-> Moda pop, in opposizione a quella degli adulti. Inghilterra e Francia accolsero la sfida e adeguarono le proprie offerte alla nuova domanda attraverso un sistema distributivo fatto di boutique. Londra era diventata il centro della nuova cultura giovanile. Mary Quant (Bazar a Kings Road), lanciò la moda più famosa degli anni ’60: l’abito con la gonna a metà coscia ispirato alle divise scolastiche degli anni ’20. La minigonna nacque come divisa di una ragazzina che non voleva crescere e che voleva differenziarsi dal modello adulto delle madri, senza implicazioni erotiche. Anche le modelle, come Twiggy e Jean Shrimpton, corrispondevano a questo ideale. La tendenza più nostalgica fu quella di Barbara Hulanicki, in uno stile revival. A Parigi con Laura, Dorothée e Jungle Jap si assistette allo stesso fenomeno. Il progetto consisteva nel partire dalla presenza di una nuova clientela di adolescenti, selezionando le proposte più innovative e più consone al suo gusto, traendo ispirazione dagli stili di vita dei teens e dai loro miti musicali e cinematografici. Era una battaglia di stile contro couture; anche l’Europa, ripetendo un processo che negli USA si era svolto negli anni ’30, stava arrivando a una nuova concezione della moda, confezionata in serie e per un pubblico allargato; all’estro del couturier si sostituiva quello dello stilista. Alcuni designer provenivano dall’alta moda, come Lagerfeld, altri da esperienze professionali nel settore, o dagli studi artistici. Era la tradizione europea del modello di consumo americano. Alla metà del decennio anche l’haute couture cambiò e propose uno stile ispirato all’era spaziale: erano abiti-architettura, come quelli di Cardin, Courrèges, Ungaro e Rabanne, modelli diritti che ostentavano le caratteristiche strutturali attraverso cuciture, impunture, saldature e materiali tecnologici e inusuali. La geometria rivestiva un corpo femminile asciutto, androgino e quasi infantile; era una ragazza spigliata e proiettata nel futuro. Fondamentale in questo processo di rinnovamento fu il pret a porter, che assunse un ruolo complementare alla sartoria su misura. Il primo nel settore fu Pierre Cardin, poi Courrèges, poi Yves Saint Laurent Rive Gauche, Miss Dior, Givenchy Nouvelle Boutique. Ci fu una totale rivoluzione nel concetto di couturier. Solo Balenciaga non accettò il cambiamento, e fu costretto a chiudere l’atelier nel 1968. Nei primi anni ’70 il pret a porter aveva completamente conquistato il pubblico e la moda era guidata da giovani stilisti. Nel 1971 venne creata la società Createurs & Industriels, con il compito di stabilire corretti rapporti tra le parti: gli stilisti dovevano progettare e firmare le collezioni, gli industriali dovevano produrle e ne dovevano finanziare la comunicazione. Dallo stesso anno si organizzò un calendario di sfilate. Le somiglianze tra il lavoro degli stilisti e dei couturier di pret-a- porter si facevano sempre più evidenti, tanto da indurre a un avvicinamento delle due professioni attraverso la Chambre syncale, per organizzare manifestazioni unitarie dei due settori. In Italia Max Mara, con una collezione e poi una linea pensata per i giovani, cercò di seguire il modello francese creando linee di pret a porter di lusso, di alta moda pronta. Intanto, però, il nuovo si diffondeva, e si moltiplicavano le boutique che mescolavano abiti d’importazione con piccole collezioni prodotte direttamente. A Milano aprirono il quadrilatero della moda (Cose, Gulp, Fiorucci). Erano necessarie professionalità nuove: creativi, produttori di materiali, confezionisti. Si trattava di creare abiti per un mercato affamato di moda, disposto a cambiare la propria immagine in tempi rapidissimi. Nel giro di 10 anni il classico mercato si arricchì e si articolò accogliendo il nuovo prodotto sia negli spazi tradizionali, sia nelle boutique specificamente rivolte ai giovani. Il primo a cogliere la situazione fu Walter Albini: gli sembrava evidente che la figura chiave del processo dovesse essere il creatore del nuovo contenuto moda. Mentre la produzione di alta moda era fortemente personalizzata, quella della confezione legava il proprio riconoscimento al marchio o al nome della boutique da cui era distribuita. Albini voleva far emergere il nome dello stilista per ratificare l’esistenza di un terzo polo nel sistema di produzione. Il primo passo era creare un rapporto paritario con un produttore, così da non essere un semplice consulente: raggiunse questo scopo fondando con Papini una piccola società, la Misterfox, per la produzione di abiti. Ebbe un successo incredibile, e lo stile revival proposto venne anche pubblicato su Vogue nei mesi successivi. Il nuovo modello che si stava imponendo non aveva bisogno di legami con passati nazionali illustri (come la cornice estetica d’elite per le sfilate di Giorgini a Firenze), ma anzi, cercava di utilizzare uno strumento moderno come la produzione industriale per rivolgersi a un mercato di massa che stava articolando il proprio gusto. Albini intuì che era necessario non disperdere in mille canali la proposta dello stilista, ma presentarsi sul mercato con un’unica idea, forte e riconoscibile. Fu scelta Milano, città industriale, priva di legami con i riti dell’alta moda, e sensibile ai gusti più giovani. Era un’altra Italia, quella che non viveva nei fasti del passato, ma che cercava uno spazio attivo nella modernità. In secondo luogo, c’era il rapporto tra stilista e compratore finale: non si poteva offrire semplicemente un indumento confezionato, ma qualcosa di più complesso che doveva collocarsi fra il gusto e lo stile di vita della nuova società; il modo di vestire era ora una scelta di appartenenza e un’adesione ideologica. Bisognava favorire, per il rifiuto del modello tradizionale della società borghese occidentale, l’adozione di abbigliamenti provenienti da aree culturali precapitalistiche o marginali. Albini poi comprese che il compito dello stilista non poteva essere quello di progettare singoli indumenti, ma un clima di gusto in cui i compratori potessero riconoscersi, e questo era possibile solo controllando una collezione completa. Il 27 aprile 1971 sfilò al Circolo del Giardino di Milano la collezione autunno-inverno, fatta da 180 modelli: i capi erano realizzati da 5 aziende, ognuna delle quali specializzata in un dato settore. La collezione, lo stile, la sfilata erano unici; quello che era ancor diviso era il marchio, perché ogni capo era Walter Albini per… nome dell’azienda. La figura dello stilista non era giunta a piena maturazione. Albini nel dicembre 1972 presentò a Londra una collezione di soli abiti che portava per la prima volta come marchio le sue iniziali WA, rompendo però con le 4 aziende del team (tranne che con Papini). Nessuno aveva ancora chiaro il ruolo dello stilista nel nuovo sistema. Albini perseguì comunque una strada di differenziazione dal prodotto industriale, ma i risultati non furono quelli sperati perché i tempi non erano ancora maturi. Il popolo giovanile non si voleva più riconoscere in una tendenza calata dall’alto. Era necessario che ogni stilista adottasse uno stile ben riconoscibile e lo perseguisse nel tempo, fino a essere identificato con esso. Missoni si concentrava sui materiali e colori della maglieria; Krizia in uno stile ironico ed eccessivo; Scott sui grandi stampati; Albini sul revival. La fine degli anni ’60 infatti fu caratterizzata da un forte recupero del passato (YSL collezione anni ’40). Albini intuì che anche la moda doveva ripercorrere il passato per ritrovare il futuro. Non proponeva uno stile più raffinato e articolato di quello delle mode di strada, ma un modello di eleganza e lusso privo di legami con i movimenti contestatori e con la ritualità alto borghese della couture. La seconda generazione Dalla seconda metà degli anni ’70 Milano era la capitale della moda e cominciarono a comparire altri nomi, come Versace, Armani e Ferrè. Versace iniziò da Callaghan, prendendo il posto di Albini, ma poi diventò il progettista di Genny e Complice; Armani iniziò alla Rinascente e alla Hitman, e costituì una società con Galeotti; Ferrè aveva realizzato gioielli fantasia e poi lavorò con la San Giorgio e con Mattioli. Nonostante il momento difficile che stava attraversando il paese dal punto di vista politico e sociale, alla fine degli anni ’70 ci fu una ripresa produttiva forte e una nuova euforia commerciale (come dimostra Modit, una fiera dell’abbigliamento confezionato organizzata in quegli anni, che dopo la seconda edizione diventò un appuntamento di portata internazionale). La seconda generazione degli stilisti italiani si dedicò al casual o alla destrutturazione. Non era destrutturato il singolo indumento, ma l’intera società che aveva messo in discussione i riti e i ruoli cui rispondevano i vecchi indumenti. Non ci si riconosceva più né in stati, né in ruoli, né in comportamenti sociali stabili, persino nell’identità di genere. Anche il mito borghese del lavoro venne messo in discussione. Le culture e le professioni alternative si moltiplicarono, nell’utopia di dar vita a un sistema di vita più umano e naturale, finalizzato alla ricerca di armonia e solidarietà. Le novità provenivano dalla strada, in un abbigliamento eclettico che combinava capi separati della più diversa provenienza e stile. L’unica condizione da rispettare era che non avessero legami con le consuetudini borghesi, o che ne dessero una versione totalmente alternativa. Ciò mise in difficoltà la moda, ma diventò allo stesso tempo la base su cui far crescere un nuovo tipo di guardaroba. Casual definì tutto ciò che non è formale, che può essere indossato in ogni occasione, che rispetta il corpo e la sua comodità e ne salvaguarda la salute e il benessere con materiali naturali. Il metaforico viaggio in oriente divenne una tappa fondamentale, ma anche l’abbigliamento povero dell’Occidente fu riconsiderato. Si trattava di indumenti dalla struttura sartoriale molto semplice che potevano essere realizzati dall’industria, e di capi decontestualizzati dalla loro situazione d’origine e che non avevano collocazione nell’immaginario occidentale. Il casual italiano cominciò con la giacca, l’indumento più difficile, che rappresentava il ruolo maschile e la sapienza sartoriale. L’idea di Armani fu proposta quando la generazione del dopoguerra dovette assumere un ruolo adulto nel mondo del lavoro, e i provocatori abiti colorati dovettero essere abbandonati. Gli Usa affrontarono il problema in modo pragmatico, mettendo a disposizione di questi giovani dei manuali che fornivano soluzioni di abbigliamento. Missoni creò un cardigan che diventò una divisa colta per intellettuali e uomini di spettacolo, che aveva una vestibilità inusuale (fatto di maglia colorata). Armani rispose con un indumento formale classico, ma rinnovato: la giacca aveva tessuti morbidi, come quelli normalmente utilizzati nell’abbigliamento femminile, ed era proposta con lievi differenze ai due sessi. La trasformazione riguardava l’aspetto esteriore, ma anche la concezione, che annullava imbottiture e rinforzi, ed eliminava la lunga stiratura iniziale e ogni sagomatura nel taglio. Era una specie di vestito un po’ sformato adatto a ogni occasione, che non ostentava più un significato particolare. Negli USA il successo fu immediato (Diane Keaton agli Oscar, Richard Gere, e Armani che ricevette il Neiman Marcus Fashion Award). Il nuovo modello produttivo prevedeva un’alleanza tra stilisti e industria. Anche qui, Armani riuscì a imporre le proprie richieste a un Gruppo finanziario tessile GFT, in crisi di sopravvivenza. L’industria assunse così il ruolo di semplice produttore muto delle collezioni, e lo stilista si occupava anche di comunicazione e distribuzione. La scelta strategica, finalizzata a un’apertura con l’estero, fu perseguita da Baufumè, direttore esportazioni del GFT. Su una filosofia di questo tipo si affermarono negli anni seguenti le maggiori firme del cosiddetto made in Italy. In generale, la moda degli stilisti fu resa possibile dal decentramento produttivo. Gli anni '80 La fine degli anni ’70 rappresentò dal punto di vista sociale una svolta (l’immaginario collettivo realizzò il mostro che aveva partorito il ’68, la nuova sinistra, le discoteche, NY, l’attenzione sul corpo e il building). Gli adulti ritornavano alla mondanità e a uno stile di vita borghese. Il 1980 pose fine all’utopia dei ’70 con Reagan e la Thatcher: carriera, successo, denaro e potere furono le nuove chiavi, il aspetto con cose sempre nuove e diverse, tendenze brevi ed effimere. Era nata la nuova era della confezione in serie per il mercato di massa globale. La moda di elite non era scomparsa e cominciò ad affrontare il nuovo mercato parlando di lusso. Haute couture e industria del lusso: Chanel Con tutti i cambiamenti sopra descritti, rimaneva solo la clientela privata che frequentava gli atelier parigini, anch’essa però ridotta. Il vero volume d’affari era dato dalle licenze, dalla profumeria e dal pret a porter. Nonostante ciò, due volte l’anno a Parigi si tenevano sfilate di haute couture, con quasi solo capi da gran sera o da gran sera da sogno. Il pubblico era composto da pochi clienti o invitati eccellenti e da una moltitudine di giornalisti internazionali: le sfilate continuavano a essere uno dei momenti più importanti della moda nell’immaginario collettivo. Il potenziale dell’haute couture quindi non era del tutto esaurito, e i proprietari di alcune maison negli anni ’80 cominciarono a riconsiderare il tema del lusso, non così esclusivo come nei decenni precedenti, guidato da logiche di mercato, ma finalizzato come sempre a creare status symbol, categoria che dagli anni ’60 sembrava essere stata cancellata dalla moda. Nel 1982 la maison Chanel affidò a Karl Lagerfeld il ruolo di consulente artistico per l’haute couture. La notizia creò un certo scalpore, perché lui era uno straniero ed era specializzato nel pret a porter. Però viveva e lavorava a Parigi dal 1954. Dopo la morte di Coco, tutti coloro che le succedettero mancavano di uno slancio creativo così forte, e la solita scelta di rimanere legati alla tradizione mostrò i propri limiti. Proprietaria del marchio è tuttora la famiglia Wertheimer, prima con Pierre, poi con Jacques (che non aveva le capacità imprenditoriali del padre), e poi con Alain. Erano sorti alcuni problemi legati al profumo, che con la campagna pubblicitaria del ’68 aveva avuto vendite incontrollate, diventando un bene di consumo quasi da drugstore. Il problema era complesso e fu superato sia correggendo gli errori, sia cercando di interpretare le nuove tendenze della moda. La famiglia Wertheimer decise di proporre anche nuove fragranze, come la 19, il Cristalle, che non diedero grandi risultati, e la scelta andò sui cosmetici della linea Beautè. Si decise di sperimentare il metodo delle licenze per la boutique Chanel: borse, scarpe, cravatte, foulard e pret a porter. Fu subito un successo nel mondo, ma i rischi erano quelli dell’impoverimento dell’immagine della maison. Per questo motivo, Alain decise di prendere i contatti con Lagerfeld. La collezione presentata da Lagerfeld nel gennaio 1983 non suscitò grandi entusiasmi, perché fu giudicata in base a due aspettative antitetiche: l’aderenza alla tradizione Chanel, e la capacità d’innovazione. Lagerfeld, come prima collezione della sua esplorazione, aveva ripreso temi di sicura presa sulla clientela abituale (tailleur di tweed con blusa, blu e bianco per la sera, fourreaxu di pizzo, mussola e organza, bianchi o neri, bottoni gioiello, collane di perle e catene, scarpe bicolore e piccoli cappelli). I modelli più fotografati: • Tailleur nero con la giacca lunga e diritta portata su pantaloni con una vistosa abbottonatura alla marinara; camicia bianca maschile a nervature; papillon nero; allacciatura nascosta da un cannoncino affrancato ai pantaloni con un grosso bottone. Questo completo apriva un dialogo fra lo stile degli esordi di Chanel e la collezione di ritorno sulle passerelle nel 1954. • Fourreaux di crepe di seta nero, con scollatura sulla schiena e maniche lunghe; collo, polsi e vita decorati con catene, finte pietre e perle, perline, coralli, nappe, ecc. Questo completo era frutto di una riflessione più complessa, e di un lavoro di decostruzione del mondo Chanel. L’obiettivo di questa ricerca era separare i segni esteriori dai significati, in una sorta di codice senza tempo (tubino nero-bijoux, sconvolgendo la natura materiale dei secondi, come fossero un trompe l’oeil ricamato, che riporta a un’opera di pop art). Secondo Lagerfeld, Chanel era sì un look, ma abbastanza forte da adattarsi a tutte le epoche e a tutti i cambiamenti. L’immagine di Chanel non doveva essere quella di una vecchia signora che dà lezioni di eleganza, ma bisognava considerare tutta la sua vita e carriera per apprezzare il suo vero genio e liberarsi dei luoghi comuni. Ripercorrere questa storia faceva anche capire che il suo lavoro negli anni ’20 e ’30 non era stato così unico, e lo stesso quello degli anni ’50. Chanel doveva uscire dalla leggenda. Nel 2005 Lagerfeld tornò sull’argomento scrivendo che Chanel alla fine degli anni ’60 fece diventare se stessa fuori moda agli occhi del pubblico, che aveva un’idea diversa di eleganza e modernità, e la sua audacia di respingere il cambiamento furono un’espressione della sua sete di potere nel mondo della moda. Chanel fu la prima a dare a quella decade un’immagine durevole e definitiva, in grado di vestire la donna dei suoi tempi, dei suoi tempi. Il punto chiave della riflessione di Lagerfeld era proprio che Chanel aveva saputo evolversi adattandosi ai tempi e ai desideri delle donne, il contrario di quello che avevano fatto i direttori artistici della maison negli anni ’70. Inoltre, la maison Chanel era dotata di un patrimonio spirituale che di per sé le permetteva di adattarsi alle mode spiriturali. La ricerca di Lagerfeld era stata molto approfondita, il cui risultato è esemplificato in una serie di disegni che ripercorrono la storia di Chanel, con didascalie o commenti, per analizzarne i simboli. Evidenziati questi segni, fissati in un eterno presente indemodable, e ricollocati nel passato lo stile Chanel, la buona eleganza, lo spirito modernista e un certo modello di classicità, ora la creatività dello stilista poteva volare liberamente, con l’unico vincolo di confrontarsi con questo sistema di segni. Dal pret a porter cominciò la nuova moda Chanel. Il mercato era del tutto nuovo, potenzialmente enorme e composto soprattutto da giovani, con cui era più facile osare. Nel 1983 fu inaugurata una nuova boutique in Avenue Montaigne a Parigi. La sfilata primavera-estate 1984 aprì un nuovo corso. La sfilata di settembre aveva presentato i classici Chanel (tailleur di tweed, tubino nero, pizzo chantilly nei vestiti da sera), ma anche una rivisitazione più trendy dello stile Chanel degli anni ’20 (ispirato al completo indossato da coco al Flying Cloud). Comprendeva gonne a pieghe al polpaccio, tuniche di jersey rigate, camicette bicolori e cardigan di cachemire a righe. Anche i costumi furono riportati in passerella, ma riprogettati secondo le regole della pratica sportiva più moderne: completi da cricket, da scherma, da tennis, da polo, da motociclista. Il nuovo esperimento era il denim, usato per un tailleur e un chemisier senza maniche, ma non ebbe molto successo. L’avvicinamento alla modernità proseguì infrangendo tutti i tabù di Coco: furono proposte giacche con le spalle imbottite, gonne sopra il ginocchio, minigonne e shorts cortissimi (metà anni ’90), pelle. L’imperativo era di fare di muovo moda, anticipando e sorprendendo il pubblico con proposte originali e trasgressive, sia nel pret a porter che nell’haute couture, per evitare che scendesse nel declino. Tutto doveva essere ripensato in funzione della nuova clientela internazionale, certamente meno raffinata di quella che vestiva Coco. Nel 1997 la Maison distribuì Les elements d’identification instantanèe de Chanel, un piccolo catalogo con tantissime versioni diverse dei soliti emblemi Chanel. Esemplari furono i lavori sulla borsetta, sul tailleur (con paillettes nere disposte in modo da formare il disegno a rombi del matelassè, e l’applicazione di una passamaneria che simulava la catena dorata con il nastro di pelle), sul cappello a forma di borsa, sulle camelie (che potevano essere appuntate ovunque, e furono anche scenografia della sfilata prim-est 2002). Lo stile Chanel cominciò a subire mutazioni, e negli anni ’90 si colorò di tinte fluo, a volte si allungò e a volte si accorciò, e anche il tessuto poteva essere trattato in modi impertinenti o raffinati. Tutto diventava possibile e aumentava l’attenzione sulla passerella, che proponeva sempre cose nuove. Il rapporto di odio-amore dello stilista con il mito Chanel produceva soluzioni sempre più irriverenti e ironiche. Con le mode di strada, nel 1991 il classico blazer fu fatto di tessuto elasticizzato coperto di paillette giallo, verde o blu e trasformato quasi in una tuta da surf; la giacca di tweed fu abbinata a minigonne di jeans e a stivaletti da motociclista, a giubbotti chiodo di pelle nera, berretti di pelle, camelie e tanti bijoux. Nel 1990-1991 comparvero anche i primi piumini, poi costumi da bagno, e abbigliamento tecnico per lo sport e la ginnastica. Questa scelta teneva conto del cambiamento di costumi avvenuto in America. Tutto ciò poteva funzionare solo grazie alla sopravvivenza del mito di Coco, che doveva periodicamente essere rispolverato e riproposto al pubblico come albero genealogico della Maison. Nelle tavole, è lei l’indossatrice presunta dei modelli. Chanel, infatti, era l’ideale di se stessa, e il suo spirito doveva continuare ad aleggiare. Questo è dimostrato anche dal nuovo profumo Coco del 1991, col suo nome. Lo stilista fece parlare di lei e della Maison con colpi di teatro che lasciavano a bocca aperta il pubblico. Esemplare fu il finale della sfilata di pret a porter dell’ottobre 1994, in cui 50 modelle portate sulle spalle da giovanotti salirono in passerella vestite come l’esatta copia di una foto scattata nel ’37 che ritraeva Coco sulle spalle di Lifar. Coinvolgenti furono anche le collezioni del 1996 di haute couture, dedicate a lei nel 25esimo anniversario della morte, che ebbero luogo al Ritz. Le collezioni presentavano caou dalla linea sottile, giacche interminabili e la nuova tuta aderente di lycra di Lagerfeld, la body beautiful. Fino a quel momento, tutti coloro che erano entrati nella Maison avevano portato avanti il lavoro o rinnovandolo, o mummificandolo. La sfida di Lagerfeld era stata proprio questa, e fu vinta. La maison tornò a essere sulla cresta dell’onda, parlava del presente conservando quel raffinato accento del passato, talmente mitizzato da essere quasi un patrimonio comune eterno. Lagerfeld vinse il Dé d’Or nel 1986, e suoi modelli furono anche in copertina. Un indiretto riconoscimento venne dal cinema (Sofia Ford Coppola). A sostegno di Lagerfeld aveva operato tutta la dirigenza Chanel, conducendo una strategia aziendale che vedeva nella moda il sistema più sicuro per far crescere le vendite di prodotti messi sul mercato dalla maison. Comunicare il sogno dell’abito impossibile, della bellezza perfetta, della follia dell’haute couture ma anche la realtà concreta del pret a porter, erano gli obiettivi delle sfilate. L’investimento pubblicitario non fece perdere di vista l’idea che Chanel era comunque un marchio di lusso, infatti solo per quanto riguarda gli occhiari si fecero contratti di licenza (Luxottica). Ben presto il sistema Lagerfeld cominciò a essere considerato un paradigma da prendere a modello nel rinnovo di una griffe storica. Haute couture e industria del lusso: Christian Dior La prima fase di Dior finì nel 1978, quando il gruppo Boussac venne messo in liquidazione giudiziaria. L’impero era cresciuto acquistando aziende prevalentemente tessili, ma senza tralasciare altri settori, e la sua decisione di finanziare Dior aveva dato una spinta determinante. Il declino era iniziato negli anni ’60. La parte più preziosa era la Maison Christian Dior, però privata della sua parte più redditizia, la Parfums Dior, venduta nel ’68 a Moet & Chandon. Nel 1978 il gruppo Boussac fu affidato ai fratelli Willot, parvenu. L’illusione fu breve, e l’intero gruppo fu poi messo in vendita. Fra i candidati ottenne l’approvazione Arnault, che fu nominato amministratore generale del gruppo. A Arnault non interessava diventare un industriale tessile e vendette tutto, tranne la grande distribuzione e Dior; probabilmente però voleva entrare nel nuovo business utilizzando il carisma di Dior (infatti poi acquisì anche Celine e finanziò la maison Lacroix). L’espansione non eliminava il problema di fondo, e cioè di sostenere Dior con la vendita di profumi e cosmetici. L’occasione per riunificarsi con la Parfums fu l’accordo del 1987 con Moet Hennessy e Louis Vuitton, che diede vita a LVMH, il primo gruppo mondiale specializzato nel lusso. Nel 1988, dopo una vicenda molto travagliata, Arnault assunse la direzione del gruppo, che riuniva un grande impero del lusso. Il finanziere voleva ridare splendore alla Francia adeguandola alle richieste del pubblico contemporaneo, e restituire a Parigi il suo ruolo di centro della moda e delle produzioni di alta qualità. La vicenda portò a un processo di fusioni, acquisizioni e vendite. La maison di Avenue Montaigne però non era più la stessa, nonostante fosse rimasta traccia del suo antico carisma. La clientela si era ridotta, e nel 1960 era stato scelto Marc Bohan per sostituire YSL, bravissimo professionista ma non in grado di sviluppare una linea di pret a porter di successo. Inoltre il marchio era gravato da un numero eccessivo di licenze, e iniziò un lavoro di recupero delle licenze. Il nuovo corso di Dior fu comunicato con 2 iniziative, per ridare alla griffe un’identità riallacciandola con le origini e con l’idea di lusso e di suprema eleganza parigina. Nel 1986 fu organizzata la mostra in omaggio a Christian Dior, a cui presenziò il presidente Mitterrand, e venne rimessa a nuovo la sede storica. Ferré Dal 1989 il nuovo stilista di Dior fu Gianfranco Ferrè. La notizia non fu accolta bene, perché il congedo di Bohan era considerato troppo repentino, e fu messa in discussione la scelta di uno straniero, come era avvenuto per Lagerfeld. L’oggetto dell’attacco però in realtà era Arnault, su cui si scatenava una campagna di stampa negativa per il modo in cui stava conducendo il gruppo. Ferrè era laureato in architettura, e aveva collaborato sia con aziende, sia aveva un marchio proprio di pret a porter, in cui usava sapientemente l’esotismo. Tentò anche l’haute couture a Roma, ed ebbe molto successo sia in Italia che negli USA. La consegna era faire du Dior, restituire alla moda il valore di status symbol, e ridare alla Maison l’immagine di sogno meraviglioso che aveva avuto in passato. La prima collezione del 1989 fu un omaggio a Christian Dior e al New Look, un grande successo, che portò al ritorno dei compratori americani e alla ricomparsa di Dior negli stores USA. Il tratto principale di Ferrè non fu però il ritorno alle origini, quanto un proprio stile, secondo una personale interpretazione del lusso e un ideale femminile che egli stesso identificò con la cliente di Dior: una lady raffinatissima, una gran dama. Per lei inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante fatto del suo codice: costruzione architettonica, asimmetrie, soluzioni geometriche impreviste, tagli e dettagli impeccabili, camicie con un riferimento diretto a Damien Hirst, artista della nuova avanguardia inglese, con allusioni alla ghigliottina, tatuaggi da lager, scheletri, pezzi di corpi e sangue. A questo punto Galliano si concentrò su due filoni di ricerca: le incursioni in mondi lontani, e il ritorno alle origini (fascino ’50). Nel primo caso, i riflettori si accesero su Medio Oriente, Russia, Cina e Giappone, in un’idea di globalizzazione che magnificava e univa tutte le culture. Nel 2006 propose dodici versioni diverse della Saddle Bag, ognuna ispirata a un paese diverso e accompagnata dal taccuino di viaggio. Invece, la sfilata aut-inv 2002 Nouveau glamour era ispirata all’America e a Hollywood anni ’40-’50, ed era una riflessione sull’idea di fascino femminile, di sensualità ed eccentricità. Nell’autunno 2003 il tema fu la danza e il suo potere di seduzione. Dal 2004 il tema del viaggio si fuse con il puro stile Dior, e una lunga permanenza in Egitto produsse una collezione di sfarzo estremo, con look ispirati ai bassorilievi del Museo del Cairo. Però l’attentato dell’11 settembre aprì una frattura tra Oriente e occidente. La visita nella Mitteleuropa invece portò corone e tiare, acconciature vistose, monili, ermellini, cardi, tulipani, aquile, stelle, pavoni, come segno dell’antico lusso di corte, vestiti a sirena e scarpe altissime. New New Look La crisi economica della fine del 2006, che iniziò prima in maniera sotterranea, portò a una drastica riduzione dei consumi. La dirigenza Dior colse il mutamento prima che scoppiasse la crisi e capì che doveva creare nuove strategie d’impresa. Però, le domande delle clienti erano tutte nella direzione dell’eleganza ricercata, di un ritorno all’immagine tradizionale della Maison. Era finito il tempo dell’eccentricità. La clientela più interessante era fatta di ricche cinesi, che volevano modelli usciti quasi dalle mani dello stesso Christian Dior. Allora si proposero raffinate collezioni che rinnovavano l’antico chic parigino, con fotografi più tradizionali, e l’icona atemporale: il Bar. Carla Bruni fu un veicolo pubblicitario straordinario per questo New New Look. Il ritorno fu celebrato con la sfilata del luglio 2005 che sembrava un album di ricordi. L’introduzione era dedicata a Madeleine, la madre di Christian. Si partiva dall’analisi di come fu messo a punto il suo famosissimo stile, mostrando il procedimento che egli seguiva per realizzare un capo. Il primo capitolo infatti era Creazione. Seguiva poi la presentazione delle collaboratrici di Dior, le direttrici. Poi il Corolle, New Look, del 1947. Poi le clienti celebri, cioè le dive di Hollywood. Poi le vere clienti della maison, cioè l’aristocrazia francese e le debuttanti famose. A conclusione della sfilata, 3 scene sottolineavano il legame di continuità tra Galliano e Dior, tra l’amore per i viaggi del primo e le passioni dell’altro: • Rivisitazione delle ballerine di Degas; • Tributo al lavoro dell’atelier, con quattro Catherinettes vestite di giallo e verde per celebrare la tradizione dell’atelier, santa Caterina, patrona delle petites mains dell’haute couture; • Omaggio alla passione di Dior per i balli mascherati. La collezione era frutto di un lavoro approfondito negli archivi della Maison, rifatto in quest’occasione. Gallino aveva compiuto una rivisitazione degna di un museo della moda, portata in passerella e non come semplice ricerca storica. Un altro evento straordinario fu quello per celebrare i 60 anni della Maison nel 2007. L’evento fu celebrato con la pubblicazione di un coffee table book sulla storia della casa di moda, con una mostra al museo di Granville, e una ristrutturazione della boutique di Av Montaigne, e la haute couture a Versailles seguita da un party a base di paella e musica gitana, con 3000 invitati nei giardini di Le Notre. L’organizzazione della sfilata all’Orangerie fu degna dell’occasione: passerella affiancata da due enormi cavalli bianchi ispirati a quelli della fontana di Apollo di Re Sole, in un parallelismo con Dior. Inoltre c’era il London Community Gospel Choir e il Loyola Boys Choir. Il tema era feste in costume e arte, un ultimo Bal des Artistes (stesso titolo di una festa a cui aveva partecipato Dior nel 1956). Ogni modello era ispirato a un artista, e passeggiavano figure che sembravano uscite dai dipinti. Fu un enorme successo. Gli obiettivi erano: esaltare l’haute couture e la sua maestria professionale con modelli che solo i più grandi professionisti erano in grado di realizzare, offrire un’immagine assoluta del gusto per il teatro e i costumi di Galliano, rendere omaggio a Dior uscendo dagli stereotipi. C’era anche l’idea che la moda potesse rivaleggiare con l’arte, e l’affermazione che il lusso di Luigi XIV era tornato ad essere una realtà. Era anche la celebrazione del grande successo di Arnault: l’haute couture era stata salvata. Tutto ciò dipendeva solo in parte dal defilè. Ciò che aveva incantato il pubblico era la collezione da ricordare per tutta la vita. Galliano aveva creato qualcosa che andava oltre il normale prodotto haute couture, e non lo aveva dedicato a Dior. La collezione era un tributo a Steven Robinson, il più stretto collaboratore e amico di Galliano, morto molto giovane. Per lui, lo stilista mise alla prova tutta la sua immaginazione teatrale e realizzò un sogno a occhi aperti: ridare vita all’arte, quella che entrambi avevano amato.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved